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7 ottimi consigli per le neo mamme (2023)

Tutti i genitori ci sono passati, e tutti i genitori possono relazionarsi con quella che è certamente una delle esperienze che ci cambiano la vita – quella di diventare un nuovo genitore.

7 ottimi consigli neo mamme
7 ottimi consigli neo mamme

Ecco 7 ottimi consigli per le neo mamme e in generale i nuovi genitori.

1. Segui il tuo istinto

Non fare paragoni, fidati solo del tuo istinto.

Ci saranno sempre informazioni contrastanti… su ogni argomento! Il meglio che possiamo fare è ascoltare/imparare da entrambe le parti e poi decidere cosa è meglio per la nostra famiglia e cosa c’è nel nostro cuore. Il più grande trucco per la maternità è non sentirsi in colpa o sentirsi come se si dovesse spiegare una qualsiasi delle decisioni che si prendono.

Abbiamo sentito così tante linee guida contraddittorie su se e per quanto tempo lasciare che il bambino “pianga” all’ora di andare a letto. Ci siamo sentiti piuttosto in colpa a lasciar piangere nostra figlia, ma una volta che abbiamo provato, è diventata rapidamente una bambina che poteva addormentarsi da sola in modo affidabile. Abbiamo dovuto imparare a fidarci del nostro istinto sulla strada giusta nella nostra situazione.

Alcune decisioni possono essere bianche o nere, ma la maggior parte dovrebbe essere guidata dalle priorità e dai valori dei genitori piuttosto che da internet o da amici benintenzionati.

2. Sii gentile con te stessa

Abbraccia il disordine e il caos, perché nessuno si ricorderà di una casa pulita o del bucato fatto, ma tu ricorderai i ricordi divertenti.

Fate molte passeggiate con il passeggino: fanno bene ai genitori e al bambino. Un ulteriore vantaggio è che i bambini dormono sempre meglio all’aria aperta.

Inizialmente ho resistito al consiglio di “dormire quando il bambino dorme” perché pensavo che mi avrebbe dato più tempo per fare le cose. Mi sono presto resa conto che l’opportunità di essere (semi)riposata era il miglior regalo che potessi fare a me stessa.

3. Cerca opportunità per legare con il tuo bambino e fare ricordi

Amali ogni volta che puoi. Sorridi molto. Fissa i loro occhi. Apprezza ogni momento.

Date ai vostri figli molti e molti ricordi.

Fate tutte le foto e assicuratevi che qualcuno faccia delle foto anche a voi. Scrivete le cose che volete ricordare.

Godetevi ogni momento possibile, anche quelli difficili. I bambini crescono troppo in fretta, e se vi preoccupate troppo delle cose che non contano, perderete le opportunità di godervi quelle che contano.

A volte i genitori si eccitano troppo per la “prossima” fase di sviluppo. Prendetevi del tempo per godervi ogni pietra miliare della crescita.

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4. Regola le tue aspettative di mamma

Imparare a stare bene con tutto ciò che richiede 10 volte più tempo di prima di avere figli. Preparati a vivere nell’incertezza e cerca di essere più flessibile con le tue aspettative. Sii d’accordo con il fatto di non essere d’accordo a volte.

Cercate di fare pace con la vostra nuova vita e il vostro nuovo ruolo – come genitore e come co-genitore. Ho sentito qualcuno dire che è come se un interruttore venisse girato da “coppia romantica” a “squadra tattica”. I soprannomi che io e mio marito ci siamo dati in quelle prime settimane erano “Sacco di cibo” e “Ragazzo delle pulizie”. Abbiamo cercato di ridere attraverso la nostra stanchezza per i nostri nuovi ruoli.

Ricorda che le mamme e i papà fanno le cose in modo diverso l’uno dall’altro e che tutti vogliamo avere successo. Mettetevi d’accordo sulle cose grandi e lasciate perdere quelle piccole.

5. Trova il tuo gruppo ideale

Ho capito presto che era importante avere una tribù di altri neo-genitori, per scambiare storie su questo periodo unico, e per aiutare con il babysitting, i pasti e le faccende di casa. A distanza di anni, sono ancora buona amica di molte di queste persone!

Delega i compiti a familiari e/o amici disponibili. Se non avete familiari/amici locali disponibili (per aiutarvi a fare la spesa, cucinare e fare il bucato), considerate la possibilità di esternalizzare questi compiti durante i primi giorni e le prime settimane.

6. Arruola l’aiuto di esperti

Prendete lezioni per genitori in anticipo e assumete un aiuto. Raccomando di fare formazione molto prima che i bambini siano qui, e lungo tutte le loro fasi di sviluppo.

Mi sono unita a un gruppo di genitori attraverso Parents Place che ha aiutato me e mia figlia a socializzare e a trovare risposte alle mie domande sui genitori.

7. Sappi che le cose diventeranno più facili col tempo

Il primo mese sembra un giorno molto, molto lungo. I mesi 2 e 3 sono piuttosto duri, ma migliora mese dopo mese. L’allattamento al seno è più impegnativo di quanto si pensi, ma anche questo diventa più facile nel corso dei primi mesi. Fare il genitore è il lavoro più difficile ma più gratificante di sempre.-Tati, MomWifeLadyLife

Ricordate: anche questo passerà. Per quanto estenuante possa sembrare questa fase, è solo una fase. Prima che tu te ne accorga, il tuo bambino ti guarderà e sorriderà… e ti renderai conto che quelle dure prime settimane ne sono valse la pena.

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Dialogo di un poeta e di un narratore sull’ineluttabile

di Fabio Donalisio e Paolo Morelli

Poeta: Dopo la visione, qualche mese fa, di Foglie al vento di Aki Kaurismaki sono stato colto da una sorta di epifania. Una di quelle cose, se vuoi lapalissiane, ma che la pratica del mondo, specie oggi, piega a un precoce arrugginire, incrosta di malumore e di quello che potrei definire una sorta di sfinimento preventivo (prodromo della Disperazione Diffusa, ne parleremo): la possibilità di non essere una merda nonostante il male (e il lavoro, e il potere, etc.). Una possibilità di kalokagathia, di “approssimazione del bello al bene” che, ovviamente, è ben più di un’estetica (anche se già solo come estetica porterebbe notevoli miglioramenti). Che, peraltro, mi ha ricordato nel tuo libro Sragionamenti sull’anarchia il refrain della “interminata” definizione del Guasto anarchico: “se non il tentativo più nobile che ha tentato la forma umana, almeno di gran lunga il più sincero”…

Narratore: Secondo me Kaurismaki in questo momento si porta sulle spalle un duro destino, quello di chi intravede un pertugio di scampo, per l’arte in generale ma ovviamente non solo, visto che la possibilità che propone e mette in pratica è una riconsiderazione del gesto artistico come capacità di fare mondo, così si diceva una volta. È un destino di solitudine spirituale, lo intravede pur sapendo benissimo che in giro invece vige e impera l’aria impellente di farla finita, e il più presto possibile. È una visione che abbisogna di una smisurata passione per il mondo e, proprio al medesimo tempo, la capacità di un distacco dell’orizzonte, e qui siamo già a quello che ho cercato di individuare nel mio libro. Ci viene tutto più chiaro se confrontiamo il film di Kaurismaki con quello di Wenders uscito più o meno in contemporanea: Perfect days è un bel film, senza dubbio, forse più “bello” addirittura, ma non va altrettanto a fondo, non ci riesce perché resta invischiato nelle migliaia di stratificazioni estetiche e intellettuali. Quello che ci regala Kaurismaki è la considerazione, rischiosissima, che l’arte per secoli, forse dal Rinascimento in poi, ha percorso ed esacerbato e rivendicato il distacco della coscienza umana dalla natura, con l’invenzione della figura dell’autore per esempio, sconosciuta fino al Medioevo in questa forma e che ha condotto man mano alla possibilità di una divergenza morale tra l’opera e il suo autore, soprattutto da Goethe in poi. O con la libertà del “non è bello quel che è bello ma quel che piace”, che per lungo tempo è stata assai efficace nel creare la coscienza individuale come luogo dell’emancipazione e quindi ci pare l’unico modo possibile, ma ora, in questi tempi esiziali, si sta rivelando una falsa libertà. Aki può farlo grazie al fatto di essersi coltivato come amante delle cause perse.

P.: “Capacità di fare mondo”: credo che sia davvero questo uno dei punti fondamentali dell’esilio imposto da quella che potremmo chiamare Nuova Atrofia; per i profeti dell’atrofico, anzi, anche solo la possibilità non dico di una sintonia, ma di una prossimità con il mondo – e quindi con la capacità, la “potenza” (in senso aristotelico) fantastica – è considerata catastrofica. Da qui la neolingua della Disperazione Diffusa (perdonami il gioco degli acronimi, ma il tempo, anzi l’Era, lo favorisce, quasi pretende) che è sempre e comunque una lingua di allontanamento dalle proprie possibilità di esistenza; di vita, in ultima analisi. Non ho visto il film di Wenders, ma ne (ri)conosco la perfezione: una condizione, oggi, di patente sterilità. Ebbe un senso – estetico, etico – come recherche, in altri contesti. Oggi è anche lei, e senza esserne consapevole, uno dei Linguaggi della Lontananza. Odio citarmi, ma mi sale in mente un mio vecchio verso del libro delle cose: quando l’odio giunge a perfezione/resta perfetto. E qui è quasi scintillante l’evidenza dell’aria impellente di farla finita. Stavo rileggendo, per quelle forme di perversione che ogni tanto mi colgono, quel libro che tanto voleva essere maledetto, ma che di fatto fu chiacchierato solo dai funzionari editoriali, che si chiamava La distruzione. Di tal Dante Virgili, così all’anagrafe. Il Saggiatore l’ha ripescato qualche anno fa (appiccicandogli una prefazione di Saviano, così per non farsi mancare nulla). Dichiaratamente nazista e sadico. Di un nichilismo intemperante quanto frigido. Non so se ti ricordi quella storia. Al di là di tutto il discorso (che mi annoia alquanto anche solo pensare) sul quid (e al di là del fatto che oggi un libro dichiaratamente nazista sarebbe democraticamente normale), mi ha angosciato il fatto che, pur parlando di bombe atomiche e crisi di Suez, i proclami di quel massimalista della volontà di potenza fossero di fatto assai simili agli stitici singulti dell’Atrofico contemporaneo. Anzi, nelle sue forme liquide e ibride, il cupio dissolvi è oggi più efficiente che mai.

N.: Fare mondo era l’ambizione a organizzare modelli di esperienza, quindi ambire a non avere nel proprio lavoro dell’arte nulla di arbitrario. Se poi si trattava di un racconto letterario significava assumere i crismi del rituale per sentirsi parte di una socialità, in quella specie di conversazione universale come si poteva sognare la letteratura. Il Mondo Nuovo invece che ci si impone ha due nemici giurati: l’esperienza diretta, quella di prima mano e la fantasia se ha dignità conoscitiva, vale a dire carne e sangue della vita come nell’arte. Per me la voglia irrefrenabile di morte è abbastanza sotto gli occhi di tutti ormai, solo che si nasconde subdolamente, per esempio nella continua promessa irrazionale di palingenesi che Horkheimer e Adorno già avevano visto ai loro tempi. L’illuminismo ha trovato finalmente la strutturazione mistica che gli serviva nella teologia e teocrazia tecnologica. Nel mio libro propongo un gioco macabro, sostituire la parola Nuovo nella pubblicità o Futuro dei politici con la parola Morte. Forse si dovrebbe partire dalla parola ineluttabile invece, che nell’etimo si porta appresso la inanità nel lottare che ci ha preso, perfino per sottrarci al destino gramo che ormai tutti intuiscono sebbene ognuno si impegni a far finta di no, politici e intellettuali in primis perché la fede è ineluttabile. L’anno scorso è uscito un libro di Jonathan Franzen intitolato E se smettessimo di fingere? Si riferiva all’apocalisse climatica, ma il discorso si può estendere. Si può partire solo da lì, tutti i distinguo ulteriori sono fetenti. Ma a quel punto che fare? Nessuno può reggere la pressoché totale solitudine. Per almeno provarci secondo me bisogna addestrarsi, e senza nemmeno sapere tanto bene perché, io lo chiamo addestramento etico e certo non importa dove si vanno a trovare gli esempi e gli esercizi. Eravamo al cinema e possiamo tornarci: in quei film sia Kaurismaki che Wenders, con sincerità diverse come abbiamo visto, fanno dichiaratamente riferimento al regista giapponese Yasujiro Ozu, vale a dire a quel procedimento di pensiero che ha utilizzato in tutto il suo lavoro. Lo stesso ha fatto Jim Jarmush più volte, in Paterson ad esempio. Per me è quella la via da seguire, quella che può esserci utile magari per reagire, perfino per porci qualche obiettivo smisurato al di là di ogni speranza di conseguimento, come diceva Calvino nelle Lezioni Americane, altrimenti l’arte diventa stretta alleata della morte com’è oggi e senza nemmeno saperlo, tanto è priva di senso. E invece, nonostante la sbandierata globalità, la spocchia di umanesimo residuale si rifiuta di prenderla in considerazione siccome orientale. Trovo parecchio idiota che uno a cui vanno a fuoco i capelli non si butti nel lago solo perché è oltre confine. La nostra amica filosofa Brunella Antomarini ha scritto qualche anno fa un libro importante sulla attuale deriva umana, Le macchine nubili, prendendo però in esame il pensiero occidentale e basta. Come se il cervello avesse solo l’emisfero sinistro!

P.: Facciamo qualche prova del gioco macabro: comincerei dal classicissimo Berlusconi (del ‘98, mi pare, o giù di lì): per un morto miracolo italiano; decisamente profetico. D’altronde il Vetusto (che la sua, di morte, proprio non riusciva ad ammetterla) sì è rivelato come il vero grande precursore del dissolvimento, il vero innovatore – pardon: immortatore, sarebbe quasi da coniare, il verbo immortare, come dire rendere parte della morte, esserci per la morte, come quell’altro vecchio Martino pescatore, anche lui bello mortifero. E se si parla del futuro, quello grammaticale che poi però diventa una specie di tic ontologico, che ne pensi di: – ci va il maiuscolone – MORIRE! E MORIREMO! Non so perché ma mi sembra doppiamente adatto allo Zeitgeist dove “spirito” è proprio nella sua accezione di “fantasma” e che sembra proprio rendere evidente quella doppia fine dell’esperienza e della fantasia cui alludevi poco fa. Governare la morte in nome del popolo dei morti. Eppur si muore! Parafrasando il sommo eliocentrico. E però alla fine tocca pure ridere perché mai come nel mondo dei morti c’è stata la rimozione della morte dall’esperienza. E mai come oggi si rende nudo il fine ultimo della mistica dei morti (illuminata, sì! Dispotica, pure!), il fine teleologico supremo dell’immortalità nell’era della sua plausibilità tecnica. Florilegio di apocalissi narrative (solo nell’ultima settimana ho visto un film, una serie animata su Netflix e ho letto un fumetto in cui qualche oggetto spaziale sta per schiantarsi sulla terra e viene analizzato il deboscio dell’umanità nell’attimo prima della scomparsa) nel mondo moribondo. Non ci bastavano i clamori di Battiato nell’82? Ma proprio grazie alla sua ugola, mi accorgo di un’imprecisione da emendare subitamente: magari fosse il mondo dei morti, che avrebbe una sua dignità definitiva. Questa è l’era del moribondo ad libitum. Tempo fa in classe con la quinta in cui insegno stavamo guardando un montaggio di immagini del processo Eichmann e mi è salito questo pensiero: un rituale in cui, più che i fatti in sé, si confrontavano – con astio – due lingue: quella della morte burocratica e quella della morte retorica. Come se si fossero, oggi, finalmente fuse – liquefatte – in una neolingua davvero inespugnabile, violenta e inerte, renitente al senso come all’esperienza, sedicente serva degli scarti seriali dell’emozione (ma non quella di Céline, PERDIO). Divago, ma, mi sembra, nell’orbita ristretta della mosca sul cadavere.

N.: Hai ragione, è il ritornello lugubre di T. S. Eliot, tutto sta finendo con un interminabile “piagnisteo” o forse meglio una lagna, magari fosse il subitaneo crash. L’estasi mistica della modernità ci promette l’oblio durante il martirio con sacerdoti sempre più psicotici e ridicoli. Nelle formule della loro recita c’è la vera lotta sotterranea odierna che pare essere quella degli psicotici per l’eliminazione dei nevrotici, vale a dire di chi ancora vive sulla pelle una qualche urgenza per tentare qualcosa. In un libro appena uscito una celebrata filosofa revisiona perfino Antigone come nevrotica per la sua “pretesa superiorità morale” (e non dimentichiamoci che il termine anarchia è comparso proprio con lei, almeno in occidente, con la sua ribellione alle leggi e ai governanti, nel significato appunto di “atto di disobbedienza”). Ma se invece partiamo dall’ineluttabile per forza dobbiamo cominciare dal piccolo, dal vicino, dallo sperimentabile, dal mio, e senza nessuna vergogna a corteggiare il banale. Per esempio, che c’è di più fatalmente e sacrosantamente fallimentare di ogni vicenda umana, anzi di ogni singolo nostro arco vitale, perfino quando appare fortunato e forse in quel caso più ancora? Nasci, vieni a sapere un po’ e a fatica come funzionano le cose, ti adegui per quanto è possibile, ti arrabatti, ti fai un mazzo così e poi tutta l’esperienza che hai raggranellato ti sfugge nella decadenza, eppure ti tocca bene o male imparare il mestiere di vecchio come lo chiama Goethe ma alla fine vieni comunque licenziato e sparisci. E non parliamo nemmeno dell’odierno passo dell’oca del più o meno inconsapevole: produci, consuma, muori! Quindi da dove viene tutta ’sta sicumera da scimuniti? La gente vive alla meno peggio, da sempre. Ogni singola vita è un’occasione persa, ma c’è pure un umano splendore in ogni sconfitta, questa è la verità ineluttabile e pure l’unico modo per cominciare ad addestrarsi oggi per vedere le cose con un punto di vista di minima autonomia. Lavorare a partire dalla nostra fragilità basilare in quanto esseri viventi, scoprirla passo per passo, scoprire la carenza come la nostra parte più prolifica ma pure la più salda, come per esempio nel pensiero che sta alla base delle arti marziali orientali in cui l’assunto combattivo è la ricezione, l’assecondare, la debolezza che sa sovvertire il pronostico. Le arti marziali in cinese si dicono Rou Dao, cioè metodo della debolezza. E con nessuna apparizione della parola umiltà. Perché l’educazione giovanile non comincia da lì come vero e ineluttabile punto di forza? Così forse si smetterebbe di lasciarsi affascinare dai milioni di imbonitori di tattiche, perché come dice l’Arte della Guerra se un tattico incontra uno stratega il tattico ha perso. Perché si continua a decervellare i giovani di onnipotenza, umanistica o tecnica che sia per poi lamentarsi se non hanno i benedetti “valori”? Ad esempio, e sempre corteggiando il banale, chi è che ci insegna da quando siamo nati, anzi ci impone in ogni secondo di vita di pensare che c’è sollievo solo nella distrazione e l’attenzione è invece la parte faticosa, da evitare di acciaccare come la merda? È l’esatto contrario. Per una mente che funziona bene l’attenzione è un rinfresco continuo, appagante e perfino gaudente, mentre una mente distratta è, sempre, una mente infelice. Ma l’altro punto essenziale da cui partire per me è ammettere la portata peculiare del fallimento odierno e cioè, come diceva l’Orwell di 1984 che “in questo gioco che stiamo giocando, non possiamo vincere. Un certo tipo di insuccesso è preferibile a un certo altro tipo”, solo questo ci possiamo permettere oggi e senza nemmeno sapere tanto bene perché.

P.: Due dei punti che hai centrato mi toccano particolarmente in quanto operaio di quella “fabbrica educativa” (anzi, “azienda”, che fabbrica è diventato un concetto obsoleto, sa di feccia delocalizzata… della triade classica del produci-consuma-crepa la parte della produzione è come se dovesse essere nascosta, troppo triviale ormai per chi vive on-demand – guarda come sembrano obsoleti i Cccp della reunion mentre ri-urlano con voce spezzata il loro slogan più famoso, più obsoleti degli altri vecchi che riprovano a essere giovani: un insuccesso molto di moda nel mondo che non sa più il mestiere di vecchio; più obsoleti perché più esteticamente legati all’industria) che è diventata la scuola – e forse, in certi termini, lo è sempre stata. La mente distratta e infelice di chi è stato programmato (da un sistema famigliare/istituzionale orwelliano) a fuggire dall’attenzione e a plasmarsi nella pura superficie, privato della categoria del tempo profondo e della fiducia in una minima possibilità comunicativa del linguaggio (in una “società delle comunicazioni!” sic!) la vedo in molti dei ragazzi che mi stanno davanti. Senza la capacità – dovuta precipuamente a una consapevolezza “forte” della propria debolezza – di proiettarsi nel tempo viene meno ogni possibilità strategica – l’unica davvero sovversiva, capace di fallire in modo deflagrante per i tutori dell’ordine dei ricchi. Dici bene, si prendono le giovani menti e le si abitua a una pletora di tattiche irrelate per obiettivi incomunicanti e con moventi blandamente egoistici. Risultato: paralisi e apatia dell’immaginario, prima ancora che nell’azione che viene nei fatti delegata in una perenne (e sordamente dolorosa) richiesta di aiuto che riceverà risposte parziali, paternalistiche e pelosamente caritatevoli. La volontà di potenza che si realizza nella creazione dell’impotenza diffusa. Sembra davvero la forma perfetta di fascismo. Con una spruzzata di violenza qua e là, l’automatismo dell’intimidazione e un po’ di fallocrazia ruspante per non perdere le vecchie abitudini. Se lo sposti a livello geopolitico, questo meccanismo si risolve nella guerra che c’è e che verrà. Ma è ancora possibile praticare l’attenzione come atto politico di sovversione esplicita. Sarà ridicolizzato se non perseguitato. E non c’è dubbio che sarebbe stata preferibile – almeno per me – un’altra forma di insuccesso. Ma ognuno fallisce secondo i tempi e i modi del contesto che gli è toccato in sorte.

N.: Si, il guaio sta proprio nel fatto che il terreno del conoscere è arido a dir poco, duro, assodato, essiccato, “tutto è irrimediabilmente trascorso” come scrive un premio Strega, siamo al tempo di Oramai. Pare che nessun valore possa più esser messo in forse. L’altro giorno ho visto sul giornale la foto di un Ait, un paesino nel sud del Marocco dove ho dormito una notte molti anni fa. Era quasi un’oasi, ora c’era un contadino seduto su zolle siccitose grandi come tavolini, e mi ha ricordato il terreno di conoscenza a nostra disposizione: tutto è già strafatto, e da lì poi viene la frustrazione, l’annichilimento, il disfattismo, il diktat da stato preagonico. Per esempio, quelli che dovrebbero essere lo stimolo, parte della soluzione e invece sono il problema vero e proprio. Tipo gli intellettuali o le accademie, le università dove si insegnano un sacco di cose ma solo una essenziale e si chiama servilismo. Quando si generalizza si è sempre scortesi con la verità ma gli accademici hanno tutta la rubinetteria del sapere, a volte pacchiana tipo clan Casamonica altre avvenieristica, ma dentro l’acqua non ci passa e se c’è è insipida, quindi ci tocca cercare alle sorgenti, quando possibile. Metti a caso l’idea vigente di intelligenza che ci siamo fatti. A me personalmente salgono le transaminasi quando sento dire di certa gente che sì, è un pezzo di merda, però è intelligente… Trump solo per fare un esempio. Da lì in poi è facile che la mancanza di scrupoli venga presa per forza di carattere, il predominio ad ogni costo etc. etc. Si è imposta l’idea che l’intelligenza abbia a che fare col tipo di furbizia flaccida e bieca che mira al potere, è un’idea degradata e servile dell’intelligenza che invece nel suo fulgore è e resta una qualità morale. Leonardo è un esempio di magnifica possibilità intelligente, non Berlusconi. Quello che ci impongono è un’idea becera e riduttiva della vita in generale. Oppure, che so, qualsiasi comportamento senza dignità viene giustificato con la Legge del Mercato, come fosse impressa sulle rocce dagli albori del mondo. Sono solo alcuni esempi di idee scontate, contro le quali ognuno dovrebbe prepararsi un addestramento in grado di smuovere il terreno, rimestarlo. L’unico terreno di lotta rimasto alla nostra portata possibile è la nostra mente, sottoposta a ogni secondo a intrusioni invasive come mai da quando c’è aria, una massa di processi di organizzazione del pensiero e ubi solitudinem faciunt pacem appellant. È una mente servile che deve rispondere come la rana di Pavlov. In quel campo si potrebbe fare ancora molto, solo che siamo straconvinti di avere ancora il pieno controllo, da lì la paralisi logica. Ci serve un pensiero ricorsivo tipo quello nei disegni di Escher. Quello è ancora imprendibile.

L’immagine: Marco Berlanda, Figura con occhiali

 

 

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“Dialogo di un poeta e di un narratore sull’ineluttabile” è stato scritto da giacomo sartori e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Harry: «Ho paura, non porto più Meghan a Londra: potrebbe essere attaccata con l’acido»

La coppia, che risiede attualmente in California con i figli Archie e Lilibet, continua a subire le pressioni e le minacce della stampa britannica

Leggi tutto Harry: «Ho paura, non porto più Meghan a Londra: potrebbe essere attaccata con l’acido» su Notizie.it.

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“Harry: «Ho paura, non porto più Meghan a Londra: potrebbe essere attaccata con l’acido»” è stato scritto da Paolo Giacometti e pubblicato su Notizie.it.

La confessione di Loredana Lecciso: il rapporto con Al Bano e la presenza ingombrante di Romina Power

L’intervista a cuore aperto di Loredana Lecciso a Oggi: svelato il rapporto con Al Bano e Romina Power

Leggi tutto La confessione di Loredana Lecciso: il rapporto con Al Bano e la presenza ingombrante di Romina Power su Notizie.it.

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“La confessione di Loredana Lecciso: il rapporto con Al Bano e la presenza ingombrante di Romina Power” è stato scritto da Lucrezia Ciotti e pubblicato su Notizie.it.

Perché l’Italia non può produrre un Milei

di MARCO BASSANI

Molti anni fa, in occasione di uno dei ricorrenti default argentini, un amico giornalista mi chiamò e mi chiese se conoscessi qualcosa di quel paese. Nulla, fu la mia franca risposta, però ti dirò quale è il vero problema della patria di Maradona e del Tango: si tratta di un enorme Mezzogiorno, che vuole vivere con politiche tipiche dell’assistenzialismo meridionale, senza una Lombardia o un Veneto. In breve, vogliono vivere da parassiti senza aree da parassitare.

Quello che mi sembrava il punto dolente di un paese che poco più di un secolo fa era considerato fra i meno poveri del mondo, si è rivelato solo venti anni dopo il suo vero ed unico punto di forza. Gli argentini si sono trovati contro un muro, hanno fatto l’ennesimo bagno di realtà economica e hanno scelto di cambiare radicalmente percorso. Le parole d’ordine peroniste (ossia il libercolo delle lamentazioni che viene ripetuto ogni giorno dal più famoso argentino del pianeta contro il capitalismo, i ricchi, gli sfruttatori) non erano più in grado di scuotere gli animi dopo essere state il credo politico ufficiale per oltre ottanta anni.

Brevi cenni di storia economica

Oltre un secolo fa l’Argentina era fra i dieci paesi più ricchi al mondo, con un reddito per persona ben superiore a Francia, Germania e Italia. Mentre fino alla Seconda Guerra mondiale il reddito pro-capite degli argentini non era molto al di sotto di quello del paese più ricco del mondo, gli Stati Uniti, oggi è di meno di un quinto. L’inabissamento dell’economia argentina ha avuto nel corso del Dopoguerra un’unica colonna sonora: il patriottismo socialista di Juan Peron, rivisitato in tutte le salse, che è qualcosa che dovrebbe suonare molto familiare alle orecchie di un italiano. Si tratta, infatti, di una sorta di fascio-comunismo democratico il cui vero cemento ideologico era la denuncia dei guasti provocati dall’economia di mercato e l’esaltazione del ruolo dello Stato nel combattere le miserie prodotte dal lavoro salariato. In breve, il peronismo si fonda su un credo piuttosto semplice: il capitalismo è il male e il governo è la cura.

Per la prima volta nella storia di qualunque area del globo terraqueo, la maggioranza di un paese ha smesso di credere alla politica e ha abbracciato una vera rivoluzione copernicana. Javier Milei, un professore di economia che in pochi anni ha preso il centro della scena politica come intransigente difensore del libero mercato e del capitalismo del laissez faire. Improvvisamente, ossia nel breve volgere di un paio di anni, da radice di tutti i problemi, la libertà di mercato è stata propagandata e percepita come l’unica soluzione rimasta. Riuscirà il professor Milei a ribaltare come calzino un paese che sembrava destinato ad inabissarsi a causa della sua subcultura politica? Difficile dirlo, ma il semplice fatto che un paese abbia democraticamente deciso di adottare una via senza precedenti, almeno dal punto di vista ideologico, deve essere salutato con grande speranza da tutti coloro che amano la libertà. Infatti, la sua ricetta non ha nulla di astruso, si fonda su di una preferenza: meglio le libere scelte degli individui sul mercato che le decisioni delle burocrazie illuminate, meglio la libertà della coercizione. Non avendo ormai altra scelta, e in attesa del prossimo ennesimo fallimento, gli argentini hanno deciso di scommettere sul loro futuro, lasciando di stucco le loro classi burocratiche e parassitarie, da decenni aduse a vivere di prebende pubbliche e a gridare che il popolo si impoveriva a causa del “neoliberismo”. Anche questa cosa che dovrebbe suonare ben nota ai padiglioni auricolari del volgo italico, che ha sentito addebitare tutte le disgrazie della penisola proprio al “liberismo selvaggio”, mentre si stava inabissando sotto i colpi del più spietato fra gli statalismi del pianeta.

Però torniamo al principio. È vero che l’Argentina non ha aree da parassitare: è un enorme Meridione senza un barlume di Padania, per usare un linguaggio vetero-leghista. Ma questa, insieme alla gioventù della popolazione si è rivelata la forza dell’incantevole paese australe.

Travolta da una crisi strisciante che ha più di trent’anni e da una decrescita davvero infelice, che ha privato una generazione e mezza di qualunque aumento di ricchezza, l’Italia è nei fatti un’Argentina potenziale che solo l’enorme accumulazione di ricchezza dal 1896 al 1992 (crescita media del 2,4%, fra le più alte al mondo) riesce ancora a tenere fuori da un terzo mondo indifferenziato. Visto che il refrain del declino italiano è nei fatti assai simile a quello argentino (il liberismo selvaggio è il male, il governo la cura, più pubblico e meno privato la soluzione di ogni problema, il debito più ce n’è e meglio è) qualcuno potrebbe sognare un Milei al posto degli statalismi di destra e di sinistra che hanno affondato il paese.

Il fatto è che in Italia si “naviga a vista” senza nessuna prospettiva di fuoriuscita dalla decrescita da oltre un quarto di secolo. Nessun politico parla neanche del fatto che dopo Venezuela e Zimbabwe questo paese sia quello che è cresciuto di meno al mondo. Si ritiene impossibile cambiare lo stato di cose esistenti. Non esiste nessuna visione globale sul futuro he possa scuotere gli elettori che intuiscono ormai come l’Italia non abbia problemi, ma sia il problema.

I giornalisti, per lo più assolutamente digiuni di questioni economiche, negli anni di Monti avevano trovato un termometro di nome spread per misurare la febbre, abbassatosi da anni lo spread non riescono a capire che la situazione è invero peggiorata enormemente. Nessuno riesce a metter mano a nulla: spesa pubblica, debito e rapina fiscale (ai danni dei singoli, delle imprese e di alcuni territori, Lombardia e Veneto in primo luogo).

In Italia il declino si è sostanziato nel più grande trasferimento di ricchezza dal settore privato a quello pubblico della storia umana. Stiamo per arrivare a tremila miliardi di debito pubblico, ossia un PIL e mezzo, mentre 13 anni fa, quando Silvio Berlusconi fu cacciato dal governo “per mettere in sicurezza i conti pubblici” era poco più di mille e novecento. I risanatori dei conti pubblici hanno creato una voragine che in ogni altro paese sarebbe oggetto di dibattiti e preoccupazioni, qui si tratta solo di un fallimento ormai certificato. E allora perché non sognare anche qui un Milei? Perché non sperare in un liberista selvaggio che venga a narrare la poetica della libertà e del mercato? Che levi alte le grida di basta tasse, basta debito!

Dalla lotta di classe alla lotta di tasse

Il motivo per cui non ha senso sognare un Milei italiano è molto semplice. Perché le tasse e il debito sono consustanziali alla nostra vita politica nazionale, fondata sul culto dello Stato di una nazione mai costruita. Occorre un breve schemino per far capire come sognare Milei possa essere rinfrescante, ma poco realistico. Lo Stato non produce ricchezza, la sposta dalle tasche di alcuni per metterla nelle tasche di altri. L’azione fiscale del governo crea per sua stessa natura due gruppi contrapposti: i produttori di tasse e i consumatori di tasse. Se anche le tasse fossero utilizzate benissimo dalla burocrazia illuminata, come minimo accadrebbe che la casta burocratica stessa vivrebbe alle spalle degli altri. La politica dovrebbe riuscire a mascherare chi le tasse le produce e chi le consuma, mantenendo quella che è la geniale definizione prodotta da un geniale economista francese nell’Ottocento: “Lo Stato è la finzione secondo la quale tutti credono di poter vivere alle spalle di tutti gli altri”.

In Italia, il debito, il suo mantenimento e la rapina della Lombardia e delle altre regioni produttive hanno fatto saltare la possibilità di questa finzione. È ormai impossibile credere di esser parte di una ragnatela di relazione statuali dalle quali guadagniamo e perdiamo un po’ tutti. Chi paga e chi riceve, chi tiene i cordoni della borsa e chi la borsa la riempie e basta è il segreto di Pulcinella.  Vi è una “lotta di tasse” fra chi esige più welfare e “diritti di cittadinanza” e chi sa perfettamente che deve pagare tutto ciò. Lo Stato, sorto per creare l’“ordine politico” è diventato ormai solo lo strumento del parassitismo politico. La particolarità italiana, unica al mondo, è che da noi l’area del parassitismo e quella produttività seguono linee geografiche chiare e distinte. Che sono anche confini regionali. Quindi non si può gridare basta tasse, basta debito senza aggiungere basta Roma.

Il sistema fiscale italiano è destinato a riprodurre il calabrese e il lombardo all’infinito. Un dato di qualche anno fa, ma sempiterno nella sua portata tragica, illustra plasticamente tutto: per generare un euro di spesa pubblica sul proprio territorio il contribuente lombardo versa al fisco 2,45 euro, al contribuente calabrese basterà il pagamento di 27 centesimi di euro per ottenere lo stesso risultato. Sarà allora razionale, almeno nel breve periodo, difendere l’attuale sistema in Calabria, ma appare semplicemente folle la sua difesa in Lombardia. Nessuno è in grado di infrangere quel “soffitto di cristallo” che impedisce alla visione sociale che pone al centro la libertà della persona umana di essere conosciuta e apprezzata in questo paese. Perché per farlo occorrerebbe mettere in crisi le politiche clientelari e assistenziali che accompagnano il cammino nazionale. In breve noi siamo una Baviera appiccicata a un’Argentina con travasi costanti di soldi e questo significa che affogheremo lentamente insieme.

L’unità non giova a nessuno

In quelle che sono con ogni probabilità le ultime parole immaginate per la pubblicazione, il mio maestro Gianfranco Miglio scriveva: «I nostri connazionali non possono tornare indietro, ed “affondare”, tutti insieme, in un Mediterraneo abitato da popoli tagliati fuori dall’economia veramente competitiva, e intristiti da miserevoli paghe pubbliche. Ma non vogliono neanche rischiare di fare la rivoluzione, per la loro pusillanimità. Per una viltà che impedisce loro di vedere come lo Stato “unitario” possa essere salvato solo disfacendolo per rifarlo in modo diverso».

La demarcazione geografica del problema Italia offre anche il destro per la sua soluzione. Se solo gli individui, regione dopo regione, riusciranno a capire che la gabbia può essere spezzata a partire dal fantoccio di un’unità che non giova a nessuno e che sta trascinando il Mezzogiorno “a Sud di nessun Nord”.

*Professore ordinario UniPegaso

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“Perché l’Italia non può produrre un Milei” è stato scritto da Leonardo e pubblicato su Miglioverde.

Dalla pandemia al totalitarismo in solo sette mosse

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“Dalla pandemia al totalitarismo in solo sette mosse” è stato scritto da Leonardo e pubblicato su Miglioverde.

Sturzenegger mette benzina nella motosega di Milei: decreto per abolire 60 enti inutili e “woke”

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Sondaggio SWG (8 luglio 2024)

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SWG ha pubblicato nell’edizione serale del TG La7 (La7) dell’8 luglio 2024 un nuovo sondaggio sulle intenzioni di voto nazionali.

Le intenzioni di voto

Sondaggio SWG (24 giugno 2024)
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“Sondaggio SWG (8 luglio 2024)” è stato scritto da The Watcher e pubblicato su Scenaripolitici.com.

Olimpiadi a Parigi, gravi disagi alla rete dell’Alta velocità: “Atti di sabotaggio”

Iniziano ufficialmente oggi alle 20 le Olimpiadi di Parigi, ma diversi atti dolosi hanno danneggiato la rete dell’Alta velocità

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“Olimpiadi a Parigi, gravi disagi alla rete dell’Alta velocità: “Atti di sabotaggio”” è stato scritto da Lucrezia Ciotti e pubblicato su Notizie.it.