“Il Signore ti dia altri cento anni!”

Fabrice, ayant l’air de marcher au hasard, s’avança dans la nef droite de l’église, jusqu’au lieu où ses cierges étaient allumés ; ses yeux se fixèrent sur la madone de Cimabué, puis il dit à Pépé en s’agenouillant : Il faut que je rende grâces un instant ; Pépé l’imita. Au sortir de l’église, Pépé remarqua que Fabrice donnait une pièce de vingt francs au premier pauvre qui lui demanda l’aumône ; ce mendiant jeta des cris de reconnaissance qui attirèrent sur les pas de l’être charitable les nuées de pauvres de tout genre qui ornent d’ordinaire la place de Saint-Pétrone. Tous voulaient avoir leur part du napoléon. Les femmes, désespérant de pénétrer dans la mêlée qui l’entourait, fondirent sur Fabrice, lui criant s’il n’était pas vrai qu’il avait voulu donner son napoléon pour être divisé parmi tous les pauvres du bon Dieu. Pépé, brandissant sa canne à pomme d’or, leur ordonna de laisser son excellence tranquille.

(…sempre più spesso “mon excellence” si imbatte in mendicanti, cioè in quelle persone che ci offrono l’opportunità di aiutare in concreto quell’umanità per la quale tutti siamo disposti a spenderci in astratto, quelle persone che pongono, a chi voglia porsele, due domande impegnative: “come ha fatto a ridursi così?” e “io, al suo posto, cosa farei?”. Ogni volta, inevitabilmente penso al giovane Del Dongo, travolto sul sagrato di San Petronio dalle conseguenze non imprevedibili della sua trasognata e impulsiva generosità. La reazione istintiva di molti, spesso anche la mia, è quella di ignorare questa presenza più perturbante che importuna. Non è facile sostenere lo sguardo di chi, abdicando alla propria dignità, si affida alla solidarietà altrui. Non lo è, perché non è facile chiedere, non è facile confessare  in pubblico la propria fragilità, e di converso non è facile essere scossi nella propria certezza di essere al sicuro. Perché come è capitato a lui, così potrebbe capitare a te. Certo, anche in questo, come in altri casi, bisogna diffidare dei professionisti! Tuttavia, da un lato, non so a voi, ma a me capita sempre più di sorprendere a tendere la mano persone “come noi”, persone visibilmente istruite ed educate, aggrappate disperatamente a quel minimo sindacale di decoro che le condizioni gli consentono, persone che si avvicinano sussurrando, che in tutta evidenza ancora non si rassegnano, non vogliono ammettere di essere costrette a tanto per tirare avanti. Persone, per semplificare, che vorrebbero lavorare, che un lavoro magari ce l’hanno avuto, o una pensione. Dall’altro, quand’anche fossero dei lazzaroni, resterebbe il fatto che sono uomini, e certo, se da un lato sussidiare il lazzarone è un incentivo – questo è l’argomento abituale di chi si sottrae – d’altra parte soprattutto se sei o pensi di essere cristiano ti sarà capitato di leggere “te autem faciente eleemosynam, nesciat sinistra tua quid faciat dextera tua, ut sit eleemosyna tua in abscondito, et Pater tuus, qui videt in abscondito, reddet tibi.” Le opere di misericordia, insomma, per noi non dovrebbero essere un optional, e vi do una brutta notizia: nel pacchetto non è compresa solo la misericordia corporale dell’euretto abbandonato frettolosamente in mano altrui, ma dovrebbe essere anche compresa la misericordia spirituale della sopportazione e della consolazione, insomma: dell’ascolto, o, se volete, di quello che oggettivamente non possiamo dare, perché noi per primi, ahimè, non l’abbiamo: il tempo.

Del resto, potremmo anche dirci che uno Stato sociale esiste, e che dovrebbe pensarci lui. La teoria è qui, e qui. Sarebbe utile capire, caso per caso, se e quanto sovvenga ai singoli casi particolari, ma, appunto, ci vorrebbe del tempo, quel tempo che forse dovrei prendermi per questa, come per altre cose – incluso il dialogo con voi – ma che viene sacrificato in nome di esigenze più pressanti (a volerne, se ne trovano sempre).

Ieri “mon excellence” usciva da uno dei palazzi del potere vero, dove si era intrattenuto in questioni più o meno rilevanti con un detentore del potere vero, e a un angolo di via del Corso si è imbattuto in una signora anziana, non troppo trasandata. Ho tirato dritto, poi non so perché mi sono fermato, mi sono frugato le tasche, sono tornato indietro, e le ho affidato un pezzetto di carta non troppo stropicciato. Apparentemente quello che non cambiava la vita a me la cambiava a lei: si chiama utilità marginale! Sorpresa e confusa la signora si profondeva in ringraziamenti. E io, preoccupato da un possibile “effetto San Petronio”, a dirle che non doveva, che era il minimo che potessi fare (ma evidentemente era molto oltre il massimo di quanto gli altri facevano), che le auguravo una buona giornata e che mi dispiaceva di non potermi trattenere.

E lei: “Sei una buona persona, il Signore ti dia altri cento anni!”

E io: “Grazie, ma me ne bastano molti di meno!”…)

(…ma è veramente così?…)

(…avrete constatato una certa mia fatica nel proseguire qui il nostro percorso. Non riesco più a star dietro a questa come a tante altre cose, comprese quelle che ho sacrificato a questa. Il tempo che posso dedicarvi si è compresso, la mia ora è una vita di incontri, incontri da organizzare, incontri cui partecipare, e di pratiche da istruire. La solitudine è diventata una risorsa scarsa, la lettura un paradiso perduto, inclusa quella dei vostri commenti, cui altresì non ho più tempo di rispondere, e così il dialogo fra di noi si sfilaccia…






















































[pausa]















































[qui in mezzo ci sono state tre telefonate e infiniti messaggi Whatsapp per una bega riguardante una cosa successa in una regione]





















….si sfilaccia lentamente, inesorabilmente. Sento che vi perdo e ci perdiamo mentre il momento richiederebbe che fossimo più saldi che mai, perché il nemico è in affanno, e questo lo rende particolarmente insidioso, e perché avete dimostrato, con la vostra presenza, di essere in grado di aiutarci a definire una linea più razionale (fra FinDay e voto sul MES c’è un chiaro rapporto di causa-effetto). D’altra parte, in queste pause forzate si accumulano così tanti temi, sono così tante le cose su cui vorrei confrontarmi con voi (pressoché ogni giorno si apre con una conferma degli scenari che abbiamo delineato lungo gli anni, a partire da quelli determinati dalle prevedibili difficoltà di Francia e Germania), che da un lato il motore della narrazione si ingolfa per eccesso di alimentazione, e dall’altro, però, i tempi ridotti per elaborare tutte queste conferme rischiano di confinare il blog a una stucchevole, notarile, autocompiaciuta enumerazione di cose che ci eravamo detti, perché mancano il tempo, il dialogo, il confronto necessari per capire insieme dove queste cose ci portano.

Ma siamo sicuri di non averlo capito, siamo sicuri di volerlo capire, e siamo sicuri di non essercelo già detto?

Alla fine, andremo dove era inevitabile che si sarebbe andati. Quando nel 2011 vi dissi che la Germania avrebbe segato il ramo su cui era seduta mi era piuttosto chiaro, e, ne sono certo, era chiaro anche a voi, che noi eravamo seduti su un ramo più basso. Siamo in quel ricorrente momento della storia in cui il capitalismo deve rianimare il ciclo dell’accumulazione. Qui ormai non può esserci ripresa senza ricostruzione, e per esserci ricostruzione, come vi dicevo in una delle ultime dirette Facebook, di quei lacerti di tempo che riesco a dedicarvi, deve esserci distruzione. As simple as that. Anche il “green” a modo suo era una ricostruzione, la ricostruzione di un mondo (quello green) che non c’era mai stato. Apparentemente questo ci esentava dallo spiacevole compito di distruggerlo, ma in realtà “lu grin” era ugualmente distruttivo e disgregante per il nostro tessuto industriale e per la nostra vita quotidiana, era un’autostrada verso la definitiva e totale subalternità dei nostri Paesi, e quindi non sta funzionando (s’ha mort) perché i cittadini, giustamente, non lo vogliono. C’è un’altra cosa che nessuno vuole, in astratto, ma che poi in concreto si ripresenta, e si andrà su quella lì, sui grandi classici: se debito deve essere – e non può non essere, dati gli squilibri interni all’area, squilibri autoinflitti, ma non per questo meno reali – allora debito sia, ma almeno debito di guerra, debito fatto per una “buona” ragione: la produzione e l’acquisto di armi. Siamo sicuri di non essercelo mai detto? Io sono quasi sicuro di avervi scritto più volte che le tensioni generate dalle nostre assurde regole fatalmente avrebbero condotto a una simile valvola di sfogo. L’abbattimento dei freni inibitori, se da un lato ci libera della mielosa ipocrisia che per anni ci ha presentato i conflitti coloniali come “missioni di pace”, dall’altro è un elemento di ovvia inquietudine.

Alla fine, la mia lassitudine, il mio disamoramento, vengono anche dal fatto che tutto vorrei tranne che scrivere il QED definitivo, anche perché di questi tempi non si sa se qualora esso si palesi ci sarebbe il tempo o il modo di scriverlo, né a beneficio di chi esso verrebbe scritto.

Ma insomma, forse sono troppo pessimista: sarà il tempo, saranno gli anni che passano, sarà la frustrazione di non potervi sempre restituire il molto che mi avete dato né prendere il molto che avete ancora da darmi, ma anche questa curiosità non possiamo scioglierla: dicono i giornali che io sono coinvolto nell’elaborazione del programma per le europee, che a mio avviso sarebbe molto semplice da scrivere: meno Europa!, e in quello che i giornali dicono ci deve essere qualcosa di vero, perché fra un po’ ho una call…)

(…e quindi, pensandoci meglio, in effetti altri 100 anni farebbero comodo, soprattutto se fosse possibile riceverli in due o tre tranche da vivere contemporaneamente, perché da solo è veramente complicata! Ci vediamo presto che devo parlarvi del #midterm…)

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“”Il Signore ti dia altri cento anni!”” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Carità e coscienza

(…aspettando i risultati delle elezioni in Sardegna…)

Da plurimi e convergenti indizi afferro quale sia stato il principale ostacolo alla capacità di coinvolgimento di questo blog, un ostacolo vecchio quanto il mondo, codificato dalla saggezza popolare (ex multis: pancia piena non crede al digiuno), un ostacolo oggettivamente insormontabile.

Spesso ci siamo ripetuti, citando Upton Sinclair, che era inutile cercare di far capire certe cose a persone il cui stipendio dipendeva dal non capirle. Questo è senz’altro vero. Forse è altrettanto e più vero che è impossibile cercare di far capire certe cose a persone convinte che esse non le riguardino.

Il primo tema politico, insomma, resta sempre quello della carità, intesa come l’accorgersi delle cose che non vanno quando ancora non sono capitate a te.

Me ne sono reso conto leggendo qualche giorno fa su Sinistrainrete un articolo del Chimico scettico.

Urgono due premesse: la prima è che sì, ogni tanto leggo Sinistrainrete, è un aggregatore (o, come dice lui, archivio) di blog interessante, ovviamente in diversi gradi di lettura: può darsi che qualcosa sembri interessante a me per motivi diversi da quelli per cui sembra interessante a lui, ma questo poco importa. Chi vi scrive qui è lo stesso che ha aperto il blog tredici anni fa. Resto fra i blog consigliati da Sinistrainrete e credo che ci siano vari motivi per questa scelta che potrà sembrare strana a dei turisti del dibattito. Il primo di questi motivi è che “sinistra” non significa “PD”, che anzi della sinistra è il contrario!

Seconda premessa: del Chimico scettico e del suo blog ho appreso l’esistenza durante la pandemia, anche se il blog preesisteva (risulta iniziato nel 2018). Ho sempre trovato il suo lavoro equilibrato e interessante, se non altro perché a differenza di un altro recente meteorite, Critica climatica, cita le fonti ed è più accorto nel reprimere eventuali pulsioni antipolitiche. Quindi non ce l’ho su con lui, al contrario!, e quello che segue non va letto come una : “Guarda quello [epiteto a piacere] del Chimico scettico che non si rende conto ecc.!”, ma al contrario come uno sconsolato: “Guarda come siamo messi se perfino una persona pregiata come il Chimico scettico si è perso certi dettagli…”.

Quali dettagli?

Faccio prima se vi riporto la frase che ha colpito la mia attenzione: “gli ultimi due anni mi hanno fatto capire com’è che il fascismo si è diffuso in Italia” (in questo articolo).

Ora, noi qui una riflessione sul pericolo di derive autoritarie di vario genere, più o meno assimilabili al “fascismo” storico, l’abbiamo avviata da tanto tempo e su diversi piani: soffermandoci desolati sul conformismo della professione scientifica, tutta pronta a mettere la propria firma sotto a un progetto (quello dell’unione monetaria) in cui i suoi esponenti più autorevoli avevano individuato più di un “effetto collaterale” (e ci dicevamo costernati che se al fascismo si erano opposti in dodici, all’eurismo nella professione accademica si era opposto solo uno); analizzando le conseguenze redistributive delle politiche di austerità (cioè di svalutazione interna) cui l’eurismo naturaliter conduceva, quelle politiche di cui oggi tutti dicono, più o meno convintamente, che fossero un errore, senza però chiarire quale motivazione questo errore avesse, ovvero quali ne fossero i risultati in termini di dialettica fra classi sociali (cosa che noi avevano fatto ad esempio qui, parlando della Lettonia, ma prima ancora qui…); riflettendo quindi sul legame storico fra politiche di austerità, polarizzazione del discorso politico e avvento dei regimi autoritari, un tema che oggi è mainstream, al punto che siamo già alle meta-analisi (cioè agli articoli che sintetizzano i risultati di un’intera letteratura: uno è questo, e vale la pena di dargli un’occhiata), ma che certo era altrettanto mainstream quando dicevo, inascoltato e incompreso sul “manifesto”, che “nel lungo periodo le politiche di destra avvantaggiano solo la destra” (qui), o quando, un pochino (dieci anni) prima del meritorio lavoro di Galofré-Vilà e altri su austerità e ascesa del partito nazista, ci rendevamo conto che Hitler non era il prodotto della mitologica “inflazione di Weimar”, ma dell’austerità (qui ad esempio ce lo documentava Alex), e ce ne preoccupavamo.

Insomma, la riflessione che mi veniva, leggendo le parole del pregiato Chimico scettico, era forse un po’ ingenerosa, e sicuramente molto insidiosa (il rischio del paternalismo è sempre imminente, come, del resto, quello del grillismo). Potrei sintetizzarla così: ci sono tante brave, ottime persone che di questo:

non hanno mai saputo niente (o, peggio ancora, lo hanno metabolizzato aderendo distratte al racconto del mainstream, o magari alla consolante idea che “tanto qui non potrà succedere!”), e che da questo:

non sono (ancora) state attinte.

Ora, attorno a questa constatazione potremmo organizzare diverse riflessioni, ma non ho tempo di farlo in modo sufficientemente strutturato, quindi vi accontenterete.

La prima riflessione è che carità vuole non solo che ci si accorga del Male e lo si contrasti prima che esso ti colpisca personalmente, ma anche che non lo si invochi come strumento pedagogico!

Certo che se il povero Chimico scettico si fosse trovato in mezzo a una strada nel periodo in cui tanti imprenditori si sono tolti la vita forse una riflessione l’avrebbe fatta, ma forse anche no. Come dicevo oggi alla Scuola di formazione, se a molti è passato inosservato il fatto che il percorso storico del Pil invece che alla C di crescita ci ha portato alla D di depressione, ciò significa che essi evidentemente hanno mantenuto o aumentato le proprie posizioni di benessere relativo. Ma allora, visto che la somma deve sempre fare il totale, questo significa anche che moltissimi altri siano stati letteralmente frantumati dalla crisi, al punto da non poter neanche organizzare una riflessione, neanche abbozzare una presa di coscienza. Non è augurando a chi non ha capito di ritrovarsi come il pensionato greco che riusciremo a costruire la diffusa consapevolezza necessaria per cambiare traiettoria.

D’altra parte, la storia dei “punturini” contiene due lezioni importanti e complementari: la prima, per loro, è che puoi disinteressarti di quanto ti accade intorno, ma prima o poi la realtà busserà alla tua porta; la seconda, per noi, è che sulla presa di coscienza individuale, sulla reazione alla minaccia esistenziale diretta, non si può costruire alcun discorso politico di sufficiente respiro.

Insomma: il fatto che altri si accorgano che siamo in una situazione delicata è senz’altro positivo. Senza una corretta attribuzione di responsabilità, però, senza una corretta analisi, rischia di diventare un fatto episodico, effimero, di alimentare il pulviscolo degli “zero virgola”. L’anomalia italiana esiste, ed è nel fatto che chi ci ha condotto da B a D sia ancora in Parlamento con percentuali ragguardevoli, il che significa che c’è una percentuale ragguardevole di italiani che ha visto difesi i propri interessi da chi ha portato il Paese in depressione, o, più probabilmente, che non ha maturato una coscienza sufficientemente lucida di quali siano i suoi interessi.

Come possiamo aiutare questa presa di coscienza?

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“Carità e coscienza” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Il reddito di Giavazzanza e la scoperta della partita doppia

(…il titolo è parzialmente da attribuire a uno dei più simpatici di voi…)

“La posizione del mainstream è in rapida evoluzione”, è scritto nel nostro Dizionario.

Non è del tutto corretto.

Nonostante quanto si dice sull’accelerazione dei processi storici, la nostra personale Guerra dei trent’anni sta durando i canonici trent’anni: la posizione del mainstream evolve, ma in modo talmente lento che si rischia di essere vittime di change blindness, il fenomeno neuropsichiatrico che un nostro amico ci descrisse in un post di nove anni fa che vale la pena di rileggere, individuandolo come fondamento neurologico del metodo Juncker (descritto qui).

La change blindness, così, ci affligge due volte: quando ci nasconde le avanzate del nemico, e quando ci nasconde le sue ritirate. Nel secondo caso è forse anche più insidiosa, perché ci impedisce di occupare, rivendicandolo, il terreno abbandonato dal nemico. Succede ogni volta che loro dicono, come fosse chissà quale scoperta, chissà quale parto della loro fertile mente (senz’altro ben concimata), cose che dicevamo da sempre, semplicemente per averle lette nei libri su cui tutti abbiamo studiato. Ma appunto, se da un lato la lentezza del cambiamento ci impedisce di percepirlo, dall’altro questo non significa che esso non sia in corso. Sottolinearlo, prenderne atto, esserne coscienti, ci aiuta a dare un senso e una direzione alla nostra lotta. Aiuta anche a sfuggire alla trappola di portare avanti un discorso meramente notarile (la registrazione degli interminabili QED), che rischia di essere stucchevolmente autocelebrativo e mortalmente noioso (per chi scrive prima che per chi legge), e quindi, in definitiva, escludente, più che esclusivo (si può essere includenti ed esclusivi, ed è molto meglio che essere escludenti ed inclusivi…).

Vi ho ricordato più volte, e vi sarà anche venuto a noia, l’8 settembre di Giavazzi, che poi fu un 7 settembre, quello del 2015:

quello in cui il Prof. Ing. Giavazzi venne a dirci una cosa che qui sapevamo fin dall’inizio e avevamo messo nero su bianco cinque anni prima nel famoso articolo rifiutato dal blog della Bocconi:

cioè che la crisi in cui eravamo impantanati non dipendeva dal debito pubblico, ma dal debito privato contratto con creditori esteri, cioè da squilibri di bilancia dei pagamenti.

Mi sono andato a rileggere i post di settembre 2015: aprii quel mese in uno stato di prostrazione, che curai andando a trovare per la prima volta Scarpetta di Venere, mi ricreai andando alla scoperta di Libberopoly, cercai di spiegare, inascoltato, perché le donne non fanno più figli, mi rallegrai con voi per la nostra vittoria ai Macchia Nera Awards, assegnammo il Big Beaver Award, feci un bel concerto, e chiusi il mese con la soddisfazione di veder citato il mio lavoro da un nostro recente amico, ma non mi sembra che dedicai, né che dedicassimo, sufficiente attenzione a questo significativo arretramento del Prof. Ing., a parte per un po’ di cagnara su Twitter:

(un po’ effimera, se non condotta con il dovuto piglio), e per una impercettibile allusione nel post del 7 settembre:

Forse non occorreva dire molto di più, o forse sì, forse un minimo di approfondimento andava fatto, perché quando i Bocconi boys, sommi sacerdoti del controintuitivo, accondiscendono a registrare l’ovvio, dietro un motivo c’è, e non è detto che sia un motivo banale!

Oggi ci risiamo.

Non su VoxEU, dove un minimo standard di decenza devono mantenerlo, perché è letto anche da colleghi meno conformisti e subalterni di quelli nostrani, ma sul Corriere della Sera (che è un diverso genere letterario, come qui ben sappiamo), l’ineffabile ingegnere ci delizia con la profondità delle sue analisi, aggrovigliandosi in un coacervo di contraddizioni tenute insieme dal tenace mastice di un radicale disprezzo per la democrazia, che è poi disprezzo per il demos, cioè per voi. Accecato dall’odio verso gli sdentati, verso i redneck, verso i fascioleghisti, verso chi non la pensa come lui, cioè verso gli italiani (in Italia), il nostro migliore alleato, in questa battaglia in cui, essendo in inferiorità numerica, dobbiamo contare sulle forze dell’avversario, commette un errore clamoroso, questo:

Senza farsi né in qua, né in là, il nostro ineffabile ci dice quello che qui tutti abbiamo sempre detto e saputo, cioè che la retorica del debito pubblico “onere sulle generazioni future” non tiene. Il debito oggi può rendere migliore la vita dei cittadini di domani, semplicemente perché a fronte di questo debito, di queste passività, c’è necessariamente un credito, ci sono delle attività tangibili o intangibili di cui le generazioni future beneficiano (migliori infrastrutture, una migliore istruzione, ecc.). A differenza della volta precedente, però, in cui il generale Giavazzi si era semplicemente arreso all’evidenza, ammettendo che la crisi non poteva essere stata causata da un debito, quello pubblico, che era stabile o in diminuzione pressoché ovunque, questa volta le sue esternazioni necessitano di una lettura attenta. Motivazioni e intenzioni del cambio di orientamento non sono difficili da leggere e ci porteranno, come vedrete, a scenari che da tempo qui ci aspettiamo di dover affrontare.

Il presupposto è che oggi come ieri Giavazzi è saldamente dalla parte di politiche redistributive a favore del capitale, dalla parte dell’abbattimento dei salari reali a favore di profitti e rendite. Per un po’ lo strumento di questo obiettivo è stato l’euro, con la deflazione salariale cui esso necessariamente conduceva. Ora che l’euro ha esaurito il suo potenziale distruttivo, perché la deflazione salariale ci ha riportato in equilibrio con l’estero, per proseguire sulla strada delle politiche Hood Robin occorre altro, e questo altro, come ci siamo detti, è il green, il proseguimento della lotta di classe al contrario realizzato sussidiando le imprese per gonfiarne i profitti, e abbattendo i salari reali tramite un innalzamento dei prezzi dei prodotti.

Politiche simili generalmente conducono a una crisi di domanda, ma di questo Giavazzi, che è offertista, non si cruccia, verosimilmente perché nemmeno se ne rende conto. La preoccupazione di Giavazzi è un’altra: che gli elettori europei votino contro politiche che li impoveriscono. L’indignazione di Draghi, pardon: di Giavazzi, di fronte a una simile mancanza di riguardo è palpabile, ma siccome entrambi desiderano (per il momento) mantenere un’apparenza di democrazia, un rimedio occorre trovarlo. La risposta è semplice: ai sussidi alle imprese vanno aggiunti sussidi ai lavoratori, un reddito di Giavazzanza finanziato con debito (rigorosamente europeo) che tenga tranquilli i lavoratori vicino al livello di sussistenza, e che “le generazioni future” ripagheranno perché in cambio avranno avuto un mondo più pulito.

Per bocca del suo pupazzo il ventriloquo Draghi ci fa finalmente sapere quale sia il debito buono: quello contratto per erogare sussidi, e per finanziare il riarmo! La logica sottostante è piuttosto chiara, e poco importa che i sussidi non siano di per sé un paradigma di spesa produttiva, e gli armamenti siano invece per definizione spesa distruttiva. Siamo ormai arruolati: un esito che non dovrebbe stupire chi mi segue da un po’, perché non ho fatto molto per nasconderlo:

C’è ovviamente da preoccuparsi, per tanti motivi. L’assurdità dell’esercito unico europeo in un contesto in cui non si riescono a gestire con sufficiente tempestività e con obiettivi condivisi neanche quel minimo di strumenti economici che si sono messi in comune dovrebbe balzare agli occhi di tutti, e comunque l’abbiamo ampiamente sviscerata in altre sedi, analizzando la Security and Defense Union. Una declinazione del “più Europa” particolarmente inquietante. Dobbiamo però restare freddi e infilarci in questa crepa dialettica del mainstream, allargandola a nostro vantaggio. Del ragionamento tendenzioso e grossolano di Giavazzi dobbiamo tenere solo un pezzo: fare debito pubblico non necessariamente danneggia chi viene dopo. E a questa verità lapalissiana dobbiamo aggiungere un risoluto: anzi!

Anzi!

Non è danneggiando i genitori, abbassando il loro livello di reddito, di istruzione, di salute, che potrai salvare i figli! Non è abbattendo gli investimenti che si incrementa la produttività, e noi, come ricordai in aula al ventriloquo di cotanto pensatore, siamo stati l’unico fra i grandi Paesi europei ad avere investimento netto negativo, cioè distruzione di capitale fisico:

ovviamente in coincidenza con il massiccio taglio di investimenti pubblici di cui nessuno si ricorda:

Non è corretto dire che il debito pubblico “non è necessariamente” un “onere scaricato sui giovani di domani” che “dovranno ripagare il debito che oggi si emette”. Non è vero perché i giovani domani non dovranno ripagare nessun debito: sarà il mercato a rinnovarlo, se domani ci sarà sufficiente crescita, e quindi sufficiente gettito fiscale, per pagare gli interessi, ma la crescita ci sarà se ci saranno sufficienti lavoratori e sufficiente capitale fisico. Ne consegue che le politiche di austerità non aprono, ma chiudono spazi fiscali nella misura in cui distruggendo capitale umano e fisico prendono il Paese meno produttivo, intaccano la sua capacità di creare valore, e nella misura in cui distruggendo reddito fanno crescere, anziché calare, il rapporto debito/Pil.

Lo abbiamo preannunziato, è successo, ora tutti possono vederlo coi loro occhi.

E quindi il debito non va contratto per tenere buone, sussidiandole, le vittime di politiche regressive, le vittime dell’austerità: va contratto per fare politiche progressive, di investimento e non di sussidio.

A loro fa paura che voi lo capiate e vi regoliate di conseguenza a giugno. Ve lo dicono pure! Più di questo che cosa volete?

Restiamo saldi e non cediamo alle provocazioni.

Buona serata e buona settimana!

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“Il reddito di Giavazzanza e la scoperta della partita doppia” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Inflazioni

Si dice che la storia si ripeta, e a noi che abbiamo visto e compreso la tragedia euro è fisiologico che le sue ripetizioni appaiano farsa. Fatto salvo il diritto di chi invece non c’era, e se c’era dormiva, di attribuire il  nobile rango di tragedia a un dramma che ha per protagoniste le virostar o consimili gliScienziati, mi sembra importante che ripetizioni dello stesso schema narrativo (tragiche o farsesche che siano, o che le si vogliano considerare) vengano correttamente individuate come tali. L’unico vaccino contro le narrazioni è il riconoscerle. Solo questo può disinnescarne il potenziale retorico, cioè persuasivo, e consentirci di mantenere, a prezzo di un minimo input di ragionamento analogico, un decente equilibrio emotivo e mentale, una minima capacità di analisi razionale dei fatti e delle loro interpretazioni.

Per fare un banale esempio, nella diretta di oggi:

segnalavo che nel proporci il “vaccino” euro i “virologi” dell’epoca (Prodi & friends) trascurarono di attirare la nostra attenzione sui possibili effetti collaterali di cotanto farmaco. Del resto, lo stesso accade anche nella proposizione (o imposizione) del “vaccino” green: sembra che il litio si trovi a vil prezzo negli scaffali dei supermercati, sembra che le pale eoliche a fine vita si possano semplicemente ripiegare e mettere in tasca, ecc. Le narrazioni si aggirano nella landa incantata dei free lunch, dove tutto è possibile, e soprattutto lo è ghrhaduidamendhe (ricorda qualcosa?)!

Ma il mondo non funziona così.

Le controindicazioni del “vaccino” euro scaturivano, guarda un po’, dal fatto che esso veniva proposto, cioè, possiamo anche dircelo, surrettiziamente imposto, a una platea di pazienti molto diversificata: pazienti giovani, in età dello sviluppo, e vecchi, pazienti obesi di debito o finanziariamente snelli, pazienti più o meno febbricitanti di inflazione, ecc. Si tratta, insomma, del famoso tema delle politiche one-size-fits-all, delle politiche a taglia unica. Può un unico tasso di interesse (o di cambio) andar bene per economie diverse o in fasi diverse della loro esistenza? Perché anche a parità di età, peso, e conformazione, altro è un convalescente e altro è un paziente nel pieno vigore. La risposta ovviamente è no, e la scienza, che, nonostante i validi sforzi dei gliScienziati, in fondo, nel lungo periodo, tende a riproporsi fastidiosamente come una versione formalmente corretta e validata del buonsenso, dava proprio questa risposta.

Come nel caso di altri “vaccini”, anche nel caso dell’euro gli effetti collaterali non solo c’erano, ma erano anche stati correttamente individuati ab initio  dalla scienza (che non è la sua cugina puttana, cioè Lascienza, come vi ho spiegato qui quando la medicina non vi interessava, ma lei si stava già interessando di voi). Non solo! Erano anche correttamente specificati nei “bugiardini” delle istituzioni, che appartengono, come le case farmaceutiche, al novero delle entità che non possono permettersi di non dire la cosa giusta mentre fanno la cosa sbagliata! La reputescion è tutto, e siccome carta canta e villan dorme (ma non dovrebbe!), ecco ad esempio che nel 1999 mamma BCE ci informava premurosamente del fatto che:

“Sta andando tutto bene, i prezzi stanno convergendo, in ogni caso sta andando meglio che da altre parti, ma se i prezzi dovessero divergere allora sarebbero necessarie le riforme strutturali”.

Insomma, quello che sapete perché qui ne abbiamo parlato fin dall’inizio:

Non è erdebbitopubblico a rendere necessarie le riforme strutturali, ma la mancanza di competitività, cioè l’aumento dei prezzi dei prodotti nazionali, per rispondere al quale è necessario causare disoccupazione, a fine di sbriciolare il potere contrattuale dei lavoratori, abbatterne i salari, e recuperare per questa selva oscura la competitività ch’era smarrita. Era questo lo scopo inconfessato della riforma del mercato del lavoro, che avevamo descritto nel 2012, e che oggi chiunque può leggere nei dati.

Qui leggete il quasi raddoppio della disoccupazione:

mentre qui sotto ne vedete le conseguenze, cioè il ribaltamento del differenziale di inflazione (con l’inflazione che diventa più gagliarda a Nord):

da cui deriva l’apprezzamento del tasso di cambio reale del Nord (il prezzo dei beni del Nord in termini dei beni del Sud):

cui corrisponde una ricomposizione degli squilibri esterni (il saldo della bilancia dei pagamenti che torna positivo al Sud) e della posizione finanziaria netta sull’estero, come abbiamo visto qui:

Messo in un altro modo, l’effetto collaterale sgradevole della moneta unica era che essa implica un tasso di cambio unico (quello fissato dalla Bce), ma non un tasso di inflazione unico. Possono esistere differenziali di inflazione anche rilevanti fra i vari Paesi, e questi differenziali possono determinare squilibri che vanno però curati con riforme strutturali (leggi: disoccupazione) perché un tasso di interesse unico non può essere utilizzato per mitigare tassi di inflazione diversi!

Chiaro il punto?

Se la Ruritania ha l’inflazione al 6% e la Cracozia all’1%, e i due Paesi sono Stati membri di un’unione monetaria con obiettivo di inflazione al 2%, i casi sono due:

1) se comanda la Ruritania, la Banca centrale unica alzerà il tasso di interesse fino a quando l’inflazione ruritana non scende al 2%. Nel frattempo, in Cracozia l’elevato costo del denaro causerà un crollo del credito e quindi degli investimenti (cioè della spesa per macchinari e attrezzature, che le imprese normalmente finanziano con credito bancario) e anche della spesa per consumi (nella misura in cui le famiglie dopo aver pagato il mutuo non avranno più soldi da spendere). Morale della favola, alla fine la Ruritania avrà i prezzi sotto controllo e la Cracozia sarà in recessione.

2) se comanda la Cracozia, i tassi di interesse verranno tenuti bassi, per rianimare l’economia e il processo inflattivo in Cracozia, e la Ruritania vedrà il proprio tasso di inflazione salire ulteriormente o quanto meno non convergere rapidamente al 2%, ma così facendo perderà competitività e andrà in deficit di bilancia commerciale verso la Cracozia, accumulando debito estero e aprendo le porte a una crisi finanziaria.

Come sapete, noi siamo la Cracozia, la Germania è la Ruritania, e comanda la Ruritania, motivo per cui i tassi sono alti e noi cresciamo meno di quanto potremmo, avendo un’inflazione tendenziale che ormai è sotto l’1%.

Perché per così tanto tempo questo fenomeno, che tutti i libri di testo descrivono, è stato poco (o comunque meno) evidente?

Semplicemente perché in un ambiente in cui l’inflazione era mediamente bassa, erano mediamente piccoli gli scarti fra i tassi di inflazione. Se escludiamo l’ipotesi di deflazioni drastiche (cioè di tassi di inflazione negativi e forti in valore assoluto), allora capite subito che un’inflazione media al 2% la avremo in contesti in cui i singoli tassi vanno dall’1% al 3% (a spanne). Difficile immaginare un contesto in cui una media del 2% risulta da tassi che vanno dal -6% al 10%! Tutto può essere, ma…

Viceversa, quando l’inflazione media viaggia sul 10% (poniamo), allora è facile che ci possano essere scarti elevati, che questo 10% sia la media fra (poniamo) il 15% in un paese e il 5% in un altro. Insomma, senza andare su cose troppo tecniche come questa:

si intuisce che fra il livello dell’inflazione e la sua dispersione (incertezza) una qualche relazione esiste.

I periodi di bassa inflazione, che tanti mali hanno portato, fra cui le varie ZIRP, un bene però ce l’avevano, ed era quello di garantire una dispersione tutto sommato sostenibile fra tassi di inflazione, cioè di mitigare la necessità di politiche monetarie, di livelli di tasso di interesse, diversificati per Paese.

Ma ora le cose non stanno proprio così…

Ve lo mostro (come promesso) con un grafico che raffigura il livello medio e la dispersione dell’inflazione, quest’ultima calcolata con l’indicatore più semplice, il range, cioè la differenza fra i tassi di inflazione massimo e minimo registrati negli SM (Stati Membri) dell’Eurozona:

Si vede bene che la situazione attraverso cui siamo passati di recente e da cui non siamo ancora completamente usciti ha rappresentato e rappresenta un momento di stress unico nella storia dell’Unione monetaria, con differenziali di inflazione che si sono avvicinati ai 20 punti percentuali a metà 2022:

Ora le cose stanno un po’ meglio, ma siamo ben lontani da una situazione sostenibile:

(i dati, variazioni tendenziali su rilevazioni mensili, sono di Eurostat).

Con 6 punti di differenziale fra il Paese con inflazione più sostenuta e quello con inflazione più bassa, che siamo noi, non si regge a lunghissimo. Ma tirar su i tassi sperando che la Germania si avvicini abbastanza rapidamente dal 3.8 al 2 (perché della Slovacchia anche chi se ne frega, credo pensino a Francoforte!) quando noi siamo allo 0.5 comporta, ovviamente, che qui si soffra parecchio. I tassi di interesse reale in Germania sono ancora sostenibili: da noi molto meno, con una serie di conseguenze, ad esempio sull’accumulazione del debito pubblico.

E attenzione! Un pezzo di questa eterogeneità è dovuto al legame fra volatilità e livello dell’inflazione, per cui si può pensare di curarlo agendo come che sia sul livello (banalmente, se bombardassimo tutta l’Eurozona con un sufficiente numero di testate nucleari l’inflazione convergerebbe ovunque a zero, come tutto il resto: la Lagarde per fortuna non ha testate ma solo tassi, e quindi può causare danni più contenuti, ma resta il punto che sempre dal causare un danno devi passare). Un altro pezzo però è semplicemente eterogeneità! Fateci caso: i Paesi più sfortunati in termini di inflazione, nei due esempi che vi ho fatto, sono due Paesi di recente ingresso: Estonia e Slovacchia. In effetti, nel grafico precedente ho considerato quei Paesi (come tutti gli altri) solo dalla data del loro ingresso, ma se rifacessimo il grafico come se l’attuale Eurozona “a venti” fosse nata appunto a venti, cioè come se la Croazia, l’Estonia, ecc., fossero entrate nel 1999, il risultato sarebbe stato questo:

In altri termini, l’attuale episodio di elevatissimi scarti fra l’inflazione massima e minima non sembrerebbe più un caso eccezionale ed isolato, ma il terzo di una serie. 

Contro questi banali dati dell’esperienza storica ed economica non si può fare nulla. Anche cianciare di “bilancio pubblico federale” o simili ha poco senso. Non è con la politica di bilancio che riesci a riassorbire in modo rapido simili squilibri nominali, perdite di competitività così rapide. E in ogni caso, a che ti serve il bilancione unicone europeone se il problema è il “fine tuning” a livello nazionale? A nulla, perché per usare in modo differenziato a livello nazionale una massa battente di risorse disponibile a livello sovranazionale occorrerebbero livelli di solidarietà impensabili ora e irrazionali sempre!

Quindi, miei cari amici, ma de che stamo a parlà?

Ci vuole tanta pazienza, e per indurvi ad averla vi ricorderò che i fatti hanno la testa dura, e che, per nostra fortuna, non siamo noi quelli che li stanno prendendo a capocciate!

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“Inflazioni” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Il “green” e la lotta di classe

Non vi intratterrò a lungo e preferirei non intrattenervi per nulla. Purtroppo però da un lato non posso dare per scontato che l’ovvio sia tale per tutti, e dall’altro mi infastidisco quando qualche tardivo enunciatore dell’ovvio viene portato sugli scudi come un novello Keynes (o Marx, o Smith). Mi corre quindi l’obbligo questa sera di repertarvi succintamente l’ovvio.

Una proposta di policy che preveda da un lato massicci sussidi pubblici alle imprese per sostenerne i profitti, e dall’altro un’erosione del salario reale, realizzata inducendo coattivamente i lavoratori ad acquistare beni più costosi, determina in re ipsa una redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale, ed è quindi la cara vecchia lotta di classe al contrario che avevamo imparato a riconoscere, in diverso contesto, nel post genetico di questo blog.

Il green è questo: sussidiare, nel nome di un fine superiore, aziende che non hanno mercato, e comprimere, nel nome di un fine superiore, i salari reali dei lavoratori dirottandone la spesa su prodotti più cari (vuoi a causa delle innovazioni tecnologiche – fuori mercato – che incorporano, vuoi a causa della tensione inflattiva che l’eccesso di domanda di alcune materie prime necessariamente determina e determinerà).

Si può argomentare che ciò conduca a un mondo migliore, in particolare che nel lungo periodo, quando sarete tutti morti, questo condurrà a un mondo di energia facile e a buon mercato, al Paradiso Terrestre. Qualcuno potrebbe essere interessato ad argomentarlo ma a me qui e ora non interessa discuterlo. A me qui interessa solo evidenziare il fatto che la proposta green come oggi è articolata si traduce in una politica redistributiva fortemente regressiva, che danneggia i ceti deboli e avvantaggia il grande capitale. Questo è il motivo per cui piace tanto al WEF, non certo la devozione al Grande Capro o altre baggianate da bollicina di metano social.

Per chi sta qui queste dovrebbero essere #lebbasi, i ferri del mestiere!

Nel diciannovesimo post di questo blog avevamo messo bene in evidenza il legame fra ecologismo e austerità, e quello che scrivemmo in quel post che all’epoca fece molto discutere resta tutto valido. Tout se tient: i gatekeeper salvatori di Ursula erano anche quelli della decrescita e della biowashball. L’invito a comprimere i consumi nel nome di un fine superiore era strettamente connesso alla necessità di rendere socialmente accettabili (in nome di un fine superiore) politiche di compressione dei consumi, cioè, appunto, l’austerità, la distruzione di domanda interna necessaria a riequilibrare la nostra posizione netta (meno reddito, meno consumi, meno importazioni, meno deficit estero).

Il green è solo una versione esasperata e per certi versi caricaturale (dall’austerità dei Savonarola decrescisti alle treccine della bimba climatista) della stessa storia.

Con questo non si vuole negare alcunché. Semplicemente, si vuole far notare che, come già fu con l’euro, i saccenti coglioni soloni “progressisti” sono gli utili idioti di un progetto regressivo che colpisce per prime le classi sociali che la “sinistra” nasceva in qualche modo per proteggere, un progetto che presenta rilevanti margini di irrazionalità all’interno della propria stessa metrica (se il problema è la CO2, allora facciamo i conti su quanta ne produce un’auto elettrica nel suo ciclo di vita), un progetto che avrebbe alternative che nessuno vuole considerare, e che poi sono quelle di cui vi parlavo nel Tramonto dell’euro:

Il secondo punto di questa lista è quello che oggi si chiama “mitigazione”, una strada che nessuno vuole intraprendere perché è fatta di investimenti pubblici diffusi sul territorio e che generano occupazione: ma alle grandi imprese i sussidi (che hanno una ricaduta concentrata e diretta nei loro profitti) fanno molto più comodo degli investimenti (che hanno una ricaduta diffusa sul territorio), e quindi il discorso prevalente è orientato nel modo che sappiamo: quello di una nuova economia di comando green e ESG il cui scopo è riproporre, in altre e più nobili vesti verdi, quello che detto da Warren Buffet agli utili idioti verdi sembrerebbe inaccettabile (ma sono loro i primi a contribuire alla sua concreta realizzazione)! Una volta che il discorso è orientato così, la politica ha difficoltà a imprimere un corso diverso, quand’anche lo volesse, e comunque non può agevolmente farlo, non in una colonia governata a botte di direttive e regolamenti decisi altrove (un altrove dove i cittadini si sono ampiamente rotti i coglioni e lo stanno dimostrando, peraltro…).

Come Carlo Cipolla ci ha spiegato, si può essere stupidi in una infinità di modi, e quindi, come dire: accomodatevi, l’ospitalità è sacra! Vi esorto però a evitare un particolare modo di essere stupidi: venirmi a dire che sono un negazionista. Io qui non sto parlando del problema, ma delle soluzioni, anzi, dell’unica soluzione che viene proposta, e vi sto dicendo che questa proposta redistribuisce soldi dalle vostre tasche a quelle di chi le ha già piene (e vi sto anche dicendo che non sarebbe l’unica proposta, e che ce ne sarebbero di meno regressive in termini di distribuzione del reddito).

Chi nega questo semplice dato economico non è un negazionista: è un coglione. E come diceva la mia nonna, pe’ malati c’è la china, pe’ verdi non c’è medicina!

E ora dite la vostra, che io la mia l’ho messa a verbale.

P.s. del giorno dopo: sto mandando in spam tutti i commenti che mi suggeriscono l’imperdibile video del prof. Shapiro della Chattanooga University il quale dimostrerebbe che ecc. (fregnaccia naturalistica a piacere). Qui il tema è un altro e sono grato a chi si atterrà ad esso.

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“Il “green” e la lotta di classe” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

L’UE è una URSS che ce l’ha fatta (finora…)

Detesto Facebook quasi quanto l’ipocrisia.

Ogni tanto sospetto che dovrei vincere queste mie avversioni se volessi aspirare al ruolo di autentico politico di territorio. Lo scopo del gioco, mi sembra ormai evidente, non è infatti tanto quello di essere presenti, quanto quello di dimostrare con l’aiuto del signor Pan di Zucchero che si è stati presenti: un bel selfie sorridenti, un post punteggiato di “Bene!”, “Avanti!”, “Andiamo a vincere!”, e l’omo campa… Non suonino a critica queste parole, perché non lo sono: bisogna fare il pane con la farina che si ha, in chiesa coi santi e in taverna coi ghiottoni, ecc. Se questo è quello che il general public percepisce come presenza politica, in quel beauty contest keynesiano cui l’attività politica si è ridotta (ricordate? “It is not a case of choosing those which, to the best of one’s judgment, are really the prettiest, nor even those which average opinion genuinely thinks the prettiest. We have reached the third degree where we devote our intelligences to anticipating what average opinion expects the average opinion to be.“), se lo scopo del gioco non è tanto essere presenti (cui bono, visto che gli stessi elettori che ci chiedono mirabilia sono quelli che ci hanno condannato all’irrilevanza?), se lo scopo è mostrare che si è stati presenti, sottrarsi a quest’ultima bisogna alla fine danneggerebbe la squadra, che viene giudicata non per quello che fa o non fa, ma per quello che la gente si aspetta che debba fare (e quindi “Bene!”, ecc.).

Va poi detto che “l’onorevole non mi risponde al telefono!” è un genere letterario: per quanto tu possa essere presente e assiduo, il vittimismo grillino, fatto per metà di una radicale incomprensione del lavoro parlamentare, e per l’altra metà dell’irriducibile convinzione di essere il perno del cosmo, è una costante biometrica (non mi spingo fino all’antropometrica) ineliminabile! Ma come ogni cosa per cui non c’è soluzione, anche questo è un non problema.

So far, so good

D’altra parte, questo blog è nato per lasciare una traccia nei cuori delle persone, non nelle loro bacheche.

Non ve lo dico per sancire la mia definitiva rinuncia a lasciare una traccia nei vostri cervelli (non mi arrendo)! Volevo invece sottolineare che ci sono circostanze, momenti, incontri, che mi sembrerebbe di prostituire se mi compiegassi a darne il resoconto standard del bravo politico presente nel (le bacheche del) territorio. Di quei momenti posso riferire solo qui, in questo non luogo, un luogo cui l’inesistenza e l’irrilevanza conferiscono un’intimità particolare, quella che mi ha consentito di condividere con voi in passato tanti momenti della mia vita familiare e professionale, e a voi di condividere con me e tutti noi momenti della vostra. La chiamiamo umanità, anche se, visto che in un processo di tempo homo si è identificato con vir, possiamo presumere che “umanità” sia diventata una parola di odio, una parola di-vi-si-va, ed è comunque una facoltà cui  in molti hanno abdicato, forse perché sordamente consapevoli del non potersela permettere.

Volevo oggi riferirvi brevemente di uno di questi incontri.

Qualche giorno fa dovevo recarmi a Lama dei Peligni.

Non pensate a Toledo: la “lama” dei Peligni non era quella impugnata dai Peligni, non è quella di una spada, ma quella della Murgia (quella vera), e i Peligni forse nemmeno c’erano arrivati, scollinando dal valico della Forchetta, a Lama, perché la Valle Peligna in realtà è dall’altra parte della Maiella, come voi ben sapete, e il territorio di Lama pare fosse occupato dai Sanniti, in particolare dai Carricini, quelli di Juvanum, che sarebbe questo:

Insomma: il nome di questo bel paese di un migliaio di abitanti contiene un doppio equivoco, il che non toglie che ci si viva bene, almeno dal Neolitico, e che, anche se magari non ne avete mai sentito parlare, esso sia legato a cose di cui potreste aver sentito parlare, come questa, già teatro di una brutta storia, che oggi sarebbe considerata bruttissima (e andrebbe censurata) perché scritta da un fasheesta.

E io che ci andavo a fare?

Mentre in macchina scendevo dalle propaggini della Montagna d’Ugni, aggiravo Palombaro, mi intrufolavo dietro lo stabilimento del noto pastificio (immediatamente intercettato da una security più efficiente di quella del #goofy), risalivo da Civitella Messer Raimondo (questo Raimondo qui, che una traccia nella storia l’ha lasciata, al tempo della contesta fra aragonesi e angioini), in effetti la stessa domanda tormentava anche me! Preciso: sapevo di andare a sostenere due amici, due candidati alle elezioni regionali, ero anche curioso di sostare in un Paese dal quale ero passato forse solo una volta, salendo da Fossacesia a Pescocostanzo (due bei posti, ma non ditelo troppo in giro, che sul turismo non la penso come la Hollberg ma molto peggio, anche perché io so di cosa parlo), questo lo sapevo.

Ma non sapevo che cosa avrei detto, né che cosa avrei dovuto dire.

Sì, i nostri candidati de quo sono due eccellenti persone e si sono date da fare in consiglio regionale, portando risultati, e naturalmente lo avrei ribadito con convinzione. Peccato che questo fatto, pur non essendo scontato, lo sembra. Vale qui il:

Teorema di Bagnai sulla neutralità elettorale dell’emendamento.

Ipotesi: sia data una Repubblica parlamentare.

Tesi: nessun emendamento per quanto rilevante ha mai spostato né mai sposterà un voto.

Dimostrazione: quando le cose vanno bene, il cittadino pensa che ciò gli sia dovuto, e ha perfettamente ragione di pensarlo! 

…che è poi il motivo per cui devo nascondere, con grande sforzo, un sorriso di infastidita accondiscendenza quando vedo laggente sbattersi ultra vires per far approvare una cosa del cui merito, se ha un senso, sarà il Governo ad appropriarsi (vedi il caso della mia proposta di legge sul contante o di quella di Claudio sui vandali o dell’emendamento di Molinari sull’IRPEF agricola), mentre i diretti interessati si limiteranno a dire che non va bene e che volevano di più (vedi il caso dell’emendamento sulle multe ai vaccinati). Questo teorema di neutralità mina alla radice una delle retoriche che furono alla base dell’adesione al governo Draghi, e in generale di ogni scelta “governista”: “laggente ci votano perché noi amministriamo bene, quindi andiamo al Governo e #facciamocose, che la gente ce ne sarà riconoscente!”

Sì, è vero che, per come ho imparato a conoscerli, i nostri amministratori esprimono una buona cultura amministrativa, sanno attrarre e utilizzare fondi (i famosi fondi italiani erroneamente detti “europei”, perché di europeo in quei fondi c’è solo l’uso assurdo che se ne fa, come sottolineato qui), è tutto vero, è tutto giusto.

Ma è il mondo a essere ingiusto e irriconoscente!

Purtroppo non funziona così, perché la normalità ha due difetti insanabili: mentre assicurarla richiede uno sforzo titanico, essa stessa resta impercettibile. Chi si accorge delle cose normali? Chi si chiede quanto lavoro ci sia dietro? Chi si predispone a ringraziare per questo sforzo? Nessuno. Ne consegue che in un Paese in cui le cose stanno andando così:

(come ci siamo detti a fine anno), e in cui quindi la maggioranza soffre, se pure talora inconsapevolmente, quello che devi dare non è un emendamento, o un fondo “europeo” con annessa pecetta propagandistica da apporre sull’uscio, ma un’alternativa.

Queste riflessioni rispondevano anche a un’altra domanda: mi sarei dovuto addentrare nei problemi del paese, raccogliendo aneddoti dai miei militanti, o da qualcuno dei tanti amici sindaci circonvicini che frequento (poco più sopra ci passo le vacanze, ed è sempre una buona idea essere amici dei sindaci di posti meravigliosi), e magari prepararmi un discorzetto su cose che chi mi ascoltava comunque conosceva meglio di me? Forse anche no, non era il mio ruolo, ma eventualmente quello dei candidati, e forse non era nemmeno quello di cui chi avrei incontrato avrebbe avuto bisogno, quand’anche non sapesse e non fosse possibile illustrargli che il suo destino era di finire in C e non in D…

Questa, e altre cose, rimuginavo mentre parcheggiavo e entravo nella sala del consiglio comunale, che ospitava l’incontro. L’atmosfera era piacevolmente accogliente, quasi natalizia. In poche decine di uomini di ogni età, che riempivano l’ambiente raccolto, si trovavano il bambinello, un angelico lattante biondo non (ancora) interessato alla politica, ma già capace di stare in società, la Madonna sotto forma di connessa giovane madre, e i pastori, uomini dai volti incisi come le valli della montagna madre che guardano verso il mare, molti più anziani di me. Quasi tutti ignoti, tranne un mio ex studente (ce n’è sempre uno: in dodici anni di insegnamento si semina più di quanto si possa immaginare), gratificato a suo tempo da due 29 (non ricordavo di essere così bastardo…), e un paio di nostri amministratori e militanti. Entravo in quella sala con una certa rispettosa circospezione: ero arrivato tardi di pochi minuti, avevano già cominciato a parlare (in Abruzzo non so mai su quale fuso regolarmi, se su UTC+0 o UTC+1: quella era la sera di UTC+1…), non volevo distrarre i colleghi che stavano parlando, e non volevo nemmeno fargli fare brutta figura. Ero anche un po’ overdressed, perché venivo dritto dall’inaugurazione dell’anno giudiziario, dove non sarebbe stato il caso di presentarsi underdressed (anche se, per dirla tutta qui dove nessuno la legge, secondo me in Italia questo me lo sono letto solo io, ma capisco che molti possano trovare Saint Simon o Proust delle letture inutili, e alla fine questo è il meno rispetto al fatto che molti mi credono ancora in Senato…), e non avrei mai voluto che quel mio essere incravattato in un completo a tre pezzi potesse essere letto come il tentativo di rimarcare un rango o di frapporre un diaframma.

In quattordici anni di esposizione in contesti pubblici ho sempre parlato a braccio, non mi sono mai scritto un discorso, ma spesso l’ho trovato scritto sulle pareti delle aule che mi hanno accolto. Ed è andata così anche questa volta. Di fronte a me, accanto alla porta d’ingresso, campeggiava ben visibile una lapide dedicata alla memoria dei patrioti della Brigata Maiella, una storia che per qualche strano motivo, come ho detto a Pietransieri nel commemorare questi morti, resta un po’ nascosta nel panorama culturale degli italiani, come l’Abruzzo resta nascosto nella loro geografia mentale.

E così, quando mi hanno dato la parola, ho detto ai miei rappresentati, perché comunque in Parlamento sono io a rappresentarli, quello che mi frullava per la testa. Ho detto loro che immaginavo il legittimo orgoglio del sindaco comunista che il 25 aprile del 1989 affiggeva una lapide per ricordare il sacrificio di quei patrioti, e anche, possiamo dircelo, per appropriarsene politicamente, senza sapere che 198 giorni dopo quel gesto nobile, per quanto certamente venato da una scusabile scorrettezza, un altro manufatto sarebbe crollato, lasciando “lu sindache” orfano della sua casa politica, e avviando quel processo storico che avrebbe portato la sinistra a cercare protezione in un altro referente esterno: in assenza di ideologia e finanziamenti dell’Unione Sovietica, la sinistra, per governare a dispetto degli elettori, si sarebbe posizionata sotto l’ombrello dell’Unione Europea.

“Perché alla fine”, dicevo ai miei rappresentati, “l’Unione Europea è un’Unione Sovietica che ce l’ha fatta. Ma voi, dicevo ai più anziani, voi vi potete immaginare un Breznev venire a dirci che dal 2035 dobbiamo passare tutti all’auto elettrica, e il distretto industriale di Atessa si fotta? Vi potete immaginare un Andropov dirci che dobbiamo sostituire la farina di solina con quella di grillo, e gli arrosticini con la carne coltivata? Potete concepire un Černenko che ci impedisca di vendere una casa a meno che prima non ci spendiamo un pozzo di soldi in prodotti cinesi per renderla “verde”?”

“No”, proseguivo, “una cosa simile era al di fuori di quanto fosse lecito concepire anche nel peggiore degli scenari, quello in cui i cosacchi avessero abbeverato i propri cavalli alle fontane di Piazza San Pietro. Ma dove non sono arrivati i gerarchi russi, sono arrivati i tecnocrati europei. E come ci sono riusciti? Facendoci abbassare la guardia. Perché al tempo dei due blocchi era chiaro che il mondo era diviso in due, che potevi stare di qua o di là, il riferimento ideologico “di là” era la difesa del lavoro (sull’efficacia di questa difesa si può discutere), il riferimento ideologico “di qua” era la difesa del mercato (tradotto in pratica come socialismo dei ricchi, quello che socializza solo le perdite), ma insomma si capiva che una tensione esisteva, che niente era dovuto, che bisognava impegnarsi e lottare, e per organizzare e indirizzare questa lotta c’erano i partiti. Poi ci hanno detto che era tuttapposct, e non dovevamo preoccuparci: la nostra libertà era al sicuro perché aveva vinto la democrazia, cioè noi. Ma il mondo è ancora diviso in due, e per capire chi è l’avversario dobbiamo guardare chi attenta alla nostra libertà: l’Unione Europea. Tanti lo hanno capito e tanti lo stanno capendo, per cui, se quello che vi ho detto vi suona sensato, sostenete il partito di chi vi ha portato a questa riflessione. La lotta per avere più libertà, oggi, è la lotta per avere meno Europa. E quella lapide ci racconta che anche ieri non è che le cose stessero in modo molto diverso.”

Contrariamente a quanto potessi aspettarmi, a conferma del fatto che chi parla col cuore parla al cuore, il discorso, non particolarmente più lungo di così, pareva convincesse i presenti. Mi sono poi fermato a parlare con loro, entrando nella granularità dei dissidi e delle bizze che sarebbe tanto meglio poter comporre e sedare. La vita è fatta anche di questo. Che però ora, in questo meraviglioso mondo pacificato e unipolare, stiamo subendo livelli di condizionamento esterno semplicemente inimmaginabili al tempo del conflittuale mondo bipolare, questo lo avevano capito tutti, forse perché, prima che mi materializzassi nel mio completo a tre pezzi, lì non ci aveva pensato nessuno.

E ora, dopo aver condiviso con voi queste scene dalla vita di provincia, queste memorie del mio collegio analogico, con voi che siete il mio collegio digitale, vi saluto e torno a occuparmi di griglie: griglie di emendamenti, griglie di pareri, griglie di audizioni, griglie di nomine. Non è robba che sse magna: è un noioso lavoro, e qualcuno deve pur farlo.

(…ricordatevi quello che ci disse Jacques Sapir: fino al giorno prima tutti erano convinti che il sistema non funzionasse, e tutti erano convinti che sarebbe durato per sempre…) 

(…amo la Hollberg, anche se finora non ho avuto il tempo di scriverglielo. Perché purtroppo le cose stanno come dice lei. Le strade dove camminavo da bambino, per mano ai miei genitori, emanano oggi il lezzo dell’etnico e del fashion – sapete quando si passa per il duty free in aeroporto? L’odore delle botteghe, dei rosticceri, dei droghieri, l’incenso delle chiese, la resina dei cipressi, tutto è annichilito dal rullo compressore delle economie di scala, dei franchising, dei grandi numeri. Amo il mio collegio perché conserva delle sacche tenaci di autenticità: e qualsiasi autenticità, qualsiasi radice, anche se formalmente non tua, è meglio della fintaggine. Del resto, anche in centro a Roma, città che non ho mai sentito veramente mia nonostante ne abbia tanto amato la cultura nelle sue varie stratificazioni, ormai soffro per quella presenza opprimente. Forse l’Abruzzo è protetto dall’essere terra di passaggio. Guardate la Puglia, luogo di arrivo un tempo delle pecore – a Foggia – e oggi dei turisti – in Salento. Tutto bellissimo: la Natura e l’Arte. Ma quando cominci a voler piacere a qualcuno di diverso da te, e che in fondo non conosci, ti addentri in un territorio impervio e ostile dove sei destinato a subire molte perdite, prima fra tutte quella dell’autenticità. Forse ne soffri solo tu, perché per definizione chi proviene da un altro humus non è in grado di percepire il danno fatto. Certi processi vanno gestiti prima che il danno sia fatto. Dopo è inutile parlare di filiere corte e di presidi slow food…)

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“L’UE è una URSS che ce l’ha fatta (finora…)” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Sprofondo rosso: la situazione debitoria dei Bleus

(…per il collegio analogico parto nel pomeriggio, domani si inaugura l’allungamento della pista dell’aeroporto di Pescara – che speriamo non sia la premessa di un’invasione di locuste, ma consenta di connettere i nostri distretti industriali con il resto del mondo – e oggi sono a casa a fare lavoro d’ufficio. Mi è venuto però in mente un modo diverso di dirvi una cosa che vi dico da sempre, e comincio la giornata da qui, dal mio collegio digitale…)

Ogni tanto mi chiedo se il post più citato di questo blog (più citato da me, intendo), cioè il primo, “I salvataggi che non ci salveranno”, sia stato letto e compreso da qualcuno. Spero di sì, contro ogni evidenza. Qualche giorno fa l’amica Durezza del vivere ci segnalava che nel dibattito pubblico francese si fa strada la coscienza della fragilità della situazione:

e il nostro amico GioMacone, volendo essere colto, diceva probabilmente il contrario di quanto intendesse dire. Essoterico è infatti ciò che si rivolge all’esterno della comunità, ciò che può essere comunicato ai non iniziati, come esoterico è ciò che si rivolge all’interno, che è comunicabile o comprensibile solo agli iniziati. Rivolto pro bono pacis a tutti un invito a non fare i colti, soprattutto se si è di sinistra (ormai quella roba lì non è più nel vostro DNA, lasciate perdere…), e ricordato che l’uso della punteggiatura è il marker sovrano della familiarità coi libri senza figure (o dell’assenza di tale familiarità), evidenzio che il mio intervento era chiaramente esoterico: usava il nostro linguaggio, dove le “parole macedonia” e la pronuncia ggiornalistica (erdebbitopubblico, detto tutto d’un fiato) vengono usate come espediente espressivo per evidenziare i luoghi comuni da bar, e puntava il dito su un dato che chi non ha fatto “il percorso”, il gradus ad Parnassum, non può intravedere, ma che alla fine di questo post non potrete ignorare.

Anche se sono tiepidamente convinto dell’opportunità di fare conversioni e quindi di sbattersi per parlare essotericamente (la verità è che le conversioni le faranno, come sempre, le bombe: lo scrittore Céline prevarrà sul pittore Luca 15,7, e sarà inevitabile un passaggio per Genesi 19,24), oggi non è agli altri che parlo, ma a noi, perché mi sembra più importante evidenziare il senso di un percorso, la consapevolezza di ciò che sappiamo o almeno dovremmo sapere, la giustezza delle nostre intuizioni. Mi affretto però a mettervi in guardia da un rischio, il solito: quello che avete capito, o credete di aver capito, usatelo innanzitutto per mettere in salvo voi stessi, poi per tentare (invano) di aprire qualche mente, ma mai come corpo contundente, come “veritah” da brandire come una clava. Non serve a nulla e squalifica voi e il messaggio che credete di portare.

Allora, torniamo al punto.

Le esternazioni di Moscovici evidenziano un dato in qualche modo rassicurante: tredici anni dopo gli occhi sono ancora autisticamente puntati nella direzione sbagliata, quella, appunto, de “erdebbitopubblico”. Insomma, tutti guardano questo grafico:

Figura 1

(fonte: EUROSTAT) e, per carità, l’operazione ha un senso, se non altro perché la fanno tutti! Nei mercati finanziari la reputazione gioca un ruolo essenziale, e noi sappiamo che it is better for reputation to fail conventionally than to succeed unconventionally, dal che consegue che è senz’altro meglio, se si vuole sembrare degli esperti affidabili, concentrarsi su indicatori che raccontano solo un pezzo della storia, se è il pezzo di cui parlano tutti gli altri. È proprio l’importanza della reputazione nella dinamica dei mercati finanziari a determinarne l’intrinseco conformismo, con le note conseguenze, e già questo dovrebbe farci riflettere su quanto sia intrinsecamente stupido affidare le nostre sorti a un’istituzione (il mercato finanziario) che funziona così, su un’istituzione che mentre fa della diversificazione del rischio un mantra (scientificamente fondato) tende endogenamente alla concentrazione delle opinioni, per una inesorabile dinamica sociologica, con tutto quello che ne consegue in termini di fragilità finanziaria. Ma tanto, quando il mercato fallisce, il conto lo appoggia a noi (e dobbiamo anche ringraziarlo)!

Letta nella metrica del rapporto debito/Pil, e schiacciata dall’ordine di grandezza degli ultimi sconvolgimenti, la storia sembra essere quella di un fallimento del nostro Paese, di un successo della Germania, e, appunto, di una “fragilità” della Francia.

Questa storia di rapporti al Pil ha senz’altro un senso.

Il problema del debito pubblico non consiste nel fatto che le generazioni future dovranno “ripagarlo”, come dicono i cretini, ma nel fatto che le generazioni presenti dovranno rinnovarlo a scadenza (quest’anno si va per i 400 miliardi di scadenze), e questo problema è facilissimamente risolvibile se il Paese emittente è in grado di dimostrare che saprà onorare il pagamento di interessi, cioè “servire” il debito. Il servizio del debito assorbe risorse, ovviamente. Detto in francese: sossòrdi. Ne consegue che la capacità di un Paese di generare valore, cioè la sua crescita, è la migliore garanzia per i creditori internazionali. Il discorso naturalmente è più complicato di così (stiamo trascurando che in un mondo di crescita e piena occupazione il lavoro cercherà di tirare la coperta della distribuzione del reddito dalla propria parte, lasciando al freddo la rendita finanziaria, per cui nonostante che la crescita sia la migliore garanzia che il capitale ha di essere remunerato, tendenzialmente il capitale tifa recessione per tenere sotto controllo il suo antagonista), ma teniamolo per ora a questo livello di semplicità e ripetiamolo in sintesi: il problema del debito non è ripagarlo ma servirlo, e, come diceva Domar, il problema del servizio del debito è essenzialmente quello di ottenere la crescita del reddito nazionale, del PIL.

Non è solo roba da archeologia keynesiana e non sono solo le parole di un fasheesta nazixenoomofobleghista professorino di provincia come me, ovviamente. A beneficio dei cretini segnalo che è esattamente quello che dice Moscovici, se pure in modo implicito, laddove nel suo intervento si inquieta perché:

(devo tradurvelo?).

Quindi sì, il rapporto al Pil de “erdebbitopubblico” un senso ce l’ha in quanto indicatore della nostra capacità di servire il debito, che poi è esattamente il motivo per cui avremmo dovuto evitare questo disastro:

Figura 2

(documentato nel post sulla sostenibilità del sistema pensionistico). A questo proposito, mi piacerebbe farvi osservare che dal 2000 a prima della nostra crisi il nostro debito/Pil era in lieve discesa e quello degli altri in lieve salita, e che l’avvio dei debiti nazionali su traiettorie fortemente divergenti è stato il risultato della crisi, o meglio della sua gestione, con l’austerità. Lo si vede bene, questo, alla fine della Figura 1, dove è chiaro che sospendendo le regole l’Italia è riuscita a riportare sotto controllo molto rapidamente il suo pur elevato rapporto debito/Pil.

Il punto, però, è sempre quello: stiamo parlando di una variabile relativamente poco rilevante, e ne stiamo parlando in un modo relativamente poco appropriato.

Cominciamo dalla seconda osservazione: l’inappropriatezza deriva dal concentrarsi esclusivamente sul numeratore. Non ci vuole molto a farlo capire, e ve lo faccio vedere in due modi diversi. Intanto, se non avessimo ucciso il Pil con l’austerità, cioè se a partire dal 2008 il Pil nominale fosse cresciuto allo stesso tasso di crescita medio sostenuto nel periodo dell’euro, la situazione oggi sarebbe questa:

e i relativi calcoli sono qui:

(fonte: IMF), dove Y è il Pil nominale storico, D il debito pubblico, g la crescita del Pil nominale (media 2000-2008 uguale a 3.76%), Y* il Pil nominale controfattuale (cioè quello che dal 2009 cresce al 3.76%), D/Y il rapporto debito/Pil storico e D/Y* il rapporto debito/Pil controfattuale, cioè costruito usando Y*.

Anche questo grafico non è il parto di un nazixeno ecc. di provincia, ma è stato presentato under Chatham House rules da un prestigiosissimo civil servant in una sede behind enemy lines (il che significa che Essi, come li chiamerebbe Luciano, sono perfettamente consapevoli del vero problema, anche se in pubblico non possono nemmeno farlo sospettare)!

A scanso di equivoci, certo, lo so che la crisi c’è stata per tutti, ma negli altri Paesi l’impatto sul Pil nominale è stato considerevolmente diverso:

In Francia la crescita nominale si è circa dimezzata, in Germania è aumentata, da noi si è ridotta a meno di un quarto di quello che era prima della crisi, ed è sufficientemente ovvio che l’assassinio degli investimenti pubblici da parte di Monti-Letta-Renzi-Gentiloni è stata magna pars del problema:

Con un denominatore (il Pil) così perturbato da eventi esogeni (l’austerità), forse può sfuggire quale sia la reale dinamica del numeratore (il debito). Sono qui per aiutarvi! È questa:

Fatto 100 il debito nel 2000, quello italiano è quasi raddoppiato, passando a circa 200 (204, per la precisione), quello tedesco invece pure (è passato da 100 a 205), mentre quello francese è più che triplicato, passando da 100 a 339. Vista così l’anomalia francese, su cui noi insistiamo da più di un decennio (vi ricordate il QED 10 e tutte le sue successive conferme?), fa veramente paura, e sicuramente il nostro caro amico Moscovici:

un pochino sta stringendo…

Voi direte: ma la Francia partiva da una posizione avvantaggiatissima, quindi anche se ha più che triplicato il suo debito pubblico sctaapposct, non c’è probblema, ecc. Non nego che la nostra situazione sia più delicata, ma voi i debiti pubblici di Italia, Francia e Germania li avete mai visti? Sono qui:

e non mi pare che da questo angolo di osservazione emerga un’assoluta anomalia italiana, o sbaglio? L’anomalia resta quella del Pil, di cui sappiamo le cause: le dissennate politiche di Monti, Letta, Renzi, Gentiloni.

E a questo punto, però, avrei voluto che almeno uno di voi si fosse posto una domanda, che certamente nessuno si è posto: “Sì, va bene, ma perché parliamo di questo? Perché insistiamo sul debito pubblico quando noi, qui, sappiamo, tu ci hai dimostrato, che il vero problema è quello estero, e che l’indicatore da monitorare, conseguentemente, non è il saldo pubblico, ma quello estero, come del resto sosteneva lo stesso Economist in tempi non sospetti?”

Eh già, perché?

Ma, il perché ve l’ho detto sopra: perché quando si è incasellati in un frame comunicativo che non si ha la forza di sovvertire, qualche volta può essere utile abbandonarsi alla corrente! Facciamo finta che il problema sia il debito pubblico, e non quello privato contratto con creditori esteri: in ogni caso, l’analisi che vi ho proposto sfata qualche luogo comune, e aiuta a concentrarsi sulla vera anomalia (quella del Pil).

Ma noi qui sappiamo che il vero problema è il debito privato con l’estero, e in generale il debito estero (pubblico o privato). Il motivo era noto prima ed è evidente adesso: in caso di crisi, sul debito pubblico interviene la Banca centrale, magari obtorto collo, perché altrimenti salta tutto, mentre è un po’ difficile immaginare che una Banca centrale rifinanzi le aziende! Per quello ci sono le banche, e eventualmente il problema che una Banca centrale deve porsi è come non farle fallire. Vi ricordate il ui are not ier to cloze spredz?

E vi ricordate com’è andata poi a finire?

Con tutto il rispetto per la perspicacia dell’ispettora Clouseau, non poteva andare a finire diversamente. Ma il fatto che chi ha un grosso debito estero poi vada a gambe all’aria lo abbiamo invece visto accadere mille e una volta ed è stato sancito anche da quelli bravi nel loro personale 8 settembre, che fu un 7 settembre:

La crisi scoppia quando c’è un sudden stop, un arresto improvviso del rifinanziamento delle posizioni debitorie con l’estero (il fenomeno del sudden stop in economia riguarda il debito estero), come qui avevamo capito da subito osservando che:

E allora, se la mettiamo in termini del debito veramente pericoloso, quello estero, la Francia come sta?

Sta così:

Figura 3

Non è una grossa novità: questo grafico sintetizza tutte le cose che sapete o dovreste sapere: la correzione, grazie all’austerità, della nostra posizione netta sull’estero (ne avevamo parlato qui):

l’incapacità della Francia di uscire dalla trappola dei deficit gemelli, di recuperare competitività, essendo a casa loro socialmente insostenibile una cura da cavallo come quella inflitta a noi, e il parassitismo della Germania, che dopo aver recuperato competitività con una riforma del mercato del lavoro finanziata in deficit nel 2003 (come spiegato qui) ha beneficiato in modo parassitario della propria fama di “porto sicuro” (safe haven) e delle politiche della Bce (che ha sostenuto il suo debito – che non ne aveva bisogno – quanto quello dei Paesi in crisi), ottenendo un duplice e connesso vantaggio: quello della svalutazione dell’euro, che le ha consentito di accumulare surplus esteri fino a oltre 2000 miliardi di euro, e quello dei tassi negativi, che le hanno consentito di far diminuire il proprio debito.

Ma quello che non vi ho mai fatto vedere, e conseguentemente non avevo visto nemmeno io, è l’inesorabile e inquietante sprofondo rosso dei Bleus:

Non so se il nostro vecchio amico Pierre (Moscovici) lo abbia capito o meno, ma lui dovrebbe preoccuparsi di quella roba lì. Certo, la Francia non è un’Irlandetta o una Spagnetta qualsiasi, ne sono assolutamente consapevole: gli attacchi dei mercati hanno anche una dimensione geopolitica e sotto questo profilo la Francia ha sicuramente delle garanzie. Resta il dato economico: la Francia è un grande Paese con un enorme problema di competitività che non sa come risolvere e non sta risolvendo, mentre noi il nostro problema di debito estero lo abbiamo risolto, se pure a costo di aggravare il problema del debito pubblico uccidendo il Pil (ma sopravvivendo alla sua morte).

Della situazione francese avevamo osservato soprattutto il dato di flusso (la persistenza del saldo estero negativo della Francia, l’ultima volta qui):

ma osservare il dato di stock, cioè l’accumulazione di questi saldi negativi in un gigantesco debito estero netto, di dimensioni mai raggiunte nel nostro Paese, è abbastanza frightening, come direbbe uno bravo. Non a caso di questi numeri nessuno vi parla: i mercati sono corretti, non amano rovinare le sorprese! Io, invece, che sono dispettoso, adoro farlo, come ben sapete…

Mi avvio a concludere (cit.).

Mi resta solo da dirvi perché è rassicurante il fatto che tutti guardino nella direzione sbagliata, e per di più con delle lenti deformanti! Ma è semplice: perché questo ci garantisce che l’asteroide (finanziario) arriverà e farà il suo lavoro. Quale? Beh, gli asteroidi della reputazione tendono a fottersene: la loro reputazione non è data da quello che dicono (non parlano!), ma dalla loro massa, che a giudicare dai grafici qua sopra è piuttosto ingente. Possiamo immaginare quindi che il loro impatto sarà purtroppo (spiace) più grave per i fragili, piuttosto che per quelli che chi vuole mantenere alta la propria reputazione di analista finanziario deve definire fragili. È già successo, ricordate? Quando arrivò l’ultimo asteroide, attorno al 2010, chi ci rimise le penne per prime furono Irlanda e Spagna, i due Paesi col debito pubblico più basso e il debito estero più alto (cioè la posizione netta negativa più elevata).

Ovviamente noi siamo per la composizione pacifica dei conflitti, per il prevalere della razionalità economica, e per una nuova Bretton Woods, come lo sono tanti altri, che però dimenticano quali cogenti forze spinsero tutti a sedersi attorno a un tavolo nel 1944, mentre i Sovietici entravano a Vilnius e i marines sbarcavano a Guam (dove invece oggi, per diversi motivi, sbarcano soprattutto giapponesi).

Bene intendenti pauca.

(…ah, ove mai non fosse chiaro, la Figura 3, cioè lo sprofondo rosso del debito estero francese, spiega perché l’ispettora Clouseau, dopo aver detto che lei non era lì per cloze spredz, ha dovuto correre a cloze spredz, altrimenti le banche francesi scoppiavano come pop cornz. Detto fattualmente: a me le polemiche non interessano…)

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“Sprofondo rosso: la situazione debitoria dei Bleus” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Il PD e i tagli alla spesa pubblica: lezioni per la destra

La pulcinellata alla Camera l’avete potuta vedere tutti:

I dati li avevate potuti vedere qui:

e quindi un’idea sulla consistenza delle recriminazioni della Schlein (che il Signore ce la conservi!) ve l’eravate potuta fare.

Ora, è un fatto che io ho una propensione per la Meloni semplicemente perché a suo tempo dimostrò di essere una persona aperta all’ascolto (l’altra certo non era tipa di venire a un #goofy), e resto grato alla cara memoria di Antonio Triolo che me la presentò tanto tempo fa. Penso anche che lei mi sia grata del fatto di non disturbarla (tanto ci pensa Borghi, inutile duplicare). Siccome però amicus Plato sed magis amica veritas, rilevo che in questo caso nessuna delle due contendenti, né quella che ha trionfato secondo i media di destra, né quella che ha trionfato secondo i media di sinistra, hanno detto l’esatta verità.

La menzogna della Schlein (che il Signore ce la conservi!) è tutta nel grafico qua sopra, quindi non ci tornerei su.

L’imprecisione della Meloni mi è stata segnalata da un membro del mio staff (sì, noi arroganti individualisti narcisisti tendiamo a lavorare in squadra: vedi com’è strano il mondo!) e in effetti rafforza l’argomento della Meloni. Il problema non è quindi che la Meloni abbia mentito come mente la Schlein (che il Signore ce la conservi!)  quando nega le evidenti responsabilità del suo partito nell’overkill della sanità italiana (chiaramente visibile nel grafico qua sopra). Il problema è che avrebbe potuto spargere il sale sulle rovine della Schlein (che il Signore ce la conservi!), ma per qualche motivo non lo ha fatto.

Per spiegarvi a che cosa mi riferisco devo entrare in aspetti legislativi.

Quello cui le due contendente (dico così per non offendere una delle due, l’altra è una persona spiritosa) si riferiscono nel loro scambio è il comma 71 dell’articolo 1 della legge 23 dicembre 2009, n. 191, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (aka legge finanziaria 2010)

ovvero il provvedimento che nella seconda finanziaria (si chiamava così la legge di bilancio) del Governo Berlusconi quater ancorava la spesa finanziaria per il successivo triennio ai valori del 2004.

Credo però che, complice, per una volta, il mancato uso della tecnica dei rimandi normativi, contro la quale si era giustamente scagliato nella XII legislatura il collega Serafino Pulcini con una sua interessante proposta di legge costituzionale in materia di redazione e semplificazione degli atti normativi, sia sfuggito un dettaglio.

Quale?

Il fatto che il tetto alla spesa non è stato adottato nel 2009, come dice la collega Schlein (che il Signore ce la conservi!).

È stato adottato qui:

Dice: “e che d’è sta robba?”.

Sono qui per servirvi! Trattasi del comma 565 dell’articolo 1 della Legge 27 dicembre 2006, n. 296, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (aka legge finanziaria 2007). Sarebbe, per capirci, la prima legge di bilancio del Governo Prodi bis.

Insomma: il tetto alla spesa per il personale della sanità pubblica è stato adottato da Prodi, quando era primo ministro del secondo Governo Prodi, e non da Meloni, quando era Ministro per la gioventù (non ho detto “giovinezza”!) del quarto Governo Berlusconi.

La mia inesausta Barmherzigkeit mi impedisce di far notare quanto sia comunque ridicolo attribuire a un Ministro per la gioventù la paternità di un provvedimento in materia sanitaria (“questo specifico problema l’ha creato lei!”); mi impedisce anche di infierire sull'”e non certo noi!”: perché, Prodi era un fascista? Secondo le categorie di questo blog sì, ma secondo le categorie dei professionisti dell’antifascismo direi proprio di no: mi sembra che fosse del PD, cioè del “noi” cui si riferiva la Schlein (che il Signore ce la conservi!).

Ci sarebbe tanto da dire, ma mi fermo qui.

E la morale della favola, quindi, qual è?

Direi che ce ne sono almeno due: la prima, mi sembra evidente, è “non faccia la destra ciò che ha fatto la sinistra”. Il Governo Berlusconi ha senz’altro sbagliato nel prorogare, in nome del “ce lo chiede l’Europa”, le scellerate disposizioni del Governo Prodi. Attenzione: qui non mi riferisco al fatto che le politiche procicliche sono sbagliate (non solo in recessione, ma soprattutto in recessione). Qui mi riferisco al fatto che fare quello che fa il PD è comunque sbagliato e resterebbe tale anche se fosse la cosa giusta! Insomma: reitero il mio accorato appello all’ideologia.

UE = PD = cose che non si nominano a tavola, period.

Ma se di tutto quello di nefasto che il PD propone vai a far tuo e riproporre proprio i tagli sulla sanità, allora quando la Leuropa arriva e ti depone (come confessò il ciabattino che somiglia a Mister Bean) non puoi aspettarti che il popolo si scaldi più di tanto in tuo favore.

E la seconda morale?

Beh, la seconda morale è che lo staff va costruito con attenzione. Nessuno di noi potrebbe prendere da solo le infinite decisioni che deve prendere nell’unità di tempo. Ne consegue che la qualità di chi ti aiuta a prenderle è determinante.

E ve lo dice uno che vi ha sempre detto che avrebbe preferito perdere da solo che vincere in compagnia! Eppure, dietro ogni mio discorso c’è tanto lavoro, non solo mio, ma anche di una squadra scelta con cura: perché, nonostante vi detesti, tutto vorrei tranne che deludervi.

Strano il mondo, vero?

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“Il PD e i tagli alla spesa pubblica: lezioni per la destra” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Chi ha dato e chi ha avuto: i numeri veri dei fondi UE

Il risultato non dovrebbe essere sorprendente: nei rapporti finanziari con l’UE ci abbiamo complessivamente rimesso. Non vedo come si possa sostenere il contrario, non solo e non tanto perché lo dicono i numeri (vi fornisco subito dopo le fonti dei dati e uno specchietto riassuntivo), quanto perché logica vuole che sia così. Nel progetto europeo l’Italia, soprattutto dopo gli “allargamenti”, si è trovata in condizioni di relativa preminenza, con un reddito pro-capite relativamente superiore a quello di tanti altri Stati membri. Il principio di coesione cui il bilancio europeo si ispira (e di cui qui avete un dettagliato resoconto) comporta quindi che gli italiani paghino per chi ha meno di loro.

Il fatto che nei nostri rapporti finanziari con l’UE il risultato sia complessivamente in perdita quindi sarebbe anche commendevole, in quanto rispondente a un principio solidaristico cui astrattamente si potrebbe aderire, considerando anche che in altre epoche (cioè all’epoca della Comunità Europea), l’Italia, di questo stesso principio, aveva beneficiato.

Il fatto però è reso a mio avviso indigeribile da tre circostanze:

1) gli operatori informativi questo fatto lo negano in modo pressoché sistematico, raccontandoci invece un’UE generosa nei nostri confronti (dove la generosità, come ci ha spiegato Romina Raponi, consiste esclusivamente nel dirci che cosa dobbiamo fare coi nostri soldi);

2) i beneficati in alcuni casi notevoli (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria…) non sottostanno ai nostri  stessi vincoli perché sono dotati di quel fondamentale strumento di politica economica che è la politica valutaria (hanno cioè una propria valuta e la manovrano per assorbire shock macroeconomici), il che rende il nostro aiuto abbastanza superfluo e la loro concorrenza abbastanza sleale (qui sotto vedete in che modo i tassi di cambio reale di Ungheria, Polonia e Italia hanno reagito alla crisi del 2008: Ungheria e Polonia hanno potuto svalutare subito, e questo le ha indubbiamente aiutate):

3) i fondi che ci vengono restituiti sono utilizzati dall’UE per fare propaganda a se stessa con un profluvio di targhe, simboli, bolli e ceralacche (basta pensare alla scuola dove portate i vostri figli: le targhe all’ingresso trasmetteranno a voi e ai vostri bambini l’idea che senza il generoso sostegno dell’UE quella scuola non sarebbe stata mai edificata! Peccato che quel generoso sostegno consti di soldi vostri…)

Alla fine la circostanza 3, che per me è la più urticante (se vuoi farti propaganda fattela coi soldi tuoi, cribbio!) è in fondo la più naturale: tutti sanno che la pubblicità la paga il cliente!

Ma veniamo ai numeri e alle loro fonti.

In Italia i rapporti finanziari con l’UE vengono monitorati dall’IGRUE (Ispettorato Generale per i Rapporti finanziari con l’Unione Europea), una “regione” di quello “Stato nello Stato” che è la RGS (Ragioneria Generale dello Stato). Le meticolose Relazioni annuale dell’IGRUE sono una delle principali fonti utilizzate dalla Corte dei Conti per redigere la sua Relazione annuale (che trovate qui).

Tutto molto bello, ma siccome noi siamo europei (non europeisti) le fonti che ci interessano sono quelle europee (non se la prendano le istituzioni nazionali: non è sfiducia!).

Del tema ci siamo già occupati qui, ma nel frattempo sono passati quattro anni e può essere utile consultare i dati aggiornati che si trovano alla pagina EU spending and revenue 2021-2027 in un foglio Excel intitolato EU spending and revenue – Data 2000-2022 (per le date antecedenti il riferimento resta lo EU Budget Financial Report del 2008).

I numeri che ci interessano sono sostanzialmente due:

il totale delle spese (dell’UE a beneficio dell’Italia) e il totale delle risorse proprie (del bilancio UE versate dall’Italia). Qui vedete questi numeri per l’anno 2000, che, come potrete controllare, coincidono (e non potrebbe essere altrimenti) con quelli riportati nell’EU Budget Financial Report del 2008:

Per vostra comodità riporto questi numeri in una tabella per ogni anno dal 2000 al 2022, usando per semplicità come intestazione delle colonne: Ricevuti, Dati e Saldo (quindi Ricevuti sono la spesa totale (dell’UE per lo Stato membro), Dati sono il totale delle risorse proprie (dell’UE ricevute da parte dello Stato membro), e il saldo è la differenza fra Ricevuti e Dati):

Sintesi: partendo dal 2000 (ma se si partisse da prima cambierebbe poco, e in peggio) abbiamo sistematicamente dato più di quello che abbiamo preso, e la differenza cumulata assomma a 97 miliardi.

A questo punto, però, i più scaltriti di voi potrebbero chiedersi: e il pereperepere (per gli amici PNNR)?

Giusto!

Dobbiamo considerare anche gli effetti di cassa connessi al PNRR, che sono riportati, a partire dal 2021, in questo quadro del “foglione” Excel:

Attenzione però! Le cifre vanno verificate e capite, e la prima cosa da capire è che tutto NGEU è finanziato con soldi presi in prestito, che vanno quindi restituiti, per cui, come in ogni prestito, a un effetto di cassa positivo oggi (un incasso) corrisponderà un effetto di cassa positivo domani (un esborso, cioè un rimborso). La cosa che probabilmente non tutti hanno capito è che questo riguarda non solo quelli che nel contesto del “recovery” vengono definiti loans (prestiti), ma anche quelli che vengono definiti contributi a fondo perduto o sovvenzioni (grants).

Ripagheremo anche il fondo perduto. 

Ma dove è scritto, e qual è quindi la differenza fra prestiti e fondo perduto?

Ma semplicemente è scritto nelle informazioni per gli investitori, cioè per chi ha prestato, sta prestando e presterà soldi alla UE nel quadro di NGEU.

La differenza fra prestiti e “fondo perduto” è questa:

i prestiti saranno rimborsati direttamente dagli Stati Membri, mentre il “fondo perduto” sarà rimborsato dal bilancio della UE.

E voi direte: quindi noi non dobbiamo rimborsarlo! E no, non funziona così. Funziona così:

Funziona che per ripagare via bilancio UE il cosiddetto “fondo perduto” gli Stati membri dovranno pensare ad altre “risorse proprie”, cioè, in definitiva, ad altre tasse per i cittadini. Ci sono le “Next Generation own resources”: mai sentito parlare del mercato del carbonio? Lo Emission Trading System e il Carbon Border Adjustment Mechanism saranno utilizzati per rimborsare il fondo perduto.

E come avverrà questo miracolo, come si arriverà dal carbonio al rimborso?

Semplice: passando dalle vostre tasche.

Tutto quello che comprerete costerà un po’ di più (o perché prodotto in Europa da aziende che avranno pagato un po’ più cari i permessi di emissione di CO2, o perché prodotto all’estero e quindi sottoposto al dazio “ecologico” del CBAM), e una parte della differenza verrà usata per rimborsare un prestito sul cui utilizzo non vi siete potuti compiutamente esprimere. Ma ovviamente questo non basterà, e quindi per l’occasione verrà innalzato anche il contributo delle altre risorse proprie. E dove sta scritto?

Ma è specificato nella DECISIONE (UE, Euratom) 2020/2053 DEL CONSIGLIO del 14 dicembre 2020 relativa al sistema delle risorse proprie dell’Unione europea e che abroga la decisione 2014/335/UE, EuratomDecisione del Consiglio (UE, Euratom) 2020/2053, la cosiddetta own resources decisions, dove è scritto chiaro e tondo che:

cioè che in deroga al principio secondo cui le “risorse proprie” (i soldi dati dallo Stato membro al bilancio UE) non posso eccedere lo 1.4% del RNL (reddito nazionale lordo) dello Stato membro, per ripagare il “fondo perduto” di NGEU questa soglia può essere innalzata di 0.6, arrivando quindi al 2%, fino al completo rimborso, e comunque non oltre il 2058.

Chiaro, no?

Il beneficio di NGEU, del recovery, del pereperepere, insomma, chiamatelo come volte, non è quindi quello di ottenere un regalo! Il beneficio esiste e consiste nel fatto di poter anticipare certe spese (che è il motivo per il quale normalmente si contraggono prestiti), ma questo beneficio, oltre a essere minimo, a parere di chi scrive (e non solo) è più che compensato da tre serie criticità:

1) con quei soldi non possiamo fare quello che vogliamo noi, ma quello che vuole chi ce li presta (avete presente andare in banca a chiedere un mutuo e la banca ve lo accorda se però sceglie lei che casa acquistate? No, ovviamente, perché nel mondo normale non funziona così. Nell’UE funziona così);

2) quei soldi sono pressoché impossibili da spendere perché l’intermediazione dell’UE aggiunge un livello di complicazione burocratica che non tanto gli italiani, quanto gli efficienterrimi Leuropei del Nord  non riescono a gestire:

3) il beneficio ipotetico derivante dal fatto che nel caso dei grants gli interessi li avrebbe pagati l’UE è anch’esso azzerato dal fatto che siccome della pianificazione finanziaria di NGEU si sono occupati due giuristi nordici diversamente attrezzati sotto il profilo delle competenze finanziarie, il carico di interessi che l’UE deve ripagare sui grants è già abbondantemente fuori con l’accuso, come saprete (chi segue Goofynomics lo sa da aprile 2023):

il che richiederà una revisione del MFF (Multilateral Financial Framework, il bilancio dell’UE), e indovinate un po’? Sì, avete indovinato: un ulteriore carico di “risorse proprie” (cioè di soldi vostri).

Qui c’è un articolo di quelli bravi, risalente a maggio 2023, io che ci sarebbero stati problemi a finanziarsi mi ero pregiato di dirvelo nel luglio 2020:

e che ci sarebbero state tante nuove tasse fin dall’inizio, ed ex multis qui:

Dopo aver chiarito questo aspetto (cioè che anche il “fondo perduto” è un prestito, e quindi come tale non va nel conto economico), vi fornisco anche la tabella comprensiva del fondo perduto:

Siamo sempre in credito, complessivamente, anche se lo sbilancio totale scende a 64 miliardi, ma dopo una breve parentesi in cui saremo apparentemente beneficiari netti come nel 2021 e nel 2022 dal 2028 il saldo annuale tornerà negativo, e pesantemente! (per via delle risorse proprie di NGEU, dell’innalzamento del massimale, e delle ulteriori risorse proprie richieste dall’imprevisto carico di interessi: tutte spese afferenti al rimborso delle “sovvenzioni”).

Nota bene: tanto è vero che i prestiti (loans) non vanno in conto economico, che nel foglio Excel quelli che trovate sono solo i contributi a fondo perduto (che però tali non sono, ma sono prestiti per i motivi che vi ho scritto e documentato). I soldi incassati in totale infatti li trovate nello NGEU tracker:

e i 10198 che vedete per il 2021 nello specchietto precedente corrispondono agli 8954 della Recovery and Resilience Facility riportati dallo NGEU tracker più le somme provenienti dagli altri strumenti “minori” di NGEU (sostanzialmente, finanziamenti addizionali degli abituali fondi europei):

Le cosiddette “sovvenzioni” (il fondo perduto) comunque sono poco meno di 70 miliardi:

di cui una trentina già incassati (ma non ancora restituiti). Questo significa che se nel prossimi tre anni non ci fosse alcun nostro esborso, ma solo quegli incassi, il nostro bilancio con l’UE resterebbe in rosso. Ma gli esborsi ci saranno, e accresciuti per i tre motivi che vi ho documentato.

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“Chi ha dato e chi ha avuto: i numeri veri dei fondi UE” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Contributivo, retributivo, capitalizzazione, ripartizione

Molto velocemente, che devo arrivare prima della neve (attesa per stasera).

Da alcuni commenti al post precedente, e da alcuni rigurgiti della cloaca nera, intuisco che una significativa maggioranza di italiani vive in un equivoco: quello secondo cui il passaggio al sistema contributivo (riforma Dini, per gli amici legge 335 del 1995) avrebbe reso il sistema pensionistico più sostenibile perché ognuno finanzierebbe da sé la propria pensione con i contributi che versa.

In altri termini, molti confondono il metodo di calcolo contributivo con l’adozione di un sistema a capitalizzazione.

Purtroppo (e ovviamente) non è così, e visto che hanno voluto non farvelo capire (altrimenti lo avreste capito) e quindi non vi sarà facile credere a me, proiettando un film già visto con l’euro vi fornisco subito l’auctoritas di un vero economista, il prof. Brunetta, attualmente presidente del CNEL, che nella sua audizione alla Commissione che mi onoro di presiedere ha specificato quanto segue:

(il resoconto lo trovate qui). Il cambio di metodo di calcolo (ancorato ai contributi versati anziché alle ultime retribuzioni percepite) non comporta un cambio di sistema di finanziamento, e ci mancherebbe! Se si fosse passati da un sistema a ripartizione a un sistema a capitalizzazione così, “de bbotto”, sarebbe stata una tragedia, perché ovviamente intere coorti di pensionati sarebbero rimaste senza pensione. Come mai? Ma per il semplice fatto che i contributi dei lavoratori attivi, anziché a finanziare le pensioni correnti, sarebbero andati, quali novelli zecchini d’oro, nel Campo dei miracoli finanziari, dove si sarebbero moltiplicati (salvo crisi uso Lehman…) in attesa di finanziare le pensioni future.

Lo stesso euro non può essere simultaneamente dato a un pensionato e investito da qualche parte!

Detta in modo brutale (non me ne si voglia), il passaggio dal retributivo al contributivo non significa il passaggio a un sistema che si autofinanzia e che quindi può relativamente fregarsene di demografia e crescita. I soldi vengono sempre dai contributi dei lavoratori attivi correnti, ma col contributivo puoi pagare un po’ di meno i pensionati correnti.

E quelli futuri?

Senza crescita economica e demografica, come mi avrete più volte sentito dire, né il metodo retributivo né quello contributivo offrono garanzie di sostenibilità. L’uno e l’altro metodo si applicano a un sistema a ripartizione, si basano cioè sul fatto che ci sia qualcuno che i contributi li stia pagando (non: li abbia pagati. Li stia pagando!).

E per pagare i contributi bisogna nascere, bisogna lavorare, e bisogna guadagnare.

Tre cose che, dopo l’austerità, sono diventate tutte più difficili, in particolare l’ultima, per i motivi riassunti dal noto grafico:

Chiarito l’equivoco, quando potrò tornerò su alcuni interessanti commenti al post precedente, riconoscendo ad anto e Alberto49 di aver sollevato certi temi in tempi non sospetti, quando mai avrei pensato di dovermi occupare per lavoro di pensioni.

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“Contributivo, retributivo, capitalizzazione, ripartizione” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Austerità e sostenibilità del sistema pensionistico

(…titolo molto didascalico…)

(… [20:17, 16/1/2024] Un amico che voi conoscete ma non indovinereste mai chi è: Bell’intervento da Brambilla.

[22:18, 16/1/2024] Alberto Bagnai: Ma la gente non capisce, non capisce! Sono veramente disperato.

[22:18, 16/1/2024] Alberto Bagnai: Comunque grazie!…)

Ringrazio Itinerari previdenziali, il suo Comitato scientifico e in particolare il suo presidente, il Prof. Alberto Brambilla per avermi invitato a questo interessantissimo momento di approfondimento e confronto.

Lo sforzo profuso da Itinerari previdenziali per presentare un quadro quantitativo oggettivo e veritiero del complesso mondo della previdenza, con un lavoro che definirei di vera e propria mediazione culturale fra dati e politica, è particolarmente meritorio. A fronte di un quadro sfaccettato, e di analisi prospettiche non sempre organiche, il Bilancio redatto da Itinerari Previdenziali rappresenta oggi un prezioso strumento di valutazione. Qui troviamo, in un solo documento, una visione d’insieme che insiste in particolare su fonti e sostenibilità del finanziamento del sistema previdenziale.

Come ogni anno, il quadro che ci consegna il Rapporto è caratterizzato da luci ed ombre. Da ottimista preferisco sempre iniziare dalle notizie cattive. Indubbiamente, il dato più inquietante messo in luce dal Rapporto è riferito all’esplosione della spesa assistenziale. Un dato, vorrei sottolinearlo, che di per sé non rappresenterebbe una assoluta novità, ma che inquieta per due motivi: per la dinamica in rapida accelerazione, e perché è totalmente assente dal dibattito pubblico, tutto incentrato sul tema pensioni.

Si potrebbe quindi sintetizzare questa parte dicendo che se un’emergenza previdenziale esiste, non è però del tutto corretto identificarla con un’emergenza pensionistica, soprattutto quando si imposti, come il Rapporto fa, un confronto corretto con la situazione di altri Paesi europei. 

Arrivano quindi le notizie buone:

  1. riprende, dopo la parentesi della pandemia, il miglioramento del rapporto attivi/pensionati, che è arrivato a quota 1,44 (lo evidenzia la Tabella 6.1 a pag. 111). Non è ancora stato raggiunto il massimo pre-pandemia (1,46), non è stata raggiunta quella che Itinerari previdenziali ha evidenziato come soglia di sicurezza (1,5), ma le prospettive di questo fondamentale indicatore di tenuta del sistema sono in rassicurante crescita;
  2. aumenta il tasso di occupazione e con esso le entrate contributive;
  3. migliora il saldo fra entrate e prestazioni, e il deficit del sistema, che scende di quasi 7 miliardi rispetto ai 30 dello scorso anno.

Sul versante delle Casse privatizzate, quello più attinente alla Commissione che mi onoro di presiedere, si registrano un numero di iscritti sostanzialmente stabile, rispetto all’anno precedente, e situazioni di equilibrio finanziario, con avanzi di gestione in un quadro in cui le Casse hanno complessivamente dimostrato di essere in grado di attuare il “welfare integrato” e hanno manifestato la propensione a svolgere il ruolo di investitori istituzionali ed a contribuire allo sviluppo dell’economia reale del Paese.

Anche queste notizie relativamente buone vanno però contestualizzate alla luce della “grande transizione demografica”. Un tema su cui il rapporto insiste molto, e che viene rappresentato in modo plastico dalla figura 6.1 a p. 122

che illustra il “grande pensionamento” tramite la consistenza delle coorti dei “baby boomers”: l’ondata di questi ultimi non si è ancora esaurita, e il rapporto indica la necessità di cautele per evitare che l’“equilibrio sottile” sui cui il sistema si regge venga compromesso.

La transizione demografica è nella vita di ognuno di noi, di me che a sessantun anni non ho nipoti, essendo stato nipote di un nonno che all’epoca era più giovane di quanto lo sia oggi (ma anche di un nonno morto più giovane di me, quindi non mi lamento). Un destino condiviso, immagino, anche da molti di voi, e espresso nelle statistiche efficacemente riassunte nel rapporto.

Da vecchio macroeconomista, mi permetto di aggiungere un elemento di analisi, che vorrei proporre come indagine specifica alla Commissione Enti Gestori: oltre all’inverno demografico bisogna tenere conto dell’inverno macroeconomico, non solo e non tanto per piangere sul latte versato, quanto per valutare correttamente l’efficacia dei precedenti interventi riformatori, al fine di indirizzare meglio un eventuale “cantiere delle riforme”, per trovare se non la bussola che auspica il professor Brambilla, almeno il suo ago. La metto in un altro modo, rifacendomi all’interessante contributo del prof. Brunetta, che ha articolato la sua audizione alla Commissione Enti Gestori sul tema della perenne necessità di interventi di riforma del sistema previdenziale italiano: ha senso chiedersi se questa reiterata necessità di correzioni dipenda solo dal fatto che le riforme precedenti erano in qualche modo sbagliate, o se magari la necessità di correggere il tiro sia dipesa da altri fatti, imprevisti e imprevedibili dal riformatore.

In altre occasioni ho ricordato che secondo il Fmi il Pil reale, depurato dagli effetti dell’inflazione, nel nostro Paese tornerà al valore anteriore alla crisi finanziaria globale (il valore del 2007) fra due anni, nel 2026. Speriamo di accorciare questi tempi: per anticiparli di un anno, al 2025, occorrerebbe crescere all’1% nei prossimi due anni, per anticiparli di due anni, al 2024, occorrerebbe crescere del 2% l’anno prossimo.

Obiettivi che nel contesto macroeconomico attuale sono estremamente ambiziosi. Per dare un termine di paragone, al volume di Pil del 2007 la Francia e la Germania sono tornate (superandolo) nel 2011. Quattro anni di arresto del sistema contro19.

La situazione non è molto diversa se si analizzano le dinamiche del Pil nominale, cioè del valore della produzione, che per definizione tiene conto anche dell’evoluzione dei prezzi, e che è quello utilizzato per calcolare i rapporti delle varie grandezze finanziarie.

In questo caso il picco anteriore alla crisi è stato raggiunto nel 2008, ma mentre Germania e Francia sono tornate a quel valore già nel 2010, l’Italia lo ha raggiunto solo nel 2015. Sette anni di arresto del Pil nominale contro i due di Francia e Germania. Possiamo leggere anche alla luce di questa disastrosa anomalia lo scalino nel rapporto fra spesa per pensioni e Pil leggibile nella figura 1.4 a p. 20 del precedente rapporto:

uno scalino che dura per tutta la fase di arresto del Pil nominale e si stabilizza quando il Pil nominale debolmente si riprende. 

Sarebbe interessante verificare se gli scenari dei vari riformatori tenevano conto di prospettive così catastrofiche, che rappresentano una assoluta anomalia nella storia del Pil dell’Italia unita (guerre mondiali comprese):

(…n.b.: per carità di patria non ho nemmeno pensato di presentare il grafico in scala logaritmica, ma siccome qui ci sono palati fini, a voi lo faccio vedere:

e chissà se qualcuno lo sa interpretare…).

Questo arresto assolutamente anomalo del Pil ha origini ben precise, rinvenibili nelle politiche di austerità. Per dare qualche ordine di grandezza, secondo l’OCSE nel 2018 gli investimenti pubblici erano 30 miliardi al disotto del loro sentiero tendenziale. Dal 2020 la sospensione delle regole ha consentito di riavvicinarli alla loro tendenza, ma nel 2022 erano ancora di 20 miliardi al di sotto del loro sentiero storico.

Il Rapporto, giustamente, fotografa l’esistente e non si avventura in controfattuali, che però possono essere utili a chi vuole valutare ex post la validità degli interventi di riforma.

Se il Pil nominale fosse rimasto sulla sua tendenza:

(come hanno fatto i Pil dei nostri principali partner europei) nel 2022 sarebbe stato di circa il 20% più alto:

e quindi i rapporti al Pil, ceteris paribus, proporzionalmente più bassi. Andando alla Tabella 6.4 di pagina 116:

questo significa che nel 2022 il rapporto fra spesa pensionistica e Pil, invece del 12.97%, sarebbe stato del 10.36%, e al netto della Gestione Interventi Asstenziali e dell’IRPEF lo stesso rapporto, invece dell’8.6% sarebbe stato del 6.9%.

Ci dobbiamo, insomma, porre seriamente il problema di quanto la sostenibilità della finanza pubblica, in senso lato, e in particolare quella del sistema previdenziale pubblico, sia stata compromessa esattamente da quegli interventi che si proponevano di tutelarla, di quanto l’adeguatezza delle pensioni future sia stata minata da interventi posti in essere in nome delle generazioni future, e che oggi vengono generalmente ritenuti errati.

Le opinioni cambiano, ma le macerie restano!

Lo sottolineo per porre con forza all’attenzione di una platea così qualificata quella che ritengo sia fra le varie emergenze nazionali la più urgente da risolvere. L’attenzione alla demografia e alla natalità è senz’altro commendevole e ben indirizzata, ma una maggiore sostenibilità delle gestioni previdenziali non si consegue solo dando alla Patria figli propri o altrui, ma anche, e forse soprattutto, dandole investimenti, cioè crescita, cioè stabilità dei percorsi di carriera individuali, cioè possibilità concreta di realizzare le proprie aspirazioni alla genitorialità, cioè, attenzione!, minore spesa per interventi assistenziali, e maggior gettito fiscale e contributivo.

Lo dico non per sminuire ma per valorizzare le proposte del Rapporto le cui sagge proposte sarebbero frustrate laddove in un contesto di crisi si attuassero politiche pro-cicliche i cui effetti ho cercato di aiutarvi a quantificare.

(…in realtà poi sono andato a braccio e quindi se volete le esatte parole pronunciate le trovate qui:

e se vi regge il cuore – o un altro organo interno a scelta – potete trovare anche tutto l’evento nella web tv della Camera.

Io, lo confesso, ero già con la testa ai prossimi appuntamenti – all’ambasciata indiana dove ho incontrato inaspettatamente uno di voi, che deve avermi visto piuttosto stanco, e poi a una cena di lavoro, dove sono arrivato ancora più stanco – ma mi fido abbastanza di chi abitualmente legge e non guarda come una mucca ecc.:


e il problema è che soprattutto l’intervento del venerabile – a suo modo – collega Tabacci, per il quale ho simpatia, riscontrava compiaciuti cenni di assenso in un pubblico che credo proprio non abbia capito che cosa gli ho detto. Forse non è facilmente spiegabile, o io non ne sono in grado, o l’orrore di esserci fatti in tempi di pace una cosa che è due volte più grave di quella che ci siamo fatti nell’ultima guerra è tale da comandare all’istinto di sopravvivenza un’immediata rimozione psicanalitica. La fossa che ci siamo scavati, per nulla, nella serie del Pil non la vuole vedere nessuno: gli fai vedere che si sono fumati il 20% del Pil nominale, e ti parlano pure loro di Idraulik e della tabaccaia scalabile, e il pubblico compunto annuisce, forse perché si ritrova in un terreno familiare, nel letame che ogni giorno gli propinano gli operatori informativi, quelli così accaniti nel perseguire
usque ad effusionem alieni sanguinis le fake news, perché il letame puzza, sì, ma ci si abitua, e alla fine il suo tempore e confortevole.

Non capiranno mai, e quindi non ci aiuteranno mai a uscirne.

Non ne usciremo, pertanto, in modo non traumatico, ma anch’io, invecchiando, vedo che comincio a ripetermi, perché questo ve l’ho sempre detto, mentre voi maturando, forse cominciate a capirlo, e a rimuovere a vostra volta questo orrore, e gli orrori naturaliter da esso conseguenti…).

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“Austerità e sostenibilità del sistema pensionistico” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Voi non siete cattivi…

 …ne sono certo (almeno per quanto concerne quelli di voi che conosco, o conoscevo). Sono assolutamente certo che certe cose non le fate con animus nocendi: anzi! Se vi comportate in un certo modo è, in tutta evidenza, perché pervasi dal sacro fuoco del fare qualcosa, del servire la causa, perché posseduti, inebriati dall’entusiasmo di avere compreso, e conseguentemente (?) di detenere la chiave di lettura che può aiutare gli altri a leggere il mondo nel modo giusto (?).

Questa chiave ha un nome che inizia per “v” e finisce per “erità”.

Ora, è vero che più di una volta mi è capitato di farvi notare che la verità non è una categoria politica (ad esempio qui, parlandovi del Partito Unico della Verità), così come non lo è l’onestà (cha cha cha), tema quest’ultimo che affrontammo a suo tempo (nel 2012). Quindi in teoria se molti di voi (quasi tutti) pensano di poter affrontare un ragionamento politico brandendo come una clava la Verità (che poi, in generale, sarebbe quello che pensano di aver capito leggendo me e qualcun altro), non dovrebbe essere colpa mia: io, che non funziona così, ve l’ho detto! Tuttavia, siccome in pratica è probabile che qualcuna delle mie considerazioni sfugga (ad esempio, qualcuno di voi potrebbe essersi perso il post sul Partito Unico della Verità), e d’altra parte è certo che fra guardare (come una mucca guarda un cartello stradale) e leggere una differenza c’è (e voi non sempre siete dalla parte giusta di questo spartiacque), poi capita che succedano incidenti, la cui conclusione, invariabilmente, è di far passare quello che da tredici anni sta cercando di aiutarvi a ragionare in modo critico (io, non so se ci avete fatto caso…) per uno che vi irretisce con teorie astruse, e voi, che, in fondo, non siete cattivi, per dei decerebrati adepti di una setta!

Potremmo per cortesia evitarlo?

Non che mi interessi quello che voi o altri pensino di me: non vorrei stucchevolmente tornare sul mio programmatico rifiuto del consenso, che comunque resta l’unica genuina garanzia per chi questo consenso decide di darmelo! Ma siccome voi non siete cattivi, mi dispiace che altri pensino male di voi. Per evitarlo, dovreste forse unire alcuni puntini che ho cercato di fornirvi nel corso del nostro comune cammino. Proviamo a farlo, o rifarlo, partendo da un esempio, questo:

Il tizio della Biblioteca d’Alessandria non so chi sia, anche se, secondo me, non lavora male, e a me piace seguirlo in alcuni dei suoi racconti (molto interessante, ad esempio, la serie sull’esperienza coloniale italiana). L’altro immagino che sia l’idolo di molti di voi (ne ho piena contezza solo nel caso di alcune amanti tradite!), non ho mai ascoltato un suo video, e mi sembra un perfetto interprete di quella che potremmo chiamare “la banalità del sensazionale”. Non è però su questa valutazione comparativa che vorrei soffermarmi, o per lo meno non ora. Le considerazioni che ho fatto non implicano che mi sembrino più plausibili le versioni dell’uno o dell’altro: sarebbe veramente idiota addentrarsi in questo ragionamento in un post che parte dal presupposto che alla fine la “Verità” (o forse dovremo chiamarla veritah) non sia una categoria politica! Alla fine, quello che vale per Report vale anche per Luogo comune (che intuisco essere il sito di Mazzucco).

Ciò su cui vorrei invece attirare la vostra attenzione sono i primissimi minuti del video del bibliotecario d’Alessandria, quelli in cui cataloga i commenti ricevuti sotto un suo altro video riguardante (a quanto capisco) l’Ucraina (e che mi interessa il giusto perché su questo, come su altri temi, la mia opinione me l’ero fatta una decina di anni fa e resta quella). Il povero bibliotecario, che sembra una persona civile, bersagliato da commenti di questo tenore: “Guarda questo video e troverai la verità!” giunge a una conclusione: “Io quel video non l’ho mai visto e non ho nessuna intenzione di vederlo, nessunissima intenzione di vederlo!”

So che sarete scandalizzati, ma secondo me la sua conclusione non è solo legittima (perché ognuno ha diritto di vedere quello che gli pare), non è solo naturale (perché chiunque venga aggredito istintivamente si difende), ma è anche, in un senso più profondo, giusta.

Strano come la parola che finisce per “erità” vista dall’altro lato finisca per “affanculo”…

E voi mi direte: “Sì, va bene (forse…), ma perché senti il bisogno di dircelo?”

Perché molti, troppi di voi (a mio avviso sarebbe troppo anche uno) si comportano come i commentatori “assertivi” del povero bibliotecario, cioè si comportano, non scientemente e scientificamente (perché non siete cattivi!), ma oggettivamente, in modo da allontanare qualsiasi lettore indifferente, o anche lievemente prevenuto a favore o contro i nostri argomenti critici, dalla lettura dei contenuti che propugnate con tanta veemenza, in modo da suscitare in chi non vi si sia ancora imbattuto un viscerale disgusto per la vostra “veritah” (che poi sarei io).

Analogamente, molti, troppi di voi, intervengono su quelli che ritengono essere troll (e che magari lo sono, in base ai parametri oggettivi che conosciamo o dovremmo conoscere) agendo da troll, cioè insultando, insistendo, ecc.

Vi risparmio esempi per carità di patria (e anche perché non ho tempo di cercarne, ma se non vi date una raddrizzata sarò costretto a farlo), come pure vi risparmio esempi di best practice (direi che Claudio può valere come repertorio di riferimento).

Mi piace invece commentare un episodio di qualche giorno fa, perché è particolarmente indicativo del fatto che voi non siete cattivi. La cosa è iniziata così:

(dal basso verso l’alto).

Sintesi: il 9 e il 10 gennaio avete disperatamente cercato di fare una cosa che non vi avevo chiesto, quando non ve l’avevo chiesta (non avendovela chiesta mai), e in un modo che vi avrei sconsigliato perché palesemente controproducente: mandare #goofynomics in tendenza.

Quello che avevo chiesto io era una cosa diversa: usare l’hashtag #goofynomics se si postava un contenuto di Goofynomics. Questa cosa un senso poteva averlo: ad esempio quello di aiutare chi fosse incuriosito dal contenuto di un post o di un tweet a trovarne di analoghi e magari ad atterrare qui. Ma mandare #goofynomics in tendenza per il gusto di farlo era controproducente sotto almeno un paio di profili, piuttosto evidenti (duole rimarcare l’ovvio). Uno è evidenziato già dallo scambio qua sopra, ma per maggior chiarezza vi fornisco un altro esempio:

Secondo voi, uno che non sa che cosa sia #goofynomics, quale interesse può provare ad approfondirlo se si trova a contatto con una simile bolla di sciroccati autoreferenziali!? Io scapperei a gambe levate, e considerate che Goofynomics c’est moi! Aggiungo una cosa più tecnica, ma se vogliamo ancora più ovvia: l’algoritmo, come è ovvio (mi ripeto) penalizza lo spam. Come si fa a essere così… così “non cattivi” da pensare che un algoritmo si faccia forzare dallo spam!? Se per andare in tendenza bastasse ripetere un hashtag sessanta volte in un tweet tutti potrebbero andare in tendenza! Ma ovviamente (insisto, perché è ovvio, com’è ovvio che non siete cattivi) l’algoritmo penalizza lo spam, da cui questo saggio consiglio:

che, permettetemi di sottolinearlo, fa un po’ specie dover dare a persone che come voi sui social ci vivono!

La risposta alla domanda “perché #goofynomics non è in tendenza” era quindi molto semplice: perché voi spammando questo tag lo stavate mandando in blacklist:

Quindi, non per cattiveria (perché voi non siete cattivi), stavate conseguendo un fine che era l’opposto delle vostre intenzioni, e soprattutto delle mie (che infatti non vi avevo chiesto niente, e se vi avessi chiesto qualcosa non vi avrei chiesto questo): penalizzare l’hashtag che vi avevo chiesto di utilizzare in modo corretto (e non di provare a mandare in tendenza a genitale esterno di carnivoro).

Eggnente, voi non avete capito dove siete: eppure ho cercato di farvelo capire in ogni modo! Siete a casa di uno che non tifa per Faust.

Quelli di voi più familiari con le lingue sanno che a Roma, quando si dice di uno che non è cattivo, è perché si vuole dire che è un “cojone” (l’ortografia corretta è questa). Se ho dedicato una serata che avrei dovuto dedicare ad altro a reiterarvi la mia profonda convinzione che voi non siate cattivi, è per enfatizzare il mio sofferto e partecipato auspicio che diventiate, o almeno sembriate, meno “cojoni”, perché questo non fa bene né a voi, né a me, né al supremo interesse del Dibattito.

Se poi voleste anche diventare cattivi, lo apprezzerei. In qualsiasi opera drammatica il cattivo magari perde, ma è senz’altro più affascinante e piacevole da frequentare del “cojone”. E siccome, nonostante siano già passati tredici anni, siamo solo all’inizio del nostro percorso, capirete che preferirei proseguirlo senza annoiarmi…

Ma soprattutto, insisto su questo concetto, vi chiedo un minimo di coerenza con la retorica bellicista che tutti vi penetra e vi permea, la retorica dello scontro decisivo, la retorica del nemico, la retorica dell’eterna lotta del Bene (voi?) contro il Male. Prendiamo come convenient working hypothesis che si sia effettivamente in guerra e che voi siate qualcosa di simile a dei soldati. Bene. Allora io sono il vostro sergente Foley, dal che discende che dovete fare quello che dico io, quando lo dico io e come lo dico io, che è un po’ il contrario di quello che avete fatto: fare una cosa che non vi avevo detto di fare, quando non vi avevo detto di farla, e come non vi avevo detto di farla!

Lo dico nel vostro interesse, non nel mio! I social sono un gioco, la vita è altrove. Ma a voi piace vincere. Secondo voi #borghidimettiti e #bagnaiarrogante sono andati in tendenza per caso? 

Secondo me no.

E allora limitatevi a fare quello che vi chiedo, o a ignorarmi. Preferisco perdere da solo che vincere in compagnia, ma se c’è una cosa che mi dà al cazzo è perdere in compagnia per colpa degli altri!

Soprattutto quando non sono cattivi…

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“Voi non siete cattivi…” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Segare il ramo, un anno dopo

Ci eravamo lasciati circa un annetto fa con questa sintesi: dopo aver distrutto i propri mercato di sbocco nell’Eurozona, e essersi preclusa i mercati di sbocco extraeuropei con la sua arroganza, cioè dopo aver segato il ramo su cui era seduta, l’economia tedesca si trovava in una situazione delicata. Una “reflazione controllata”, realizzata spingendo sulla domanda interna (con investimenti o altra spesa pubblica, o con tagli di imposte) avrebbe sostenuto la crescita, ma, alimentando il processo inflattivo già in atto, avrebbe fatto perdere competitività, e quindi domanda estera:

Da anni i più illustri commentatori (e anche i meno illustri, come chi vi scrive) auspicano che la Germania realizzi una simile politica di sostituzione della domanda estera (esportazioni) con quella interna (investimenti), nell’interesse proprio e di chi le sta intorno. Per motivi sufficientemente ovvi, chiedergliela è però inutile. D’altra parte, questo sarebbe uno dei peggiori momenti per metterla in pratica, sotto molteplici profili. In particolare, il contesto inflazionistico crea alla Germania non solo un problema economico, ma anche un problema politico, considerando lo sforzo fatto lungo gli anni per portare la stabilità dei prezzi al centro dell’attenzione.

Le previsioni macro di un anno fa dicevano che nel 2023 la Germania non sarebbe cresciuta:

Possiamo fare un rapido tagliando di queste previsioni e della nostra analisi, alla luce di quanto segnalano alcuni commentatori:

La cosa ci riguarda perché seduti sotto la Germania ci siamo noi: intendo dire ovviamente che un crollo dell’economia tedesca sarebbe un problema per la nostra economia, che dopo la cura dell’austerità è decisamente “estroflessa”, molto dipendente dalla domanda estera (e quindi in particolare da quella tedesca), come abbiamo visto qui:

Intanto, le previsioni OCSE per il 2023 erano azzeccate. Un anno dopo si constata che in effetti noi siamo cresciuti e loro no:

Altro dettaglio: il processo inflattivo continua a procedere più spedito nel Nord che nel Mediterraneo:

L’austerità serviva a farci recuperare competitività, riducendo la pressione della domanda interna sui prezzi, e sotto questo profilo ha funzionato: sparando alla tempia del paziente siamo riusciti a ridurgli la febbre! Nel grafico il Nord è la media di Germania, Austria e Olanda, e il Mediterraneo la media di Francia, Italia e Spagna. Si vede bene che prima della Grandi crisi finanziaria l’inflazione correva più da noi, ma ora corre più da loro. Risultato: le economie del Nord stanno perdendo competitività, il loro tasso di cambio reale, cioè il prezzo dei loro beni in termini di beni degli altri Paesi, sta crescendo (e quindi i loro beni diventano più cari, cioè meno competitivi, dei beni degli altri Paesi):

L’entità del fenomeno è abbastanza rilevante. I rapporti di scambio sono tornati a quelli vigenti a inizio millennio, quando la Germania era il malato di Europa, come è tornata ad essere, ma con una differenza:

Dal 2021 il contributo dell’industria (escluse costruzioni) alla crescita del Pil trimestrale è diventato, in media, negativo, mentre è aumentato quello dei servizi. 

La perdita di competitività comincia a riflettersi sul saldo estero (anche se a noi non è che vada molto meglio).

Se torniamo al dilemma che vi illustravo un anno fa:

sembra di poter concludere che da un lato le illuminate élite tedesche abbiano seguito i saggi consigli dei banchieri filantropi, accordando incrementi salariali:

ma che dall’altro ciò abbia effettivamente alimentato l’inflazione senza però spingere efficacemente sulla crescita.

Questo spiega perché le elezioni europee preoccupano tanto chi è al governo, perché i cittadini protestano, e perché anche da noi le cose vanno bene ma non benissimo. La politica del nostro Governo, volta a sostenere la domanda interna, è certamente appropriata alle circostanze, ma la politica monetaria della Bce è tarata sul processo inflattivo tedesco, più vigoroso del nostro, e quindi cercando di riportare al 2% l’inflazione tedesca la Bce spinge verso lo 0% la crescita italiana. Siamo di nuovo in un contesto in cui la stabilità monetaria (bassa inflazione) rischia di generare instabilità finanziaria (accumulazione di sofferenze bancarie), un po’ come quando questo blog prese le mosse.

Questo problema, com’è noto, una soluzione ce l’avrebbe, anzi, più di una: ma per un verso o per un altro le condizioni politiche per metterle in pratica non sussistono, e quindi aspettiamoci un 2024 interessante.

(…dovrei dirvi un’altra cosa, ma ve la dico un’altra volta: non siete solo pochi, siete pure…)

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“Segare il ramo, un anno dopo” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Demografia ed educhescion (che sarebbe l’istruzione)

 (…alla fine la risorsa più preziosa del blog siete voi. Parliamo allora di risorse…)

Ciao Alberto

Il grafico è quello degli studenti per anno scolastico e livello scolastico, compilato con i dati dei rapporti statistici annuali del Ministero, dal 2013/14 (che viene assunto come base=100) fino al 2023/24.

Si vede un forte calo delle iscrizioni alla primaria che inizia nel 2017-18 (ragionevole, visto che i bambini la iniziano a 6 anni e quelli che la iniziavano nel 2016 avrebbero dovuto essere concepiti nel 2010-11 e magari “messi in cantiere” almeno un anno prima).

Dopo 3 anni, nel 2020-21, il forte calo comincia a trasferirsi sulla media, ragionevole visto che un po’ di calo c’era stato anche prima del 2017-18 e dopo una metà del ciclo della primaria ci si può aspettare che l’effetto in uscita si avverta sul ciclo successivo.

I dati sono reperibili nei rapporti disponibili qua https://www.miur.gov.it/web/guest/pubblicazioni. Non sono dati consolidati, perché i rapporti vengono stilati all’inizio dell’anno scolastico, ma se ci sono errori o approssimazioni, è ragionevole assumere che si ripercuotano nello stesso modo su tutti gli anni, per cui le tendenze non dovrebbero essere alterate.

La domanda: perché non si vede un calo sulla superiore? Da dove vengono gli studenti che non ci sono più nel sistema negli anni precedenti? Non ho un’ipotesi ma è certamente un fatto curioso.

La constatazione agghiacciante: se togliamo dal conto degli studenti quelli con cittadinanza non italiana, che in questo periodo di tempo sono aumentati, abbiamo perso in 10 anni 600 mila studenti italiani, la dimensione di una città tipo Genova o Palermo.

Ovviamente è un fenomeno che conosci bene, ma volevo condividere il dolore di aver toccato con mano la misura di questo (ennesimo) orrore (tra l’altro, si tratta di una cosa in cui mi sono imbattuto abbastanza per caso, perché cercavo sul sito del Ministero tutt’altri dati…).

In effetti in quel grafico qualquadra non mi cosa. Le superiori, fino a prova contraria, sono ancora scuola dell’obbligo, quindi non è pensabile che ad esse acceda una “clientela” schermata dalle conseguenze economiche della crisi, e in quanto tale capace di riprodursi!

Voi avete un’idea di che cosa significhino queste tendenze? In particolare, forse sarebbe utile aggiungerci il dettaglio della cittadinanza, ma anche qui non si capirebbe come mai il livello delle iscrizioni alle superiori sarebbe sostenuto da studenti non italiani, mentre alle medie e alle elementari no. Io però devo occuparmi di altro. Se il tema interessa, ci torniamo con più calma.

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“Demografia ed educhescion (che sarebbe l’istruzione)” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

La disoccupazione in teoria e in pratica sette anni dopo

Sette anni fa, prendendo spunto da un tweet di Luigi Pecchioli, commentammo insieme i dati sulla disoccupazione, considerando, oltre alla definizione ufficiale, quella estesa, che comprende i lavoratori sottooccupati (che lavorano meno di quanto vorrebbero: in pratica, i lavoratori in part time involontario), gli scoraggiati (che vorrebbero lavorare ma hanno rinunciato a cercare un posto di lavoro), e anche chi sta cercando lavoro ma non sarebbe immediatamente disposto a lavorare se gli offrissero un posto. Insomma, avevamo analizzato la disoccupazione in teoria e in pratica. In un post successivo vi avevo spiegato che la definizione di disoccupazione più ampia è a grandi linee quella che negli Stati Uniti viene definita U6 (qui trovate una tavola con tutte le definizioni):

e corrisponde al labour market slack, il “lasco” totale fra domanda e offerta di lavoro.

Ieri mi hanno mandato al Tg a commentare la situazione economica, che è in effetti in via di miglioramento. Da domani riprenderò il mio lavoro parlamentare e potrei avere meno tempo da passare con voi. Approfitto di oggi per darvi un quadro più articolato di quanto sta succedendo nel mercato del lavoro, considerando che, sette anni dopo, il database dell’Eurostat riporta anche il labour market slack “spacchettato” nelle sue quattro componenti.

Vado molto rapidamente.

Dal 2009 a oggi il tasso di disoccupazione si è mosso così:

La conseguenza di aver dovuto scaricare sulla domanda interna l’intero peso dell’aggiustamento della bilancia dei pagamenti (cioè di aver dovuto abbattere il Pil per abbattere le importazioni) è stato un balzo verso l’alto della disoccupazione che ci ha portato dall’avere il tasso più basso fra le tre grandi economie dell’Eurozona all’inizio del 2009, ad avere il più alto nel 2013, raggiungendo e superando la Francia. Non siamo ancora ritornati al livello pre-crisi, anche se, dall’estate del 2017, la disoccupazione è scesa di quasi tre punti (dal 10.1% al 7.2%), e dal suo massimo, raggiunto all’inizio del 2014, di 4.2 punti. La tendenza comunque è negativa.

Quanto alla disoccupazione estesa, al labour market slack, a quello che gli americani chiamerebbero U6, la situazione è questa:

Qui partivamo svantaggiati, avendo già prima della crisi il valore più alto fra le tre grandi economie dell’Eurozona (il 18.6%). La brutta notizia è evidente: siamo ancora molto più in alto della Francia (che invece in termini di disoccupazione “convenzionale” abbiamo raggiunto e probabilmente supereremo presto, ovviamente verso il basso). Le notizie relativamente buone sono che siamo in una posizione migliore di prima della crisi (l’ultimo dato è pari al 17.7%) e su una traiettoria di miglioramento relativamente rapido. Dall’estate del 2017, cioè da quando Luigi attirò la nostra attenzione su questa variabile, la diminuzione è stata di 6.8 punti, di cui, come abbiamo visto, 2.9 attribuibili alla disoccupazione convenzionale, e dal massimo, raggiunto alla fine del 2014, di 9.5 punti.

La composizione della disoccupazione “allargata” la vedete qui:

Il grafico è molto decorativo, ma la lettura non è semplicissima. Si intuisce però che gli scoraggiati sono diminuiti significativamente (-3.2 punti percentuali dall’estate 2017). Le altre componenti, la più significativa delle quali è il part-time involontario, hanno mantenuto la stessa incidenza, con variazioni trascurabili.

Quindi visto che le cose sono un po’ migliorate siamo scesi nella graduatoria del Paese messo peggio?

No, purtroppo non rimaniamo terzi a nessuno, esattamente come sette anni fa:

Solo che sette anni fa il primo era la Grecia. Ora la Grecia è in quinta posizione, dopo Spagna, Italia, Svezia e Finlandia (pensa un po’?). Ma ci è arrivata come ci ha spiegato Heimberger:

Quindi stiamo meglio noi, nella nostra dignitosa seconda posizione, che loro nella quinta. Mi resta da capire, ma sicuramente un giorno lo capirò, come mai tutti vanno in sollucchero per l’attuale detentrice della medaglia d’oro della disoccupazione: la Spagna. Niente di personale, anzi! Meno male che c’è qualcuno che va peggio di noi! Ma gli operatori informativi lo sanno?

Secondo me no, ma non è questa la più importante fra le cose che ignorano.

(…domani si riparte! Abbiate pazienza se dovrò trascurarvi. Sto cercando di peggiorare il nostro piazzamento e chissà, magari con un po’ di fortuna mi riuscirà di vederci scendere dal podio…)

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“La disoccupazione in teoria e in pratica sette anni dopo” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Ancora su Pil e tendenze…

Solo due ulteriori chiose all’annosa vicenda del grafico della vergogna, quello che documenta lo scostamento del Pil italiano dal suo tendenziale.

La prima è che, in effetti, qualcuno si ricordava (io no) che lo avevo pubblicato anche sul Fatto Quotidiano, quando collaboravo con quel giornale (il 17 agosto 2016):

(inutile dire che io gli avevo fornito i dati corretti, ma loro non erano riusciti a disegnare una tendenza rettilinea: quindi non lamentatevi degli epigoni, in giro c’è di molto peggio!).

Segnalo pertanto che qualcuno si è trovato sotto l’ombrellone questo bel grafico, ma a quanto pare nessuno ci ha riflettuto sopra: una cosa che vi invito a considerare, ove mai voleste iscrivervi al PUV (il Partito Unico della Verità, quello delle persone giuste che fanno la cosa giusta, e che va a finire invariabilmente nel modo che vi ho raccontato).

La seconda chiosa riguarda il sito dell’ISTAT. Siccome invecchio (quest’anno saranno 62, se ci arrivo) tendo a diffidare della mia memoria, ma, come la querelle col sor Fiorenzo dimostrerà, mi aiuto con gli archivi. Ora mi raccomando: non abbandonatevi al complotto! Vi ho detto in un post precedente che il sito dell’ISTAT per lungo tempo ha riportato (con mio enorme stupore, a dire il vero…) la serie storica secolare del Pil. Sono andato a verificare sulla wayback machine se fosse vero, perché in effetti mi pareva strano (ma purtroppo non lo è) che un fatto stilizzato così catastrofico, esposto nella homepage dell’Istituto Nazionale di Statistica, non avesse attirato l’attenzione di nessuno!

Magari me l’ero sognato io, che sono un po’ ossessionato dalla crescita e dall’austerità…

Invece no!

Questo è uno snapshot del primo luglio 2019:

questo del primo marzo 2022:

e quindi, come vedete, il grafico è stato lì per almeno tre anni!

Poi da aprile 2022 ci si è spostati su un registro forse più rassicurante e forse più informativo, nel senso che non lasciava intuire (se non agli esperti) la gravità della situazione, ma forniva però una serie di utili dettagli congiunturali (che poi è forse quello che un istituto di statistica deve fare, ma non sta a me valutarlo – io so solo che negli anni zero mi misi a studiare l’economia cinese perché prima dell’arrivo di Giovannini mi era più facile trovare i dati della Cina che quelli dell’Italia: poi la situazione migliorò…):

Per completezza, oggi ci trovate questo:

che è comunque un colpo d’occhio rassicurante (credo che Cimaglia o Barelli ve ne parleranno più tardi al Tg).

E così abbiamo confermato una virtù del Cavaliere nero: non perdona, ma dimentica.

Qualche volta.

Fate i bravi!

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“Ancora su Pil e tendenze…” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Pei malati c’è la china, pe’ mattoni non c’è medicina

 (…a orecchio mi pare che fosse così, forse potrei sbagliarmi, ma certamente di poco…)

(…non voglio farla troppo lunga, ma ci sono alcuni punti che secondo me vale la pena di approfondire. Ovviamente quelli che “senatore, ma perché perde tempo con questi personaggi?” sono già stati bloccati su Twitter e saranno sbloccati solo se si recheranno di persona al giubileo del 16 novembre…)

Riassunto delle puntate precedenti

Nel post su “Gli epigoni” vi avevo fatto vedere che un tale Matteo Brandi aveva ripreso, con una didascalia inadeguata, un grafico del nostro post di fine anno:

Il perché una simile didascalia sia inadeguata è ovvio: qualsiasi eurista di passaggio potrà facilmente obiettare che nel grafico lo scostamento del Pil dalla sua traiettoria tendenziale diventa apparente dal 2009, per cui non si capisce che diavolo c’entri l’euro. Per la sciura Maria l’euro è iniziato da quando se l’è trovato in tasca (nel primo gennaio 2002), per i midwit è iniziato nel 1999, e per gli esperti nel 1997 (per i motivi esposti ad esempio qui: il percorso verso l’euro prevedeva nei due anni precedenti la valuta nazionale mantenesse il proprio cambio con l’ECU/EUR entro una banda di oscillazione estremamente ristretta, sicché de facto nell’euro ci siamo dal 1997). Questa totale mancanza di correlazione conduce a un autogol facilmente evitabile (sotto ve ne darò una dimostrazione). Del resto, un disastro simile sarebbe tranquillamente potuto succedere anche ai tempi della lira, se si fosse deciso di tagliare del 33% gli investimenti pubblici. Il problema è far capire come mai in un regime di cambi fissi, e quindi, a fortiori, in una unione monetaria, l’aggiustamento degli squilibri esterni si scarichi sull’assorbimento, cioè sulla domanda interna. Ma questo con quel grafico non lo fai capire e quindi ti metti inutilmente in una posizione dialettica debole. La posizione dialettica forte la conquisti se intitoli il grafico “Il successo dell’austerità”. Che l’austerità sia iniziata durante la Grande crisi finanziaria se lo ricordano un po’ tutti, ma che danni abbia fatto non lo sa quasi nessuno.

Ricordate il concetto più volte espresso che se si è in condizioni di inferiorità numerica bisogna scegliere con attenzione il campo di battaglia? Ecco: il simpatico film maker vi forniva un esempio di come fare il contrario!

Per motivi imprecisati il dibattibecco su Twitter ha però preso un’altra strada, che a me interessava molto meno: quella sulla paternità del grafico. A me i dibattibecchi divertono quando so come vanno a finire, e questo è andato a finire come vi illustro rapidamente.

Brandi dice che la fonte non ero io ma un post di tal Trombetta del 13 luglio 2023, questo:

dove noterete il commento, che esemplifica la cosa che mi infastidiva (l’autogol).

Io facevo notare due cose:

  1. che il commento a questo grafico era molto dilettantesco (ci torno dopo);
  2. che comunque, visto che il tema della proprietà intellettuale appassionava, questo grafico era ripreso da un mio post del 22 maggio.
E fino a qui per la puntata precedente. Poi la cosa è andata avanti (si fa per dire) su due filoni: proprietà intellettuale e interpretazione del grafico. Che è come dire Dumb and Dumber.

Fermate l’inutile strage!

Ribadito (e dopo ve lo proverò) che la proprietà intellettuale non era il tema, dopo questa sportellata una persona normale si sarebbe fermata. Ma qui abbiamo a che fare con individui eccezionali! Il Trombetta a questo punto accusava me di aver plagiato un lavoro dell’amico Gennaro Zezza risalente al 2019 e che Trombetta aveva citato, riportandone la fonte, il 24 luglio di quell’anno:

A questo punto non potevo che rispondere così:

citando un mio antecedente post del 2018 che effettuava questa analisi “a futura memoria”, e specificando che molto probabilmente Gennaro non mi aveva copiato! Purtroppo a questi qui mancano #lebbasi, e una delle basi è che NIHIL EST IN INTELLECTU QUOD PRIUS NON FUERIT IN GOOFYNOMICS.

A scanso di equivoci ricordavo anche che la prima analisi del genere di cui mi ricordassi l’avevo fatta per criticare il compianto Saccomanni nel 2013, e che quindi forse potevamo anche piantarla lì.

A questo punto il Trombetta poteva squillare solo fuori tema, e quindi la risposta diventava “gnegnegnè hai votato la fiducia a Draghi!”:

(…e meno male, altrimenti oggi sarebbe Presidente della Repubblica!…).

Appurato il fatto che il Trombetta i grafici non li sa scrivere, restava da appurare l’altro punto, quello più rilevante, ovvero il fatto che non li sa leggere. Fatto gravissimo perché ha indotto all’errore il fratello Brandi!

Interludio “matematico”

Qui sotto vi metto due serie di dati: una che cresce linearmente, e l’altra che cresce a tasso di crescita costante del 5%. Vi ricordo che il tasso di crescita si calcola sempre nello stesso modo:

Date un po’ un’occhiata:

e qui c’è il grafico:

Che cosa notate? Dovreste notare una cosa su cui ho sempre attirato la vostra attenzione: 1 è il 10% di 10, ma anche il 5% di 20, ma anche l’1% di 100. Cosa intendo dire? Intendo dire che se una serie cresce con incremento costante, cioè aumenta linearmente (nell’esempio, aumenta di 1 in ogni intervallo temporale, per cui passa da 20 a 21, da 21 a 22, ecc.), il suo tasso di crescita è decrescente perché la stessa grandezza costante x(t) – x(t-1), nell’esempio uguale a 1, viene divisa per un x(t-1) progressivamente crescente.

Viceversa, se una serie cresce a tasso di crescita costante, i suoi incrementi sono via via più grandi, perché il 5% di 20 è sempre 1, ma il 5% di 40 è 2, il 5% di 100 è 5, ecc. Ci arrivate, voi, vero? Perché siete persone normali, quindi capite che:

  1. una serie che segue una tendenza lineare avrà un tasso di crescita decrescente;
  2. una serie che ha un tasso di crescita costante segue una tendenza esponenziale.

Non è un’enorme novità. Qui, ad esempio, abbiamo notato spesso che il tasso di crescita di pressoché tutte le economie europee è stato decrescente, come conseguenza di un fisiologico processo di convergenza (catch up). Lo avevamo fatto notare ai cialtroni del declino, e la conseguenza di questo dato fisiologico è che il Pil reale delle economie europee segue una tendenza? Lineare! Bravi! (grazie).

E infatti, nel post sulla crescita negata abbiamo visto in particolare che una tendenza lineare offre un’approssimazione (descrittiva) sufficientemente accurata per il Pil di Francia, Germania e Italia, col solo problema che in Italia nel 2009 la tendenza si spezza e diventa piatta (e abbiamo visto che questo dipende sostanzialmente da un crollo degli investimenti pubblici). Ma finché le serie rimangono in tendenza lineare, questo non significa che il loro tasso di crescita sia costante: significa che è decrescente. Se invece il tasso di crescita restasse costante, necessariamente osserveremmo un esponenziale.

Jim Carey e Jeff Daniels

…e torniamo al dibattibecco di ieri.

Nel mio post avevo fatto notare che la descrizione che l’amico Trombetta (sed magis amica veritas) fornisce del “suo” grafico è profondamente ingannevole. Lui dice infatti testualmente:

Il tasso di crescita medio annuale del PIL reale dell’Italia è stato del 5,7% tra il 1946 e il 1991, dello 0,6% dall’ingresso nell’Unione Europea e dello 0,4% dall’adozione dell’euro. Se il tasso di crescita [da quando? Dall’ingresso nell’UE, sembra di capire…] fosse rimasto quello precedente all’ingresso nella UE e nell’Eurozona [cioè al 5.7%, sembra di capire], oggi il PIL dell’Italia sarebbe più grande di quasi 500 miliardi di euro.

(lo potete controllare sopra).

Questa, mi spiace farlo notare all’amico Trombetta, è una gigantesca sciocchezza! Se il tasso di crescita fosse stato costante dal 1992 al 5.7% avremmo infatti osservato l’andamento della spezzata arancione:

per gli ovvi motivi descritti sopra. Non si doveva quindi dire “Se il tasso di crescita fosse rimasto quello precedente”, ma “se il Pil fosse rimasto sulla sua tendenza precedente” (e quindi avesse continuato a svilupparsi con tasso di crescita decrescente, non costante e uguale al valore precedente all’ingresso nell’UE).

Questo voi lo avete capito, perché sarete anche poco preparati, ma almeno non siete di sinistra! Siete quindi immuni dalla filosofia del piddino, il sapere di sapere, senza sapere una beneamata, quella filosofia che avevamo descritto qui, confrontandoci con un sesquipedale cretino secondo cui un aumento del 200% equivaleva a un raddoppio. Non so se ricordate:

Incredibile dictu, ieri sera, a margine di questo dibattibecco futile, ma non inutile (sono sicuro che qualcuno di voi ha capito un po’ meglio la differenza fra lineare ed esponenziale), è arrivato uno quasi peggio!

Il fenomeno, questo qua, prima ha esordito burbanzoso con un tweet di questa fatta:

poi cancellato. Puzza un po’ di ricottina del rigurgitino, di studentello di qualche tipo di fainans, non credo di grandi letture né di studi classici (che comunque non esistono più, quindi in questo è assente giustificato). Lo si capisce dal fatto che invece di tasso di crescita parla di “tasso di rendimento composto annuo” (il rendimento del Pil? Come parli, frate?), ma la domanda non c’entrava nulla, e la potenziale sinistrosità del tipo trapelava dal suo ritenersi portatore della verità, a fronte dell’oscurantismo rappresentato dal coglione fascio legaiolo (io):

Siccome non ho mai visto una persona non capire un cazzo con così tanta intensità, ho ritenuto che fosse interessante per voi vedere lo sviluppo (o meglio, l’inviluppo) del ragionamento di questa anima persa (non filato neanche dai suoi parenti più stretti, va detto):

Delirio purissimo, ma indicativo della temperie culturale “mattonista” e del livello di degrado del cesso nero! Anche da qui, però, un insegnante sa trarre insegnamenti utili. Premesso che a questo delirante saputello era stato chiarito più volte che doveva leggersi il blog e che così avrebbe capito che il profilo esponenziale era quello che scaturiva dal controfattuale dilettantesco del Trombetta (ricordate: “Se il tasso di crescita fosse rimasto quello precedente…):

mi sembra chiaro come qui manchino le basi di qualsiasi cosa: della matematica, della statistica, ma anche della capacità di lettura di un testo!

Lo dimostra il fatto che il porello cerca di interpolare il Pil con un’esponenziale (femminile: funzione esponenziale) dal 1950, il che presupporrebbe che il tasso di crescita del Pil fosse stato costante dal 1950 a oggi (per gli ovvi motivi esposti sopra). E a chi glielo faceva notare, il povero bimbo rispondeva così:

Una cosa però è certa: se lui è intelligente io sono un coglione. Però furbo, perché senza esperienza di studi di funzione sono riuscito a farmi abilitare da ordinario. Non so se il degrado dell’università italiana sia dimostrato meglio dalla mia impreparazione o dalla preparazione di Federico: lascio decidere a voi!

La morale della favola

In trenta minuti scarsi (devo uscire con mia moglie).

Intanto: questi sono irrecuperabili. Hanno però il pregio di essere pochi.

Poi: è sempre la stessa storia. La gente parla ma non ascolta. A me che dicevo chiaramente che non mi importava che si usasse materiale mio purché lo si usasse bene, il film maker rispondeva:

Ora: non lo faccio notare a lui (perché non potrebbe capirlo), ma a voi sì: ovviamente come si fa a rendere un grafico riconoscibile lo so, e per un po’ di tempo l’ho anche fatto. Guardatevi ad esempio questo, tratto da qui:

(…per inciso: post applauditissimo all’epoca, ma testimonianza di un analfabetismo politico a livello quasi mattonista: solo che io avevo speranza di crescere…).

Secondo voi, se usavo i watermark e ho smesso di farlo, mi interessa rivendicare la mia proprietà intellettuale o no? Direi di no, giusto?

E secondo voi, perché ho smesso di farlo?

Qui si entra in un discorso politico che poi è anche un déjà-vu. Molto, molto tempo fa litigai con un amico. Ve ne ho parlato qui. Alla base di quel litigio c’era la sua idea, maturata verso dicembre 2012, di convertire il lavoro del mio blog in un volantino snello, di pochi punti (il puntinismo, malattia infantile della divulgazione), magari con qualche grafico di quelli espressivi (non mi ricordo quale dei grafici del blog lui considerasse espressivi), che poi si sarebbe dovuto diffondere con una specie di operazione di guerrilla marketing per attirare consenso su non so quale partituncolo in vista delle elezioni politiche del 2013.

Quindi: col mio lavoro divulgativo (e col nucleo di lettori del blog) si sarebbe dovuto fare un lavoro politico dai contorni non ben specificati, a beneficio non si sa bene di chi.

La mia posizione all’epoca era molto semplice: siccome il blog era, all’epoca, una fonte terza e quindi in qualche modo relativamente credibile, e siccome, non se ne dolgano gli ottoni e le spade, all’epoca certe cose solo io ero in grado di farle capire in modo convincente (lo dimostrava il consenso del blog, che era poi il branco di pesci attorno cui ruotavano tanti pescicani più cani che pesci), secondo me se c’era da diffondere del materiale, quel materiale andava reso riconoscibile come proveniente da Goofynomics, per portare più gente possibile al Dibattito, e non anonimizzato come se originasse da una galassia di improbabili sfigati (mi ricordo che li chiamavo “i marxiani scalzi della Valnerina”, per una serie di motivi che vi risparmio e che chi c’era ricorda…). Non mi sembrava il caso di associare al  mio lavoro scientifico e divulgativo il discredito di una affiliazione politica folcloristica ed improbabile!

Ovviamente su questo non eravamo d’accordo: da una parte c’ero io, che sono quello che vedete e che dovreste conoscere, dopo tredici anni di colloquio assiduo in cui mi sono aperto a voi, e dall’altra parte c’era la solita storia: l’ambizioncella politica, la fretta, l’urgenza, l’incapacità di elaborazione propria, ecc. Tutte cose che avrebbero comunque condotto al disastro, da cui il mio motto preferito in quel periodo: divisi si vince.

E diviso ho vinto, almeno se valutiamo il mio percorso con la metrica di quelli che avrebbero desiderato farlo loro!

Ora, in effetti, il problema non si pone più, per un motivo molto semplice. Per chi non mi conosce, io sono “er senatore da ‘a Lega”, quindi sono una fonte a priori inaffidabile perché di parte. Se rendessi i “miei” contenuti identificabili come tali, li renderei ipso facto inutilizzabili, perché la persona cui vorreste sottoporli si chiuderebbe a riccio in una corazza di pregiudizi antileghisti. Questo è il motivo razionale per cui non uso più da tempo i watermark (ho smesso in realtà da molto prima di entrare in politica, perché già da quando era un personaggio pubblico visibile ovviamente qualsiasi coglione riteneva di potermi giudicare sulla base delle mie pretese appartenenze ideali).

Ma questo non significa che i materiali, i punti di vista, le elaborazioni di dati che vi metto a disposizione debbano essere usati in modo dilettantesco! Chi lo fa danneggia non solo se stesso, cioè il nulla: danneggia tutti noi, insinuando il discredito verso chi difende certe posizioni. E noi questo non possiamo permettercelo.

Come diceva qualche giorno fa Giulia, e come del resto avevamo previsto, di tutti i “mijoni” autoproclamatisi tali in pandemia è rimasta solo un po’ di morchia antipolitica, i temi veri (la distribuzione del reddito, quindi l’euro, la compatibilità dell’UE con il nostro ordinamento democratico, ecc.) si stanno riaffacciando con prepotenza, e ovviamente i tanti orfani del virus, che non sono solo Burioni e Bassetti, ma anche gli antiBurioni e gli antiBassetti, si riposizioneranno su questi temi facendo un sacco di danni! L’adrenalina dei 100 like sotto al tweet è irrinunciabile: ci si posiziona sui temi che tirano… a rischio di tirarli a fondo!

Vedrete che quanto vi prefiguro qui succederà. Dovremo essere molto bravi a tenere la barra e a ricordare che dietro le nostre conclusioni c’è letteratura e rigore scientifico. Di converso, dalle cialtronate che faranno gli altri potremo retrospettivamente intuire quanto accurato fosse il loro modo di informarci su altri temi.

Il tempo è sempre un utile setaccio, anche se non sempre arreca le trasformazioni che auspicheremmo portasse.

Bisogna sapersi accontentare!

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“Pei malati c’è la china, pe’ mattoni non c’è medicina” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

L’inizio e la fine

Il mio post di ieri ha suscitato un esilarante dibattito su Twitter. Esilarante, certo, ma come ogni dibattito anche fecondo. Ad esempio, nel fuoco (fatuo) di accuse incrociate sono stati menzionati, come prova del fatto che la Lega, e specificamente il vostro guru, hatraditooooh, il mio intervento del 17 febbraio 2021 in discussione generale sulla fiducia a Draghi (lo stenografico lo trovate qui), e l’intervento di Massimiliano Romeo tenuto il 20 luglio 2022 in discussione sulle comunicazioni del Presidente Draghi (lo stenografico lo trovate qui).

Il minimo che si possa dire è che questi discorsi non sono stati perfettamente compresi dai più, ma il fatto che li si continui a citare a vanvera ci dà una preziosa opportunità per riascoltarli e rileggerli col senno di poi (che per alcuni era anche il senno di prima).

Per quel che riguarda il mio, lo trovate qui:

e va detto che in questo caso, purtroppo, avrei dovuto sorvegliare con maggiore attenzione il lavoro abitualmente ottimo degli stenografi del Senato, che per uno scrupolo senz’altro mal riposto, pensando forse che io avessi perso il filo, hanno rimosso il punto culminante del discorso, i miei tre “se”:

(duole constatare che la maggioranza degli ascoltatori fosse – e ancora sia – meno lucida di Anastasia e Genoveffa). Riascoltando il mio discorso del 17 febbraio 2021 ci troverete il mio post del 31 dicembre 2023 e la mia convinzione che la persona cui eravamo costretti a dare la fiducia fosse più parte del problema che della soluzione. “Se riuscirà” voleva dire: non riuscirai. L’interessato lo ha capito benissimo, i famoerpartitisti un po’ meno, i punturini peggnente, ma… so is life! Mi accontento del risultato e di aver fiducia in chi mi ha condotto ad esso.

Quanto a Romeo, il suo è stato senza paragoni il discorso più bello della legislatura, o almeno così lo visse chi lo capì, e lo potete riascoltare qui:

Ne facemmo a suo tempo l’esegesi parlando della coloncardia, una malattia rara che colpisce i cretini politici: il loro colon sbocca nel ventricolo destro, al posto della vena cava inferiore, sicché si trovano, poverini, col cuore pieno di merda, e “ragionano” di conseguenza. Con questa malformazione rara (ma non troppo) si può convivere (purtroppo), ma guarirne è impossibile (purtroppo). Pare colga con maggior frequenza chi ha bevuto l’acqua avvelenata nei pozzi dell’antipolitica, e quindi prevenirla dovrebbe essere impegno di tutti.

E voi, questi discorsi, li avevate capiti?

(…p.s.: a proposito dell’antropologia di certi social: il più cretino fra i cretini che hanno cercato di spiegare a me, che lo avevo detto in segreteria politica il 4 febbraio del 2021 – come riportato dalle agenzie, che sostenere Draghi ci avrebbe fatto perdere consenso, era un cretino che mi voleva folgorare con questa sua brillante intuizione nel marzo 2022, e che continuamente mi citava il fatto di essere una specie di padreterno su LinkedIn…)

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“L’inizio e la fine” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Gli epigoni

Il mondo dei nani e delle ballerine giganti del pensiero “antisistema” è in subbuglio!

Pare che abbiano trovato il grafico definitivo, quello che inchioda l’euro alle sue responsabilità. Una smoking gun che non ammette repliche. Meno male! Era ora! Tutti noi che intuivamo confusamente come ci fosse qualcosa che non andava, siamo grati ai pensatori indipendenti che con le loro elaborazioni originali hanno raggiunto questo importante risultato. Finalmente abbiamo uno strumento che ci consentirà di prevalere in ogni dibattito e di corroborare con una robusta evidenza la nostra intuizione che l’euro ci abbia messo in seria difficoltà, o meglio, per i pipperiani popperiani, di falsificare l’ipotesi tuttora molto accreditata che l’euro sia stata l’ancora di salvezza al collo della nostra economia.

Non possiamo che essere grati a chi ci ha procurato un simile strumento.

Quale?

Questo!

E chi ha addotto cotali elementi probanti?

L’epigono dell’Istituto Luce (epigono riuscitissimo, a mio avviso):

Vi potrebbe sembrare di averli già visti da un’altra parte?

Avreste ragione, ma nella sua cristallina e indefettibile onestà intellettuale il filmografo lo ammette e cita la fonte:

A produrre cotanta compelling evidence sarebbe stato er sor Trombetta, un altro nostro vecchio amico e frequentatore dei #goofy (dove probabilmente, impressionato dal concorso di popolo, maturò l’insano progetto di fare una “operazione politica”, che nelle sue idee doveva essere una sottrazione del nostro consenso, ma che nei fatti è stata una divisione del suo).

Una minima ricerca conferma che in effetti le cose stanno così.

La scoperta è risalente:

L’eureka anti-euro risalirebbe niente meno che a luglio di quest’anno!

E qui, oltre che la cristallina e indefettibile onestà intellettuale, si apprezza anche la magnanima e lungimirante nobiltà d’animo con cui questi giganti del pensiero lasciano correre su un episodio sinceramente spiacevole: un vile tentativo di appropriarsi della loro proprietà intellettuale compiuto da un tizio che dice di essere un docente di ruolo di economia (in aspettativa per motivi imprecisati). Questo personaggio squallido avrebbe utilizzato i risultati altrui per dare risalto a un suo progetto didattico tanto irrilevante quanto dilettantesco, che per questo motivo gli ha meritatamente rovinato la carriera universitaria facendolo diventare presidente di una Commissione bicamerale! Questo tentativo, tanto più meschino in quanto il vero autore di una simile ponderosa ricerca aveva firmato il risultato del suo lavoro, è stato perpetrato col favore delle tenebre nella notte di San Silvestro.

Il Bagnai ha cercato di farsi bello con le penne del Trombetta, ma il Brandi, brandendo l’originale sicut “spada de foco” (cit.), ha fatto giustizia di questo sleale tentativo di clickbait, ricacciando nelle tenebre del polveroso palazzo San Macuto (un palazzo dove questi fulgidi araldi dell’ideale antieuropeo, queste avanguardie della revolución, mai entreranno perché mai vorrebbero entrare, se non muniti di apriscatole, loro, che disdegnano i “lauti stipendi” e le “poltrone”), ricacciando nell’ombra, dicevamo, il dilettante che ha insozzato il loro lavoro associandolo a un progetto marginale e ininfluente come Goofynomics!

Poi dicono che non esiste giustizia al mondo!

Non è così. I cazzari e i fregnacciari alla fine vengono ripagati con la loro stessa moneta: Bagnai, avvilito e oppresso dalla vergogna per essere stato sbugiardato in pubblico, in questo momento starà distruggendo i suoi post. Ma non servirà a nulla: abbiamo gli screenshot che lo inchiodano, e l’associazione a/simmetrie ha anche un filmato che documenta un suo precedente tentativo, compiuto a fine novembre, di farsi bello con le penne del pollo, come Apelle figlio di Apollo.

Vergogna!

Al dolo del plagio si aggiunge l’aggravante della sua reiterazione!

In che mondo siamo, signora mia…

Un mondo in cui chi incontra il genio, invece di riconoscerlo e di prosternarsi non tanto alle sue ragioni, quanto proprio alla sua persona, si diverte a fare obiezioni capziose di questo tipo:

Vergogna!

Non si interrompe così, con il banale richiamo a un dato fattuale, un’emozione! Non si getta una secchiata di acqua gelida sulla fervida passione civile del coraggioso e originale Trombetta!

Anche se…

In effetti…

Il tracciato del Pil si appiattisce nel 2008, e l’euro entra in vigore nel 1999…

Questo fastidioso dettaglio, purtroppo, è ineludibile…

Ma approfondiamo bene l’argomento del Maestro Trombetta. Musica, Maestro!

Ehm…

Non trovate anche voi che qui ci sia più di una stecca? Eh, ma voi non avete studiato musica! Vi faccio un breve elenco:

  1. sì, fra il 1946 e il 1991 il tasso di crescita è stato circa del 5.7% l’anno (in realtà, secondo Banca d’Italia, del 5.5%), ma questa media così elevata risente del rimbalzo post bellico. Nel 1946 il tasso di crescita fu del 30% e nel 1947 del 18%. Già eliminando questi due anni, come sarebbe corretto fare (altrimenti ragioniamo come Conte, che dopo aver chiuso arbitrariamente mezzo Paese si imputa come successo un tasso di crescita strabiliante, dovuto semplicemente al fatto che il Paese era stato riaperto!), la media scenderebbe al 4.6%;
  2. sì, è vero, dall’ingresso nell’Unione Europea (1992) al 2022 (alla fine del grafico) il tasso di crescita dell’Italia è stato dello 0.6%, così come dall’adozione dell’euro nel 1999 al 2022 è stato dello 0.4%, ma allora perché, con un salto di cinque punti verso il basso della crescita, nel 1992 o nel 1999 non si nota alcun cambiamento di struttura? La crescita, in quelle date, procede sulla tendenza lineare (di cui non si dice con che dati è calcolata: quelli fino al 1992? Quelli fino al 1999?);
  3. ma soprattutto, se il tasso di crescita, immagino dopo l’entrata nell’UE, fosse stato quello medio precedente all’entrata, le cose non sarebbero andate come è indicato nel grafico. Con un tasso di crescita del 5.7% dal 1992 le cose sarebbero andate così:

Non ci credete? E allora fate il conto voi, ricordando che tasso di crescita del 5.7% significa che ogni anno il Pil è uguale a quello dell’anno precedente moltiplicato per 1.057:

Per un’altra razza di cretini, quelli che non sanno distinguere fra dati reali e nominali e non leggono i post, quindi non capiscono che in questa tabella i dati sono espressi in milioni di euro a prezzi 2010 perché così vengono forniti dalla Banca d’Italia nella sua ricostruzione storica, e quindi ragliano su Twitter “i dati non sono quelli giustih-oh, ih-oh!”, agevolo anche la simulazione partendo dai dati WEO:

Ovviamente non cambia nulla! Il profilo della serie nell’ipotesi del sor Trombetta (tasso di crescita ai valori precedenti all’entrata nell’Unione Europea) è ugualmente assurdo, c’è solo un minimo slittamento della serie dovuto alla diversa base dei prezzi (2015 invece di 2010).

Ora…

Io voglio bene a tutti, anche a chi non sa di cosa stia parlando. Che il sor Trombetta non lo sappia è evidente! Sapendolo, avrebbe detto la cosa corretta: non che “se il tasso di crescita fosse rimasto quello precedente all’ingresso nella UE” oggi il Pil sarebbe di circa 500 miliardi più alto (perché se lo avesse fatto sarebbe di circa 5800 miliardi più alto), ma che “se il Pil fosse rimasto sul suo tendenziale dal 1950 al 2007” oggi ecc. E fra le due cose, come vi ho fatto vedere, c’è una bella differenza!

Bene.

Forse cominciate a intravvedere dov’è il problema.

Solo una persona totalmente digiuna non dico di economia, ma di buon senso, potrebbe aspettarsi che un’economia avanzata come quella italiana potesse tenere negli anni ’90, o peggio ancora dagli anni ’90, tassi di crescita da economia emergente! In effetti di Paesi cresciuti al 5.7% di media il 1992 e il 2022 ce ne sono due:

(i conti, se volete, potete rifarli partendo da qui). Insomma, er sor Trombetta pensa di fare un accorato elogio del modello di sviluppo dell’Italia “sovrana” (qualsiasi cosa ciò voglia dire), e invece sta facendo l’elogio di un modello di sviluppo basato sull’esportazione di risorse naturali o sullo sfruttamento della manodopera a basso costo!

Cose che capitano quando non si è del mestiere…

Ma…

Ma visto che quella cifra di 500 miliardi in più rispetto al valore storico non è coerente con il discorso del sor Trombetta, qualcuno di malizioso potrebbe pensare che l’abbia tratta da un’altra fonte, e potrebbe googlare 500 miliardi, e magari potrebbe arrivare qui:

Ops…

E qui finisce l’ironia (forse), e cominciamo a parlare chiaro, partendo da una premessa, la solita: dovrebbe essere chiaro fin dal tredicesimo post di questo blog che a me di intestarmi idee mie o altrui non me ne frega assolutamente niente e conseguentemente che l’oggetto del mio sfottò non è minimamente il fatto che i sullodati giganti del pensiero non abbiano citato la fonte delle loro elaborazioni. Ho sempre insistito sulla assoluta non originalità dei contenuti della mia divulgazione, che sono assolutamente banali e devono la loro apparente originalità solo al fatto di essere diffusi in un contesto politico-istituzionale che, lui sì, è piuttosto, come dire, originale! La mia ricerca originale c’è ma è pubblicata in riviste scientifiche che sono legittimamente fuori portata per molti di voi e comunque verte su aspetti di nicchia, dato che sui temi di fondi dell’unione monetaria, come sa chi studia, aveva già detto tutto (inascoltato) James Meade nel 1957! Io vi ho dimostrato che della proprietà intellettuale delle mie idee non me ne fotte niente, quindi il problema non è quello, e vi ho altresì dimostrato che di essere stato il primo a intervenire in un dibattito che in realtà si era chiuso cinque anni prima che io nascessi altresì non me ne fotte niente (altrimenti, banalmente, non vi avrei insegnato quello che non avreste mai avuto modo di sapere se non ve lo avessi insegnato io, cioè, appunto, che il dibattito si era chiuso cinque anni prima che io potessi intervenirci)!

Quindi il problema non è “non hai citato la fonteeeeh!”, o “l’ho detto prima i-oh!”, come alcuni volenterosi, ma un po’ sciroccati membri di questa community (eggnente!) hanno rimproverato ai  summenzionati giganti del pensiero. Il problema, insomma, non è che non avete portato traffico su Goofynomics (mi sembra sufficientemente ovvio che io ho meno bisogno di voi di quanto voi abbiate bisogno di me!), anzi, se mai è il contrario: il problema è che citando cose a organo genitale esterno di carnivoro caniforme rischiate di attirare sul nostro lavoro un’attenzione sbagliata! Insomma: io non vorrei mai che qualcuno credesse che le scemenze sopra evidenziate le abbia dette io, perché io ho detto cose totalmente diverse e non ho nessuna intenzione di farmi screditare da chi, parassitando un lavoro in cerca di clickbait, ne fornisce un’immagine distorta e caricaturale.

E già capisco l’obiezione: “Vabbè, me sò sbajato, ma tanto basta che sse capimo…”. No, caro Trombetta, te lo dico come puoi capirlo tu, scusandomi con gli altri: basta che sse capimo un cazzo! La battaglia ideale che qui stiamo combattendo, e che tu dici di combattere, non è un gioco da dilettanti, non tollera cialtronate, semplicemente perché non ha alcun senso screditarsi con analisi così farlocche e controvertibili. I midwit di osservanza bocconiana, i seguaci del laureato, non vedono l’ora che qualcuno dica delle sesquipedali cretinate per massacrarlo e per attirare su tutto il movimento euroscettico il discredito che un certo modo di argomentare onestamente merita: ma lo merita chi lo mette in pratica perché parla di cose di cui non capisce nulla, non chi invece si adopera per divulgare nel più scrupoloso rigore metodologico, fottendosene del consenso.

Cioè io.

Insisto su un punto: sono anni che tirate avanti coi contenuti di Goofynomics, e a me questo fa solo piacere. Intanto, non essendo voi economisti, non avendo cioè i presupposti professionali, culturali, intellettuali per proporre dati e analisi economiche, è chiaro che volendo impicciarvi di economia da qualcuno dovrete pur fornirvi, e sinceramente non vedo nulla di male nel fatto che abbiate scelto un buon fornitore! Meglio rifornirsi qui che dal laureato, per dire. Ma il punto è un altro: non mandate in giro roba che non avete capito, altrimenti gettate il discredito della vostra scusabile ignoranza sul lavoro che qui stiamo facendo con serietà e competenza. Ripeto: la vostra ignoranza è scusabile, non è colpa né merito vostro se non siete economisti. Aggiungo: la vostra buona volontà è commendevole, e lo sarebbe anche di più se la aveste usata per aiutare anziché per danneggiare (non riuscendo a fare né l’una né l’altra cosa).

Io ve lo dico con  affetto. Quando Goofynomics è partito portavate ancora i calzoncini corti, vi ricordo ai nostri convegni, con la vostra freschezza e il vostro entusiasmo. Non siete cattive persone, e se voleste aiutare, senza smanie, con perseveranza, potreste essere senz’altro utili. Questa è l’ultima chiamata. Deponete la porca tigna del vostro narcisismo sterile e autodistruttivo, provate a immedesimarvi un minimo in quello spirito di servizio, servizio al Paese, ai nostri concittadini, alla verità del dato, alla serietà delle analisi, all’ambito delle proprie competenze, che qui abbiamo sempre osservato ed esemplificato, e provate a lavorare per il progetto, non contro il progetto.

Voi, con Paragone, avete in comune solo una cosa: il fatto che lo spazio politico del “vostro” dissenso si sta prosciugando, e non solo perché la Lega è stata coerente sul MES, ma anche perché l’altra vostra grande battaglia identitaria, quella sulla punturina, si sta svuotando di significato come chi sa analizzare la realtà aveva previsto:

(e anche lì, la partenza della Commissione d’inchiesta renderà istantaneamente poco interessanti tutti quelli che ringhieranno da fuori, senza poter vedere le carte, senza poter interrogare i protagonisti di quella vicenda).

Ma fra voi e Paragone c’è una grossa differenza: Gian è bravo, e tornando a fare l’autore guadagnerà un multiplo sostanzioso di quanto guadagnava in Parlamento (non è nemmeno da escludere che dietro le sue ultime decisioni ci sia anche la razionale e condivisibile scelta di smettere di rovinarsi la vita con beneficio scarso o nullo). Voi, pur avendo senz’altro talento e intelligenza, non avete le stesse possibilità di trovarvi un altro stagno in cui sguazzare, quando quello del vostro attuale consenso “di nicchia” sarà riassorbito dalla Lega. Qui non parla il politico: i vostri numeri già non sono interessanti per un politico. Qui parla quello che ha messo su questa community dove siete stati accolti e di cui avete fatto parte. Per quanto piccolo, quello che state perpetrando col vostro atteggiamento è uno spreco. Non solo: è un film già visto! Me li ricordo solo io quelli che pensavano di avere un consigliere comunale a Pescara e che da lì avrebbero cambiato er monno? Me lo ricordo solo io quello che a La Spezia ha preso sette voti? Non potete non fare la stessa fine, se aveste avuto modo di crescere sareste cresciuti, ma purtroppo non avete modo di crescere e questo post alla fine spiega bene perché.

Povertà non è vergogna, ma perseverare è diabolico, e soprattutto ridicolo.

Questo ramoscello di ulivo si autodistruggerà in tre, due, uno…

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“Gli epigoni” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Crescita e apertura

Vi sottopongo un problema di metodo e un problema di merito.

Nel metodo, come sapete io sarei per riaccorciare la filiera, riportando qui il dibattito che da quando sono in Parlamento è stato delocalizzato nel cesso ora nero (e prima azzurro) per una serie di motivi oggettivi (principalmente la mancanza di tempo, da cui consegue la necessità di interlocuzioni rapide, e il bisogno di monitorare in modo snello i temi del giorno).

Nel merito, come studio di un caso (cioè come quella cosa che gli aziendalisti chiamano caso di studio, perché in inglese case viene prima di study), vorrei parlarvi della relazione fra apertura al commercio e crescita economica.

Che cosa lega due argomenti così distanti? Li lega l’osservazione interessante fatta a un precedente post di #goofynomics da un utente Twitter (sì, lo so, il brand è cambiato, ma il mio educated guess è che a differenza di Röntgen, che lo fece per umiltà, Musk non riuscirà a imporre questo brand al mercato…):

Parto dal metodo.

Un vantaggio del cesso nero è che consente di interagire fornendo, quando lo si desidera (cioè quando non si è Critica Climatica, per capirci) fonti e soprattutto rappresentazioni dei dati con una certa scioltezza. Su questa piattaforma, viceversa, per i commentatori inserire link attivi è un’operazione un po’ laboriosa (molti non la sanno fare, anche se è spiegata nella sezione “Per cominciare”), e inserire grafici è impossibile. Peccato però che alla facilità di introdurre materiale non corrisponda la possibilità di analizzarlo in modo approfondito. La sintesi è che io preferisco che commentiate qui, nella misura del possibile, e che se dovessi imbattermi in qualcosa di interessante lì lo riporterò comunque qui per discuterne, laddove necessiti di una discussione strutturata.

Veniamo al merito.

fabio fa un’affermazione e una domanda: l’affermazione è che il drammatico rallentamento della crescita sperimentato dal nostro Paese è correlato al rallentamento del grado di apertura; la domanda, che in realtà è un diverso modo di proporre l’affermazione, è come mai, nonostante un atteggiamento da tempo piuttosto restrittivo della politica fiscale, il crollo del Pil si sia verificato solo dopo la GFC (per i laici: Global Financial Crisis).

Anche se per voi ci deve essere un solo hashtag: #goofynomics, il ragionamento di fabio può essere condensato in un diverso hashtag: #hastatolapertura. Nel ragionamento di fabio non c’è praticamente nulla che funzioni, ma siccome è proposto in modo civile ed è argomentato vale la pena di discuterlo in dettaglio.

Parto dai fondamenti.

L’ideologia della globalizzazione, cioè, ricordiamolo sempre, l’ideologia che propugna la necessità di assicurare una incondizionata libertà di movimento internazionale ai capitali (la globalizzazione questo è), viene sostenuta nel dibattito pubblico e in quello scientifico con alcuni fatti o fattoidi. Due fattoidi ricorrenti sono che una maggiore apertura commerciale porti la pace (un esempio qui), e che porti la crescita (una rassegna qui).

Quindi: viva la globalizzazione (anche se pressoché ovunque gli elettorati, consciamente o meno, la respingono)!

Su “Lapace” (nota per i nuovi del blog: da sempre noi qui, e quindi a valle nel dibattito social gli altri, usiamo la crasi fra articolo e sostantivo per sottolineare i luoghi comuni, o comunque l’usura di certi termini), su Lapace, dicevo, le evidenze sembrano relativamente univoche, ma questo non vuol dire che siano particolarmente convincenti. Confesso di essere radicalmente allergico a qualsiasi ragionamento irenico, perché la rimozione (psicanalitica) del conflitto generalmente è l’arma usata da chi pensa di avere la forza di imporre la propria soluzione del conflitto. La desiderabilità di un mondo senza conflitto viene infatti argomentata sulla base, appunto, dell’assenza di conflitto e basta, mentre sarebbe utile saperne un po’ di più: ad esempio, quale sarebbe la distribuzione del reddito in questo Paradiso terrestre? Prendete ad esempio Leuropa che ci dà Lapace: dobbiamo commentare ulteriormente? La vita, quella biologica come quella sociale, è conflitto. La democrazia è gestione, non rimozione, del conflitto. Chi ignora questo dato a me appare subito un po’ losco, e infatti, tornando al punto, la “convincente evidenza” sul fatto che l’apertura commerciale (o più in generale l’integrazione economica) porti Lapace sconta una serie di problemi logici non da poco: il fatto che per definizione si confligge con quelli con cui si hanno relazioni, non con quelli con cui non se ne hanno; il fatto che ovviamente il conflitto deprime l’attività economica e le relazioni commerciali, il che però non significa che lo sviluppo delle relazioni commerciali riduca la probabilità di conflitti; e via dicendo, attraverso una serie infinita di problemi di endogenità e causalità inversa su cui peraltro si sono addentrati tanti studiosi: strano come una “convincing evidence” vista dal lato della letteratura spesso sembri un problema aperto! Alla fine, in questa letteratura domina la legge di Murphy: guardate ad esempio com’è andata fra Germania e Russia, due Paesi che erano così legati! La mia conclusione provvisoria, anche alla luce di quanto ci siamo detti qui, è che non è detto che un aumento dei volumi del commercio porti Lapace, mentre è abbastanza inevitabile che uno squilibrio di questi volumi porti a un conflitto.

Sulla relazione fra apertura al commercio e crescita in qualche modo partiamo avvantaggiati, nel senso che neanche il mondo degli yes men accademici riesce a proporne una visione univoca. La risposta in media è “più sì che no”, ma molti studi evidenziano una relazione bidirezionale (un esempio è qui), per cui sarebbe la crescita a causare l’apertura commerciale tanto quanto questa causerebbe la crescita, e  altri studi si chiedono addirittura se una simile relazione esista (e rispondono: più no che sì).

A questo punto, forse, sarebbe opportuno, per aiutare il lettore, chiarire di che cosa stiamo parlando. Stiamo parlando di un indicatore secondo me abbastanza inutile che differisce di pochissimo da quella che forse è la variabile più importante per attestare lo stato di salute di un’economia (secondo me e The Economist), cioè il saldo delle partite correnti (qui per semplicità consideriamo il saldo commerciale):

Mentre il saldo commerciale CA è dato dalla differenza fra esportazioni e importazioni, il grado di apertura O è dato dalla loro somma. Normalmente queste variabili vengono normalizzate rapportandole al Pil, come nelle due formule qua sopra.

Ora, voi capite che già qui c’è un problema.

Infatti, da un lato le esportazioni aggiungono domanda (estera) all’economia nazionale, tant’è che entrano nella definizione del Pil con segno positivo, dall’altro le importazioni sono per definizione domanda nazionale che se ne va all’estero, che crea posti di lavoro e reddito all’estero, tant’è che entrano con segno negativo nella definizione del Pil:

Y = C + G + I + X – M.

Questa non è né un’esaltazione dell’autarchia né un manifesto a favore del mercantilismo: è un mero fatto contabile ed economico, da cui non si devono trarre conclusioni idiote. Ad esempio, non avrebbe alcun senso dire che “siccome le importazioni sottraggono reddito, allora per promuovere la crescita bisogna azzerarle”, semplicemente perché un Paese come il nostro, che è (o in alcuni casi vuole essere) privo di materie prime, se non importasse dovrebbe chiudere i battenti! Tuttavia, nonostante alcuni generosi ed estremi tentativi condotti su casi disperati, l’idea che siano le importazioni di per sé a promuovere la crescita nessuno l’ha mai presa veramente sul serio, mentre l’idea che debbano essere le esportazioni a promuovere la crescita è iscritta, come abbiamo visto, perfino nei Trattati europei.

Il minimo che si possa dire quindi del grado di apertura O (come openness) è che somma mele e lavatrici, e infatti esiste un’ampia e dettagliata letteratura su possibili misure più adeguate dell’integrazione economica fra Paesi, letteratura promossa dal fatto che la variabile O ha un solo pregio: è facile da calcolare, ma per il resto presenta diverse criticità (vedetevele nell’articolo). Intanto però una cosa va detta, perché è immediatamente evidente all’occhio esperto: fabio questa variabile la calcola nel modo sbagliato, considerando le grandezze espresse in termini reali, mentre è uso calcolarla partendo da dati a valori correnti (in termini nominali). Per la precisione, la situazione è questa:

(tratta da qui): le statistiche ufficiali sul grado di apertura pubblicate dalla Banca Mondiale (e disponibili qui), che poi sono quelle generalmente utilizzate, si basano su grandezze nominali, mentre solo Alcala e Ciccone (2004), sul prestigioso QJE, usano una misura calcolata con variabili reali per argomentare un impatto positivo sulla produttività: un esempio prestigioso ma isolato, di cui fabio non so quanto fosse consapevole.

La questione non è di lana caprina.

Io non credo che fabio abbia agito con malizia, ma il fatto è che se invece della sua originale misura di apertura (calcolata con variabili reali) si usa quella consueta (calcolata con variabili nominali) il suo ragionamento (il disastro del Pil italiano post-2009 è dovuto al rallentamento dell’apertura) va in cocci subito:

basterà osservare che dal 1981 al 1991, quando il Pil cresceva del 2.3% in media all’anno (spezzata grigia), la misura di apertura corretta (spezzata arancione) diminuiva dal 45% al 33%. Difficile quindi argomentare che sia stato il ben più lieve rallentamento dell’apertura dopo la crisi globale a causare o concausare il disastro del Pil italiano dopo il 2009.

Se invece usiamo la misura “fabio”, cioè quella calcolata in termini reali, il ragionamento di fabio va ugualmente in cocci, ma dopo un po’. Basta osservare che questa misura non aumenta molto più negli anni ’80 (quando il Paese cresceva) di quanto aumenti dopo la GFC: fra l’81 e il ’91 passa dal 26% al 32% (sei punti), esattamente come fra il 2007 e il 2017 passa dal 53% al 59% (sei punti). Abbiamo avuto quindi due rallentamenti nella crescita del grado di apertura in presenza di due contesti di crescita molto diversi, il che avvalora l’ipotesi che questa variabile non c’entri molto con il disastro illustrato dal post di San Silvestro e che riporto qui per vostra comodità:

Alla domanda “perché, pur avendo fatto avanzo primario positivo per 30 anni, solo dopo la GFC si sono avuti effetti devastanti sul Pil?” non è difficile rispondere. Certo, avanzi primari importanti sono stati realizzati ben prima della crisi e senza effetti immediatamente apparenti sulla traiettoria del Pil:

Al massimo dell’avanzo primario, attorno al 6% nel 1997 (questa fonte riporta il 6.5%, mentre questa il 5.6%), non corrisponde un minimo del tasso di crescita. Il problema non è il saldo del bilancio pubblico, ma la sua composizione. Quello che ha fatto male ai piddini, che infatti su Twitter non riescono a trovare di meglio che farfugliare idiozie sul fatto che i miei dati sarebbero falsi (sono a prezzi costanti, come deve essere quando si analizzano fenomeni come la crescita dell’economia in termini reali!), è stato farsi sbattere in faccia il loro taglio degli investimenti pubblici:

Questo ha fatto la differenza. L’openness non c’entra niente, e le dimensioni del saldo primario c’entrano, ma poco.

A me sembrava di averlo chiarito, e quindi l’obiezione di fabio rientra nel novero di quelle fatte da chi il post di San Silvestro forse dovrebbe rileggerlo. Però, ripeto, avendo portato dei dati, poteva valere la pena di esaminarne il merito, e così abbiamo fatto.

E ora torniamo a divertirci su Twitter coi piddini smarriti per essere stati messi di fronte alla catastrofe che hanno combinato…

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“Crescita e apertura” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.