Pe’ malati c’è la china (ancora sull’Albania)

brina82 ha lasciato un nuovo commento sul tuo post “Frenkel goes to Albania”:

Gentile Prof., spero non mi “banni” per questo mio commento.

Capisco l’indebitamento estero e il ciclo di Frenkel, però sarebbe come dire che l’Albania riuscirebbe a fare prezzi “stracciati” grazie ad un’economia drogata dal credito estero, come se vi fosse una concorrenza sleale, scorretta, al pari del Marco convenzionalmente sottovalutato grazie al sistema Euro (mi permetta il paragone, anche se legato, ovviamente, a dinamiche completamente diverse).

Tuttavia, facendo i conti, il reddito procapite è parente a 1/4-1/5 (o roba del genere) di quello italiano, quindi a mio avviso il prezzo concorrenziale che si rileva col turismo è più legato a ciò (si ha di fatto un’economia “povera”), che ad un discorso legato all’importazione di capitali dall’estero (e anche in considerazione del fatto che, a differenza della vicina Grecia, le spiagge albanesi non se l’è proprio mai filate nessuno, probabilmente poichè mai “spinte”, mai sponsorizzate).

A questo punto però dovremmo assistere ad una bolla, e cioè i prezzi dovrebbero impennarsi, se Frenkel è arrivato in Albania…

Grazie.

PS a questo punto, verrò bannato?

Pubblicato da brina82 su Goofynomics il giorno 21 ago 2023, 06:59

GNOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!

Scusate: va bene tutto, tuttissimo, ma il piantarellino vittimistico su Bagnai che banna anche sinceramente no!

A parte che non si dice “bannare” ma bandire, dal che consegue etimologicamente che le persone che eventualmente vengano mandate a stendere sono bandite, non bannate, cioè sono dei banditi, non dei bannati, vorrei insistere su un punto: in questo blog i commenti sono moderati, e moderazione non è censura. La censura è quella che secondo alcuni dovrebbe subire Vannacci: una restrizione pregiudiziale della libertà di espressione. Tendenzialmente la censura difende (o prova a difendere) gli interessi del sistema. La moderazione è una cosa molto diversa: il non pubblicare, dopo averle lette, idiozie o cose non pertinenti, e va nell’interesse di chi si è espresso in modo diversamente intelligente o pertinente. Se lo capite va bene, se no va bene uguale perché almeno qui comando io, e quindi potete farci poco. Il vittimismo è veramente degradante per chi lo esprime, se non altro perché dimostra di non aver capito dove si trova. A valle di questa radicale incomprensione se ne riscontrano altre, inevitabilmente. 

Che cosa non capisce il nostro nuovo caro amico?

Semplice!

Che in un Paese la cui soglia di povertà relativa è il 14% della nostra (qui):

(ma può essere utile anche questo), con i tassi di risparmio irrisori che abbiamo visto nel post post precedente, se non fossero arrivati i capitali esteri semplicemente non ci sarebbero state le strutture per accogliere i turisti esteri! Il Paese non avrebbe generato abbastanza risparmio da investire nella costruzione di queste strutture! Ci può arrivare anche chi non conosca, come io conosco, imprenditori che hanno fatto questa scommessa.

Questo è stato il principale motivo che ha finora precluso lo sviluppo di un certo tipo di turismo: il fatto che precedenti stagioni di incertezza politica non avevano incoraggiato l’afflusso di capitali necessario perché si creassero le infrastrutture richieste dai turisti “spiaggia&lettino” (un altro elemento potrebbe essere il pregiudizio verso gli abitanti di quel Paese, che in una certa fase della loro integrazione in Europa hanno lasciato da noi qualche brutto ricordo).

Quindi sì, si può anche argomentare che dietro al battage piddino a favore dell’Albania c’è sfruttamento del lavoro povero, questo è ovvio! Dobbiamo veramente dircelo? Non c’è nulla di quanto i piddini sostengano che non sia intimamente connesso a un progetto di sfruttamento, dalla moneta unica (di cui qui abbiamo a sufficienza esplorato tutte le implicazioni), alla rivoluzione green (che altro non è che una torsione in senso neocoloniale del nostro rapporto con l’Africa), alle vacanze al -248%, che possono anche essere lette come l’approfittare del lavoro povero di uno dei pochi Paesi messi peggio di noi (qui):

Solo che senza capitali esteri non ci sarebbero le strutture dove portare a termine questo nobile progetto tipicamente europeo!

Vorrei anche far notare che di per sé non c’è nulla di male nel fatto che da un lato i consumatori si orientino in base ai segnali di prezzo (a parità di qualità…), né che Paesi meno sviluppati siano in grado di offrire forza lavoro a un costo inferiore. In particolare, il turismo è un’esportazione, che però, come abbiamo visto, non basta e possiamo ritenere che non basterà a correggere il mostruoso eccesso di importazioni dell’Albania (e quindi a ripagare i capitali a vario titolo investiti in quel Paese).

La dimensione di sfruttamento, a mio avviso, si palesa più nelle dinamiche finanziarie, che non nel fatto che un Paese con un percorso e una situazione socioeconomica radicalmente diversa dalla nostra offra prezzi più bassi perché ha costi più bassi. Da quest’ultima dinamica, in teoria, potrebbe scaturire un’equalizzazione dei redditi nei due Paesi, idealmente col catching-up del Paese inizialmente meno avvantaggiato. Vedremo se finirà così. A me viene da dire da un lato che se la qualità dei servizi proposti è vagamente assimilabile a quella italiana, è perché lì sono andati a investire tanti italiani. Dall’altro, visto che il turismo difficilmente riequilibrerà una bilancia dei pagamenti così insostenibilmente deficitaria, che il momento dello sfruttamento arriverà col redde rationem, quando i capitali andranno restituiti come ho spiegato nel post precedente: austerità, crollo della quota salari, ecc.

Insomma: ora siamo nella fase in cui va bene. Quella in cui va male (per gli albanesi, intendo) arriverà dopo, e in questo, come in tante altro cose, il ponte fra l’oggi e il domani è la finanza.

Quanto alla tua curiosa presunzione secondo cui questo non è un ciclo di Frenkel perché non c’è una bolla, sei almeno andato a controllare prima se la bolla c’è o non c’è?

Gli albanesi la vedono così:

ma tu sarai sicuramente più informato di loro!

Del resto, è per questo che Bagnai ti “banna”! Perché tu non possa smentirlo dall’alto della tua superiore scienza ed esperienza del mondo!

Che persona meschina questo Bagnai: “bannandoti” si qualifica per quello che è, e quindi, simmetricamente, non “bannandoti” ti qualifica per quello che sei: un caro amico.

Basta così?

Se no ce n’è ancora: ma già questo sarà stato utile a molti per approfondire alcuni risvolti del dibattito sul -248% (posto che interessi ancora: ma come vi ho spiegato, prima o poi tornerà di attualità: nessuno sopravvive a deficit così sostenuti della bilancia dei pagamenti… e a una bolla nel mercato immobiliare!).

(…sia chiaro: io non ho nulla contro nessuno, né tantomeno contro gli albanesi. Sono dinamiche oggettive, e oggi è facile documentarsi…)

(…vittimismo? No, grazie…)

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“Pe’ malati c’è la china (ancora sull’Albania)” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Addendum sull’Albania

Torno un momento sul miracolo lettone. Vi avevo detto qui che il sito dell’Eurostat non consente di analizzare il Pil albanese dal lato del reddito, ma solo da quello della produzione e della spesa. In altre parole, non è possibile, consultando l’Eurostat, analizzare l’evoluzione di questa identità:

 Y = W + GOS + TS

quella che scompone il Pil Y nella somma dei redditi da lavoro W (compensation of employees), più i redditi da capitale/impresa (il risultato lordo di gestione, gross operating surplus, cui si aggiunge il reddito misto, mixed income, che è il risultato dell’attività economica svolta dalle famiglie: li ho indicati con GOS), più il saldo fra tasse pagate su produzione e importazioni e sussidi ricevuti (TS).

Per fortuna però c’è il sito dell’INSTAT. Lavorandoci un po’ ho tirato fuori questa tabella:

(dovete scusarmi se non ho compilato la parte coi conti del reddito dal 2013 al 2015 ma andava fatto numero per numero e ci avrei messo troppo tempo: il quadro è comunque chiaro e stabile), che ha la stessa struttura di quella del miracolo lettone:

Non ve la faccio tanto lunga perché ho poca batteria e poco campo. Diciamo che il miracolo albanese somiglia molto alla Lettonia “pre-miracolo”, quella del 2008: un Paese con una propensione al risparmio pressoché nulla (cioè con una propensione al consumo fuori scala, nel caso albanese oltre il 90%), che ha un tasso di investimento sostenuto (oltre il 20% del Pil), e che quindi campa di capitale estero, importando capitali per oltre il 10% del Pil all’anno. Nel caso albanese queste dinamiche sono evidenti ed esasperate.

Notate bene: il fatto di risparmiare poco, cioè di consumare molto, è ovviamente legato al fatto di guadagnare poco, cioè di avere salari molto vicini al livello di sussistenza. Capite così qual è il segreto dietro il famoso -248% (notate però che in termini distributivi la quota dei salari sul monte redditi aumenta).

Come sapete, il bel gioco del campare coi soldi degli altri non può durare per sempre (ed è già strano che ora vada avanti a ritmi simili: ma la spiegazione di questa anomalia risiede da un lato nelle dimensioni irrisorie dell’Albania, che attenuano la rischiosità sistemica del prestarle soldi incautamente, e dall’altro nell’ovvia pulsione geopolitica verso l’annessione dei fratelli balcanici al “progetto” europeo). Credo sappiate anche che prima si proporrà alle aquile albanesi un aggancio valutario, millantandolo come elemento di progresso e di promozione sociale (“anche noi avere monetona pesantona”!). Ottenuta così la certezza di essere ripagati in moneta “forte”, l’eurone, poi si chiederà il conto. A quel punto la tabella del miracolo albanese diventerà sovrapponibile a quella del miracolo lettone: crollo della propensione al consumo, della propensione all’investimento, e rientro del deficit estero, accompagnati da un ridimensionamento della quota salari.

Di tutta questa bella storia cogliamo l’unico lato positivo: non ci riguarda troppo (anche se ogni tanto conosco qualche imprenditore attratto da questo nuovo Eldorado: e fa bene ad andarci, per intercettare i soldi dei piddini disposti a pagare il -248%, purché sappia quando tornare!).

Resterà un QED di un futuro non troppo prossimo, ma nemmeno troppo remoto. Sempre, naturalmente, che non intervengano fattori più rilevanti in Paesi più rilevanti. Mi riferisco, ovviamente, ai termini dimensionali! Non si adontino eventuali fratelli albanesi qui presenti, cui non voglio assolutamente portare sfortuna, né dare consigli. Sorrido solo pensando alla singolare idiozia di quelli che, dopo avercela menata per anni con la storia che lo Statone gigantone ci avrebbe consentito di essere competitivi e di difendere il nostro tenore di vita, per potersi permettere una vacanza, da cittadini orgoglioni dello Statone gigantone, devono andare nel più minuscolo degli Stati europei degni di questo nome (escluse quindi le “città stato”), che si trova quindi ad essere più competitivo dello Statone gigantone.

Ma tanto a loro, come ad altri, in testa non entra. Il caso della Germania però dimostra che la Storia sa trovare i propri percorsi. Restiamo in contatto.

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“Addendum sull’Albania” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Quota 1883

Da questa buca:

un soldato dell’invincibile Wehrmacht controllava questo territorio:

Com’è andata a finire lo sapete. Oggi i “bellaciao” sono, in piena e indiscutibile buona fede, da questa parte della linea Gustav, quella sbagliata (così ha decretato la SStoria). Un paradosso su cui riflettere, come qui abbiamo fatto per anni. Forse la sintesi più efficace di quanto ci siamo detti qui è questa: la rimozione del conflitto, l’afflato irenico delle signorinə di buona famiglia, non è composizione del conflitto, ma anzi, involontariamente, si traduce spesso nella sua esasperazione. Tralascio la consueta citazione di Rilke, che ce lo aveva detto.

E ora, visto che ho espugnato quota 1883, tengo la posizione, in fiduciosa attesa dell’ebollizione globale, e in compagnia di giumente e puledri, testimoni indifferenti di questa e altre imprese.

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“Quota 1883” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

I tuttosubitisti e il giorno della marmotta

(…latrati, latrati ovunque…)

In fondo sono un ingenuo.

La settimana precedente iGiornali avevano detto che saremmo combusti, e io, che come sapete de iGiornali ho massima stima e rispetto, ci avevo creduto. Dovendo recarmi nel mio collegio, mi ero quindi posto il problema di come sopravvivere al settimo cerchio, o alla settima cornice. Avrei potuto trattenere il fiato per una settimana, rinunciando ad arricchire di CO2 l’atmosfera. I benefici sarebbero stati immediati (io ci credo, perché credo ne Lascienza che decide a maggioranza, a differenza di quei negazionisti neolibberisti del WSJ), ma sarei morto. Ritenendo inappropriato un simile eccesso di altruismo, mi lambiccavo il cervello alla ricerca di una ipotetica soluzione di second best… finché non mi soccorse un’illuminazione. Atteso che, per motivi di fisica dell’atmosfera a me del tutto ignoti, la temperatura di norma e in media diminuisce con la quota (mistero! Eppure l’aria fredda è più pesante…), forse sarebbe semplicemente bastato, per evitare la fine di Jeanne, trovarsi un albergo in quota. Del resto, se gli Aldobrandini decisero di costruire la loro villa a Frascati, e non, per dire, a Coccia di Morto, avranno avuto le loro ragioni. Seguendo l’antica saggezza dei mercanti fiorentini, mi sono quindi prenotato un posto in alto, molto in alto, ma rigorosamente nel mio bel collegio.

Lasciata l’autostrada a Scafa, mentre salivo da Lettomanoppello, a un tornante mi si palesa un affaccio meraviglioso sulla Val Pescara: il Gran Sasso, le montagne di Campli e dei Fiori, il Conero…

Arrivo, mi installo nella mia stanzetta vista mare:

(sì, quello azzurro in fondo è il mare, prova evidente che la Terra è piatta, come direbbe er Piccozzetta “chiudendo il dibattito”…), mangio una cosetta (mi ero svegliato alle 5, appesantirsi sarebbe stato rischioso), e scendo lungo la val di Foro a Ortona:

dove avevo un appuntamento con un amico:

un alpinista che per lavoro si occupa di porti (e aeroporti, autostrade, ferrovie…). Mi aspettavo un’atmosfera simile a quella di Venere: il mare in ebollizione, una densa caligine, l’atmosfera satura di H2O (un gas serra più presente della CO2, che monopolizza ingiustificatamente il dibattito minor)

E invece, come si vede dalla foto precedente, un orizzonte inciso nello zaffiro, sei-sette nodi di brezza tesa da grecale, insomma: un bel freschetto, tant’è che dopo il convegno risalivo in disordine e senza speranza la val di Foro che avevo disceso con tanta orgogliosa sicurezza, pensando: “Se qui è così fresco, lassù mi congelerò…”.

Ma poi, alla fine, il fresco era sostenibile (con opportuno maglione), tant’è che quando l’aere bruno toglieva gli animai che sono in terra dalle fatiche loro:

io, sol uno, uscivo dall’Overlook Hotel per regalarmi questa vista meravigliosa:

che gli abruzzesi conoscono, e che in foto non rende, ma senza coprirmi di brina…

Ora, il fatto è che gli irriverenti giovani della Lega di Casacanditella avevano proposto circa un mesetto prima al decrepito onoré Bagnai una cosa che l’onoré voleva fare da quando era più giovane di loro: l’ascensione al Monte Amaro, la seconda vetta più alta dell’Appennino, e verosimilmente l’escursione più faticosa dell’Abruzzo, almeno fra quelle che hanno un senso (volendo, c’è di peggio: puoi farla partendo da Fara San Martino, ma allora devi fermarti a dormire su).

Io non andavo in montagna dal 30 ottobre scorso, quando avevo esagerato, salendo “a secco” (cioè senza preparazione) al monte Tartaro da Barrea, con in più l’aggravante di essermi fermato verso le 14:30 in un punto un po’ aperto, con un meraviglioso affaccio sul Greco:

per rilasciare questa intervista:

Ora, la montagna, si sa, è come la politica: scendere è più difficile che salire.

Evitare che la discesa si trasformi in caduta richiede in entrambi i casi un certo sforzo fisico e un grande sforzo mentale.  Lo penso ogni volta che vedo, dal loro banco di peón, ex ministri o ex presidenti intervenire in aula nell’indifferenza generale. Lo penso anche quando osservo la mia condizione attuale. All’inizio della scorsa legislatura ero il potente (?) Presidente della Commissione Finanze del Senato (ruolo oggi rivestito dall’amico Garavaglia). Ora sono il vicepresidente della Commissione Finanza della Camera, ma va bene così. Di lavoro ne ho tanto, a quanto dicono i bene informati:

In ogni caso non mi annoio e non sto fermo, e questo è l’essenziale. Viceversa, a ottobre, scendendo dal Tartaro fermarsi e raffreddare le gambe non era stata una buona idea. Qualche giorno dopo, i normali doloretti post-escursione si concentravano in un dolore acuto al ginocchio sinistro, molto fastidioso. Non riuscivo a alzarmi dalla sedia, mi era penoso usare il pedale della frizione, ecc. Mi ero affidato al tempo, che è sempre il medico migliore, ma niente. Convinto che fosse un problema al menisco, l’avevo tirata in lungo. Lascienza mi diceva che forse era il menisco, e che operandomi avrei risolto, ma io, che riconosco Lascienza quando la incontro, in mano a un ortopedico non mi ci volevo mettere. E poi a febbraio una risonanza (la scienza) aveva riscontrato che il menisco era sempre quello di cinque anni fa! S.A.R. l’aveva detto subito “Vai dalla fisioterapista!”, ma non c’ero riuscito fino ad aprile. Non era il menisco, ma una contrattura del tibiale. A maggio stavo in piedi. A giugno correvo.

Però l’escursione più faticosa dell’Abruzzo…

Perché il dislivello da La Fàrə certo è maggiore (2400 metri), ma è meglio distribuito, come avrete visto su Wikiloc (perché voi cliccate sui link, vero?):

mentre quello dal Pomilio è la metà, ma è distribuito in modo un po’ infelice:

Parti quasi in piano, poi hai un balzo di circa 600 metri, e poi, quando hai le gambe belle cotte, ci sono tre saliscendi da poco meno di 200 metri l’uno (i tre portoni) che, se non ti resta un po’ di testa, ti sfibrano. Senza contare, ovviamente, che una salita, vista dall’alto, somiglia tanto a una discesa, cioè a una contrattura del tibiale. Per non dire, poi, che mancavo da anni dall’ambiente di alta montagna, che le mie scarpe erano rotte, ecc.

Ma agli impertinenti giovani della Lega (e non) non potevo darla vinta.

E così, con santa pazienza, due settimane prima, per ambientarmi, mi ero affacciato al versante orientale:

salendo alle 13 dal Balzolo verso la Madonna delle Sorgenti (itinerario, come saprete, sconsigliatissimo a quell’ora, a causa del caldo: ma io non sono uno snowflake: quello che non mi uccide mi rende più forte; in foto, lassù, in mezzo alle nuvole, si intuiva il sentiero che avrei poi percorso per salire in vetta…), poi ero andato a comprarmi delle scarpe nuove, ecc. Ovviamente, nei ritagli di tempo. Per esempio, al Balzolo c’era andato muovendomi da Paglieta, dove ero stato a festeggiare San Giusto, verso Bucchianico, dove andavo a festeggiare San Camillo de Lellis. Una piccola pausa di solitudine fra l’uno e l’altro impegno di presenza nel collegio:

Ritorniamo all’Overlook Hotel.

Il giorno dopo, che era il giorno prima dell’ascensione, ero indeciso se riposarmi o meno. Il saggio maître, che mi aveva diffusamente spiegato quanto l’escursione fosse faticosa, e che lui cinque anni prima, quando era allenato, ci aveva messo cinque ore, ecc., mi consigliava di muovere due passi, e io, visto che dovevo provare le scarpe, un po’ tardi, verso le 9, decidevo di dargli retta.

Vox populi, vox Dei.

Colgo l’occasione per fugare un equivoco. Io non sono cattivo. Se viene da una persona che sa di che cosa sta parlando, accetto anche un consiglio non richiesto. Fatto sta che nei social il -248% delle persone non sa di che cosa stia parlando, e questo ovviamente non mi predispone al dialogo.

Ero talmente disabituato alla montagna che dal pezzo di sentiero che già avevo percorso una quindicina di anni fa, quello per il Blockhaus e Monte Cavallo, mi venivano le vertigini sia guardando verso l’alto, verso il sentiero che non avevo ancora mai percorso:

che verso il basso, verso il sentiero che avevo percorso due settimane prima:

(se ingrandite forse lo vedete). Eppure il sentiero in quota mi era noto ed era comodissimo: una traccia pulita protetta dalle fronde e dall’aroma balsamico dei pini mughi:

L’esperimento era comunque riuscito: le scarpe funzionavano. A sera, una cena digeribile:

lu rentrocele fatto in casa, col sugo di castrato, e mezzo litro di Montepulciano di Villamagna: glucidi e serotonina per affrontare con sicurezza l’ascensione.

Il giorno dopo siamo partiti sul serio. Solita sveglia alle 5:30, con alba sul mare Adriatico dalla finestra:

e poi via. Il Sole si alzava rapidamente, riflettendosi sul mare oltre la montagna d’Ugni:

noi ci fermavamo alla penultima sorgente:

prima di affrontare i 600 di dislivello, quelli che secondo tutti sono così faticosi, e che visti da lontano sembravano appesi al vuoto, mentre da vicino erano così:

Una roba sufficientemente geriatrica, insomma, e quanto alla fatica basta usare la testa per non sentirla. Se l’altezza ti chiama, il corpo segue, e quando dietro lo spigolo del Focalone trovi questo:

hai solo un desiderio: vedere cosa c’è dopo. E per vederlo, devi seguire i saliscendi della cresta a destra nella foto. In alto la cresta si appiattisce, chi sa dove sono vede il Manzini e il Pelino persi nel paesaggio lunare:

e a destra, salendo, le gigantesche colate di ghiaia che scendono verso il vallone dell’Orfento:

finché, superato un passaggio un po’ esposto (quel minimo che richiede attenzione, considerando che cadere non sarebbe fatale, ma neanche gradevole…), non ci si affaccia sull’ultimo gradone:

e qui il punto più alto è in effetti la vetta, adorna di uno di quegli orribili simboli divisivi di cui tanto si è parlato (e non so come sia andata a finire la storia):

(in cinque ore, naturalmente: come uno allenato, perché la testa è allenata).

Deposti gli zaini:

si studia geografia su una cartina vivente, sul plastico in scala 1:1 di un bel pezzo dell’Italia centromeridionale: dal Fucino alle Tremiti, dal Conero alle Mainarde, dai Pizzi al Gran Sasso, e si prova anche a mangiare qualcosa, stranamente senza grande appetito, perché il cammino è appagante. Capisci allora quanto quella fame rabbiosa che ti viene in aula alle 11:59 nulla abbia di fisiologico, sia tutta chiamata dalla tua ansia di sbranare qualcuno, che si converte, per decenza, in ansia di sbranare qualcosa. Ma dove quel qualcuno non arriverebbe mai, puoi anche camminare 11 ore senza voler sgranocchiare un cracker.

Poi ci si volge al ritorno, ed è lì che senza un minimo di fortezza i saliscendi dei Tre portoni possono essere un po’ incomodi:

Ovviamente i giovini correvano:

(mortacci loro!) ma io preferivo andare al mio passo. Di fare “il tempone” mi importava il giusto (zero), di evitare un altro semestre col ginocchio avariato molto di più. E poi, bisogna anche godersi il panorama! Vedere il Morrone dall’alto non ha prezzo:

dietro quella montagna verde c’è Sulmona, e subito sopra il mio cappello si vede il Fucino. Del resto, se dal Fucino vedi la groppa bianca della Maiella, dalla Maiella devi vedere il Fucino: funziona così (con preghiera ad Alberto49 e a quell’altro di non ricominciare a litigare sulla teoria della relatività: facciamo finta che le onde elettromagnetiche, che in fondo non sappiamo cosa siano, seguano un moto rettilineo).

Ci lasciamo dietro le spalle anche il passaggio “delicato”:

e di saliscendi in saliscendi:

torniamo in cima al Focalone, da cui inizia la lunga discesa che riporta alla cresta del monte Cavallo, prima in vista del bivacco Fusco (quello giallo) di fronte all’anfiteatro delle Murelle (quello sì un po’ esposto, e infatti non ci voglio andare):

e poi giù, per ghiaie scomposte e gradoni accidentati, molto più fastidiosi in discesa:

giù, giù fino all’agognata meta:

E credo che all’Overlook che l’onoré tornasse intero e così presto non se lo aspettassero, ma c’è onoré e onoré. L’onoré autoctono, per dire, mi ha confessato di non esserci mai stato, nemmeno con l’elicottero: non gliene faccio una colpa, ha altri interessi.

Restava da capire quando e come mi sarei svegliato il giorno dopo.

Alle 8, con le gambe sciolte, non doloranti, e con una grande voglia di assaggiare la crostata che avevo preferito accantonare a cena!

Inutile dire che a questo punto se la mia fisioterapista mi dicesse di indossare un tutù fucsia e sacrificare un capretto sull’altare di Baal, io eseguirei immediatamente. C’è Lascienza, c’è la scienza, e ci sono i risultati. Che bastassero 75 secondi di un certo stretching per svegliarsi a 60 anni meglio di come mi sarei svegliato a 40 non lo avrei mai creduto, ma siccome non sono grillino, e quindi mi fido, l’ho fatto, e ho constatato il risultato.

Ora tocca al Gran Sasso, ma prima, alle 15, avevo un appuntamento all’Aquila, per un dibattito.

Dopo una breve sosta in camera, a scrivere un post sull’ego-ansia, sono partito lucido, rasserenato, ossigenato, andando incontro a quello che pensavo fosse uno dei soliti dibattiti, e che invece ha avuto dei momenti di interesse, perché eravamo pochi, ed eravamo a contatto. Questo ha concesso ai convenuti maggiore agio di rivolgere domande al relatore alfa, che ero, inevitabilmente, io, non tanto per il mio ruolo parlamentare (servus servorum Dei), quanto perché creatore del Dibattito (che non c’è). Di tempo ne è passato un po’ (quasi tre settimane), non sono sicuro di ricordare esattamente le espressioni utilizzate dai miei stimolanti interlocutori, ma il senso delle domande mi era chiaro, anche perché sono domande che mi pongo quotidianamente, e che di tanto in tanto discuto con le quattro persone di cui mi fido.

Il senso della prima (e tutto sommato unica: il resto erano apostrofi, invettive, grillanza de destra, su cui ci soffermeremo, ma cui è veramente difficile aggiungere valore, come a qualsiasi materia prima scarsa) era più o meno questo: posto che noi abbiamo un obiettivo comune, che è quello dell’autodeterminazione del nostro Paese, e che di alcuni snodi tecnici di questo obiettivo oggi si preferisce non parlare, per motivi tattici, noi elettori in che modo possiamo essere certi che voi politici stiate ancora lavorando a questo obiettivo?

Purtroppo non c’era streaming né ripresa, quindi non garantisco l’esattezza letterale (aggiungiamoci il solito vizio dei “dibattiti”, che è quello di trasformare le domande – frasi brevi che finiscono con un ricciolo – in comizi), ma il senso era questo. Prima di dirvi che cosa ho risposto, due rapide considerazioni. La prima è che al fondo di domande simili c’è sempre la grillanza, il partire dal presupposto che il tuo rappresentante voglia fotterti, probabilmente perché tu ragioni così! In questo senso, confesso di essere un rappresentante poco rappresentativo: non mi sento di rappresentare i tanti somaticamente furbastri che vengono a espormi la loro pregiudiziale sfiducia nei miei confronti. Chi io ritenga e desideri rappresentare dovrebbe essere chiaro dal lavoro che qui è stato svolto ed è tutto in consultazione pubblica. La seconda considerazione si lega appunto a questo lavoro: la vostra paura che io perda la bussola, che poi è anche una mia preoccupazione, visto che, per quanto possa saperne più di altri, onnisciente non sono, è stata oggetto negli ultimi tre anni di una serie infinita di commenti e dibattiti (per trovarli basta seguire il tag community).

Il fatto che il tema fosse stato ampiamente discusso, ovviamente, non rendeva la domanda superflua, e la risposta è stata più o meno questa: dobbiamo partire dal presupposto che quella del 2018 è stata una battaglia che ci ha visto sconfitti, come ha detto con appassionata eloquenza Nello Preterossi al goofy10 (dal minuto 7, ad esempio, ma ascoltate anche il minuto 12, insomma: rivedetevelo tutto). Siamo quindi di fronte a un bivio: prendere atto di questa sconfitta, analizzarne le ragioni, e adeguare il nostro comportamento, o rifiutarci di farlo. Le motivazioni della sconfitta sono piuttosto chiare ex post e, devo dire, grazie all’aiuto di tanti amici (primo fra tutti Luciano), a me erano abbastanza chiare anche ex ante: la confusione fra cattura del consenso e esercizio del potere. Una confusione, va detto, che sa tanto di grillanza: parte cioè dal presupposto che #aaaaabolidiga sia un blob indistinto, in cui i ruoli e le prerogative si confondono, una legione di fannulloni onnipotenti che se solo volesse potrebbe con un tocco di bacchetta magica cambiare il mondo, e che il presupposto necessario e sufficiente perché ciò avvenga è avere la maggioranza dell’organo legislativo (dimenticando che i poteri sono tre e che oltre al legislativo c’è anche l’esecutivo e il giudiziario, che, per inciso, è l’unico che può mettere in gabbia gli esponenti degli altri due…). La prima lezione da trarre, quindi, è che forse per cambiare le cose bisogna investire meno nella conquista del consenso e più nell’esercizio del potere, ovvero nel conquistare la lealtà e nel tutelare la competenza della macchina amministrativa (braccio del potere esecutivo) e nell’assicurarsi che le magistrature restino nell’alveo che la Costituzione traccia per loro (un alveo che, ricordo a me stesso, ovviamente a mero titolo di paradosso esemplificativo, non prevede l’uso della polizia giudiziaria a scopo di indirizzo politico). Ma non sono solo queste le istituzioni su cui una maggioranza deve appoggiarsi se vuole cambiare indirizzo al Paese: c’è anche tutto il mondo delle partecipate statali, che vanno dall’informazione (Rai) all’energia (Eni) alle infrastrutture (Fs) – ovviamente limito gli esempi per non tirarla troppo in là – e ci sono anche istituzioni informali, come il rutilante mondo dei media, e quello della cultura, che vanno coltivati, infiltrati, egemonizzati.

Come è possibile, amici cari, che in un Paese in cui l’uomo colto di sinistra è letteralmente un imbecille che non sa come si calcola una percentuale (ricordate il -248%, vero?), una persona digiuna dell’aritmetica elementare, una persona che ha letto il -248% dei testi che cita, sia così profondamente radicato il pregiudizio che la cultura sia “di sinistra”!?

Ecco: una cosa come questa devi superarla se vuoi vincere la guerra, perché se non la superi combatterai per sempre col pregiudizio che essere di sinistra sia fico, e che essere di destra sia segno di inferiorità culturale e quindi morale, e conseguentemente non riuscirai ad attrarre (se non coi soldi) le persone di valore necessarie per porre in essere un progetto politico. Ma da una palude simile non si esce a botte di maggioranza, e non si esce con la bacchetta magica. Se ne esce col tempo e col lavoro, un lavoro che ovviamente non puoi raccontare, proprio perché ti trovi in condizioni di inferiorità tattica strutturale: essere di destra è infamante, il che, fra le tante conseguenze, comporta anche che nessuno di quelli che vorrebbero essere con te ha il coraggio di dichiararsi per te o anche semplicemente di palesarsi a te, temendo per la propria vita professionale (il mobbing sinistro è qualcosa di inimmaginabile: so che qui pensate che sia nato con la punturina, ma chi c’era prima sa che non è così e ricorda quante ne abbiamo passate…). Anche solo sapere chi siano le persone competenti ma non nemiche del Paese è un’impresa non da poco, e non solo per un ovvio problema preliminare (ognuno ha diritto alla propria idea di Paese, ci mancherebbe altro: è assolutamente ovvio, ad esempio, che per una parte consistente della classe dirigente che abbiamo ereditato dal PD l’interesse del Paese lo si fa svendendolo a potenze estere), ma soprattutto per la difficoltà pratica di stringere relazioni e cercare in quelle relazioni la verità e la fiducia dell’altro, anche al di là dell’orientamento partitico.

Questo lavoro, piaccia o no, si fa da dentro, si fa occupando i palazzi. Da fuori non si può fare, semplicemente perché non ci sono occasioni per stringere relazioni con la macchina.

Da qui, la mia semplice risposta all’amico: “Posto che l’obiettivo strategico è chiaro e resta il solito, in termini tattici gli obiettivi politici sono tre: sopravvivere, non farsi rompere i coglioni dai media internazionali, e occupare il più a lungo possibile le posizioni conquistate. Solo in questo modo è possibile organizzare una resistenza efficace”.

I piddini non sanno l’aritmetica, non sanno la musica, non sanno niente: per questo mi dà molto fastidio quando qualche sciocco li chiama “comunisti”: i comunisti studiavano! Una cosa però sanno farla: sanno occupare il potere e sanno “investire in capitale relazionale” (modo elegante per dire: sviluppare una rete paramafiosa di fedeltà incrociate). Ci hanno fatto anche uno slogan, ricordate? #Facciamorete!

Bene!

Allora invece di lamentarci che “i comunisti, signora mia!, so tanto tanto cattivi!”, invece di confinarci in questa dimensione di chiacchiere da comare, impariamo da loro! I nostri avversari hanno messo su in settant’anni un carrarmato (sì, perché nel PD ci sono pezzi di una roba che governa l’Italia dagli anni ’50, laddove non ve ne foste accorti). Noi abbiamo diecimila cerbottane. Possiamo decidere di combatterli ora, scagliando sulle corazze avversarie le nostre palline di stucco, o possiamo in silenzio costruire il nostro carrarmato. C’è un’immagine qua sopra che non è un panorama e che dovrebbe farvi capire che questo non è solo un discorso teorico, che ci si sta lavorando.

L’elettore non lo capisce?

Beh, il grillismo è stato messo su apposta perché non capisca. Quindi capiamo, noi, e perdoniamo, perché tutto comprendere è tutto perdonare, che l’elettore non capisca, ma ci faremo bastare quello che abbiamo capito noi. Se per avere la òla sui social o il consenso di qualche sciroccato il prezzo da pagare è il bombardamento a palle incatenate da parte dei vari Rutters, Blumberg, Fainanscial taim ecc., lo spread, il ricatto dei mercati, ecc., anche no, grazie! Abbiamo già dato nel 2018. Vi ricorderete forse (non so se l’ho condivisa con voi) la mia icastica risposta a un ex studente (che fa l’olio buono) incontrato in campagna elettorale: “Professore, la stimo sempre come insegnante ma non la stimo più come politico!” E io: “Aiutame a ddì e sti cazzi! Ah! Me ne dolgo! E come mai?” E lui: “Perché lei non dice più così così e così!” E io: “Ma amico caro: se pensi che lo scopo del gioco sia prenderlo in quel posto, ti segnalo che quel posto ce l’hai anche tu!”

Invece lo scopo del gioco è un altro: tirarlo in tasca agli altri. E questo richiede metodo, pazienza, e silenzio (infatti ne parlo qui, nel blog che non c’è: non lo farei mai in pubblico)!

Interviene allora un altro fiero partecipante al dibattito, con una domanda che era una concione il cui senso, in definitiva, potrebbe essere riassunto così: “Voi siete andati al potere con slogan rivoluzionari e poi vi siete rimangiati tutto per restare attaccati alla poltrona [NdCN: poltrona lo ha detto: il fetido marker del grillismo si palesò!]. Ora venite anche a dirci che volete restarci attaccati il più a lungo possibile! Allora, visto che avete tradito [NdCN: ha detto anche questo!], tanto vale che noi elettori votiamo per partiti che ci promettono di restare fedeli ai loro ideali: la vostra ironia sugli zerovirgolisti è fuori luogo!”

Sì, non era esattamente un genio della politica, siamo d’accordo, e non ricordo come gliel’ho fatto capire, ma qui penso sia evidente a tutti: ci sarebbe intanto da ragionare su quali garanzie il partito dei puri dia di non “tradire”. Per carità, non metto assolutamente in dubbio l’integrità morale der sor Perepè o di quell’altro che fa i filmetti divertenti, ci mancherebbe! Gli abbiamo dato tante volte uno strapuntino ai nostri convegni, dove hanno imparato in ritardo le cose che ora vi ripetono fuori contesto e fuori tempo, attirando il consenso degli sciroccati, sono senz’altro persone per bene e in buona fede, ma la loro buona fede mi interessa quanto quella di Prodi. Provo affetto per loro, gli sono vicino nel loro immedicabile dolore, che è quello di voler essere me, senza essere me, riuscendo ad essere al massimo una caricatura di me, e però mi chiedo: come può uno che non è se stesso restare fedele a ciò che non vuole essere (cioè se stesso)? Capisco tuttavia che questa può sembrare un’osservazione personale, quindi la accantono. Resta però il tema politico. Perché un elettore dovrebbe buttare un voto al cesso?  Per dare un segnale che non arriva per l’inadeguatezza di chi dovrebbe trasmetterlo? L’inadeguatezza c’è, perché altrimenti al posto mio ci sarebbe un altro, no? Solo che così gli sbarramenti non si superano! E se anche si superassero, fra tre legislature arriverebbero a Roma dalla Montagna del Sapone dieci parlamentari che si troverebbero immediatamente di fronte a un bivio: o condannarsi all’irrilevanza aderendo al fritto misto, o perpetrare un tradimento rinunciando a parte della propria piattaforma per allearsi con altre forze nel tentativo di incidere.

E saremmo da capo a dodici: una nuova schiera di haitraditisti rimprovererebbe ai poveri puri e duri (de coccia) la colpa di aver tentato di non essere irrilevanti (oggettivamente, senza alcun successo).

Perché va ricordato che quando la Lega ha fatto il 17% dietro non c’era solo un messaggio rivoluzionario. Intanto, il messaggio non era uno solo. E poi, c’era una organizzazione a sostenerlo. Qui stiamo parlando di gente che non sa nemmeno quante firme raccogliere per presentare una lista, tanto per capirci, che non ha un’organizzazione territoriale, che litiga su qualsiasi minuzia: insomma, il bello spettacolo che vedete tutti i giorni sui social! E questo che garanzie dovrebbe dare a un elettore che non sia un imbecille (e che in quanto imbecille ha comunque diritto di votare, direi anzi il dovere, proprio per rassicurarci sul fatto che gli imbecilli sono una esigua minoranza)!?

Per carità, mi costituisco! Sono colpevole anch’io! Anch’io ho detto mille volte che preferivo perdere da solo piuttosto che vincere in compagnia. Ma io potevo permetterlo. I miei pallidi e sconclusionati epigoni no.

Per inciso, ricorderete che gli ortotteri insistevano molto sul fatto di non volersi alleare con nessuno (ovviamente, se lo ricordano quelli nati nel 10 a.P.), e non era così strano. Un partito nato per sterilizzare la politica non poteva che rinnegare lo strumento con cui la politica ottiene i propri risultati: la mediazione, il compromesso, l’alleanza. E gli elettori? Contenti e cojonati.

Insomma: l’idea del tuttosubitista è che siccome non si può avere tutto subito, allora ogni volta bisogna ricominciare da capo: ripetere lo stesso errore (quello di pensare che la Veritah porti il consenso e che il consenso sia sufficiente), senza considerare che si è subita una sconfitta, che il consenso non c’è più, e che anche se ci fosse porterebbe a Roma persone impreparate, incapaci di trovare risposte e appigli nella macchina dello Stato, una macchina che è fatta di migliaia di pezzi, che non rispondono sic et simpliciter a #aaaaabolidiga, ma che vanno conosciuti e coinvolti. E questo prende tempo!

Noi forse avremo anche tradito, ma chi non capisce questo prende in giro voi, e se stesso. Tanto per darvi un’idea, fatevi un giro su questa pagina di Wikimm… Ci sarebbero mille e una considerazioni da fare. Un lettore compulsivo di Saint Simon (non il socialista) ovviamente penserà subito a:

À mon retour de la Trappe où je n’allois que clandestinement pour dérober ces voyages aux discours du monde à mon âge, je tombai dans une affaire qui fit grand bruit et qui eut pour moi bien des suites.

M. de Luxembourg, fier de ses succès et de l’applaudissement du monde à ses victoires, se crut assez fort pour se porter du dix-huitième rang d’ancienneté qu’il tenoit parmi les pairs au second, et immédiatement après M. d’Uzès.

con tutto quel che ne consegue, e in effetti questo ci porta verso un pezzo del ragionamento: da sempre la macchina dello Stato è complicata, è fatta di tanti pezzi, e un pezzo di questa complicazione è capire quale pezzo debba venire prima degli altri. Ma il ragionamento che volevo farvi è diverso, e so che ad alcuni di voi, obnubilati dalla grillanza, non piacerà. Partiamo da questa foto. Nel 2018 io non conoscevo nessuno degli omologhi di queste alte cariche: né Napolitano, né Alberti Casellati, né Fico, né Conte, né Lattanzi. Nel 2022 ne conoscevo il -60% (visto che ai piddini piacciono le percentuali negative): uno di loro ha regalato un certo libro a Salvini, uno è stato mio collega senatore, e un’altra è stata ospite ai nostri convegni. Me ne sto al posto mio ma il rapporto c’è ed è di fiducia – anche perché, lo ripeto, l’appostismo che vi predico lo pratico e non abuso della confidenza che pure ho acquistato nel tempo. Ovviamente er sor Perepè  o er videomaker dovrebbero cominciare da capo (capito il giorno della marmotta?). Mi sono divertito a estendere questo ragionamento, scendendo per li rami fino alle cariche di terzo livello, paragonando quante ne conoscevo nel 2018 e quante ne conosco nel 2023, in base semplicemente alla mia rubrica telefonica. Nel 2018 dei primi 223 ne avevo in rubrica cinque: il vicepremier e Ministro dell’Interno, il Ministro della famiglia, il Ministro degli Affari Europei, e un paio di sottosegretari. Oggi il 48%, e mediamente mi rispettano per come mi comporto. Ho fatto rete. Quello che vale per le persone, vale per le procedure, per le norme, ecc.

Conosco benissimo l’argomento: “Eh! Ma se questa rete ti serve a fare quello che farebbe il PD, a noi che ce ne viene?” Torno ad attirare la vostra attenzione sul fatto che le querimonie del PD sulle nomine in Rai (solo per fare un esempio) indicano che qualcosa ve ne sta venendo. Se a qualcuno interessa, c’è la riforma fiscale. Se a qualcuno interessa, c’è l’abbattimento del cuneo fiscale. Siamo qui per confrontarci su altri temi, ma io ora devo occuparmi anche di quelli che a voi sembrano dettagli o divagazioni, e che invece a certe persone migliorano la vita. Ci sarebbe anche il fatto che non solo gli sciroccati votano: ricordo a me stesso che gli utenti Twitter sono il 17% della popolazione italiana, e circa il 20% sono finti, il che ci porta attorno al 13%. Fuori c’è un mondo, fatto dell’87% di persone che hanno una vita, il che giustifica lo spiacevole paternalismo con cui ho liquidato il problema di non essere capito da una frazione di quel 13%. Perdonatemi: il problema non è che io non capisca che voi esistete: il problema spesso è che voi non volete ammettere che esistono altri, che hanno altre priorità, di cui comunque va tenuto conto.

Conosco anche l’altro argomento: “Eh! Ma se bisogna essere subalterni alla dittatura dello spread, allora bastava il PD, invece sicceroio mi riappropriavo della Banca centrale e emettevo moneta ecc. ecc.” [NdCN: tutte cose che non ho mai posto in questi termini, come ricorderà chi c’era, ma lasciamo stare]. Sì, infatti funziona proprio così! Me lo immagino! Dice, fa, dice: “Toc toc!” E Ignazio: “Chi è?” E Perepè: “Sò io!” E Ignazio: “E cche vvòi?” E Perepè: “Voglio stampà moneta sovrana, aprime!”

Il resto ve lo immaginate…

Fa ridere, no?

No.

In fondo è un po’ triste che tutto quanto certa gente ha cavato da un progetto didattico così accurato e approfondito sia una visione così caricaturale dei processi politici, dove tutto si regola in base alla conquista della maggioranza del 51% da parte del Partito della Verità, privo di classe dirigente, di interlocuzioni con le magistrature, di nozioni elementari sul funzionamento della macchina amministrativa, di competenze legislative, di rudimenti di diritto parlamentare, ecc. Il lato umoristico, eventualmente, consiste nel fatto che certi sempliciotti vengano da me a spiegarmi come funziona er monno. Non che io creda di saperlo. Un’intuizione però penso di averla avuta: magari, prima di immaginare gesti politicamente eclatanti, bisogna assicurarsi, con le opportune riforme e con il lavoro di cui vi parlavo sopra, un minimo di retrovia, per evitare che il generoso slancio verso la trincea nemica diventi un massacro in cui il plotone di trombettieri si trova preso fra i due fuochi.

O no?

In altre parole: ve l’immaginate la gestione di una seria crisi valutaria, cioè di un evento che la logica economica continua a indicarci come possibile, con questa Banca d’Italia, con questa magistratura, ecc.? Io sì, e preferisco evitare.

Ma per trarre una morale corta da una favola lunga, la risposta è come al solito dentro di voi: dovete scegliere se fidarvi di chi vi ha spiegato come stanno le cose e come lottare per cambiarle, o vivere un eterno giorno della marmotta. Perché, per i motivi che credo di avervi illustrato in modo convincente (ma siamo qui per discutere insieme) quelli del 14 luglio, alla prova dei fatti, e al di là delle loro indubbie qualità personali, per motivi meramente oggettivi si riveleranno essere quelli del 2 febbraio. La scelta quindi è fra scommettere su un cavallo che potrebbe non arrivare al traguardo, o avere la certezza di entrare in loop.

Non credo che sia una vera scelta.

Tutto qua.

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“I tuttosubitisti e il giorno della marmotta” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Frenkel goes to Albania

In rapida continuità col post precedente, diamo una spolverata al nostro palantìr, l’identità dei saldi settoriali, per mettere nel corretto contesto la notizia del giorno: il prezzo di una vacanza in Albania è pari al -248% di quello di una vacanza in Italia. Non ci credete? Malfidati! Lo dicono la Stampa e il Messaggero:

e apprezzerete che il Messaggero ha interiorizzato la regola principe della “comunicazzione credibbile”: non dare mai cifre tonde, che trasmettono un senso di approssimazione. Bisogna sempre dare il numero esatto: 248, non 250!

(…la Stampa poi ha corretto il tiro, sputtanando la legione di sciagurati imbecilli che si erano affrettati, con lo zelo del neofita, ad avvalorarne la fantasiosa tesi secondo cui esisterebbero prezzi negativi – se non la capite, siete in buona compagnia, e ve la spiego dopo – mentre il Messaggero ad oggi mi risulta ancora attestato su questa bislacca posizione: tenete presente che questi vi informano sulle dinamiche economiche, e questo, come ci siamo sempre detti, spiega tante cose…).

Lascerei per un attimo da parte questo folklore (ma, ripeto, poi dovremo tornarci) e andrei allora a vedere che cosa succede in Albania, quale sia la spiegazione del miracolo albanese, di questo nuovo giardino dell’Eden dove ti pagano per andare. In effetti, la nostra “legge di Lavoisier”, come l’ho chiamata nel post precedente, cioè l’identità dei saldi settoriali, ci fa immediatamente capire che, tanto per cambiare, a pagare siamo noi, e, come al solito, non v’è certezza di rivedere i soldi indietro.

Mi piacerebbe potervela fare corta, e basterebbe questo grafico:

ma siccome oggi sono generoso, vi regalo un altro grafico:

Ecco: ora i più anziani dovrebbero essere in grado di spiegarci che cosa sta succedendo in Albania. I meno esperti potrebbero aiutarsi con questo post, che (ri)spiega come funziona il primo grafico (e quindi aiuta, ad esempio, a capire come mai il fatto che la linea rossa superi quella nera nel secondo grafico è coerente col fatto che la linea azzurra sia negativa nel primo).

Aggiungo un dettaglio. Come tutti i miracoli, anche quello albanese può essere letto in diversi modi. Avrei voluto leggerlo come lessi a suo tempo quello lettone, ma… purtroppissimo Eurostat non fornisce i dati su salari e profitti necessari per esplicitare i riflessi distributivi di questa dolce vita coi soldi altrui. Cercherò nelle statistiche nazionali, se avrò tempo, oppure potrete farlo voi. La dinamica della quota salari però diventerà interessante dopo, quando la riga azzurra dovrà tornare positiva.

E ora vi lascio: chi ha capito spieghi, chi non ha capito chieda, di percentuali parliamo un’altra volta: si sono svegliati tutti e mi saturano la banda, devo (per fortuna) smettere…

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“Frenkel goes to Albania” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

QED 104: “Quando c’era lei i treni non arrivavano in orario!”

(…nel giorno dell’Assunzione, commentiamo la discesa agli inferi di una Angela caduta…)

Il successo del blog che non c’è (questo) può essere ricondotto a varie cause: i temi affrontati, la qualità della scrittura, l’approccio adottato, e via dicendo. Credo che molti di voi siano rimasti convinti e coinvolti, in particolare, dalla capacità del blog che non c’è di aiutarvi a prevedere lo sviluppo prossimo e meno prossimo degli eventi in base a un rigoroso ragionamento economico condensato in formule elementari, formule caratterizzate da quella semplicità, da quella economicità in cui risiede la cifra estetica della vera scienza. Prima fra tutte, l’identità dei saldi settoriali, qui spiegata e applicata plurime volte (uno dei ripassi e delle applicazioni più interessanti è qui e riguarda la Francia) ma della quale certamente non può nuocere ripercorrere brevemente il senso, anche per radicare nel (buon)senso economico certe affermazioni e certe categorie che nel dibattito minor vengono sistematicamente travisate.

Il punto di partenza è molto semplice, così semplice e ovvio che regolarmente lo si ignora (il triste destino delle umili verità): in un’economia di mercato si produce per vendere e quindi per guadagnare, il che significa, in buona sostanza, che il valore del prodotto di un sistema economico equivale alla spesa complessiva effettuata per acquistare i beni prodotti, e alle remunerazioni (salari e profitti) complessive di chi li ha prodotti.

Insomma: quando parliamo di Pil (prodotto interno lordo) stiamo parlando non solo del valore della produzione (sottolineo che non si possono sommare mele e clarinetti, ma si può sommare il loro valore, che si ottiene applicando alle quantità fisiche – un chilo di mele, un clarinetto… – il prezzo di mercato), ma anche, necessariamente, della spesa effettuata per acquistare questa produzione, e quindi, necessariamente, dei redditi percepiti da chi ha prodotto i beni. Insomma: in economia la domanda contabilmente deve uguagliare l’offerta (immaginatela come una specie di legge di Lavoisier dell’economia), e quindi il prodotto contabilmente uguaglia la spesa, e siccome i soldi spesi dagli acquirenti privati e pubblici non finiscono in un vulcano, come nell’immaginazione di certi libberisti alle vongole, ma nelle tasche dei venditori e quindi dei produttori, la spesa necessariamente uguaglia il reddito. Ne consegue che ci sono tre modi per calcolare il Pil, e tutti e tre portano allo stesso risultato: come somma dei valori aggiunti dei singoli settori (lato produzione), come somma delle spese effettuate, distinte per categoria di acquirente (lato spesa o domanda che dir si voglia), e come somma delle retribuzioni percepite (lato reddito). Abbiamo illustrato questa equivalenza in dettaglio quando l’abbiamo utilizzata per spiegare il miracolo lettone (un miracolo con la “m” di massacro sociale, come tutti i miracoli “europei”).

Se avete capito questo (e molti, direi praticamente tutti fuori di qui, non lo hanno capito), non avete bisogno di molto altro. Il resto sono simboli che ci permettono di elaborare algebricamente questa tautologia (il prodotto venduto è prodotto comprato) conferendole un minimo di valore ermeneutico, assistendoci cioè nell’interpretazione delle traiettorie macroeconomiche.

Si parte dall’idea che il prodotto-reddito-spesa è la “variabile dipendente” del sistema macroeconomico, e quindi le si attribuisce il simbolo matematico della variabile dipendente, Y. Questo Y, che è il Pil, può essere espresso come somma della spesa delle famiglie per Consumi, delle imprese per Investimenti, del Governo per l’erogazione (e quindi lato utente il consumo) di servizi pubblici, del settore estero per il nostro eXport, che è acquisto di nostri beni da parte di residenti esteri. Ovviamente dovremo sottrarre dalla nostra produzione-reddito-spesa la spesa in beni iMportati, perché si tratta di acquisto da parte nostra di beni che sono stati prodotti, e quindi hanno generato reddito, altrove.

Discende da qui l’identità risorse-impieghi:

Y = C + I + G + X – M

un banale dato contabile che solo un cretino potrebbe contestare (scaturisce direttamente dalle definizioni della grandezze macroeconomiche), ma di cui solo persone istruite riescono a cogliere tutte le implicazioni.

La principale deriva dalla definizione di risparmio, che altro non è che la differenza fra quanto le famiglie guadagnano (Y) e quanto consumano (C+G):

S = Y – C – G

con la “s” di saving (risparmio in inglese).

Ricordandoci quella magia algebrica che va sotto il nome di regola del trasporto, possiamo riscrivere l’identità del Pil così:

Y – C – G – I = X – M

e sostituendo la definizione di risparmio arriviamo dove ci serviva di arrivare oggi:

S – I = X – M

L’eccedenza (deficienza) del risparmio nazionale sugli investimenti nazionali deve essere identica all’eccedenza (deficienza) delle esportazioni sulle importazioni.

Questa semplice verità contabile ci assiste nell’interpretare alcuni fatti macroeconomici rilevanti. Ad esempio, come abbiamo più e più volte ricordato, se un Paese è in surplus estero, cioè esporta più di quanto importi, necessariamente si verificherà almeno una delle seguenti tre cose:

  1. o le sue famiglie consumano relativamente poco (quindi C è relativamente basso e S relativamente alto);
  2. o lo Stato fornisce una quantità relativamente ridotta di servizi pubblici (quindi G è relativamente basso e S relativamente alto)
  3. o le sue imprese (e il suo settore pubblico) investono poco (quindi I è relativamente basso).

Insomma: se X è maggiore di M, S deve essere maggiore di I, e questo risultato lo si ottiene o facendo crescere S o facendo scendere I. Non c’è nulla di magico! Semplicemente, se quel Paese i beni che produce li consumasse lui (e quindi avesse un C e un I alto), non ne avrebbe da esportare. Il mercantilismo (orientamento di politica economica che consiste nel darsi l’obiettivo di massimizzare le esportazioni) è necessariamente repressione relativa della spesa interna (di famiglie o di imprese, pubblica o privata). Dico relativa perché finché dura, cioè finché l’estero compra, può benissimo darsi che nel Paese mercantilista i consumi relativamente bassi (rispetto al reddito nazionale) delle famiglie siano relativamente alti rispetto ai consumi di altri Paesi (ma questo non necessariamente allieta le vittime di simili politiche).

Una delle cose che è stato più difficile far capire ai cialtroni autorazzisti nostri gentili interlocutori è stata che il relativo successo della Germania in termini di conti con l’estero, cioè il suo surplus estero strutturale, dipendeva da una sostanziale repressione degli investimenti. L’idea che la Germania fosse in surplus perché avendo fatto importanti investimenti aveva acquisito una superiore produttività che le consentiva di vendere prodotti a prezzi inferiori era fallace. La fallacia anche qui era nel manico, cioè nel concepire la produttività come un fenomeno di offerta (secondo l’idea ingegneristico-neoclassica del processo produttivo) anziché di domanda (secondo l’idea economico-smithiana-keynesiana del processo produttivo). Non mi dilungo su queste distinzioni, di cui ho parlato ad esempio qui. Sul perché il ragionamento non fili si può discutere, e non è detto che sia una perdita di tempo: qui mi limito ad ribadire che il ragionamento platealmente non fila in quanto la Germania non è stata il campione europeo di investimenti. 

Avevamo evidenziato questa semplice verità dieci anni or sono, in questo post, da cui è tratta questa immagine:

che mostrava come nel periodo di gestazione della grande crisi del 2008-2011, prima dell’arrivo dell’austerità “che fa crescere”, la Germania fosse stata il fanalino di coda degli investimenti europei. 

Come sempre, quelli bravi c’erano arrivati un pochino dopo. Ci vollero cinque anni perché Bruegel mettesse in relazione il surplus estero tedesco con la debolezza degli investimenti tedeschi:

ma naturalmente nemmeno questo servì a estirpare la malapianta dell’autorazzismo piddino: i poveri piddini tuttora vivono nell’illusione di essere splendide eccezioni in un failed State popolato da Untermenschen (voi), un Paese per colpa vostra (certo non loro!) incapace di uguagliare i traguardi di disciplina (e quindi di oculatezza e di produttività) delle Panzer-Divisionen tedesche.

Traguardi che ieri, con una tempistica un po’ sfortunata (per la Fondazione per la sussidiarietà), venivano così eloquentemente illustrati dal Times:

Eh già! Sarà anche vero quello che ci diranno in autunno i sussidiaristi (che in tempi non sospetti hanno dato attenzione al blog che non c’era, motivo per valutare con attenzione i loro argomenti):

(e sarà anche interessante vedere se su quali dati basano le loro analisi e quanto siano disposti a risalire la catena delle cause), ma il fatto è che in conseguenza del grafico che vi ho fatto vedere nel 2013 la situazione nel 2023 è questa:

Gli Svizzeri sono costretti a rifiutare l’accesso alla loro rete ferroviaria ai treni tedeschi perché questi sono in sistematico ritardo e quindi sconvolgono il traffico (e la puntualità) delle Ferrovie Federali Svizzere: un risultato pessimo, quello delle ferrovie tedesche, peggiore di quello delle FS (rectius: di Trenitalia), che invece riesce ad accedere alla rete svizzera con relativa puntualità e senza sconvolgerne il traffico (apprezzerete anche la definizione britannica di piddini: foreigners seduced by stereotypes of German superiority).

Secondo il Times il problema nel 2023 è ovviamente (lo ribadisco) quello che vi evidenziavo nel 2013 e che non poteva non manifestarsi a tempo debito (le logiche della scienza economica sono ferree):

Ci siamo soffermati a lungo su quanto fossero fuori luogo i peana levati dai nostri ascari all’indirizzo di una persona che ha trasformato l’Eurozona nel buco nero della domanda mondiale (la signora Merkel). Dalla sua scomparsa alla sua demonizzazione (cioè al ristabilimento di un minimo di verità storica) sono passati pochi mesi: della Merkel, come di Monti, oggi nessuno, tranne qualche autentico deficiente, rivendica di aver tessuto le lodi, perché oggi si manifesta come incontrovertibile quanto vi dissi illo tempore (nel 2011) sul Manifesto: la Germania stava segando il ramo su cui era seduta. Certo, questa semplice verità (X-M = S-I) aveva un corollario: tutti noi eravamo, e siamo, seduti su rami più bassi (e infatti ora la recessione tedesca ci sta frenando, esattamente come il ritardo dei treni tedeschi sta rallentando i treni svizzeri).

Va da sé che una rete infrastrutturale non si mette (o rimette) su in un giorno, né in un giorno o in un anno si smantella. Per questo i brillanti risultati del mercantilismo tedesco (cioè dello spingere X-M tagliando I) si vedono oggi. Ma non è che non ci fossero stati segnali eloquenti già ai tempi: ricordate ad esempio la storia dell’aeroporto di Berlino?

Nove anni di ritardi e corruzione, che però, essendo alemanna, supponiamo sia stata corruzione benigna, come certe pericarditi.

Mi sembra tuttavia che il ritardo sistematico dei treni tedeschi, considerati ormai meno affidabili di quelli italiani dagli svizzeri, sia il miglior QED del post che scrivemmo dieci anni or sono.

Resta, prima di lasciarci, da espletare un ultimo doveroso compito, in questo che, pur non esistendo, è l’unico organo di informazione del nostro desolato e amato Paese: aggiornare i dati. La Germania è ancora il fanalino di coda degli investimenti in Europa? Ovviamente no, e il motivo dovreste intuirlo. Per illustrarvelo vi riproduco con i dati odierni (tratti da qui) il grafico di dieci anni fa, con le medie 1999-2007, e il suo aggiornamento, con le medie 2008-2022:

Com’è ovvio, la stagione dell’austerità ha compresso gli investimenti dei PIGS, che quindi sono scesi in graduatoria, facendo risalire la Germania. Osserverete però che gli investimenti tedeschi non sono aumentati, in rapporto al suo Pil, e si presume quindi che siano sempre relativamente insufficienti: sono invece diminuiti quelli dei PIGS, che certamente sono diventati insufficienti. Qui in Italia la copertura politica a questa operazione l’ha data il PD, che ora, nel suo consueto stile, incolpa “le destre”…

Due brevi considerazioni.

La prima è che il titolo del Times è tutto sommato compatibile con le analisi della Fondazione per la sussidiarietà. Certo: se ci limitiamo agli ultimi dieci anni, largamente coincidenti con quelli dell’austerità, è chiaro che rileveremo in Italia un livello di investimenti relativamente compresso. Sarà interessante vedere se il rapporto della Fps attribuisce questo dato a congiunzioni astrali o a scelte politiche che hanno un nome e un cognome: PD. La seconda è che la leadership europea, a trazione tedesca, ha scientemente tentato di ridurre l’Italia come la Germania. Del resto, le identità valgono per tutti, anche per noi, ed è quindi ovvio che l’esplosione del nostro surplus estero, di cui parlavamo qui, evidenziandone le catastrofiche conseguenze geopolitiche, anche da noi si sia tradotta in un taglio degli investimenti (non essendo certamente dovuta a un incremento dei risparmi, data la stagnazione dei redditi!), col conseguente degrado della qualità delle infrastrutture. Se questo degrado arriverà al livello di quello tedesco lo sapremo fra qualche anno, ma tenderei a credere di no. Non mi aspetto fra cinque o sei anni titoli del Times sui ritardi italiani che bloccano i treni svizzeri, ma come tutte le affermazioni del blog che non c’è anche questa è un’affermazione scientifica, cioè falsificabile.

Basta avere pazienza, e io ne ho tanta.

Suggerisco anche a voi di dotarvene.

Sarà mia cura cercare di dimostrarvi che ne vale la pena, ma in ogni caso… TINA! Nel prossimo post vi aiuterò a fare di necessità virtù…

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“QED 104: “Quando c’era lei i treni non arrivavano in orario!”” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

La grillanza

 (…dalla periferia dell’impero ricevo e pubblico…)

Ciao, Alberto.

Augurandoti una buona pausa estiva (se riuscirai a ritagliartela) volevo sottoporti una riflessione sulla grullanza/grillanza che ormai sembra aver contagiato tutti in materia di stipendi. Il povero Fassino, che parlò in mal punto, è stato travolto dagli strali dei suoi stessi compagni ormai schiavi del proprio schema retorico autoreferenziale. Ora io penso che sia difficile smontare le critiche con argomenti razionali perché ci sono idioti che partono dal presupposto, talora inespresso, che i “loro” soldi (ma poi bisogna vedere se effettivamente pagano le tasse dirette) non devono essere usati per pagare i politici e che anche un euro sarebbe troppo. Tuttavia loro non sanno che i “loro” soldi vengono usati, indirettamente, per pagare ad esempio i calciatori. I comuni infatti garantiscono in Italia a tutt’oggi la quasi totalità delle strutture sportive utilizzate dalle squadre di calcio, spesso dietro richiesta di canoni di concessione veramente esigui, come anche numerose norme sono state negli anni adottate a livello nazionale per garantire l’atterraggio morbido a società sportive fallite o per allontanare lo spettro dei fallimenti, per non parlare infine del fiume di denaro pubblico speso per ogni partita di campionato e non solo per la sicurezza e l’ordine pubblico: se le squadre di calcio dovessero contribuire economicamente a tutto questo non potrebbero pagare gli stipendi che pagano in Italia e forse non sopravviverebbero neanche un mese… Per non parlare poi del settore dello spettacolo che è forse il più assistito in assoluto, tra quelli a gestione sostanzialmente privata. Tutti i maître-à-penser, tipo Gassman o Moretti, sono convintissimo che abbiano la maggior parte delle proprie scritture in produzioni sovvenzionate (film o spettacoli teatrali) o che girano per teatri e cinema sovvenzionati, se non direttamente pubblici: vorrei verificare ma non ho tempo né capacità di giornalista investigativo. So che un grillino DOC direbbe che tutti costoro dovrebbero morire di fame, ma non so se gli andrebbero dietro tutti gli anti-casta opportunisti che si stanno accanendo sul povero Fassino: in fondo tutti hanno i propri circoletti e lo stato, le regioni, i comuni o gli enti parapubblici sono presenti ed elargiscono sostanzialmente in tutti i settori, ma stranamente poco se ne parla. Ecco, penso che una volta tanto dovremmo scendere al livello di questa gente e (pur sapendo di aver ragione) ribattere non sul punto ma cambiando argomento e chiedendo conto della provenienza dei redditi di molti dei loro beniamini se non, in alcuni casi, di loro stessi. Il che ovviamente non necessariamente comporta che si pensi che tali redditi vadano tagliati…

(…certo che il problema di reagire alla grillanza senza scatenare una race to the bottom è di difficile soluzione, perché l’essenza della grillanza è la race to the bottom: abbassare gli stipendi alti strappa l’applauso – ed è doppiamente regressiva, sia in senso politico che distributivo – rispetto all’innalzare gli stipendi bassi! Il brodo di coltura della grillanza è l’odio, ce lo siamo sempre detto, l’odio e la diffidenza. Colpire il nemico appaga più di aiutare l’amico, soprattutto se di amici non ne hai, magari semplicemente perché non ne meriti. Insomma: quello che rende difficile gestire la grillanza è la sua diversa, autolesionistica e meschina, umanità. Abbassarsi al loro livello è un presupposto per ingaggiare la loro attenzione, per aprire un dibattito, ma significa anche perdere in partenza. Lo dico in un altro modo: si tratta di un caso in cui usare la forza dell’avversario senza farsi del male richiede uno sforzo di creatività in più. Comments welcome…)

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“La grillanza” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

“Io prega Allah per te!” (avvelenare i pozzi)

(…scrivo nel brusio suscitato dalle grillate dei grillini, riprendendo un tema già sviscerato qui, e in numerosi altri contributi…)

Ieri mi ero alzato alquanto sversato. Il cerino della DG (discussione generale) sulle comunicazioni del ministro Fitto era rimasto in mano a me, e non avevo avuto tempo di mettere la testa se non superficialmente sulla risoluzione di maggioranza, ad adjuvandum della quale (da deputato di maggioranza) sarei intervenuto. In buona  sostanza, mi ero limitato a controllarne gli impegni:

accertandomi che non contenessero roba tipo strage dei primogeniti, patrimoniale, case verdi, lockdown climatici, o simili (del Governo mi fido, ma il mio lavoro è controllarlo)!

D’altra parte, il pomeriggio precedente era stato dedicato all’esame degli ordini del giorno, ridondante liturgia della Camera bassa, sicché di tempo per “fare il tecnico” ne avevo avuto poco. Così, avviando l’automobile, mi chiedevo di cosa avrei parlato, come sarei intervenuto in un dibattito che secondo me non ci sarebbe proprio dovuto essere, per almeno due motivi. Intanto, perché il PNRR non sarebbe proprio dovuto partire: la corretta linea di intervento, anche secondo il mainstream, era questa, ma come al solito, sotto l’urgenza di una crisi, l’Europa aveva “fatto un progresso” proponendo con l’etichetta del PNRR il vino vecchio del BICC, una proposta tedesca che era stata puntualmente respinta al mittente per anni, semplicemente perché esponeva (come oggi ben si vede) a un livello indebito e irrazionale di ingerenza delle burocrazie europee nel processo politico nazionale. In secondo luogo, perché il dibattito attuale si basava largamente sul nulla, su una serie di fake news riprese dalla grande stampa, cui secondo me non si sarebbe nemmeno dovuto rispondere, e alle quali controbattere era desolante, anche perché solo una assoluta malafede poteva sostenere l’argomento dei “tagli”, e a me l’esercizio di confrontarmi con chi mente sapendo di mentire sembra un po’ sterile.

Al solito semaforo, il solito ambulante, credo pakistano, o afghano (non ho mai avuto tempo di approfondire questa, come infinite altre cose…), che tutte le mattine mi vede parlare da solo (le dirette Facebook itineranti…), e rispetta la mia follia, questa volta, vedendomi trasognato, si para sotto e mi chiede di aiutarlo perché a Roma non è rimasto più nessuno. La cosa meno inutile che avesse da offrire erano gli accendini, che come sapete sono dotati di vita propria e tendono a sottrarsi al controllo del proprietario. Me ne dà tre o quattro, gli do un pugno di euro, e lui mi ringrazia e mi saluta: “Grazie, tu brava persona, io prega Allah per te!”

Mi allontano, riconfortato da queste parole affettuose (per così poco!), applicando la scommessa di Pascal: considerando che proprio non sapevo a che santo votarmi per il mio intervento, l’idea che qualcuno invocasse su di me la benevolenza del vertice supremo delle tre grandi religioni monoteiste mi rassicurava. Sotto l’usbergo di cotanto protettore, decido in aula di dire quello che penso (male non fare, paura non avere), e il risultato lo vedete qui:

Fino a qui, a parte la palettata di ghiaino che mi sono tolto dalle scarpe, saremmo rimasti nella norma. Ma poi è apparsa la mano di Allah:

(o sarà stata quella dell’ufficio stampa?) e la matrix ha avuto un altro glitch: una semplice verità (il PNRR è stato usato dalla sinistra per avvelenare i pozzi) è passata al Tg1 e al Tg2, a pranzo e a cena (che a qualcuno sarà andata di traverso):

Il testo lo trovate, come al solito, sul mio canale Telegram.

(…e ora perdonatemi ma devo passare ad altro…)

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“”Io prega Allah per te!” (avvelenare i pozzi)” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

810 mesi di inflazzione

(…seguito della puntata precedente…)

Qualche giorno fa qualcuno di voi su Twitter, citando questo articolo di una rivista specializzata:

mi ringraziava cortesemente per essere, come dire, arrivato preparato all’argomento, avendo sentito parlare di razzi e piume su questo blog un anno fa, nella puntata precedente di questo post. Lettore cortese, quindi, cui faccio però notare che qui di “razzi e piume” si parla da molto, molto prima, direi almeno dal famoso “benza paper”, concepito nel 2013 e pubblicato nel 2015. C’è più roba in questo blog, cari lettori, di quanta possa sognarne la vostra filosofia, ma mi rendo conto che proprio per questo il tempo per leggerle manca.

In ogni caso, la citazione mi ha ricordato che era tempo di tornare su uno dei nostri argomenti preferiti, l’inflazione (che nei titoli definiamo inflazzione per individuare i cretini su Twitter). Come sapete, sta scendendo. Vi do intanto il grafico “nudo e crudo”:

poi quello assistito con due rette: una pari all’inflazione del giugno 2022 (in arancione), e una pari all’inflazione dell’ultimo giugno (in grigio):

Parlando di razzi e piume, queste due rette ci mostrano che in dodici mesi siamo passati dall’inflazione di gennaio 1986 a quella di aprile 1986 (quattro mesi). Attenzione però! Questo non significa che la discesa nell’ultimo anno sia stata più lenta di quella sperimentata negli anni ’80. Significa solo, come si vede benissimo nel grafico, che quando a giugno scorso gli esperti mi dicevano compunti “Eh, ma ora l’inflazione scenderà perché è vicina al picco!” avevano ragione, salvo per il trascurabile dettaglio che il picco sarebbe poi stato raggiunto a ottobre (cioè qualche mese dopo quando se l’aspettavano loro). Insomma: fra gennaio 1986 e aprile 1986 la strada fu tutta in discesa. Nell’ultimo anno è stata prima in salita e poi in discesa.

Può allora essere interessante valutare se i nove ultimi mesi di discesa dal picco siano in qualche modo nel solco delle esperienze precedenti. La tabella qui di seguito elenca i principali picchi precedenti, il calo assoluto dell’inflazione nei mesi successivi, e il calo percentuale:

Come è facile intuire, il calo assoluto dell’inflazione è correlato positivamente all’entità del picco (cioè: più sali in alto, più scendo in fretta). Se fossimo calati dal picco dell’ottobre scorso alla velocità assoluta sperimentata dopo il picco di novembre 1974 saremmo al 3.6% di inflazione. D’altra parte, la correlazione con la diminuzione percentuale dell’inflazione è più debole, ma inversa: più alto è il picco, meno rilevante (in media) il calo in termini percentuali. Per mettere un po’ di ordine in questi dati ve li rappresento come diagramma a dispersione:

Premesso che non c’è una correlazione fortissima (la nuvola è molto dispersa), la situazione attuale è rappresentata dal puntino rosso. Rispetto all’entità del punto di partenza, la percentuale di diminuzione dell’inflazione è superiore alla media. Insomma, la piuma questa volta sembra essere più “pesante” (o per meglio dire più aerodinamica).

Non so se sia del tutto una buona notizia. Forse va letta insieme alla notizia del giorno. Ma di questo dovremo necessariamente parlare dopo. Ora devo lasciarvi causa TG.

Buon proseguimento.

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“810 mesi di inflazzione” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Ego-ansia e lotta di classe

Quando questo blog che non c’era, e quindi non poteva promuovere un certo tipo di dibattito, non muoveva i suoi primi passi, non aveva (non esistendo) dei lettori attenti. Purtuttavia, non leggendo i commenti che non vennero scritti all’epoca dai non lettori, si intuisce che essi avevano l’antiquato costume di leggere approfonditamente e ipertestualmente gli articoli che non venivano scritti. In altre parole: cliccavano sui cazzo di link e approfondivano. (Non) ne scaturivano dibattiti interessanti, e (non) ne germinavano infiniti QED.

Peccato! Ora che quei bei tempi (non) andati si sono dissolti, sta a me strisciare con l’evidenziatore le cose che non riuscite a vedere, verosimilmente perché accecati dal pregiudizio di essere sur blogghe der senatore da ‘a Lega. Invece siete, anzi, non siete, in un posto un po’ diverso, anche se quanto sto per illustrarvi non vi convincerà, ma solo perché non esistete.

Il patetico siparietto della wannabe attrice di cui tanto si è parlato è in effetti il QED dell’ultimo post, laddove vi riferiva di un interessante contributo di Jonathan Haidt, Thomas Cooley Professor of Business Ethics (tradotto come “leadership etica”) a NYU Stern (l’università di Roubini, per quelli che invece credono che questo sia un blog di economia). Questo breve ritratto vale a placare gli imbecilli del “principio di autorità”: 104677 citazioni e un h-index di 95 per uno psicologo non sono male, altrimenti, peraltro, non se lo sarebbe caricato un’università che vuole attrarre “clienti” facoltosi.

Premesso che non trovo del tutto convincenti le conclusioni di Haidt (ma non essendo di sinistra sono aperto a discuterle, o almeno non provo il compulsivo bisogno di abrogare articoli della Costituzione per impedire che se ne discuta, e magari potremmo discuterle insieme), salta abbastanza agli occhi che il siparietto della wannabe è una delle tante manifestazioni di un fenomeno che Haidt documenta con una impressionante serie di dati, e che dà il titolo al suo pezzo:

“Per quali motivi la salute mentale delle giovani donne di sinistra è crollata per prima e più in fretta”.

(…per i cretini: lo so anch’io qual è la traduzione letterale di to sink, grazie, passate a trovarci…)

Prima di addentrarsi nei motivi, è importante avere un’idea della scala del fenomeno. Basta arrivare alla figura 1 per capire di che si tratta:

Una chiave diagnostica di questi risultati è nei primi due paragrafi del saggio, che descrivono la brusca inversione a U fra l’inizio del secolo, in cui gli studenti dei college americani sembravano ancora interessati a lottare per affermare la propria libertà di espressione, e l’inizio del secondo decennio del secolo, in cui gli studenti chiedevano a gran voce che le voci libere venissero censurate perché non urtassero i loro sentimenti:

Insomma, nei college si stava affermando una sorta di terapia cognitivo-comportamentale (CBT, cognitive behavioral therapy) inversa, dove a quelle che la psicologia riconosce come distorsioni cognitive da affrontare (lateralizzando) veniva data dignità di norma etica: il catastrofismo, il manicheismo, il ragionamento emozionale (cioè il primato dell’emozione, dell’ego, sul ragionamento, sulla capacità di astrazione). Ora, visto che gli ambienti in cui si forma la loro personalità assecondavano o addirittura promuovevano gli abiti mentali che i terapisti ti aiutano a spogliare per uscire dalla depressione, non è strano che più o meno a partire dall’inizio del secondo decennio di questo secolo negli USA esplodesse fra i giovani un’epidemia di depressione.

Non so se sia appropriato, ma non riesco a non vedere in questa idolatria dell’ego una fase acuta del politicamente corretto, dove dal rispetto per i sentimenti di alcune minoranze vocal (che messe insieme fanno una maggioranza che mette in minoranza la maggioranza silenziosa) ci si spinge per disaggregazioni, o meglio per disgregazioni, successive al rispetto e all’idolatria dei sentimenti individuali tout court, in parallelo, se vogliamo, con quel processo di “atomizzazione” della società descritto da filosofi a noi cari come Michéa. Questo ci darebbe (forse) una chiave interpretativa rozza, ma non insensata, del perché la percentuale di sciroccati sia sensibilmente superiore fra i giovani e soprattutto le giovane “de sinistra”. Di quest’ultimo fenomeno Haidt fa un’analisi molto più raffinata, che vi invito a leggere.

Trascuro qui l’importanza dei social nell’alimentare queste distorsioni (resterebbe infatti da capire come mai i luoghi del pensiero accademico non intendano alimentare un pensiero critico verso le dinamiche social, ma anzi sembrino assecondarle), e il loro ruolo (secondo Haidt) nello spiegare la distribuzione per sesso del disagio psicologico.

Fatto sta che la sintesi proposta da Greg Lukianoff (un coautore di Haidt) contiene elementi utili per aiutarci a capire quanto sta succedendo (sul perché stia succedendo credo che sia più utile Michéa). Parlando dei ggiovani nel 2013 (quelli che ora sono nei loro trent’anni, e allora erano nei loro vent’anni) Lukianoff ci mostra come essi avessero abbracciato tre grandi non-verità:

Ora, quale idea è più “disempowering” (scoraggiante) del claimeitcieng? Un processo, per come viene raccontato, tale da ottundere doppiamente il senso critico e la capacità di astrazione: da un lato, perché le dimensioni del fenomeno, così come vengono raccontate, sono tali da derubricare a futile qualsiasi risposta che non sia meramente emozionale e isterica (etimologicamente), dall’altro, perché le cause del fenomeno, così come vengono raccontate, sono tali da originare un gigantesco senso di colpa tale da annichilire qualsiasi reazione non sia meramente emozionale e isterica (etimologicamente).

Insomma: Gramsci esortava a studiare (rectius: a istruirsi, perché allora si parlava ancora di istruzione, non di educhescion). L’accoppiata reverse CBT e climate change oblitera il pensiero gramsciano in modo più radicale ed efficace di quanto non abbiano provato, senza molto successo, a fare le carceri fasciste.

Ma nel patetico siparietto della wannabe io vedo in realtà due elementi, uno negativo, e uno positivo, che caratterizzano il nostro dibattito.

Il primo, quello negativo, è il nostro provincialismo, il nostro essere un Paese trainato e non trainante in termini di elaborazione concettuale. Non è una novità: da giovane ricercatore studiavo con divertimento il lag temporale intercorrente fra quando un articolo “pionieristico” (il modo in cui gli idiot savants accademici definiscono un articolo metodologicamente innovativo) veniva pubblicato su rivista internazionale e quando lo stesso articolo veniva scimmiottato su dati italiani dagli ascari di Bankit (che all’epoca non faceva solo propaganda, ma anche ricerca, con un ritardo di fase di circa due-quattro anni sulla letteratura internazionale). L’ego-ansia arriva oggi qui all’attenzione del pubblico con ben sedici anni di ritardo rispetto agli Iuessèi: sedici anni in cui di là se ne sono investigati i motivi e i pretesti, le ragioni e i torti, e se ne è esplorato il contesto generale, in un dibattito di cui qua sopra vi ho fornito un piccolissimo saggio, e che apparentemente è ignoto alle Marie Antoniette di sinistra (“Non possono entrare in centro? Vadano in auto elettrica!”):

tutte intente alla sublime ed appagante arte del complimento a vicenda:

Poi però c’è il lato positivo. Il fatto che qui per inscenare il siparietto si sia dovuto coinvolgere un’attivista/attrice ci lascia intendere che qui da noi i giovani hanno (forse) problemi più cogenti e sono (forse) ancora in grado di dare risposte meno emozionali. Lo sono in massima parte i giovani che vedo io, che l’ego-ansia la curano, come me, così:

ribellandosi alla prima delle tre grandi untruth:

e raccogliendosi sotto simboli oscenamente divisivi. Ma lo sono, in generale, tutti i giovani che vedo sempre più desiderosi di istruirsi e di partecipare.

Ricorderete che la mia scelta di militare politicamente a destra coincise con la constatazione che la sinistra aveva ormai smarrito qualsiasi barlume di coscienza di classe. Del resto, nel dibattito ero entrato, prima ancora di fondare il Dibattito, perché mi aveva particolarmente colpito, tredici anni fa, il commento di una giovane virgulta che su sbilanciamoci mi accusava di “complottismo” semplicemente perché avevo espresso l’idea che le istituzioni formali fossero in gran parte determinate dall’esito dei rapporti di forza prevalenti (e quindi, banalmente, che istituzioni come l’UE, volte essenzialmente a promuovere l’indiscriminata circolazione dei capitali, fossero un segno del fatto che la lotta di classe l’aveva vinta, appunto, il capitale). Era già chiaro allora che questi avessero perso la bussola, anche se non era chiaro come ora che oltre alla bussola avrebbero perso la Trebisonda.

Alla giovane wannabe che ci informa dei suoi dubbi circa l’opportunità di procreare in un mondo così ostile e così popolato da brutte perZone (quorum ego) io vorrei solo chiedere una cosa. Le vorrei chiedere se si rende conto che il testo da lei interpretato con così tanta convinzione è uno spot a favore di chi vuole ri-orientare il nostro sistema industriale in un senso imperialistico e neocolonialistico, le vorrei chiedere se oltre alla pietà per il suo bambino che forse non nascerà mai (ma io mi auguro di sì) prova anche un po’ di pietà per i bambini del Congo che, appena nati, vengono sepolti nei giacimenti di coltan, vorrei chiedere se ha una qualche idea del perché le popolazioni dell’Africa, che oggi la sinistra ha eletto come “ultimi” e come “oppressi”… dal climate change (!) non riescano a emanciparsi, e di quanto una strategia industriale tutta elettrico e distintivo in realtà li condanni a un ruolo di subalternità per i lunghi decenni a venire.

Ma anche solo per capire queste domande la giovane dovrebbe staccarsi dal telefonino, e leggere magari un paio di libri senza figure. Non chiamateli comunisti. Magari lo fossero! I comunisti studiavano. Poi, in alcune fasi acute, impedivano agli altri di esprimersi. Questi non studiano, e la negazione della libertà di espressione per loro è un fatto cronico.

Ci vorrebbe più ideologia, ma l’ideologia presuppone, nel bene e nel male, il superamento dell’egolatria. 

Invece, come questo post invece ha cercato di chiarirvi, l’egolatria è stata accortamente incentivata colà dove si puote (a Ovest), costruendo a tavolino una generazione di utili idioti, affinché l’ideologia non fosse da ostacolo a quelli che vogliono orientare il mondo a immagine e somiglianza dei propri conti economici.

E le Marie Antoniette applaudono, ignare delle lezioni della storia…

(…con l’occasione, vi ricordo queste parole definitive sull’eco-anxiety e sul suo legame strutturale con la woke culture:

e che, per inciso, ci illustrano come la lotta di classe sia ormai appannaggio della destra…)

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“Ego-ansia e lotta di classe” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Le narrazioni catastrofistiche e i loro limiti

Mi sembra del tutto evidente che dietro la strategia comunicativa gretina ci sia un pensiero: la volontà di invocare uno stato d’eccezione perenne, ma soprattutto l’intenzione di arroccarsi su un registro emozionale, tale da non ammettere repliche. “Ma come, non vedi? La foresta brucia! La vecchietta muore! La collina frana! Il fiume è secco! Il fiume straripa!”

Una vera alluvione di punti esclamativi, e per chi non se ne lasci travolgere c’è l’arma fine di mondo: la reductio ad Hitlerum.

Pare sia roba codificata nei libri de gliScienziati (ad esempio qui, ma quando questo blog funzionava la bibliografia la scrivevate voi!). I danni che una simile comunicazione può fare sulle menti più fragili e su quelle in formazione sono oggetto di specifiche indagini, su cui non ci soffermeremo (a meno che non lo desideriate: ma allora dovreste contribuire voi, non è quello il mio campo di indagine). Fatto si è che la comunicazione catastrofistica, soprattutto quando a farla sono degli sfigati, è a forte rischio di backfire:

(qui).

Intanto, se per attirare l’attenzione su un fenomeno di lungo periodo si enfatizzano episodi transitori, come in questo caso, è facile prevedere che poi le previsioni degli sfigati non si avvereranno, e si regredirà verso qualcosa che forse non è, ma comunque sembra la normalità:

come notavo oggi: abbiamo di fronte a noi i dieci giorni più normali degli ultimi credicimila anni

Il picco a 48 gradi (o anche a 43 a Roma) semplicemente non si è visto, come mi era stato abbastanza facile prevedere: i giornali non hanno perso credibilità, perché non l’avevano; la feccia gretina nemmeno, per lo stesso motivo; alcune eventuali analisi serie, ove ci fossero, e certamente ve ne saranno, anche fra le non censurate dal mainstream, l’avrebbero però persa e questo per colpa di chi? Per colpa di quattro scemi che continuano a gridare “al lupo! al lupo!” per biechi motivi di bottega politica!

Poi c’è un altro dato: le balle, quando sono così platealmente tali (per il modo emozionale con cui vengono diffuse) spingono a porsi delle domande. La prima domanda che mi sono posto, da essere umano che pensa agli altri esseri umani, è: ma se qui fanno 48 gradi, in Africa quanti ne faranno? Sessanta? Così, da qualche mese tengo monitorate le temperature delle principali capitali subsahariane. Fatelo anche voi, è molto istruttivo! Considererete come merita l’idea della “migrazione climatica” messa in giro da quattro cialtroni poco a loro agio con la geografia. Per inciso (cioè per la feccia gretina) non sto ovviamente dicendo che il Sahara sia un giardino di delizie. Sto dicendo che nei centri urbani in cui tende ad addensarsi la maggior parte della popolazione che poi arriva qui (cioè quella abbastanza ricca da poter violare le norme sull’immigrazione ricorrendo ai costosi servigi dei mercanti di carne umana) le temperature oggettivamente non sono il principale push factor. Ad Abuja, capitale della Nigeria, per dire, ora fanno 24 gradi esattamente come qui, e la massima annuale è intorno a 37 (come capita di avere a Roma). Quindi se vengono qui i motivi (leciti o illeciti, rispettabili o sordidi, giustificabili o ingiustificabili) sono altri, sono di natura sociale e politica, e il tentativo di ricondurli a cause “oggettive”, fisiche, o meglio geofisiche, sfruttando l’ignoranza delle persone, non è esattamente indice di limpidezza di intenzioni, cari burattini dei cinesi!

D’altra parte, se si astrae dalla frenesia con cui le tante adolescenze irrisolte che infestano i social corrono ad appropriarsi della propria veritah da difendere usque ad effusionem sanguinis, e ci si pone dal lato del decisore politico, cioè di una persona che invece di cercare la propria felicità nella contemplazione narcisistica della veritah che porta in tasca deve cercare la felicità altrui facendo scelte corrette, non c’è modo di uscire dal trilemma di Borghi, secondo cui ciò cui assistiamo:

  1. o è normale, e quindi non richiede particolari interventi eccezionali;
  2. o è eccezionale ma riconducibile a cause non antropiche (geologiche, astronomiche, ecc.), e quindi non c’è modo di contrastarli;
  3. o è eccezionale e riconducibile a cause antropiche, ma allora la strategia consistente nel rivolgersi a beni prodotti in Paesi molto meno attenti di noi all’ambiente (come la Cina, che fa rima con feccia gretina) sarà controproducente: produrremo più CO2 di quanta supponiamo di eliminarne.

E quindi?

E quindi il problema non si risolve con l’isteria della feccia gretina, con la distruzione del nostro tessuto industriale che inciderebbe per meno dell’1% sul totale mondiale di emissioni, ma con strategie di mitigazione (gestione del territorio, riforestazione, invasi, ecc.) che sarebbero comunque opportune e che sono state peraltro interrotte dall’austerità, cioè dall’altro grande driver di deflazione e di distribuzione regressiva del reddito prima del green (fenomeno dal quale qui, come al solito, vi avevamo messo in guardia con larghissimissimo anticipo, inutilmente…). Dietro a questa roba, inutile ricordarlo, ci sono sempre i soliti noti: l’asinistra e gli ortotteri. Ma questo sarete anche stanchi di sentirvelo dire: è forse l’unica cosa che sono riuscito a farvi capire, probabilmente perché la sapevate già.

Buona notte!

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“Le narrazioni catastrofistiche e i loro limiti” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Der Saboteur

(…i ppdm ci hanno – relativamente – appassionato perché erano nostri amici che ci hanno deluso. Questa è invece una storia di gpdm nostri nemici, che, loro, non ci deludono mai!…)

Eh già! Come più volte, da un anno a questa parte, vi ho segnalato, l’Italia sta andando bene, anzi, meglio:

Per farvi capire, ad ottobre il Fmi ci dava al -0.2%, come potete facilmente verificare qui. In dieci mesi la revisione al rialzo è di 1.3 punti percentuali. Not bad! Inutile attardarsi in considerazioni sul Regno Unito: anche a giulaio (July) 2023 la Brexit sarà una catastrofe il mese, anzi, l’anno, anzi, il decennio prossimo! La previsione 2023 ora è 0.4, a ottobre 2022 era 0.3, come andrà realmente a finire il 2023 lo sapremo nel 2024, ma in effetti per saperlo basta rileggersi questo.

In Crucchigia dicono che questo dipende dal fatto che siamo un Paese ad alta intensità turistica:

(tourismusstark). Sicuramente muoversi fra Camera e Senato è diventato piuttosto complesso, anzi, come dicono i coglioni: sfidante (perdonatemi questo momento Elkann)! Tuttavia, il quadro fornito dall’ISTAT è un po’ più sfaccettato. Sicuramente nel primo trimestre di quest’anno il Pil è stato trainato dai servizi:

ma attribuire tutto al turismo è un po’ semplicistico. Tuttavia qualcuno ci crede, o fa finta di crederci, e si regola di conseguenza:

mettendo in opera un goffo tentativo di sabotaggio che in altri tempi avrebbe verosimilmente indotto a convocare l’ambasciatore per chiedere spiegazioni, ma di questi tempi provoca solo una risata. C’è una disperazione tragica, e una disperazione ridicola.

Avete voluto il megasurplus? E ora godetevene le conseguenze!

D’estate vi dà fastidio il caldo? Andatevene in montagna: ne avete anche a casa vostra, mi dicono!

Certo, venire a Roma a luglio (quando tutti sanno che il periodo migliore è ottobre) non è cosa molto intelligente. E siccome noi rispettosamente non possiamo dubitare dell’intelligenza di un alleato, dobbiamo concludere che non sia stupido ma furbo.

Nice try, che però non funzionerà perché mentre l’economia tedesca era solo gas a buon mercato e altre forme di dumping, l’economia italiana è anche qualcos’altro.

Besten Wünsche für eine baldige Genesung!

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“Der Saboteur” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Negazionismo

Prima (e quando dico prima, dico dieci anni fa) hanno chiamato negazionisti quelli che criticavano le regole “europee”.

Poi hanno chiamato negazionisti quelli che dicevano che gli antinfiammatori potevano essere di aiuto contro il COVID.

In entrambi i casi i fatti hanno dato ampiamente ragione ai cosiddetti “negazionisti”.

Quelli che, per malintesi interessi di bottega politica, in qualche caso senz’altro per volgare corruzione pecuniaria, nella stragrande maggioranza dei casi per congenita stupidità, essendo alla parte del torto, avevano tentato e magari erano anche riusciti a tacitare le voci altrui, brandendo come una clava argomenti di una violenza verbale indegna, tale da coprire di disdoro perfino una causa giusta (figuriamoci una sbagliata!), oggi, parecchie decine di migliaia di morti dopo, sono ancora lì, e chiamano “negazionista” chi fa notare come la “pan-elettrificazione”, con contestuale distruzione del nostro tessuto industriale e asservimento alla Cina, non solo non sia risolutiva, come i dati ampiamente dimostrano:

ma sia anzi controproducente, per il modo in cui viene propugnata, poiché comporta una violenza inaudita alle viscere della Terra per l’estrazione delle materie prime necessarie, e un inquinamento su scala mai sperimentata per la loro raffinazione.

L’inquinamento, l’ormai mitologica “ci zero due” di cui parlava in aula un collega che per carità di patria non nomino, non viene affatto azzerato, ma moltiplicato, per allontanarlo dagli occhi delle Marie Antoniette della sinistra, in un empito neocoloniale di sfruttamento che seminerà ulteriore degrado economico e politico in Paesi che invece sarebbe nostro interesse aiutare a crescere in modo dignitoso ed equilibrato.

L’auto elettrica è la nuova brioche: il simbolo di una strategia che si qualifica come un fallimento annunciato, dato che tutte le materie prime necessarie, come ben sappiamo, semplicemente non ci sono, o meglio, visto che questo è un blog di economia: non ci sono ai (già elevati) prezzi attuali.

Ma le Marie Antoniette, che poco sanno di economia, quasi nulla di fisica dell’atmosfera, e assolutamente nulla di storia (che in teoria sarebbe la materia più semplice da affrontare!), ci raccontano che loro hanno ragione, e noi siamo i cattivi:

perché ci opporremmo alla “giustizia sociale”, che, come tutti sanno, consiste nel mandare minorenni congolesi in gallerie pericolanti a raspare terre rare con le unghie, nel costringere operai e artigiani a comprarsi un’auto elettrica al triplo del costo di un’auto convenzionale, e più in generale nel condannare i lavoratori dipendenti a vivere in un mondo di persistenti tensioni inflazionistiche, in assenza dei presidi di tutela del potere d’acquisto che qui da noi la sinistra ha giulivamente smantellato (e altri Paesi europei, come il Belgio, hanno mantenuto).

La soluzione della sinistra esaspera l’ingiustizia sociale e le disuguaglianze, questo è nei fatti e tutti lo vedono, ma che importa, in un mondo in cui le più elementari funzioni logiche sono evaporate, in cui le arti della dialettica sono state accantonate, logorate dalla propria inutilità? E in effetti, a che serve argomentare, se per chiudere qualsiasi discussione basta ricorrere a un vecchio classico: la reductio ad Hitlerum?

Come sapete, tendo a essere ottimista.

Volendola buttare in politica, constato che con una sinistra così debole in termini intellettuali, così ridicola, così classista, la destra ha davanti a sé un potenziale di espansione notevole: basta che ne sia consapevole e si regoli di conseguenza, evitando di addentrarsi nel dibattito teologico sulle cause, per limitarsi a constatare che le soluzioni proposte sono platealmente sbagliate e pericolose per la maggioranza degli elettori.

L’aggressione della sinistra alla maggioranza ha un costo: lasciamo che lo paghi!

Qui, però, nel blog che non c’è, possiamo anche astenerci dalla logica della tifoseria, che lasciamo agli idioti, o meglio, per dirle tutta: ai porci irrispettosi della memoria di gravi fatti storici che abusano di un termine che andrebbe rispettato (quello di negazionismo).

Se usciamo da questa logica, allora dobbiamo dirci che la deriva scientista da cui vi avevo messo in guardia per tempo (e credo che a nessuno di voi all’epoca fosse chiaro il perché), l’incapacità diffusa ed elevata a sistema di condurre un dialogo in forme diverse dall’annientamento dell’avversario (prima inteso come delegittimazione, ma poi, subito dopo, fatalmente, come annientamento fisico: carcerazione come nella boutade del collega Bonelli, da non sottovalutare perché prelude alla soppressione…), quella volontà di delegittimazione sistematica che si era palesata quando iniziò la sacra crociata contro le fake news (cioè contro il Dibattito), tutto ciò punta in un’unica direzione: quella di un nuovo, pericolosissimo, rigurgito totalitario, quella di un nuovo nazismo, il nazismo dei buoni, ça va sans dire, sostanzialmente identico, nelle motivazioni e nei risultati, a quello dei cattivi.

Questa cosa non può e non deve lasciarci tranquilli.

Consola il fatto che gli elettorati del Nord la stiano respingendo in modo esplicito. L’abbandono di Timmermans è indicativo: un disperato, estremo gesto difensivo di chi sta precipitando, non più sorretto da una corda che ha tirato troppo. Ma qui da noi non c’è da star tranquilli. Quello che più preoccupa è la pervicacia con cui la sinistra cerca, in base a paralogismi tanto assurdi da risultare seducenti per menti in formazione, di mettere i figli contro i genitori. I genitori avrebbero rubato il futuro ai figli perché hanno ottenuto la pensione con cui li mantengono, e avrebbero rubato “il clima” ai figli perché hanno ridotto le emissioni rispettando tutti i target europei degli ultimi decenni! Questa sozza e turpe sobillazione del figlio contro il padre, del fratello contro il fratello, questo sotterraneo ma insistito richiamo alla guerra civile, questo elogio esplicito della delazione e della discriminazione, purché, beninteso, a danno dei cattivi: questo preoccupa, e questo è oggi la sinistra, come tutti vedono: un abisso di degrado logico e morale.

Si salvano i pochissimi che da quelle parti, deposti da tempo interessi di bottega, si guardano intorno smarriti, e senza aver il coraggio di trarre le conseguenze da ciò che si trovano intorno, hanno però la lucidità di interrogarsi su certe dinamiche.

La sinistra guarda indietro, e da ogni secolo prende il peggio: riesuma dalla pattumiera della Storia lo scientismo positivista, la Santa Inquisizione, il principio di autorità, tutto quanto l’orgoglio luciferino ha sussurrato, nel decorso del tempo, alle orecchie delle menti deboli per esortarle a obliterare la propria e l’altrui umanità rifugiandosi nell’illusoria certezza dell’essere sicut Deus, dell’essere detentori della Verità. Ma le verità di cui disponiamo noi uomini sono, per definizione, verità umane, e quindi, per definizione, politiche. Del resto, gli stessi cretini che “Lascienza non è democratica” sono anche quelli che “è vero perché lo dice la maggioranza de Gliscienziati”! Quindi la politicità intrinseca alle verità umane, il loro essere per definizione punto di sintesi di un dibattito, è riconosciuta anche dagli stessi cretini che la negano, e non in quanto la negano (non sono così raffinati!) ma in quanto dopo averla negata l’affermano!

La conseguenza ovvia è che chi preclude il dibattito ragliando di negazionismo preclude il conseguimento di una verità condivisibile.

Quanto alle Verità metafisiche brandite da poracci che per lo più esulano dal proprio settore disciplinare, in cui magari hanno h-index risibili, o peggio ancora da scemi che non hanno mai, cioè mai, né superato né gestito un processo di peer review, e che quindi la scienza non sanno letteralmente che cosa sia, quelle Verità ovviamente non sono oltreumane: sono subumane. L’aggressione da parte di queste scimmie urlatrici, quelle accademiche come quelle laiche, ha ormai raggiunto l’intensità di una vera e propria minaccia esistenziale, ma la nostra unica speranza di prevalere è avvinghiarci ai pilastri della democrazia e sfuggire alle sirene del ragionamento emozionale. Non voglio pensare a che cosa potrebbe accadere se ci abbassassimo al livello di certa gente: eppure molti, troppi di voi lo fanno, quando contrappongono al “grafico risolutore”, al Trigramma ecologista dei gretini, il proprio “grafico risolutore”, magari quello che descrive gli ultimi credicimila mijoni di anni di storia di una cosa su cui se va di lusso abbiamo forse qualche decennio di dati omogenei!

Lateralizzare, lateralizzare…

L’esempio più recente di quanto può accadere se non ci si riesce non ha nemmeno un secolo: i nazisti, secondo loro, erano i buoni. Lo erano (e tuttora lo sono) anche i cattolici, secondo loro. Non credo occorra aggiungere altro: lateralizzare conviene, credetemi!

Estote ergo prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbae.

(…e ci sarà un motivo se da anni vi ricordo queste parole del Vangelo, consegnate a chi, come voi, doveva muoversi in un terreno difficile, ma, forse, più libero di quello su cui ci è stato assegnato dal destino di combattere…)

(…dieci anni fa la pubblicista Cadonetti non era in circolazione, l’economista Tribordi guardava con solerzia il cancello, e il giurista Lasagna dirimeva crisi condominiali. Noi eravamo qui e affrontavamo esattamente gli stessi problemi che vi ho descritto in questo post. Rispetto ad allora la consapevolezza sembra – dico sembra – più diffusa, e se fosse assistita dall’esperienza di chi ha già visto succedere tutto questo molti, molti anni prima, magari questa consapevolezza potrebbe anche aiutarci nell’imprimere alla SStoria un diverso decorso. Magari…)

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“Negazionismo” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Dialogues des Carmélites

 (…ricordate l’imprenditore di sinistra? Ieri abbiamo avuto questo breve scambio, aspettando che il carro trainato dai professori di economic sociology ci conducesse al patibolo del politicamente corretto fra gli sghignazzi der Piccozzetta, la tricoteuse della rivoluzione verdese. Lui, l’imprenditore, ha voluto essere chiamato “Venditore di almanacchi”, e quindi chi vi scrive è un passeggere…)

Venditore di almanacchi: Curiosità 1. L’aria che inspiriamo contiene circa lo 0,04 % di CO2. L’aria che espiriamo ne contiene circa il 4%. In un mondo che ha scelto la CO2 come nemico, è un curioso fattariello. Bonus: un altro dei principali gas serra è il metano. Hanno già ripetutamente affermato che gli allevamenti sono da abbattere perché generano metano (500 litri al giorno per bovino). In sintesi: la vita produce CO2 e metano. Che volgarità.

Passeggere: Almeno la CO2 è inodore (il che la rende pericolosa).

Venditore di almanacchi: Curiosità2. Tutti vegetariani, quindi. Esistono dei cosi che si chiamano generatori di CO2. Sono utilizzati nelle serre. Perché le 350-400 ppm di CO2 in atmosfera vanno benino per le piante, ma 600-700 sono meglio per la fase vegetativa e 1000-1200 sono ottimali per la fioritura…

Passeggere: Non si fa così! Non lo sai che Panurgo [esponente di spicco del PD, NdCN] vuole meno CO2? Questo dimostra che, nonostante le malelingue, non è un ortaggio (io in effetti l’ho sempre trovato molto più reattivo di una lattuga).

Venditore di almanacchi: L’incoerenza apparente sparisce se ipotizziamo che per il carbonio vale quello che Cuccia diceva dei voti. Anche il carbonio si pesa, non si conta…

Passeggere: Vabbè, cazzo! E allora dillo che sei unabbruttaperzona…

Venditore di almanacchi: Fai così. Considerami iscritto d’ufficio a qualunque NOcoso nasca nei prossimi 10 anni.

(…ma come! Dov’è finita la sinistra critica e dissidente di cui oggi l’eterno secondo Ricolfi piange la fine in un editoriale che non ho tempo di ritrovarvi? Dove sono quelli che gnegnegneavano sul sedersi dalla parte del torto perché i posti dalla parte della ragione ecc.? Ora la parte del torto non esiste nemmeno più: è stata rasa al suolo, e quindi i piddini, porelli, sono costretti a sedersi dalla parte della ragione, della loro ragione, l’unica ammessa dai media. Poi ci sono i fatti, che hanno la testa dura, e uno di questi fatti, conseguentemente, è il NO ai media di cui parlammo tempo addietro. Fatemi dire però che mi stucca un pochino il pianterello di quelli che, con ottime ragioni, come Battaglia oggi sulla Verità, lamentano la censura climatica. Qui ne abbiamo viste di ben altre (aule negate, seminari cancellati, articoli censurati, interviste manipolate, ecc.), e loro all’epoca erano muti o distratti. Niemöller tutti lo citano (male, perché in realtà menzionano a vanvera Brecht) ma nessuno sembra averlo veramente capito.

La triste verità è che il mondo accademico-mediatico in toto qui non può sorprenderci, perché qui lo abbiamo visto dare il peggio di sé. Quanto si è visto in seguito era un pallido “di cui” di quanto qui avevamo già visto e subito. E il problema non è certo fare a chi ce l’ha più lunga, la censura, ma riflettere da un lato sull’incapacità del ceto intellettuale di attivare un minimo di anticorpi, e dall’altro sulle dinamiche intrinsecamente perverse, perché strutturalmente vocate al conformismo, del mondo accademico. Ma su questo c’è una cosetta che vorrò dirvi a parte…)

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“Dialogues des Carmélites” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Instant QED: l’elettrico e il carbonio

Qui:

Ora, farsi dare del negazionista da uno stronzo ci sta. Lo quereli, dopo di che te ne dimentichi. Ma farselo dare da un completo coglione è una cosa un po’ diversa: magari il giudice gli accorda il beneficio della seminfermità mentale! Perché credere che produrre un pannello solare non generi CO2, tanta CO2, è da completo cretino, da caso psichiatrico, come sono casi psichiatrici, pericolosi a sé e agli altri, tutti quelli che vedete ragliare di “green” in giro per i social senza alcuna considerazione sul ciclo di vita dei prodotti che vogliono venderci, e quindi di quale ne sia il beneficio ambientale complessivo in termini netti.

Ma a questo tipo di “ragionamenti”, qui, ci siamo abituati…

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“Instant QED: l’elettrico e il carbonio” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Dieci motivi per non ratificare la riforma del MES (edizione illustrata)

Riprendo qui, commentandolo e corredandolo degli appropriati disegnini, il decalogo che Claudio ha fatto su Twitter e che vi invito a leggere, cuorare, rituittare e condividere con qualsiasi mezzo e in qualsiasi sede disponibile, perché un milione di visualizzazioni e migliaia di like sono una cosa che in likecrazia un suo peso ce l’ha.

Va da sé che i ppdm faranno tutt’altro: ma loro giocano un’altra partita (e saranno sconfitti dalla vita anche in quella).

1) Ratificare la riforma significa approvare specificamente tutto il Trattato, comprese le sue parti più assurde, fatte votare da Monti a un distratto Parlamento nell’estate del 2012.

(…la riforma del MES venne approvata il 19 luglio del 2012 con un breve passaggio parlamentare di sei giorni in seconda lettura alla Camera. L’iter lo trovate qui. Il relatore in Commissione fu il presidente Dini, la discussione sostanzialmente inesistente, anche perché resa oggettivamente complessa dal fatto che veniva condotta congiuntamente su tre atti distinti, di cui solo due formalmente collegati: il ddl n. 2914 di ratifica ed esecuzione della Decisione del Consiglio europeo 2011/199/UE che modifica l’articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea relativamente a un meccanismo di stabilità per gli Stati membri la cui moneta è l’euro, fatta a Bruxelles il 25 marzo 2011; il ddl n. 3239 di ratifica ed esecuzione del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria tra i Paesi dell’UE ad eccezione della Repubblica ceca e del Regno Unito, fatto a Bruxelles il 2 marzo 2012; e il ddl n. 3240 di ratifica ed esecuzione del Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità (MES), con Allegati, fatto a Bruxelles il 2 febbraio 2012. Il primo era il presupposto del terzo – bisognava modificare il TFUE per dare un minimo di base giuridica al MES, ma il secondo, il Fiscal compact, avrebbe meritato una discussione a parte. Tuttavia, indovinate un po’? Bisognava fare presto!

La Lega votò contro, come risulta dal resoconto sommario, e dallo stenografico, da cui vi offro l’incipit della dichiarazione di voto finale sul MES, contraria:

[il resto lo trovate nello stenografico]. Già queste poche righe evidenziano come in fondo nel dibattito non sia cambiato assolutamente nulla: siamo schiavi del provincialismo denunciato all’epoca da Garavaglia, un provincialismo figlio di una lurida madre, l’ignoranza degli ordini di grandezza, e di un fetente padre, l’odio del PD verso il proprio Paese. Tra l’altro, la confusione e confusionarietà della discussione nascondeva, fra l’altro, il principale problema del Fiscal compact, che non era tanto la sostanza [che come vi ho detto era già incorporata nel Six pack], quanto la forma, questa:


cioè il recepimento in Costituzione del “pareggio” di bilancio, di cui non v’è traccia nella nostra discussione dell’epoca, e che sarebbe stato realizzato successivamente, a dicembre, con la legge 243/2012 [dove il “pareggio” divenne “equilibrio”…]. Dettaglio interessante, uno di voi, Riccardo, dava per fatta a luglio una cosa che invece sarebbe stata fatta a dicembre. Non c’è che dire, ne sapete una più del diavolo… oppure tirate semplicemente a indovinare!…)

2) La riforma del MES peggiora uno strumento già famigerato perché figlio degli interventi di austerità contro la Grecia. I paesi UE vengono divisi fra “buoni” e “cattivi”. L’Italia è, guarda caso, fra i cattivi.

(…che cosa i “salvataggi” abbiano fatto alla Grecia lo abbiamo documentato qui:


e non credo ci sia molto da aggiungere: per forza nessuno ha voluto “er MES pandemico”! Di una cosa che ti porta dalla quart’ultima all’ultima posizione nella graduatoria del reddito pro capite come minimo puoi pensare che porti sfiga! Viceversa, per apprezzare la simpatica innovazione consistente nella divisione in buoni e cattivi dei Paesi potenziali destinatari può esservi utile consultare il testo a fronte del Trattato riformato – una chicca per intenditori, riservata ai lettori del blog che non c’è. Il punto rilevante è questo: 


cioè il testo riformato del primo comma dell’art. 14, laddove stabilisce, per l’accesso all’assistenza finanziaria precauzionale, il rispetto di requisiti di ammissibilità, che vengono poi successivamente dettagliati nell’appendice:


dove il testo a fronte manca, per la semplice ragione che prima della riforma la divisione fra buoni – quelli che rispettano i parametri di Maastricht – e cattivi non c’era! Si potrebbe argomentare che questa divisione in buoni e cattivi in realtà non riveli intenti maliziosi e offensivi nei riguardi del nostro Paese, in quanto all’interno dei folcloristici parametri di Maastricht ormai sono rimasti in pochi:


e non esattamente i più rilevanti – oltre a essere “cattivi”, come i polacchi! Tuttavia, dal mio specifico punto di vista, questo non cambia nulla, ma anzi per un verso rafforza l’argomento, e per un verso è una circostanza laterale. Rafforza l’argomento, perché, prendendo per buona la narrazione autorazzista piddina, se neanche gli Übermenschen ariani riescono a rispettare certi limiti, vuol dire che questi limiti sono palesemente assurdi, e non è su assurdità simili che si può fondare un progetto politico solido. D’altra parte, queste considerazioni sono laterali rispetto al vero problema, che non è erdebbitopubblico, come qui dovreste ormai aver capito, ma quello privato, cioè la situazione delle banche, e per i salvataggi bancari, come vedremo dettagliatamente, non è richiesto il rispetto 
dei criteri di Maastricht da parte del Paese in cui la banca risiede: quindi la Germania – e la Francia – potrebbero effettivamente salvare le loro banche coi nostri soldi, che poi è lo scopo del loro gioco – e di quello del loro agente locale: il PD…)

3) Il MES potrà intervenire nei salvataggi delle banche (nota bene, non dei risparmiatori perché prima va fatto il bail-in) e non si può decidere di non farlo. Se una grande banca tedesca o francese va in crisi il MES interviene e i soldi degli italiani verranno usati per pagare i suoi creditori.

(…dicevamo appunto! La novità principale della riforma è questa: l’impiego del MES come sostegno [backstop] del Fondo di risoluzione unico. Attenzione: qui la parola chiave non è “sostegno”! Il MES era già uno strumento di sostegno alla stabilità finanziaria dei Governi, cioè, in parole povere, il suo intervento era previsto e codificato sotto forma di prestiti condizionati [come quelli del PNRR] a Paesi che avessero difficoltà a rinnovare il proprio debito pubblico sui mercati. L’innovazione è il sostegno al Fondo di risoluzione unico, e per apprezzarne il significato è indispensabile capire che cosa sia la risoluzione bancaria. Molto in sintesi, la risoluzione bancaria, secondo pilastro dell’unione bancaria disciplinato dalla Bank Recovery and Resolution Directive (BRRD), cioè dalla Direttiva 2014/59/EU del Parlamento e del Consiglio, è una procedura che disciplina i casi di dissesto bancario prevedendo che la necessaria ricapitalizzazione avvenga a spese dei creditori della banca – e quindi anche dei risparmiatori – secondo un preciso ordine di priorità che parte dagli azionisti e arriva ai depositanti [per i depositi superiori ai 100.000 euro]. Se e solo se queste risorse – cioè i risparmi – non sono sufficienti a ripristinare un livello di capitale accettabile per la prosecuzione dell’attività, la banca può attingere al Fondo di risoluzione unico o SRF [Single Resolution Fund], amministrato da un Comitato di risoluzione unico [Single Resolution Board], in questo momento diretto da un francese, Dominique Laboureix. Il fondo è stato costituito con contributi del settore bancario lungo un periodo di otto anni terminato appunto quest’anno. Il 7 luglio scorso ha raggiunto la consistenza di 77,6 miliardi di euro. Nonostante le apparenze, alla luce di recenti fatti di cronaca non è una cifra enorme, e questo motiva l’intenzione di affiancarle come meccanismo di “ultima” istanza il MES. Le virgolette però ci stanno: in analogia a quanto sosteneva Garavaglia nel 2013 con riferimento al sostegno al debito pubblico, in realtà anche l’affiancamento del MES al SRF non è risolutivo. L’unico vero salvatore di ultima istanza è la banca centrale. Se dovesse scoppiare una reale crisi sistemica, il ricorso alla BCE sarebbe inevitabile, e questo pone l’oggettivo tema politico di quanti sacrifici imporre a quali risparmiatori prima di fare la cosa giusta. Non sono io a dirlo: è il direttore del SRB al Financial Times:


Come vedete, Laboureix da un lato dice che “nella maggior parte dei casi” può farcela con le sue risorse, ma poi chiede, per assicurare un intervento tempestivo in tutte le possibili circostanze, che la BCE possa intervenire, cosa che nell’attuale ordinamento è impossibile. E, attenzione: non è scritto solo in un’intervista, che, anche se del FT, può travisare o strumentalizzare con la tecnica del “virgolettato” e l’alibi della “sintesi giornalistica”. Per inciso, ricordo che il FT è questa roba qui:


cioè roba da commedia all’italiana. Meglio non fidarsene troppo, quindi, ma c
he alla fine in caso di crisi si dovrebbe ricorrere alla Banca centrale, come in ogni Paese civile, è scritto anche in documenti ufficialissimi, come il Rapporto semestrale del Comitato di risoluzione unico all’Eurogruppo, nella cui ultima edizione si legge che:


ovvero che nel caso in cui ci vada di mezzo una GSIB (traduzione: Global Systemically Important Bank, ad esempio Deutsche Bank, o Société générale, ecc.) l’Eurosistema (traduzione: la BCE) dovrebbe intervenire.

Spero che così sia chiaro di che cosa stiamo parlando, e in particolare sia chiaro che stiamo parlando di una cosa che nella migliore delle ipotesi è inutile – perché in ogni caso alla fine deve intervenire la BCE – e che nella peggiore delle ipotesi serve a socializzare, prima dell’intervento della BCE, parte delle perdite di banche altrui. Con questo spiegone preliminare, passiamo a vedere in quali punti del testo riformato questa roba viene messa su. I passaggi principali sono nei considerando 5-bis e 15-ter, e nei (nuovi) articoli Art. 3.2, Art. 5.6 lettera g bis, Art 12 comma 1-bis, Art 18-bis, Art 20 comma 2 e Allegato IV. Gli interventi più corposi sono nel considerando 5.bis, che è interessante perché ci racconta che anche questa malapianta europea ha radici lunghe:

Il considerando 8-bis non ha testo a fronte – perché ovviamente essendo un “bis”, cioè una parte aggiuntiva, mancava nel vecchio Trattato – e ci rammenta che la bella idea di utilizzare il MES per il salvataggio delle banche è stata affermata il 29 giugno 2018 al Vertice euro in formato inclusivo. Per farvi capire, io ero Presidente di Commissione finanze da otto (8) giorni, mi stavo occupando di capire quale fosse il mio ruolo e di formare il mio staff, ma naturalmente la macchina andava avanti, la macchina va sempre avanti [e questo è uno dei motivi per cui è essenziale tenere coinvolti i colleghi delle legislature precedenti nei vari uffici di presidenza, e spiace molto che ci sia qualche pdm che polemizza anche su questo: solo con l’esperienza dei colleghi al corrente dei dossier si può sperare di evitare scivoloni pericolosi lungo il piano inclinato europeo: ma nel 2018 non avevamo questo patrimonio di esperienza cui attingere]. Il succo della questione è esposto dall’articolo aggiuntivo 18-bis del Trattato riformato:

Ripeto: è un articolo aggiuntivo (-bis), cioè tutta questa roba nel Trattato originario non c’era, ed è tanta, tantissima roba. Ho voluto darvene evidenza anche tipografica: sono centinaia e centinaia di parole aggiuntive, e il fulcro della riforma è qui, non fosse che per meri motivi testuali. Per completezza – e prima di ragionare sui contenuti – vi segnalo anche l’allegato IV, che descrive i criteri per l’accesso al meccanismo di sostegno “bancario”:


Anche qui, tanta roba. Gli altri interventi non sono bagatellari, ma dal punto di vista della tecnica legislativa prendono la forma dell’emendamento modificativo, perché sono più puntuali, e ve li riporto dopo. Ragioniamo intanto brevemente sui testi che vi ho riportato, per vedere come essi sostanzino l’affermazione del sornione Borghi secondo cui “Il MES potrà intervenire nei salvataggi delle banche (nota bene, non dei risparmiatori perché prima va fatto il bail-in) e non si può decidere di non farlo. Se una grande banca tedesca o francese va in crisi il MES interviene e i soldi degli italiani verranno usati per pagare i suoi creditori.”.

Partirei dalla fine. 

Il favor verso Germania e Francia emerge chiaramente dal fatto che l’accesso al “backstop” bancario non è soggetto a condizionalità macroeconomiche. Quindi, nonostante che anche il considerando 5-bis ricordi che “la condizionalità rimane uno dei principi di fondo del presente Trattato e di tutti gli strumenti del MES”, quando nell’allegato IV si definiscono i “Criteri di approvazione dei prestiti e versamenti tramite il dispositivo di sostegno” si evita accuratamente di citare i parametri di Maastricht o qualsiasi altra condizionalità di tipo macroeconomico, semplicemente perché se lo si facesse Germania e Francia resterebbero anch’esse fuori, con le loro banche farcite di asset illiquidi. Questo chiarisce che la riforma è tailor-made per il salvataggio delle loro banche

Quanto al fatto che, come dice il frettoloso Borghi, “prima va fatto il bail-in”, questo non andrebbe nemmeno specificato, è pleonastico se si parla di risoluzione, proprio perché come vi ho ricordato sopra citando le fonti (in particolare la BRRD), la risoluzione in re ipsa interviene solo dopo la tosatura dei risparmiatori. Tuttavia, pe’ nun fasse mancà ggnente, l’art. 18-bis al comma 9 lettera b (che ho riportato sopra ma vi metto qui in evidenza) ricorda che:

in modo che sia altresì chiaro che “non si può decidere di non farlo”. Precisazione inutile a chiunque sia familiar with the matter, cioè non agli europeisti e ai piddini, ma utilissima a chi volesse contestare ai piddini affermazioni del tipo “la riforma aiuta i risparmiatori”.

Quindi sì, il pigro Borghi ha pienamente ragione, ed è per questo che nonostante in Italia le merdacce non manchino, come abbiamo visto nel corso di lunghi anni, nessuno, dico nessuno, si è azzardato a contestargli questa affermazione che è puro vangelo…)

4) Il nuovo trattato MES scrive chiaramente che in caso di intervento sarà possibile prevedere un taglio del valore dei titoli di Stato in mano ai risparmiatori.

(…ci scostiamo un attimo per tornare all’eterno tema del #debbitopubblico. Sì, è così: il taglio del valore dei titoli è previsto, ma in effetti lo era anche dal Trattato precedente, e lo troviamo in particolare nel considerando 12:


La “partecipazione del settore privato” o PSI (private sector involvement) sta al debito pubblico come il bail-in sta al debito privato: sostanzialmente, significa che il risparmiatore-creditore del debitore pubblico deve accettare di farsi dare indietro meno soldi di quelli che ha prestato. In altre parole, il PSI è una ristrutturazione del debito, un default, un mancato rimborso, ed è su questo “considerando” che si appoggia l’affermazione che avrete sentito secondo cui lo scopo della riforma è quello di favorire il “default controllato” del Governo italiano mantenendolo (o per mantenerlo) all’interno dell’Eurozona. Notoriamente, questo è il sogno bagnato dei politici demagoghi e falliti del Nord (i “frugali”), quelli che finora hanno venduto ai rispettivi elettorati l’idea che noi fossimo la causa dei loro problemi, e che finalmente, per fortuna, adesso si sono suicidati proponendo ai loro elettorati l’idea che una soluzione fosse il green! Il default dell’Italia veniva anch’esso venduto come soluzione, ma è piuttosto ovvio che lo sarebbe ancor meno del green: comporterebbe una contrazione della domanda interna (perché ci sarebbe un effetto ricchezza negativo sulle famiglie), una serie di crisi bancarie (perché gli attivi di molte banche verrebbero tagliati proporzionalmente), con effetti di contagio anche sugli scemi che ci avessero voluto avviare su questa strada. Questo fatto è così evidente che perfino Giampiero Galli, uno dei tanti economisti di regime a basso h-index 
che ci vennero scagliati contro negli scorsi anni:


cioè uno gli antesignani degli attuali virologi (ma questo i punturini non lo sanno…), non può negarlo e pur fra goffe contorsioni logiche afferma con argomenti tutto sommato accettabili per un economista oggettivamente così poco qualificato (con solo tre pubblicazioni Scopus oggi un concorso non lo vedi neanche col telescopio Hubble) che il default non sarebbe una soluzione:


Per inciso: credo di poter dire che uno il cui h-index è un quinto del mio sia meno qualificato di me:

Ma non voglio rifugiarmi nel principio di autorità come un Prodi qualsiasi…)

5) Il nuovo trattato MES obbliga ad inserire nei titoli di Stato delle clausole (cosiddette CACS) che ne rendano più facile il taglio del valore.

(…la vera novità tossica in materia di debito pubblico, cioè il vero elemento nuovo che punta dritto verso l’idea di favorire il default controllato, in realtà è questa. Purtroppo è una novità un po’ tecnica, ma il tecnicismo non è inaccessibile. Intanto, partiamo dal testo:


Ecco qua: la novità è nel testo riformato del considerando 11. Per capire di che cosa si tratta – e anche per sovvenire ad alcune difficoltà causate dalla necessaria sintesi dell’eroico Borghi – dobbiamo tornare un attimo
back to basics. Quando si instaura un rapporto contrattuale, quale ad esempio un prestito, non è possibile per una parte violarlo senza incorrere in conseguenze legali. Anche nel famoso stornello romano, il “nun te pagamo” è preceduto da un “ci hai messo l’acqua”: al tribunale della fraschetta l’avventore contesta all’oste una violazione dei termini contrattuali (portare vino non annacquato) e in virtù di questa violazione come misura cautelare “nun paga” (per inciso, l’Italia sarebbe un Paese migliore se alla guida della Banca centrale nazionale ci fosse Lando Fiorini…). Quanto precede è per farvi capire che anche la bancarotta di uno Stato – cioè il default sul debito pubblico – esattamente come una procedura concorsuale privata deve essere assistita da un accordo fra il debitore – lo Stato – e il creditore – i privati, “coinvolti” loro malgrado. Capite così perché il Trattato riformato contenga un nuovo considerando, l’11-bis, il quale specifica che:

“Favorire il dialogo” aka “dimensionare il cetriolo per i risparmiatori”, tanto per capirci: ma il punto è che un accordo ci deve essere, perché altrimenti i creditori cui il Governo decide di restituire di meno potrebbero fargli causa con strascichi legali infiniti. Normalmente, quando c’è di mezzo un Governo, che di creditori ne ha uno stuolo, l’accordo fra debitore e creditori può prevedere che l’adesione a una ristrutturazione sia decisa con votazioni a maggioranza: se la maggioranza dei creditori è disposta a farsi dare poco, l’alternativa essendo il rischio di non ottenere niente e andare in causa, il debitore-Governo restituisce poco a tutti. Ovviamente c’è il problema dell’holdout: un certo numero di creditori può decidere di tenersi fuori dall’accordo per cercare di bloccarlo, il che intralcia il default, rendendolo più macchinoso. E qui si arriva al tecnicismo: la riforma del Trattato MES prevede che i titoli di Stato emessi dai Paesi membri comprendano delle Clausole di Azione Collettiva (CAC) a votazione singola (single limb), ovvero in cui l’accordo non viene preso titolo per titolo, ma sul complesso dei titoli emessi. Come è noto e come ci conferma autorevolmente la Bce queste CAC “rafforzate” minimizzano lo holdout problem e quindi facilitano il default controllato (il “taglio del valore”):

Si può discutere se facilitare il default sia una cosa buona o cattiva. Un precedente direttore del Tesoro cercò di convincermi che era una cosa buona: riuscì solo a convincermi che rinnovare lui sarebbe stata una cosa cattiva – una delle tante fatte da Draghi, by the way, ma evitata da Meloni. Spiaze. Però, buona o cattiva che sia (e ovviamente se è buona per qualcuno sarà cattiva per qualcun altro) l’adozione delle single-limb CACs è quella cosa lì: agevolare il taglio delle somme da restituire ai risparmiatori. Contestarlo è impossibile: lo dice la Bce, motivo per cui le merdacce stanno mute. Aggiungo un dettaglio, questo:

Il considerando 11-ter, un aggiuntivo presente solo nel testo riformato, insiste su un principio generale: il MES non può buttare soldi – e questo è pacifico – quindi può salvare solo Governi che abbiano difficoltà di accesso al mercato, che abbiano una crisi di liquidità, ma il cui debito sia sostenibile. Ora, il fatto che questi alti e nobili propositi siano stati ribaditi come aggiuntivi del considerando 11, quello sulle CACs, ha portato alcuni maliziosi a concludere che ad un Paese come il nostro, laddove fosse costretto ad accedere al MES per qualche motivo – e un motivo potrebbe essere la ratifica del MES, come vedremo sotto – potrebbe essere chiesto di fare default, cioè di non rimborsare parte del debito, proprio per renderlo sostenibile e potersi quindi qualificare per l’accesso al MES. Un simpatico circolo vizioso, come vedete…)

6) Se il MES fosse operativo, in caso di crisi sui mercati, vedi ad esempio durante la pandemia, la BCE non interverrebbe più lasciando invece azionare il MES con tutte le conseguenze del caso.

(…questa affermazione va un po’ qualificata, perché messa così rischia di essere fuorviante. Vi ho spiegato sopra che questo è uno dei tanti casi in cui l’arma degli ordoliberisti, il TINA -There Is No Alternative – si rivolge contro di loro. Se scoppia un problema serio, TINA! Non c’è alternativa al ricorso alla BCE. O meglio: l’alternativa c’è (cit.) ed è che salti tutto per aria. Quindi l’alternativa non c’è. Qui, dove non abbiamo esigenze di sintesi come nel cesso azzurro, riformulerei nel modo seguente: la presenza del MES fornisce il pretesto per ritardare, scaricando inutili sacrifici sui cittadini dei Paesi che si intendono tosare, l’inevitabile intervento della BCE. Questa illusione ottica vale in realtà anche per il MES attuale, ma il MES riformato la amplifica per motivi che dovrebbero esservi chiari se siete giunti fino a qui…)

7) Il MES diventerebbe una specie di “agenzia di rating” con il potere di decidere sulla sostenibilità o meno del debito. In pratica potrebbe causare una crisi dichiarando a suo piacimento che un debito è insostenibile.

(…la base fattuale di questa affermazione si aggancia al considerando 11-ter, che abbiamo appena visto. I popoli fregàli (sic) giustamente non intendono investire soldi per tener su una “zombie economy”, e quindi nella loro illuminata concezione il MES non può sostituirsi ai mercati laddove il debito pubblico di un Paese sia comunque insostenibile. In termini astratti il principio è condivisibile: prolungare un’agonia o risolvere un problema non sono esattamente la stessa cosa, anzi, si potrebbe pensare che siano due cose esattamente opposte. Le intenzioni quindi sono buone, ma naturalmente in economia non ci sono pasti gratis. A questo considerando si agganciano in particolare due pezzi di testo riformato: l’art. 3 comma 1:


che stabilisce fra gli obiettivi del MES anche quello di valutare la sostenibilità del debito pubblico dei suoi membri, e l’art. 13 comma 1 lettera b del testo riformato:


che stabilisce che una volta ricevuta una domanda di sostegno alla stabilità il MES deve valutare la sostenibilità del debito pubblico del Paese richiedente. Ora, qui bisogna fare attenzione, perché il tema è piuttosto sottile. Innanzitutto, è vero che il MES avrebbe fra i suoi compiti quello di assegnare una sorta di rating agli Stati membri. Tuttavia, per capire bene quali conseguenze questo fatto possa avere, dobbiamo anche interrogarci su quali siano gli scopi dichiarati e quelli reali del MES. Lo scopo reale è quello di mettere il nostro Paese sotto memorandum, cioè di far decidere alla Troika come possiamo spendere i nostri soldi a casa nostra (uno scopo peraltro già largamente conseguito col PNRR, con l’unica differenza che nella valutazione del “memorandum” non è coinvolto l’FMI). Ma attenzione! Sotto memorandum ci vai se accedi al MES, e al MES puoi accedere solo se il tuo debito è sostenibile! Quindi per conseguire il loro lurido scopo, paradossalmente, gli istigatori del MES dovrebbero assegnare al debito italiano una patente di sostenibilità. Altro sarebbe se il debito venisse dichiarato insostenibile dal MES. Un giudizio simile scatenerebbe una tempesta ulteriore sui mercati – nella misura in cui questi ritenessero attendibile la valutazione di un simile organismo – ma precluderebbe l’accesso al MES! Ovviamente c’è un altro caso, il peggiore: quello in cui il MES dichiarasse insostenibile il debito italiano, scatenando una tempesta sui mercati, salvo ritenerlo sostenibile purché venisse fatto un “haircut”, cioè purché venissero tosati i risparmiatori. Siccome la legge di Murphy esiste, e lotta contro di noi, possiamo tranquillamente pensare che lo scenario sarebbe questo. Molto però dipende dalla correttezza del MES stesso, cioè dalla riservatezza con cui gestirebbe le proprie valutazioni di sostenibilità. In fondo, non è detto che ci debbano necessariamente essere fughe di notizie con esiti devastanti, no? Certo che no. Ma c’è un problema. Se ci fossero:
)

8) I dirigenti del MES, a fronte di questi poteri enormi (il direttore potrebbe chiederci il versamento del capitale impegnato, oltre centodieci miliardi in una settimana), sono esenti da qualsiasi giurisdizione (davvero, c’è scritto proprio così). Non gli si potrà far causa, non dovranno rendere conto a nessuno delle loro azioni, nessuna autorità può violare gli uffici del MES, i loro stipendi sono esentasse.

(…ecco: ad esempio se un dirigente del MES lasciasse trapelare un’informazione market sensitive come quella che – poniamo – il debito pubblico italiano sarebbe insostenibile, nessuna CONSOB e nessuna ESMA potrebbe fargli niente. L’unica corte cui adire sarebbe questa, nel cui verdetto non possiamo che avere fede, ma che ci lascerebbe alle prese con l’annoso problema dei tempi della giustizia.

Ma anche qui vediamo la base legale.

Il tema della richiesta di capitale è disciplinato dall’art. 9 del Trattato originale, che non è stata riformato, e si presenta così:


Le richieste di capitale sono di tre tipi e vengono stabilite da tre diversi organi decisionali (il consiglio dei governatori, il consiglio di amministrazione e il direttore generale): per evitare problemi coi piddini è opportuno addentrarsi un minimo nei tecnicismi.

Il consiglio dei governatori (board of governors), che è l’organo decisionale più importante, disciplinato dall’art. 5 del Trattato, è costituito dai ministri delle finanze dei Paesi membri (quindi per noi in questo momento partecipa il ministro Giorgetti) e presieduto dal presidente dell’Eurogruppo (quindi in questo momento da Paschal Donohoe) può chiedere in qualsiasi momento il pagamento del capitale non ancora versato assegnando un congruo termine di tempo – quindi non una settimana. Questa decisione deve essere presa “di comune accordo”, secondo l’art. 5 comma 6 lettera c:


quindi in linea di principio basterebbe l’opposizione di un Paese importante come l’Italia a ostacolarla.

C’è però un altro tipo di richiesta che non è sottoposta al vaglio di esponenti politici e deve essere onorata entro sette giorni, quella descritta dall’art. 9 comma 3: il direttore generale, quindi ora Pierre Gramegna, può richiedere entro il termine di sette giorni il versamento del capitale autorizzato non versato se questo è necessario a evitare che il MES risulti inadempiente rispetto ai prescritti obblighi di pagamento nei confronti dei propri creditori – cioè di chi ha prestato soldi al MES, che in quanto fondo si finanzia anche emettendo titoli sul mercato. Il capitale versato dagli Stati, cioè, viene posto a garanzia delle somme raccolte sui mercati. Una situazione in cui venga chiesto un contributo rilevante per salvare il fondo salva-Stati può sembrare paradossale, ma non è impossibile, altrimenti non sarebbe stata normata, e non è nemmeno implausibile se, come ci siamo detti, le dimensioni del Fondo sono comunque esigue rispetto all’ordine di grandezza che una crisi sistemica potrebbe assumere.

A questi grandi poteri, in contraddizione con quanto abbiamo imparato guardando l’Uomo Ragno, non corrispondono grandi responsabilità, anzi!

L’art. 35 stabilisce l’immunità dei funzionari del MES, e l’art. 32 comma 4 e seguenti un’altra interessante serie di prerogative:


Insomma: nessun tribunale di nessun Paese potrà mai perquisire alcun locale del MES per capire chi e perché avrà preso certe decisioni…
)

9) La soglia della maggioranza qualificata, 80%, usata per numerose situazioni, è calibrata in modo da lasciare fuori l’Italia (che “pesa” il 17% mentre Germania (27%) e Francia (21% 🙄) guarda caso hanno quote sufficienti per diritto di veto assoluto.

(…allora: su diritti di voto e maggioranze qualificate l’articolo rilevante è il 4, nei commi dal 4 al 7:

Come dice l’art. 4 comma 7, i diritti di voto sono pari al numero di quote assegnate, specificate nell’Allegato 2:


quindi, ad esempio, l’Italia ha 1253959/7047987 = 17,79% dei voti, il che significa che non può bloccare decisioni prese con la maggioranza qualificata dell’80%, ma può bloccare quelle prese con la maggioranza qualificata dell’85% (decisioni urgenti ai sensi dell’art. 4 comma 4). Le decisioni che l’Italia non può bloccare non sono banali, perché riguardano ad esempio la
governance del Fondo, cioè la scelta del Presidente e del direttore generale. In sintesi, questa struttura dei diritti di voto garantisce che il MES sarà sempre a trazione franco-tedesca, se pure con la possibilità per l’Italia di porre il veto su certe decisioni…)

10) Non è vero che si può ratificare ma non usare il MES. Una volta attivate le modifiche esse diventano direttamente impegnative, vedi salvataggi banche, e se l’Italia perdesse l’accesso ai mercati non ci sarebbe nessuna scelta possibile se non farne uso.

(…in effetti, una volta ratificata la versione riformata del Trattato ci si espone in re ipsa al rischio di essere chiamati a contribuire ai salvataggi bancari altrui, col simpatico paradosso che chi ci ha impedito, in nome della concorrenza, di salvare coi nostri soldi privati le nostre banche, ci imporrebbe, in nome della solidarietà, di salvare coi nostri soldi pubblici le banche altrui. Un boccone un po’ indigesto. Ma c’è di peggio. La funzione di “agenzia di rating” assegnata al MES potrebbe anche essere utilizzata in modo strumentale per suscitare allarme sui mercati circa la sostenibilità del nostro debito, con le qualificazioni che abbiamo fatto sopra. Se l’Italia perdesse l’accesso ai mercati, per consentirle di ricorrere al proprio sostegno il MES dovrebbe dichiararne il debito sostenibile, ma per non contraddire le proprie valutazioni sarebbe portato a imporre prima un haircut. Il rischio sostanziale è questo. Siamo troppo diffidenti? Può darsi, ma quando si tratta di “salvataggi” un minimo di diffidenza è di rigore, dati i precedenti. Vi ho spiegato qui per filo e per segno, il primo aprile 2015, che il valore del moltiplicatore keynesiano ipotizzato dal Fmi per definire le politiche di austerità in Grecia era totalmente implausibile, cioè che il Fmi sapeva che l’austerità avrebbe rovinato la Grecia. Tre anni dopo gli autori di quel bel risultato hanno confessato in diretta mondiale:


Sapevano che i moltiplicatori erano sbagliati, erano troppo piccoli, e che quindi gli effetti devastanti dei tagli alla spesa greca sarebbero stati sottostimati, ma sono andati avanti ugualmente, i volenterosi carnefici dell’austerità! Il mondo dei “salvatori di Stati” è popolato da questa antropologia: che abbiano h-index stellari o insignificanti (nella figura avete esempi di entrambi i casi), l’antropologia di questi mandarini è molto distante dalla comune accezione di umanità. Gente simile non ci offre, ahimè, nessuna garanzia, e mettere a sua disposizione i meccanismi perversi che vi ho documentato si rivelerebbe fatalmente un errore
…).

In sostanza il MES è uno strumento di dominio e di sottomissione, non porta NESSUN VANTAGGIO per l’Italia, meno che mai nella nuova  versione. 

Non va ratificato perché non è nell’interesse dell’Italia e la ratifica non è assolutamente un atto dovuto bensì un fondamentale passaggio nell’accettazione di un trattato.

Link utili

Il testo del nuovo trattato MES (ma è più utile il testo a fronte che avete qui).

Il tweet con le risposte di Borghi agli articoli pro MES dei media mainstream.

La spiegazione di Borghi della lettera mandata dal MEF alla commissione esteri sul MES (la mia spiegazione è un po’ diversa, se occorrerà ne parleremo).

La dettagliatissima pagina sul MES di Lidia Undiemi (che sarà al #goofy12).

Intervista sul MES del Prof. Alessandro Mangia, Professore Ordinario di diritto Costituzionale dell’università Cattolica di Milano.

Interventi di Borghi in TV, alla Camera, ancora alla Camera.

I post sul MES di questo blog.

(…dice: ci hai trascurato! Eh, sì, lo so! Ma una volta le dodici ore necessarie per scrivere un post tecnico come questo le trovavo in una giornata. Ora, se va bene, in dodici giornate. E venire qui solo per scambiarsi il buongiornissimo caffè non ha molto senso, ne converrete. Buona lettura e a presto…)

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“Dieci motivi per non ratificare la riforma del MES (edizione illustrata)” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Retorica

Studiare musica serve a capire che la stessa cosa può essere detta in modi diversi, ad esempio così:

o così:

Buona notte!

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“Retorica” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

La constituency (aka er teritorio)

Perdonate se vi trascuro: voi siete il mio collegio digitale, ma da quando è iniziato il cinema che sapete, e di cui vi avevo avvertito qui, io ho anche un collegio analogico, che come sapete coincide sostanzialmente con l’Abruzzo Citra, una entità amministrativa con 750 anni di vita propria, e quindi, capirete, con una forte identità, non così forte però da cancellare le identità delle tribù preesistenti: Marrucini, Frentani, Pentri (con una spruzzatina di Sanniti, anche se Canosa Sannita in realtà è nella Marrucina, ed è stata fondata nove secoli dopo la dissoluzione dei Sanniti). Diversi, ma uniti dal desiderio di difendersi da Roma, tant’è che in Abruzzo nacque la Lega (che poi andò a finire maluccio, a dimostrazione del fatto qui più volte attestato che “uniti si perde”), e in qualche modo in Abruzzo la Lega rinacque, se pure, come sapete, “a nostra insaputa”, cioè attuando un fine che non era parte delle nostre intenzioni dell’epoca.

Insomma, un collegio interessante, dove sono successe e succedono così tante cose che, per averne contezza, per apprezzarne l’insieme, richiedono distanza e prospettiva storica e geografica (quella distanza che non sempre gli autoctoni possono avere o acquisire). Ma poi, per assaporarle, occorre la vicinanza, cui i miei rappresentati non sono avvezzi, a quanto mi pare di capire. A molti di loro sembra strano che un deputato sia presente, partecipi, e in effetti è strano: è tanto strano quanto il fatto che un docente universitario faccia divulgazione, tenga un blog. Ma io sono strano. Né la presenza sul territorio (per un politico), né l’attività di divulgazione (per un accademico) sono funzionali ad una carriera più rapida e fluida, e questo lo so bene. Conoscete le vicende della cosiddetta “abilitazione scientifica”, e conoscete anche i miei due assiomi fondamentali sull’emendamento:

Assioma 1: nessun emendamento è a costo zero o “porta gettito”, altrimenti l’elettore non lo chiederebbe (atteso che il gettito per lo Stato sono soldi che escono dalle sue tasche).

Assioma 2: nessun emendamento porta un singolo voto (per il semplice motivo che quando le cose vanno bene il cittadino – con un qualche elemento di fondatezza – ritiene che ciò gli sia dovuto).

L’idea che la normalità (una strada senza buche, o un ponte che non crolla, ad esempio) non sia qualcosa che scaturisce spontaneamente dal fluido concatenarsi degli eventi, ma sia il risultato della diuturna guerra di trincea di qualcuno, questa idea, al cittadino, non viene in mente, anche se la sua stessa vita è così, la vita di ognuno di noi è così. Questo dipende un po’ anche da come raccontiamo, o meglio non raccontiamo, il nostro lavoro. Condividevo questa riflessione, che poi è una riflessione sui danni dell’antipolitica, con uno dei quattro sindaci che ho visitato nell’ultimo weekend, quello di Paglieta, dove ho assistito al raduno degli alpini, un’occasione per studiare la madre dell’economia, cioè la geografia (niente è tanto pedagogico quanto capire che seccatura sia il crollo di un ponte, ad esempio: e tra le tante lezioni apprese c’è anche quella sull’importanza dei sindaci, sentinelle del territorio, talvolta a costo della vita, come nel tragico ed eroico caso di Donato Iezzi: chiudere un ponte prima che qualcuno ci passi sopra in teoria a qualcuno sembrerà normale, ma in pratica richiede attenzione e sacrificio) e la sua figlia, la storia (una storia passata un po’ sotto silenzio, nonostante tanti atti di eroismo, e tanti atti di barbarie).

Mentre voi attendevate il post tecnico io viaggiavo per apprendere, e così da un altro sindaco, quello di Frisa, ho avuto una lezione privata di geologia, la madre della geografia, e quindi la nonna dell’economia e la bisnonna della storia, promossa dalla mia domanda su quanto il suo paese fosse esposto a fenomeni di dissesto (un pochino: alla strada da cui ero arrivato mancava un pezzo, e ho così imparato anche quanto costa rifare dieci metri di strada…). Ho appreso quello che in effetti potevo intuire, cioè che la Maiella una volta era una barriera corallina, come questa qui, e che la stratigrafia geologica risente dell’energia progressivamente più intensa del moto ondoso a mano a mano che il fondale emerge: perché a 500 metri di profondità il moto ondoso si avverte meno che sulla spiaggia, dove la risacca trascina i ciottoli, e da questo deriva, pensate un po’, che lo strato più superficiale, cioè l’ultimo a emergere, sia di materiale più incoerente (ghiaia, per capirci), mentre il più profondo di materiale fine che si è deposto in assenza di moto ondoso (argille). Ovviamente noi non possiamo ribaltare la geologia, e quindi costruiamo (da secoli) sull’incoerente: qualche volta va bene, qualche volta meno bene, anche perché le barriere coralline non emergono senza brontolare.

Ma prima ero stato da un altro sindaco, quello di Rapino, a tagliare un nastro: anche nel collegio reale, come in quello virtuale, ci sono momenti di festa ai quali fa piacere partecipare (e un altro di questi momenti di gioia mi è stato partecipato da uno di voi a Torino di Sangro, nella lecceta).

E prima ancora da un altro sindaco, quello di Silvi, reduce da una bella riconferma, per sapere come stava, e in che modo potessi aiutarlo (e anche per stare tre ore in spiaggia all’ombra a messaggiare con Matteo: il sole l’ho preso a Paglieta insieme agli alpini).

E poi a Francavilla al Mare, dove per tanti anni ho vissuto durante l’insegnamento, a incontrare il responsabile dei giovani del mio partito, assente giustificato dalla storia di questo blog, cui però tanti suoi coetanei hanno partecipato.

Ecco, funziona anche così. Si viaggia per apprendere, ma anche per far sapere che cosa è stato fatto, e che cosa si può fare ora, a Roma. Perché qualche progresso, rispetto a dodici anni fa, lo abbiamo fatto, nella conoscenza, nella comprensione, e nell’indirizzo della macchina. Non tanto quanto potremmo desiderare, ma molto di più di quanto potessimo ragionevolmente aspettarci.

E ora che ho approfittato di un provvidenziale rinvio della convocazione vi lascio e torno al mio lavoro, non avendovi detto nemmeno un quarto di quanto ho imparato in quattro giorni di “territorio”.

Fate i bravi, risponderò quando potrò.

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“La constituency (aka er teritorio)” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

QED 103: la pioggia di miliardi non è gratis!

Lo avevamo detto qui, ricordato qui, preannunciato qui, ed eccolo qui:

Mentre i coglioni commentatori superficiali continuano a parlare di #ingentirisorsedelPNRR gratuite (anzi: graduide, come capita di sentire), i fatti dimostrano che avevamo ragione noi. Se debito doveva essere, come ora quasi tutti capiscono:

lo si sarebbe dovuto fare quando costava zero, cioè subito, cioè nel 2020, cioè senza aspettare che l’elefantiaca burocrazia europea partorisse il PNRR (o meglio, che camuffasse da PNRR il vetusto e sgradito BICC). Non è stato necessario che, come temevo, scoppiasse una crisi finanziaria per mettere in difficoltà la raccolta di risorse sul mercato da parte della Commissione; è stato sufficiente che, come prevedevo, arrivasse un “Volcker moment” (impennata dei tassi per contrastare l’inflazione).

E quindi ora siamo al bivio, anzi: al trivio. Per pagare gli interessi sui suoi debiti (quelli che trasforma in nostri debiti trasferendoceli come PNRR) ora la Commissione potrebbe indebitarsi, o utilizzare risorse destinate ad altro (cioè tagliare altre spese), o mettere nuove tasse europee sui cittadini degli Stati membri. E siccome le prime due cose non si possono fare, la soluzione del trivio è trivial, cioè banale (non triviale, come traducono gli ignoranti economisti): tasse. Chi parla dei vantaggi finanziari del PNRR d’ora in avanti dovrebbe tenere conto di questo svantaggio, ma ovviamente non lo farà.

Solo per ricordare che la Veritah e la sua cugginetta (sic), la Raggioneh, non servono a nulla se non sono assistite dalla forza, e quella dovreste darcela voi, se non fosse che siete troppo furbi per fidarvi di uno che vi dice sempre prima quello che succederà dopo e che vi ha spiegato che cosa vuole fare e perché vuole farlo.

Ci deve essere un gran gusto nell’affidarsi a chi sai che vuole fotterti, o comunque a chi sai che non può impedirglielo, perché si è troppo furbi per rafforzare la squadra di chi ti spiega da dodici anni come ti stanno fottendo! Io non riuscirò mai a capirlo, ma è ovvio che quello limitato sono, appunto, io.

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“QED 103: la pioggia di miliardi non è gratis!” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

La scioccante storia dell’inflazione

Questa sera ero a cena con un funzionario importante. Si parlava del più e del meno, della cronaca e della storia, della tattica e della strategia. L’intonazione generale era: “dobbiamo mitigare i danni, perché tanto da questa storia non ne verremo fuori”. Io annuivo compunto: “certo, è così”. E intanto pensavo che, tornato a casa, vi avrei fatto vedere due o tre grafici che avevo disegnato per me, questa mattina, mentre mi annoiavo ad ascoltare le tonitruanti concioni dei nostri fieri oppositori.

La premessa di questi grafici è che, come credo sappiate, e come qualsiasi economista vi dirà, la tenuta di un’unione monetaria è direttamente connessa alla sua capacità di armonizzare i comportamenti degli Stati membri (la cosiddetta teoria  dell’OCA endogena con cui vi intrattenni fin dall’inizio). Il motivo è semplice: solo se tutti gli Stati membri sono simultaneamente in recessione, o simultaneamente in espansione, e hanno tassi di inflazione perfettamente allineati e convergenti, allora un’unica politica monetaria sarà efficace e non danneggerà almeno alcuni fra gli Stati membri. Altrimenti possono sorgere problemi: la politica monetaria rischierà di essere prociclica in alcuni Paesi, assecondandone magari le tendenze inflazionistiche, o di essere anticiclica al momento sbagliato, interrompendo una ripresa economica (che è quello che sta succedendo adesso).

Lo si può dire anche in negativo: il male che ci si autoinfligge nel tener su un’unione monetaria fra Paesi diversi è direttamente proporzionale al grado di divergenza fra questi Paesi. Non è politica, è economia, non è un’opinione, è un fatto, non è fantasia, è realtà: negare questa realtà significa fatalmente non essere all’altezza delle sfide che necessariamente un progetto così ambizioso porta con sé.

Non è un caso quindi che la letteratura scientifica sulle aree monetarie si sia esercitata principalmente sul tema della convergenza, variamente intesa:

  1. convergenza del ciclo economico, ovvero: esiste una tendenza spontanea dei Paesi membri a sincronizzare il proprio ciclo in modo da trovarsi tutti nella stessa fase espansiva o recessiva? Su questo tema si è esercitata anche la nostra amica Brigitte, in un articolo dal titolo Eurozone cycles: An analysis of phase synchronization e la sua risposta è: no, anzi l’unione monetaria amplifica lo sfalsamento fra i cicli nazionali. Naturalmente questa è solo una delle possibili risposte, e ce ne sono anche di più ottimistiche.
  2. convergenza dei prezzi, intesa come convergenza dei livelli dei prezzi o convergenza dei tassi di inflazione. Un tema affrontato da Busetti, Fabiani e Harvey, la cui opera sulle provincie italiane vi segnalai fin dall’inizio, e che giungono nel caso dell’Eurozona a una risposta sostanzialmente negativa: non si percepisce una tendenza delle inflazioni nazionali a convergere verso un unico tasso, ma emergono tre distinti “club”. Anche questa è solo una delle possibili risposte, e ce ne sono di meno pessimistiche.
  3. convergenza dei livelli di reddito, altro tema di cui ci siamo lungamente occupati.

I nostri articoli sul tema della convergenza sono qui, e oggi voglio parlarvi della convergenza dei prezzi, con qualche statistica descrittiva, cercando di spiegarvi bene che cosa queste statistiche ci dicano e che cosa non possono dirci.

Gli indici dei prezzi al consumo dell’Eurozona dal 1996 a oggi li vedete qui:

Precisazione: la base di un numero indice è arbitraria. In altre parole, il fatto che nel 1996 questi indici siano tutti uguali a 100 non significa che in quell’anno ogni singolo bene avesse lo stesso prezzo in euro nei diversi Paesi considerati. Gli indici ci informano sulla dinamica di un fenomeno. Ad esempio, in questo grafico si vede bene che i prezzi sono cresciuti in Grecia (verde) molto più che in Germania (giallo). Si vede anche quando per la Grecia è arrivato il momento della correzione. Questo, di per sé, non ci informa su una ipotetica “convergenza”, nel senso che se, per ipotesi, i prezzi greci fossero stati sotto e quelli tedeschi sopra l’equilibrio, la crescita più rapida dei primi e più lenta dei secondi li avrebbe portati entrambi a “convergere” verso questo ipotetico equilibrio. Per quanto questo ventaglio che si ampia col passare del tempo sia suggestivo, il suo valore informativo non è altissimo, e lo stesso vale anche se zoomiamo sull’ultimo periodo:

La cosa cambia se invece dei livelli (arbitrari) dei prezzi rappresentiamo i tassi di inflazione:

Qui il problema dell’arbitrarietà della base non ce l’abbiamo, e possiamo ragionare su quanto i singoli tassi manifestino una tendenza ad avvicinarsi o discostarsi gli uni dagli altri. Il grafico è un po’ confuso: per sintetizzarne le informazioni possono essere utili delle misure di “dispersione” statistica, cioè degli indici che ci dicono quanto le osservazioni di un fenomeno tendano a raggrupparsi o disperdersi.

Qui ne vedete due: il range, cioè la differenza fra il valore più grande e il più piccolo in ogni singolo anno (scala di destra), e lo scarto quadratico medio, una cosa un po’ più complicata, spiegata qui (scala di sinistra).

Le storie che raccontano, però, sono identiche: si vede in modo abbastanza netto che quando le economie dei Paesi membri vengono colpite da uno shock (alla fine del 2008 e all’inizio del 2020) la dispersione dei loro tassi di inflazione aumenta, cioè i prezzi divergono, anziché convergere, il che rende particolarmente complesso, come lo è in questo momento, scegliere quale politica monetaria unica adottare per gestire tante inflazioni che se ne vanno beatamente per i fatti loro.

Anche misure di questo tipo vanno valutate con cautela, perché non sono adimensionali. In effetti, esse risentono della dimensione media del fenomeno:

Tendenzialmente, lo s.q.m. sarà superiore quando la media del fenomeno cresce. Questo non è sempre vero: ad esempio, all’inizio del 2009 l’inflazione media scende, ma la sua dispersione aumenta. Alla fine del grafico però, cioè ai nostri giorni, sembrerebbe che le cose vadano così. Un modo per eliminare questo effetto sarebbe dividere lo scarto quadratico medio per la media, ottenendo il coefficiente di variazione, ma in questo caso non possiamo farlo perché l’inflazione storicamente è spesso stata vicino a zero o negativa, portando così il coefficiente di variazione a esplodere:

e con un grafico simile ovviamente si fa poco (la stessa cosa vale per misure più robuste come la differenza interquartile).

Tuttavia, se queste statistiche descrittive di dispersione non ci consentono di formulare un giudizio definitivo su una nozione astratta di convergenza (i metodi usati in letteratura sono più raffinati), ci mettono però di fronte a una regolarità  concreta difficilmente eludibile: in presenza di uno shock, le inflazioni dei singoli Stati membri si differenziano sensibilmente, e questa crescita dei prezzi a velocità divergenti altera il rapporto fra i prezzi nei diversi Paesi. Si apre quindi la questione di quanto queste diverse velocità si incorporino in modo persistente nei livelli dei prezzi, alterando a lungo la competitività dei Paesi coinvolti, e di quanto una singola politica monetaria sia in grado di realizzare una reductio ad unum, o non rischi viceversa di mandare il sistema in risonanza, amplificando ulteriormente le conseguenze degli shock.

Tutte domande che sarebbero astrattamente affascinanti, se non fosse che a questi affascinanti fenomeni ci troviamo concretamente dentro, e che a queste domande che anni addietro erano astratte, e ora sono concrete, pare che nessuno sappia trovare una risposta: può funzionare la stessa politica in un Paese che come la Spagna ha l’inflazione all’1,6% e in uno che come l’Austria ce l’ha al 7,8%? Non si rischia di far portare al giusto la croce del peccatore, mandandolo in recessione?

Oddio, la risposta non mi sembra difficile da dare.

Ma intanto, nel dubbio, “mitighiamo”, e dormiamoci sopra. La risposta giusta la sapremo, naturalmente, da quelli bravi…

(…sto aggiornando la mia licenza di EViews, così magari facciamo un ragionamento un po’ più tecnico su queste domande aride e oziose…)

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“La scioccante storia dell’inflazione” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.