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I danni procurati dal cosiddetto “Jobs act”, per l’economia e i lavoratori italiani sono stati tanti, gravi e disastrosi, insieme alle precedenti, cosiddette “riforme” del lavoro, che hanno solo bloccato i salari, tolti i diritti alle persone e precarizzato il lavoro. Ora cerchiamo di fare in modo che questi danni non siano irreversibili: introduciamo la legge sul salario minimo
La sbagliata e sempre troppo reclamizzata idea di flessibilità del mercato del lavoro [1] ha ormai portato alla certezza che la precarizzazione e la povertà lavorativa non aiutano l’economia, i lavoratori e, persino, gli imprenditori onesti e più bravi e innovativi. Sembra evidente che sia necessario un forte cambiamento legislativo di prospettiva. Come prima cosa necessità una seria legge che introduca il salario minimo anche contro le affermazioni del presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che senza portare argomenti fondati, ritiene che una siffatta legge sul salario minimo “rischia di creare condizioni peggiori per i lavoratori di quelle che hanno oggi”. Possiamo affermare che il capo del governo si sbaglia perché negli ultimi trent’anni, sulla spinta delle riforme del lavoro approvate dai governi di centrosinistra e centrodestra, i salari reali in Italia sono calati del 2,9%, mentre in Germania e in Francia aumentavano di circa il 30%, dati incontestabili e ponderati, forniti dall’Ocse [2]. La povertà colpisce un numero sempre maggiore di lavoratori, in particolare, i cosiddetti working poors [3], coloro che nonostante un regolare contratto non riescono a uscire dalla povertà, essi rappresentano l’11,8% dei lavoratori italiani, anche questi dati sono incontrovertibili perché forniti dall’Eurostat [4].
Secondo Eurostat, un lavoratore è considerato “povero” se rispetta quattro condizioni: deve avere un’età tra i 18 e i 64 anni, deve essere occupato al momento della rilevazione dei dati, deve aver lavorato per almeno sette mesi nell’anno di riferimento, e in un anno deve avere un reddito disponibile equivalente (un particolare tipo di reddito che tiene conto del numero dei membri della famiglia) inferiore alla soglia della cosiddetta “povertà relativa”. Questa è fissata a un valore pari al 60 per cento del reddito disponibile mediano nazionale equivalente (valore mediano significa che la metà dei redditi ha un valore inferiore e l’altra metà superiore). Per un lavoratore single stiamo parlando di una soglia di 11.500 euro l’anno. Di recente un gruppo di esperti del Ministero del Lavoro ha ampliato la definizione di lavoratori poveri usata da Eurostat, calcolando che questo fenomeno riguarda circa il 13 per cento degli occupati nel nostro Paese, quasi 3 milioni di occupati.
Tutti i lavoratori a termine, con contratti super-precari [5], sono diventati ormai un fenomeno strutturale, il loro numero è ormai stabilmente sopra ai 3 milioni, dopo aver raggiunto il massimo storico nel marzo 2022, 3 milioni 175 mila contratti a termine, fonte Istat [6]. Per quanto riguarda le giovani generazioni, sono sempre di più quelli che emigrano all’estero, la mobilità giovanile è quasi raddoppiata negli ultimi 15 anni, questo secondo la fondazione Migrantes [7], così come i cosiddetti Neet [8], coloro che non studiano, non lavorano e non seguono alcuna formazione, pari a circa 3 milioni nella fascia dai 15 ai 34 anni (fonti Istat e Eurostat). Il crollo delle nascite è dovuto chiaramente al dato di fatto che i giovani precari prima di pensare “a fare figli”, vorrebbero avere certezze sul futuro [9].
Visti questi incontrovertibili dati, purtroppo a differenza delle opinioni della Meloni, che ci mostrano una situazione drammatica fatta di povertà e precarietà [10], sembra più che evidente, che al contrario di quanto afferma l’attuale Presidente del Consiglio che abbiamo urgenza della legge che introduca il salario minimo. Infatti le ricerche economiche degli ultimi decenni dimostrano che la sua introduzione produce a effetti assolutamente positivi sul mercato del lavoro, nel lontano 1994, gli economisti David Card [11] e Alan Krueger verificarono che un aumento del 20%, da 4,25 a 5,05 dollari l’ora, del salario minimo nell’industria del fast-food degli Stati Uniti non portava a una riduzione dell’occupazione. Altre conclusioni simili sono giunti studi empirici effettuati in altri Paesi del G8. In particolare in Germania dove l’introduzione del salario minimo ha aumentato le retribuzioni senza ridurre l’occupazione, comportando allo stesso tempo un forte aumento della produttività delle imprese, che in molti casi aumentando il volume d’affari hanno implementato l’occupazione.
Grandi risultati positivi su retribuzioni e produttività si sono verificati in Brasile, un’economia a medio reddito dove il lavoro informale è più diffuso. Quindi il salario minimo porta vantaggi non solo ai lavoratori ma a tutta l’economia. L’introduzione di un salario minimo è una leva per ridurre il potere delle imprese [12] che competono sui prezzi bassi sia pagando dei salari artificiosamente bassi che dei prodotti che mettono sul mercato merci di bassa qualità [13], favorendo le aziende più sane, in alcuni casi più oneste, che competono innovando e investendo, aumentando così al tempo stesso salari, occupazione, produttività e anche gli utili degli imprenditori stessi, aumentando, in definitiva, il benessere e la ricchezza dell’itera società.
L’Italia, per via della struttura del suo tessuto industriale basato fondamentalmente su una miriade di piccole imprese, dove, solitamente, viene posta scarsa attenzione all’istruzione e formazione dei lavoratori, con gravi mancanza di politiche industriali programmate a livello governativo, prevalgono le imprese che competono sui prezzi bassi, soprattutto tenendo bassi i salari, con gravi conseguenze non solo sull’occupazione, ma anche sulla produttività. Tra tutte le nazioni l’Italia beneficerebbe forse anche più dall’introduzione di un salario minimo. Il vero dramma del mercato del lavoro italiano sono state inconfutabilmente le cosiddette “riforme” strutturali degli ultimi decenni attuate per flessibilizzare sempre più il mercato del lavoro, che invece di rendere più dinamica e competitiva l’economia italiana l’hanno danneggiata e resa più fragile, oltre a ridurre oltre ogni limite, sia dal punto di vista democratico e delle conseguenze sociali, i salari e i diritti dei lavoratori.
Un recente articolo empirico [14] dimostra che il decreto Poletti del 2014, acclamato ai tempi come “testo di legge storico” da alcuni superficiali e poco avveduti “commentatori”, non ha in nessun modo contrastato la disoccupazione, ma ha solo fortemente precarizzato il mercato del lavoro, favorendo solo i contratti a tempo determinato e precari, riducendo quasi del tutto le conversioni in contratti a tempo indeterminato. Il risultato non dovrebbe sorprendere dato che non c’è mai stata nessuna evidenza empirica che possa mostrare che una minore tutela degli occupati porti a maggiore occupazione.
Altre importanti ricerche mostrano chiaramente che il successivo, e molto dannoso da innumerevoli punti di vista, Jobs Act del 2015-2016, riducendo gravemente le protezioni del posto di lavoro, ha ridotto la possibilità delle lavoratrici, per esempio, di avere figli senza rischiare di perdere il posto di lavoro. Tra il 2010 e il 2020 la produttività italiana è aumentata solamente di 1,2 punti percentuali, a fronte di un incremento di 8,6 punti in Germania e Francia e di 7,8 punti in Spagna e nell’area euro.
Secondo un recente studio della Banca d’Italia [15], la riforma introdotta dalla legge 368/2001 ha precarizzato [16] il mondo del lavoro, aumentando i contratti a termine a scapito di quelli a tempo indeterminato, senza aumentare in nessun modo il livello generale dell’occupazione. La riforma ha inoltre sfavorito i lavoratori più giovani, soprattutto in termini di diritti e di remunerazioni, mentre ha permesso alle imprese di aumentare i profitti comprimendo i salari degli occupati. Questi risultati sono confermati da una ricerca del Fondo Monetario Internazionale [17], che mostra inconfutabilmente e inesorabilmente come le riforme del mercato del lavoro, in Italia, degli anni Novanta e Duemila hanno diminuito la stabilità dei salari, rendendoli più volatili, e aumentato la loro disuguaglianza. Non solo: questi interventi possono aver contribuito al rallentamento della produttività del lavoro in Italia, ritardando l’accumulo di capitale umano delle generazioni più giovani, soprattutto in termini di esperienza generale e di formazione specifica alle aziende. L’esperienza italiana mostra quindi che flessibilizzare il mercato del lavoro fa male ai lavoratori, alle imprese più produttive e competitive, quindi all’economia intera.
Abbiamo la profonda esigenza, quindi, di “buone” riforme strutturali che vadano finalmente in direzione opposta alla precarizzazione del lavoro, che portino al necessario aumento dei salari e all’implementazione dei diritti dei lavoratori. Un buon esempio recente è stato il decreto dignità che ha regolamentato l’utilizzo dei contratti a termine in Italia. Anche in Spagna, le buone riforme del lavoro introdotte dalla ministra Yolanda Díaz hanno scoraggiato l’utilizzo dei contratti a termine creando occupazione: infatti secondo un recente studio della Banca centrale spagnola [18], in un solo anno, gli occupati con contratti a termine sono calati di 1,2 milioni a fronte di un aumento di 1,6 milioni di occupati stabili. La stabilizzazione di questi lavoratori ha un effetto positivo e moltiplicativo sui consumi, perché i lavoratori con più fiducia e tranquillità rispetto al futuro possono investire e spendere di più, con innegabili e ovvi effetti positivi sulla crescita economica. Il salario minimo contribuirebbe a ridurre il gap esistente tra gli estremi della scala salariale, minimizzando le disuguaglianze tra salari. L’introduzione del salario minimo nei settori formali avrebbe un’influenza positiva anche sull’aumento dei salari nei settori informali. In questi termini, un equo salario minimo si colloca tra le soluzioni in grado di ridistribuire adeguatamente la ricchezza nei sistemi di welfare.
Infatti nei paesi in cui esiste il salario minimo, il livello medio salariale per la stragrande maggioranza dei lavoratori risulta più elevato. E’ il caso degli Stati Uniti, dove il 90% delle retribuzioni orarie risulta superiore. Laddove invece non c’è un salario minimo, di solito, le retribuzioni sono inferiori. È il caso dell’Italia. Al riguardo, occorre sottolineare due fatti conclamati. Il primo fa riferimento al fatto che oggi in Italia meno del 50% della forza lavoro è in grado di far valere, in modo effettivo e reale, i minimi dei contratti nazionali. Questo 50% non ha alcuna protezione contro il dumping salariale [19], abbiamo così “la svalorizzazione del lavoro”.
Il secondo fatto è che proprio per la mancanza di un limite inferiore alla caduta dei salari individualmente contrattati assistiamo a una costante riduzione dei redditi di lavoro, che hanno intaccato, con deroghe, forme di concertazione al ribasso, anche dei salari contrattuali. L’Istat stima anche il costo che le imprese dovrebbero sostenere per adeguare gli stipendi ad un minimo di 9 euro l’ora. Si tratta di 3,2 miliardi, una cifra sopportabile se si pensa che le prime 10 imprese italiane più profittevoli (da ENI, a Enel, Luxottica, Ferrari, Costa Crociere, Poste Italiane, ecc.) hanno maturato, ad esempio, nel 2018, secondi i dati Mediobanca, circa 26 miliardi di utili. Per non citare i grandissimi extraprofitti delle aziende energetiche fatti in questi ultimi mesi. Secondo alcune fonti [20] nell’ultimo anno, i profitti delle grandi aziende energetiche sono cresciuti in modo abnorme grazie a un aumento dei prezzi dovuto alla forte speculazione.
Ecco perché dobbiamo introdurre in Italia un salario minimo per legge, possibilmente di un importo tale da scardinare le imprese inefficienti che non investono, favorendo le imprese più produttive, per ridare dignità e potere d’acquisto ai lavoratori, ma anche per stimolare la produttività e la crescita. Tale salario dovrebbe essere applicato a tutti i settori, non solo a quelli dove non è in vigore la contrattazione collettiva. Per far tornare a far crescere, in modo stabile, l’economia e diminuire le gravi disuguaglianze si deve cercare di scoraggiare il ricorso ai contratti a termine e incentivare le stabilizzazioni. Questo il problema che impedisce alla nostra economia di crescere l’impoverimento dei lavoratori mentre «molte imprese continuano ad accumulare profitti agitando di volta in volta il nemico esterno più utile alla propria retorica: gli immigrati, le delocalizzazioni, la tecnologia. Una narrazione che nasconde un interesse politico, diretto a garantire l’alto contro il basso della società, i profitti dei pochi contro i salari dei molti. Ma la consapevolezza che le crescenti disuguaglianze originano dai salari e dalle retribuzioni è tornata con forza nel dibattito pubblico e alimenta le lotte dei movimenti sociali a livello globale» [21]. Tutte le ricerche e gli studi seri [22] confermano questo semplice dato di fatto: stabilità uguale crescita costante.
1 Dalla metà degli anni novanta che la nostra crescita e la nostra competitività si è basata sul contenimento del costo del lavoro. Le riforme Treu (1997) e la legge Biagi (2003) hanno avviato questa stagione ritenendo che il nostro mercato del lavoro fosse troppo rigido, nell’idea che una giusta dose di flessibilità avrebbe aiutato non solo ad aumentare l’occupazione, ma avrebbe anche migliorato l’efficienza dell’intero sistema e quindi la sua competitività. Infatti già nel 2007 le retribuzioni orarie dei lavoratori italiani erano assai più basse di quelle dei lavoratori tedeschi o francesi, circa il 30% in meno. Nel corso degli anni che vanno dal 2008 al 2013 le ore di lavoro sono crollate assai più del numero di occupati; le retribuzioni procapite sono quindi diminuite, diventando talvolta insufficienti a garantire un adeguato tenore di vita. Naturalmente con il cosiddetto “Jobs act” la situazione dei salari italiani è pesantemente peggiorata.
2 L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) – in inglese Organization for Economic Co-operation and Development (OECD), e in francese Organisation de coopération et de développement économiques (OCDE) – è un’organizzazione internazionale di studi economici per i Paesi membri, Paesi sviluppati aventi in comune un’economia di mercato. L’organizzazione svolge prevalentemente un ruolo di assemblea consultiva che consente un’occasione di confronto delle esperienze politiche, per la risoluzione dei problemi comuni, l’identificazione di pratiche commerciali e il coordinamento delle politiche locali e internazionali dei Paesi membri. Ha sede a Parigi.
3 I rischi di povertà lavorativa sono strettamente legati alla tipologia contrattuale del lavoratore: circa il 17,1% dei lavoratori sono autonomi (12,1% sono invece dipendenti). Questo dato è più significativo per i lavoratori che abbiano lavorato almeno un mese con contratto part-time (21,6%).
4 L’Ufficio statistico dell’Unione europea è una direzione generale della Commissione europea che raccoglie ed elabora dati provenienti dagli Stati membri dell’Unione europea a fini statistici, promuovendo il processo di armonizzazione della metodologia statistica tra gli Stati stessi.
5 Sul tema vorrei citare le considerazioni della filosofa tedesca Rahel Jaeggi: «Sfruttamento, alienazione, precarietà, disoccupazione a lungo termine: sono soltanto alcune delle forme patologiche che il lavoro ha assunto nella nostra epoca. Se, come diceva Hegel, il lavoro è invece condivisione, prender parte alle risorse universali della società (sia come ciò che una società possiede, sia come ciò che una società è capace di fare), tali patologie possono essere intese come modi diversi di rifiutare o impedire questa partecipazione. [si] indaga gli aberranti sviluppi contemporanei e la minaccia posta alle attuali condizioni lavorative allo scopo di chiarire, attraverso l’analisi di fenomeni negativi, il contenuto positivo del termine e il suo senso nelle società moderne», in R. Jaeggi, Nuovi lavori, nuove alienazioni, Roma, Castelvecchi, 2020, p. IV di copertina.
6 L’Istituto nazionale di statistica è un ente pubblico di ricerca italiano che si occupa dei censimenti generali della popolazione, dei servizi e dell’industria, dell’agricoltura, di indagini campionarie sulle famiglie e di indagini economiche generali a livello nazionale.
7 Organismo pastorale della conferenza episcopale italiana. .
8 NEET (acronimo derivato dalla descrizione in inglese, utilizzato nelle scienze sociali: Not in Education, Employment or Training) Indicatore che individua la quota di popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni che non è né occupata né inserita in un percorso di istruzione o di formazione.
9 Come si può pensare a “fare figli” in mondo caratterizzato da lavoro, quando c’è, precario, da «stress, consumismo ossessivo, paura sociale e individuale, città alienanti, legami fragili e mutevoli: il mondo in cui viviamo sfoggia una fisionomia sempre più effimera e incerta. È liquido. Una società può essere definita liquido-moderna se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. La vita liquida, come la società liquida, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo. Sospinta dall’orrore della scadenza, la società liquida deve modernizzarsi o soccombere. E chi la abita deve correre con tutte le proprie forze per restare nella stessa posizione. La posta in gioco di questa gara contro il tempo è la salvezza (temporanea) dall’esclusione», in Z. Bauman, Vita liquida, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. IV di copertina.
10 Profetiche sembrano le parole di Zygmunt Bauman: «Nel nostro mondo postmoderno non c’è posto per la stabilità e la durata, l’apparenza prevale sulla sostanza, il tempo si frammenta in episodi, la salute diventa fitness, la massima espressione di libertà è lo zapping. … sembra emergere solo un nuovo disordine globale. Le figure emblematiche che abitano questo traballante universo sono il giocatore (in borsa o alla lotteria) e il turista, lo sradicato e il “collezionista di sensazioni”. Ma forse, più di ogni altro, lo straniero. Per impedire che l’individuo diventi presto straniero anche a se stesso, è giunto forse il momento di guardare a nuove strategie di vita», in Z. Bauman, Paura liquida, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. IV di copertina.
11 Per questo studio Card ha vinto nel 2021 il Nobel per l’economia.
12 Le imprese operano cioè in un regime di monopsonio, in cui possono comprimere i salari perché sono l’unico compratore del fattore lavoro di fronte ad una vasta offerta. Imponendo salari particolarmente bassi, le imprese monopsonistiche sopravvivono a discapito di quelle più sane.
13 Prodotti e merci che subiscono la fortissima concorrenza da parte delle produzioni meno qualificate prodotte a costi bassissimi in vari paesi extraeuropei, dove non sono rispettati i diritti sindacali e nemmeno molte regolazione sulla qualità e salubrità delle materie utilizzate e nei processi produttivi, quindi aziende che competono al ribasso.
14 Pubblicato in Edoardo Di Porto Cristina Tealdi, Heterogeneous Paths to Stability, in “IZA Institute of Labor Economics”, Aprile, 2022, pp. 1-35.
15 Diego Daruich, Sabrina Di Addario, Raffaele Saggio, Temi di discussione. The effects of partial employment protection reforms: evidence from Italy, n. 1390, novembre 2022.
16 «Dicevano: meno diritti, più crescita. Abbiamo solo meno diritti», in Marta Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, Roma-Bari, Laterza, 2017, P. IV di copertina.
17 E. B. Hoffmann, D. Malacrino, L. Pistaferri, Labor Market Reforms and Earnings Dynamics: the Italian Case, Maggio 2021.
18 Banco de españa, economic bulletin 2023/q1, 19 the growth in permanent contracts and its potential impact on spending, pp. 1-11.
19 Si parla di «dumping salariale» (ovvero una pressione al ribasso dei salari) quando le condizioni salariali usuali per il luogo, la professione o il settore non sono rispettate in modo ripetuto e abusivo.
20 https://www.wired.it/article/energia-extra-profitti-inchiesta-procura-roma/, sito visitato il 20 aprile 2023. Sul sito della Confindustria Italiana: «In particolare, a politiche invariate pre-crisi, l’incidenza dei costi energetici sul totale dei costi di produzione per l’economia italiana si stima possa raggiungere l’8,8% nel 2022, più del doppio del corrispondente dato francese (3,9%) e quasi un terzo in più di quello tedesco (6,8%). Si amplierebbe così il divario di competitività di costo dell’Italia dai principali partner europei. E ciò avverrebbe per tutti i principali comparti dell’economia: dal settore primario, all’industria fino ai servizi», in https://www.confindustria.it/home/centro-studi/temi-di-ricerca/tendenze-delle-imprese-e-dei-sistemi-industriali/dettaglio/impatto-prezzi-energia-sui-costi-di-produzione-settori-a-confronto-italia-francia-germania, visitato il 20 aprile 2023.
21 M. Fana, S. Fana, Basta salari da fame!, Roma-Bari, Laterza, 2019, p. IV di copertina.
22 D. D’Andrea, Salario Minimo, Lavoro E Società – Una Prospettiva Comparata, Napoli. ESI, 2020; E. Melegatti, l salario minimo legale. Aspettative e prospettive, Torino, Giappichelli, 2017; R. Fabozzi,Salario minimo legale, Bari, Cacucci, 2020. Malgrado queste certezze scientifiche come scrive Davide Serafin: «Di salario minimo, in Italia, non si può parlare. Nonostante il vortice di svalutazione e sfruttamento in cui è stato cacciato il lavoro, la discussione è negata in partenza dagli opposti schieramenti. Chi si è affacciato sulla scena per affrontare l’argomento troppo spesso lo ha fatto inserendolo nelle promesse elettorali che sapeva già di non poter mantenere. Eppure un modo ci sarebbe, eppure un modo c’è», in D. Serafin, Salario minimo, Busto Arsizio (VA), People, 2022, p. 1.
Gli italiani guadagnano il 12 % in meno della media delle altre nazioni Ue, la fascia delle persone dai 18 ai 34 anni è sempre più esposta agli indici di deprivazione.
Anche i dati relativi al lavoro sono i più bassi d’Europa. Inoltre registriamo oltre ai salari molto più bassi della media europea, giovani adulti più poveri rispetto alle altre fasce di età, una popolazione che invecchia costantemente e inesorabilmente mentre lo Stato spende molto poco per sostenere le famiglie e la natalità, esattamente il contrario di quanto avviene in tutte le altre nazioni europee. Il rapporto annuale Istat è sempre più il consueto appuntamento con la strutturale emergenza sociale.
Un ossimoro apparente: perché la carrellata di numeri allarmanti non spaventa ne preoccupa neanche l’attuale governo, il quale – al contrario – prosegue dritto con misure che, se guardate sembrano destinate a un altro Paese. Il Senato della Repubblica non si è occupato della gravità della situazione sociale italiana perché è stato molto impegnato in altre questioni, infatti ha deciso di ripristinare i vitalizi dopo l’abolizione, infatti ha fermato il taglio imposto nel 2018. Una misura che prevedeva che l’assegno fosse calcolato con il metodo contributivo. La maggioranza dei senatori ripristina i privilegi ingiustificati per i parlamentari italiani. Via libera del consiglio di garanzia del Senato a una delibera che prevede il ripristino dei vitalizi tagliati per gli ex senatori. Si tratta di quelli relativi a prima del 2012 quando, adeguandosi alla riforma pensionistica, è stato deciso che venisse applicato anche ai parlamentari il sistema contributivo (quanto effettivamente versato) e non più retributivo (lo stipendio da parlamentare).
Tornano i maxi assegni per 851 ex senatori e 444 familiari di senatori deceduti. L’importo tornerà dunque ad agganciarsi allo stipendio anziché ai contributi versati. Mentre la questione salariale per milioni di italiani è di fondamentale importanza. Ma le retribuzioni italiane, per la stragrande maggioranza, sono sempre più basse, non garantiscono una vita dignitosa a milioni di persone. Tra il 2007 e il 2020 gli stipendi netti dei dipendenti italiani sono crollati del 10% mentre il cuneo fiscale (la differenza tra il costo sostenuto dal datore di lavoro e la retribuzione netta del lavoratore) è sì sceso ma resta ancora superiore al 45%, dati riferiti al 2020. A certificare questo triste trend negativo è l’indagine «Reddito e condizioni di vita» dell’Istat, che misura il carico fiscale e contributivo sulle buste paga. A peggiorare la situazione generale è anche l’inflazione alle stelle, che erode il potere d’acquisto di salari e pensioni. Secondo Odm Consulting la perdita di potere d’acquisto netta è di duemila euro l’anno: circa 1.500 nel 2022 e 500 nel 2023.
L’Istat segnala poi che tra il 2007 e il 2020 i contributi sociali dei datori sono diminuiti del 4%, anche per l’introduzione di misure di decontribuzione, mentre i contributi dei lavoratori sono rimasti sostanzialmente invariati e le imposte sul lavoro dipendente sono aumentate in media del 2%. Per quanto riguarda il cuneo fiscale e contributivo nel 2020 risulta in media pari a 14.600 euro e sebbene si riduca del 5,1% rispetto al 2019 continua a restare elevato superando il 45% del costo del lavoro. A livello territoriale, il costo del lavoro è mediamente più alto al Nord, dove i redditi sono più elevati, rispetto al resto del paese. Secondo l’Istat ne deriva che la quota di retribuzione netta del lavoratore raggiunge il valore minimo, 53,3%, nel Nord-ovest.
Le retribuzioni dei lavoratori italiani sono inferiori alla media europea di 3.700 euro all’anno. La differenza diventa di 8.000 euro se il confronto è solo con i salari tedeschi. Le paghe lorde ammontano a circa 27mila euro e la differenza con l’Europa, come accennato, è del 12%, quella con la Germania arriva al 23%. La significativa differenza si vede non solo guardando la situazione attuale, ma osservando la crescita degli ultimi anni: tra il 2013 e il 2022, le nostre buste paga sono salite solo del 12%, circa la metà della media europea.
Questo vuol dire che in quel periodo il potere d’acquisto delle nostre famiglie, considerando l’inflazione, è sceso del 2%. In questo contesto, dunque, si colloca l’atteggiamento del governo di chiusura netta a ogni ipotesi di salario minimo, a partire da quella presentata in questi giorni da tutti i partiti di opposizione (naturalmente Italia Viva esclusa). Da anni gli stipendi bassi, poi, contribuiscono a diffondere la povertà, specialmente nella giovane generazione che più di tutte fa i conti con il precariato. Secondo il rapporto, ben il 47,7% della popolazione tra i 18 e i 34 anni fa i conti con almeno un fattore di deprivazione materiale. Si tratta di un indicatore che misura il benessere e che conta sei aree: istruzione e lavoro, coesione sociale, salute, benessere soggettivo, territorio. In pratica, quasi la metà dei giovani maggiorenni presenta una carenza in almeno una di queste; addirittura 1,6 milioni di persone, invece, presentano deprivazioni in due o più domini.
Il rapporto, quindi, segnala quella fascia di età come la più vulnerabile e vale la pena ricordare che proprio quella fascia sarà interessata maggiormente dal taglio del Reddito di cittadinanza; da ora in poi la nuova misura potrà andare solo a chi ha minori, disabili o anziani nel nucleo. I più colpiti saranno i single e le giovani coppie senza figli, che pure sono le categorie enormemente penalizzate dal mercato del lavoro. Tra l’altro, la povertà si conferma un fenomeno legato alla provenienza sociale infatti essa è diventata un dato di fatto ereditario.
La trasmissione intergenerazionale della povertà, la “trappola”, è più intensa che nella maggior parte dell’Ue: quasi un terzo degli adulti tra 25 e 49 anni a rischio povertà inesorabilmente proviene da famiglie povere. Evidenza che stronca l’assurda “narrazione della meritocrazia” del disagio economico come colpa delle persone. Il record del tasso di occupazione dipende anche da fattori demografici, cioè dal fatto che la popolazione in età lavorativa diminuisce. Il declino è proseguito anche nell’anno appena passato, quando la popolazione italiana generale è diminuita di ben 179.416 unità. Per la prima volta le nascite sono andate sotto le 400mila, fermandosi a 393mila, mentre le morti sono state 713mila. A inizio 2020 l’età media era di 45,7 anni, mentre ora siamo a 46,4. Siamo, teniamolo sempre presente, tra l’altro uno dei Paesi che meno investe per la famiglia e i minori, l’Italia spende l’1,2% del Pil, contro il 2,5% della Francia e il 3,7% della Germania. Aggiungiamo che anche i dati ambientali sono preoccupanti. La disponibilità idrica nazionale ha raggiunto il suo minimo storico nel 2022, quasi il 50% in meno rispetto al periodo tra il 1991 e il 2020. E c’è il problema della povertà energetica: il 17,6% delle famiglie a rischio povertà non riesce a riscaldare adeguatamente l’abitazione e il 10,1% dichiara arretrati nel pagamento delle bollette. Secondo l’Istat il 20,1% della popolazione nel 2022 è a rischio povertà. Bisogna tenere presente che negli anni in cui è stata fatta la rilevazione Istat era in vigore uno strumento di contrasto alla povertà: il reddito di cittadinanza. Pur non avendo migliorato la situazione ha comunque evitato che un milione di persone in più si trovasse in condizioni di povertà.
Cosa succederà nei prossimi mesi con la nuova misura, l’Assegno d’inclusione, che di fatto dimezza la platea dei beneficiari? l’Istat nel report “Condizioni di vita e reddito delle famiglie – anni 2021/2022” certifica che nel 2022 poco meno di un quarto della popolazione (24,4%) è a rischio di povertà o esclusione sociale, quasi come nel 2021 (25,2%). Ma va sottolineato che le rilevazioni sono state effettuate prima dell’aumento dell’inflazione. «Certamente questi non sono dati da leggere con sollievo», spiega Antonio Russo, portavoce dell’Alleanza contro la povertà. «Non dobbiamo farci trarre in inganno dal fatto che il dato sulla percentuale di persone a rischio povertà sia rimasto stabile tra il 2021 e il 2022: in Italia la popolazione è povera, parliamo – stando ai dati – di quasi un individuo su quattro a rischio povertà». Inoltre un altro dato che riporta l’analisi Istat ci dice che nel 2021 il reddito totale delle famiglie più abbienti è 5,6 volte quello delle famiglie più povere (rapporto sostanzialmente stabile rispetto al 2020). Questo valore, ovviamente, sarebbe stato molto più alto (6,4) in assenza di interventi di sostegno alle famiglie. «Se è vero che il reddito delle famiglie è tornato a crescere», spiega Russo, «dobbiamo però interrogarci su una questione: “quali misure e strumenti di contrasto alla povertà erano in vigore durante gli anni della rilevazione? A contribuire nel sostenere le famiglie c’era il reddito di cittadinanza e da marzo 2022 anche l’assegno unico.
Ricordiamo anche che senza il reddito di cittadinanza, e lo ha certificato l’Istat, avremmo avuto un milione di poveri in più». Il reddito di cittadinanza sarà sostituito da due misure, rivolte a diverse categorie di beneficiari: da un lato l’Assegno d’inclusione (Adi) per i “non occupabili”, dall’altro il Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl) per gli occupabili. La sostituzione del Reddito di Cittadinanza con l’Assegno all’Inclusione, una misura categoriale rivolta esclusivamente alle famiglie con minori, anziani o disabili, e il Supporto per la formazione e il lavoro, per le altre famiglie, costituisce una profonda e preoccupante novità rispetto al criterio di universalità selettiva che aveva caratterizzato le due precedenti misure nazionali di contrasto alla povertà, prima il Rei e poi il Rdc. Si rischia di ricreare un forte elemento di debolezza nel nostro sistema di welfare. Viene infatti abbandonato il principio del reddito minimo (oggi vigente nella maggior parte dei paesi europei), il quale prevede che qualsiasi nucleo familiare che si trovi in condizione di povertà debba ricevere un sostegno minimo al reddito.
La conseguente riduzione della platea degli aventi diritto che ne risulterebbe è infatti rilevante: si potrebbe determinare, secondo le stime più accreditate, addirittura un sostanziale dimezzamento degli aventi diritto.
Il rischio di povertà resta più alto nel Mezzogiorno, che rimane l’area del Paese con la percentuale più alta di individui a rischio (40,6%, come nel 2021). Anche se a livello regionale l’Istat registra un miglioramento per la Campania e la Sicilia, con la riduzione del rischio di povertà o esclusione sociale, trainato da una sensibile riduzione di tutti e tre gli indicatori (rischio di povertà, grave deprivazione e bassa intensità di lavoro). Tuttavia, il rischio di povertà o esclusione sociale aumenta in Puglia, Sardegna e Calabria; in queste ultime due regioni peggiorano i tre indicatori. Il governo intanto ha varato la nuova legge: il decreto Lavoro che prevede più precarietà, più’ possibilità di rinnovare senza causale contratti a termine, sussidi dello Stato solo alle imprese. Il Governo dopo l’Irap e la proposta della flat tax, vuole la riduzione dell’Ires. La concentrazione di capitali, di ricchezza, non è data solo dai monopoli, dagli oligopoli, dalle multinazionali, dall’estrazione di valore nella produzione in un contesto di deflazione salariale.
Anche l’attuale governo si fa sostenitore delle disuguaglianze con sussidi solo alle imprese, riduzione di imposte, tolleranza ad elusione ed evasione, con la soppressione delle funzioni pubbliche previste dalla Costituzione a favore di settori privatistici.
La situazione della sanità sembra emblematica con l’esplosione dei bilanci in rosso delle Regioni e il taglio della spesa pubblica rischiano di essere sempre più marcati alla luce delle scelte fiscali del Governo Meloni. Il tutto mentre la spesa sanitaria pubblica è prevista in riduzione dal 6,7% del Pil nel 2023 al 6,3 nel 2024 fino ad arrivare al 6,2 nel 2025. Un recente studio di Mediobanca mette in luce, con estrema chiarezza, il recente rafforzamento della sanità privata. Nel 2021, 24 operatori sanitari privati hanno realizzato in Italia un fatturato di 9,2 miliardi di euro, in forte, e continua, crescita rispetto al passato. Una simile crescita è stata, in buona misura, trascinata dalla diagnostica. Lo stesso rapporto indica con didascalica evidenza che tale crescita dipende moltissimo dalla decisa frenata della spesa sanitaria pubblica i cui numeri sono, davvero impietosi, secondo quanto emerge dal recente Def. Peraltro, occorre ricordare che si tratta di una spesa più bassa di quella della Germania, dove risulta pari al 10,9% del Pil, della Francia, dove è pari al 10,3, e della Spagna dove supera di poco il 7,8%.
È evidente che si va verso una sanità non più universalistica e pubblica. A questo aggiungiamoci che dei dati contenuti nelle Tabelle dei bilanci previsionali del Ministero della Difesa e degli altri dicasteri che contribuiscono alla spesa militare italiana (ex Mise e Mef) allegate alla Legge di Bilancio 2023 inviata dal Governo al Parlamento: il nuovo incremento complessivo è di oltre 800 milioni di euro.
Il dato di fatto emerso nelle ultime tornate elettorali è che gli appartenenti alle classi popolari votino, o simpatizzino, per partiti di destra e movimenti antipolitici, di ispirazione etnonazionalistica e anti-immigrati, ancora..
più fattuale è che i responsabili siano proprio i tradizionali partiti di sinistra, ormai incapaci di difendere le classi più deboli, che costituivano il loro serbatoio tradizionale di voti. Evidente che di fronte alla globalizzazione, ed a tutti i fenomeni connessi, la sinistra tradizionale di governo non ha saputo o voluto costruire una politica fiscale basata sul principio di progressività, inoltre non ha fatto nulla per una legislazione a difesa del lavoro.
L’eguaglianza nei processi formativi si è fermata alle scuole secondarie, mentre la nuova economia richiedeva professionalità più elevate. Le conseguenze sulla stessa constituency della sinistra elettorale, alla fine, sono state esplosive. Per questa dimostrata inadeguatezza, a livello mondiale delle sinistre politiche, a partire dalla fine degli anni Ottanta del XX secolo, ha portato ad un diffuso sentimento di abbandono delle classi popolari di fronte ai partiti classici socialdemocratici e similari e di conseguenza si è costituito un terreno fertile per i discorsi anti-immigrati e le ideologie nativiste.
Fino a che mancheranno proposte serie di politica redistributiva delle ricchezze, sulla giustizia sociale i partiti della sinistra tradizionali perderanno consensi. Sinistra era un tempo sinonimo di ricerca della giustizia e della sicurezza sociale e di impegno a favore di coloro che non erano nati in una famiglia agiata e dovevano mantenersi con lavori duri e spesso poco stimolanti. Essere di sinistra voleva dire perseguire l’obiettivo di proteggere queste persone dalla povertà, dall’umiliazione e dallo sfruttamento, dischiudere loro possibilità di formazione e di ascesa sociale.
Chi era di sinistra credeva nella capacità della politica di cambiare la società all’interno di uno Stato nazionale democratico e che questo Stato potesse e dovesse correggere gli esiti del mercato. Anche di fronte alle grandi differenze anche tra i sostenitori della sinistra, una cosa era chiara i partiti di sinistra, che fossero socialdemocratici, socialisti o comunisti, non rappresentavano le élite, ma i più svantaggiati. Invece la sinistra attuale è costituita dai ceti colti e internazionalisti, perché fautori della globalizzazione finanziaria allo stesso modo delle destre liberali, che sostengono cioè le politiche antisociali, come molti partiti conservatori senza alcuna differenza tangibile, esempi concreti di questa sinistra, o meglio centrosinistra [1] più di centro che di sinistra, perché sono sempre più partiti che propongono politiche centriste, sono stati Macron, in Francia, e Renzi, in Italia. In entrambi i casi abbiamo avuto, nell’azione di governo, politiche indiscutibilmente, dal punto di vista fattuale, pro-ricchi, riuscendo ad indebolire le classi medie: In Francia, ad esempio, l’abolizione dell’imposta sul patrimonio; In Italia, con il governo Renzi, abbiamo avuto l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che garantiva i lavoratori dipendenti dall’ingiusto licenziamento [2], con gravi conseguenze sulla fiducia delle classi popolari nell’operato della sinistra politica.
Abbiamo avuto in questi ultimi decenni una presunta «Sinistra intellettuale benestante» e una «destra mercantile» – scrive Piketty – che incarnano valori ed esperienze in qualche modo complementari. E condividono anche non pochi tratti comuni, a cominciare da una certa dose di ‘conservatorismo’ di fronte all’odierna situazione di disuguaglianza.
Sono evidenti le ragioni che hanno portato una parte crescente dei gruppi sociali svantaggiati a sentirsi scarsamente rappresentati (o addirittura abbandonati) dalla sinistra che ha anche governato, per molti anni, in molte nazioni europee favorendo, solo ed esclusivamente, le elitarie classi sociali più benestanti. Della stessa opinione registriamo il parere di Sahra Wagenknecht, esponente della sinistra radicale tedesca, che ritiene i tipici rappresentante della sinistra liberale come: «Spocchiosi Arroganti. Ossessionati dal politically correct. Persuasi di stare sempre dalla parte del Bene, e di ciò che fa bene al pianeta» [3]. Inoltre esattamente come osserva Piketty la sinistra di governo, oltre ad essere neoliberale, è «Modaiola e arrogante, neoliberale e lontana dai suoi temi classici: salari, diritti, welfare» [4]. La Wagenknecht osservando la situazione tedesca dei nostri tempi, spiega con grande precisione perché la sinistra neoliberale abbia perso i voti della classe operaia, infatti rivela che: «nei quartieri più alla moda di Berlino, i figli dei professionisti e dei nuovi ricchi non incontrano più quelli del precariato; vanno a scuole diverse e i meno abbienti li vedono solo quando gli portano la posta o la cena».
Abbiamo di fronte una società globalizzata sempre più divisa a compartimenti stagni, come avevano già descritto dai sociologi Ulrich Beck e Zygmunt Bauman. Divisa da un lato fra chi la globalizzazione la cavalca, come gli accademici e i loro pupilli, «che vivono agiati e cullandosi nei loro stili di vita così verdi, ma vissuti come fossero dei dogmi, dei precetti autoritari». E, dall’altra parte, la larga fascia dei perdenti dell’era digitale, l’esercito del precariato e dei pensionati che, dopo aver sgobbato una vita, si ritrova a frugare nei cassonetti. Il resto, dalle crisi delle sinistre alla marea nera di destra che monta in mezzo mondo, è storia quotidiana. Conclude la Wagenknecht che «Non è vero dunque che nel 21° secolo la gente abbia virato a destra. Dal punto di vista socio-economico le masse richiedono più salario, diritti e welfare, i classici temi cioè di sinistra. Peccato solo che i partiti di sinistra siano sempre più orientati a politiche e atteggiamenti neoliberali», aggiunge: «È un fatto che le garanzie del welfare, i sistemi sociali e sanitari funzionino solo all’interno di uno Stato nazionale. E non possono essere estese, ecumenicamente, a tutti senza pregiudicarne le prerogative». Come la gestione statale nell’emergenza-virus ha drammaticamente mostrato [5].
Considerazioni simili le ha espresse il noto sociologo italiano Domenico De Masi che, senza mezzi termini, afferma che la sinistra liberale è responsabile dell’impoverimento delle classi sociali più povere e del declino della classe media. Infatti, con grande lucidità di analisi, sostiene che «nell’ultimo mezzo secolo i leader di sinistra hanno fatto a gara per disorientare i cittadini.
Si pensi, ad esempio, agli esperimenti di “terze vie” alla Tony Blair o al Neue Mitte di Gerhard Schroeder. Ma in Italia il disorientamento è iniziato subito dopo la morte di Enrico Berlinguer, quando le sinistre caddero in un insano innamoramento per il neoliberismo considerato come salvifica modernizzazione. Se si pensa che, negli anni 90, quando Mario Draghi fu Direttore generale del Tesoro e presidente della Commissione per le privatizzazioni, la furia privatizzatrice contro le industrie di Stato e il settore pubblico non fu sferrata da leader neoliberisti come Berlusconi o Dini, ma da socialisti e comunisti come Amato e D’Alema, ci si rende conto del disorientamento in cui è stato via via trascinato il popolo di sinistra. Il capolavoro perverso, allora compiuto sotto l’accorta regia di Draghi, negli anni successivi si è ripetuto più volte, sotto altre regie meno raffinate. E si pensi al Pd che, per fare fede alla sua natura di sinistra, dovrebbe esibire con orgoglio un programma socialdemocratico e che invece fa sua l’agenda di un liberista come Draghi, dopo essere stato il massimo sostenitore del suo governo.
De Masi paventa che le politiche economiche, pandemia e guerra legittimano l’ipotesi che almeno 12 milioni di italiani vivranno in condizioni penose. A essi vanno aggiunte le centinaia di migliaia di stranieri, clandestini e non, che subiscono uno sfruttamento sistematico. Ma la questione non riguarda solo i poveri. Anche molti giovani e meno giovani che superano la soglia della povertà vivono in uno stato di precarietà perenne, imposta dalla politica economica neo-liberista che della precarietà e del rischio diffusi ha fatto i suoi principi fondamentali.
Dunque se i partiti di sinistra non intercettano i voti delle classi popolari, dei precari e degli emarginati, che aumentano sempre di più, vuol dire che non funzionano gli apparati e i rappresentanti dei partiti che dicono di essere di sinistra ma hanno chiaramente perso di vista il carattere distintivo della sinistra che è sempre stato l’egualitarismo.
Oggi la contrapposizione frontale dovrebbe essere tra neoliberismo, che si risolve fatalmente in aumento delle disuguaglianze, e socialdemocrazia che le riduce. Quindi tutto il fenomeno presentato come populismo altro non è che il risultato delle difficoltà della democrazia liberale, nelle sue svariate articolazioni, di affrontare il problema centrale della nostra epoca, la fortissima sensazione di insicurezza, non caratterizzante solamente nell’aspetto economico, delle singole persone. Questa è la grande questione che lascia una grave eredità di delusione, disillusione e di fallimento, e che trascina l’intera società ad una disperata ricerca di nuove forme di rappresentanza, vista la poca differenza negli effetti pratici dell’alternanza nei governi di destra e sinistra. Per questo, abbiamo visto, l’affermarsi di governi e relativi leader che sembravano, o si atteggiavano, a possibili demiurghi, o di nuova possibilità di mobilitazione e protesta, Il movimento dei gilet gialli o giubbotti gialli in Francia, per cercare un orizzonte diverso da questo attuale, ma con rischi e pericoli ancora sconosciuti per la tenuta democratica [6] anche con la sempre più “discesa in campo” di grandi capitalisti in politica, come Belusconi e Trump.
Stefano Rodotà nel 2013 ne aveva tracciato un principio importante, almeno per chi si definisce di sinistra: «Un principio inaccettabile per la sinistra è la riduzione della persona a homo oeconomicus, che si accompagna all’idea di mercato naturalizzato: è il mercato che vota, decide, governa le nostre vite. Ne discende lo svuotamento di alcuni diritti fondamentali come istruzione e salute, i quali non possono essere vincolati alle risorse economiche. Allora occorre tornare alle parole della triade rivoluzionaria, eguaglianza, libertà e fraternità, che noi traduciamo in solidarietà: e questa non ha a che fare con i buoni sentimenti ma con una pratica sociale che favorisce i legami tra le persone. Non si tratta di ferri vecchi di una cultura politica defunta, ma di bussole imprescindibili. Alle quali aggiungerei un’altra parola-chiave fondamentale che è dignità» [7]. Questo è il punto focale anche nelle nazioni più ricche. Per esempio in Italia abbiamo 5 milioni 770 mila poveri assoluti che dispongono di meno di 2 dollari al giorno. A questi vanno aggiunti circa 7 milioni di poveri relativi. Siamo a oltre dodici milioni di poveri in un paese che ha 60 milioni di abitanti e che è l’ottavo al mondo per ricchezza su 196. Ciò accade nonostante 3 milioni e 700 mila persone prendano quel minimo reddito di cittadinanza [8]. Non si vede un partito che si faccia carico di queste persone e dei loro bisogni e diritti.
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1 Lo stesso partito socialdemocratico tedesco, si distinse per politiche moderate e di austerità, che nel 1998 riuscì a riprendere la guida del governo, alla testa di una coalizione con i Verdi e presentando come candidato alla cancelleria il moderato Gerhard Schröder, fautore di una politica di “nuovo centro” (Neue Mitte), che non si distinse affatto dalle politiche sostenute dai governi precedenti e successivi guidati dai democristiani tedeschi.
2 «Le politiche condotte dal PD – in particolare la facilitazione delle procedure di licenziamento (il cosiddetto “Jobs Act”) decisa dal governo Renzi poco dopo l’arrivo al potere, che ha provocato una forte opposizione dei sindacati e grandi manifestazioni (1 milione di persone a Roma nell’ottobre 2014) – hanno contribuito ad aumentare l’impopolarità del partito presso i ceti popolari e i lavoratori delle classi più povere. Il forte sostegno a queste riforme manifestato pubblicamente dalla cancelliera tedesca, la cristiano-democratica Angela Merkel, e la certezza che la loro approvazione in Parlamento sarebbe stata garantita da un accordo implicito tra PD e Forza Italia hanno contribuito a consolidare l’opinione che il partito non avesse più nulla a che fare con le sue origini socialiste-comuniste del dopoguerra», in T. Piketty, Capitale e ideologia, Milano, La nave di Teseo, 2020, p. 993.
3 In S. Vastano, La sinistra? È un Lifestyle, in “L’Espresso”, del 29/05/2022, p. 76.
4 Ibidem.
5 Le tesi dell’autrice sono rafforzate dal suo bel saggio di oltre 400 pagine, S. Wagenknecht, Contro la sinistra neoliberale, Roma, Fazi, 2022, l’autrice mette bene in evidenza come la sempre citata espressione liberalismo di sinistra è fuorviante. A guardar bene la corrente che designa non è né di sinistra né liberale, ma contraddice nella pratica l’orientamento di entrambi gli schieramenti; è una sinistra ipocrita, saccente, imborghesita, che si crede detentrice della verità e non ascolta gli elettori che chiedono «equilibrio sociale, regolamentazione dei mercati, maggiori diritti per i lavoratori, welfare state». Temi di cui la sinistra alla moda – come la definisce Wagenknecht – non si occupa più, perché la questione del lavoro è scomparsa dai suoi radar, e la lotta di casse è roba ottocentesca. Insomma questa ristretta élite autodefinitasi di sinistra, che spopola sui media, orienta la sua attenzione su globalismo, europeismo, ambientalismo, temi importanti, per carità. Ma, nella realtà fattuale, se difendi ciecamente la natura, senza curarti dei posti di lavoro di una moltitudine di persone penalizzate dall’ambientalismo radicale, il risultato è che mette la classe operaia in fuga verso destra. È purtroppo un dato di fatto. L’intero pacchetto legislativo sul clima scrive Wagenknecht come «formulato dal governo tedesco… colpisce in maniera sproporzionata i poveri e chi vive nelle regioni rurali», dunque: «Tale maggioranza ritiene… che non valga la pena sostenere l’impegno di Greta Thunberg” (Ivi, pp. 261-262). È solo un esempio di come questa sinistra – ambientalista e attenta solo ai diritti civili – abbia perso di vista i problemi più urgenti dei cittadini (economia, lavoro, occupazione). Perdendo anche i loro voti. Perché questo è il punto: i neoliberali di sinistra non pongono al centro della loro azione problemi sociali ed economici, bensì domande riguardanti lo stile di vita alla moda tra l’élite borghese. Ecco spiegata la crisi elettorale in Germania di una sinistra che non fa più la sinistra e non capisce quanto e fino a che punto l’esperienza di milioni di persone, oggi, “non sia più l’ascesa professionale, ma la caduta sociale o la paura che ciò accada” (Ivi,p. 93). Ecco perché i presunti leader riformisti italiani (da Letta a Renzi a Calenda), non godono del consenso della classe operaiae del ceto più umile: semplicemente perché non lo rappresentano più. Si occupano d’altro. Il libro demolire l’ipocrisia e “la malafede – per dirla con Sartre – di certa borghesia piena di sé” e demistificare la demagogia della loro narrazione: quel parlare di “società aperta”, mentre costruiscono muri tra le classi (si vedano le pp. 163-177); quel parlare di democrazia mentre creano un’oligarchia (Ivi, pp. 322-352); quel predicare la giustizia, mentre negano l’equità sociale e sono subalterni alla finanza.
6 I pericoli per la democrazia sono sempre più evidenti, soprattutto se consideriamo il grande potere degli ultramiliardari, la filosofa Giorgia Serughetti lo ha messo molto bene in evidenza, in questo suo articolo: «Di chi vi fidate di meno? Dei politici o dei miliardari?. Con un sondaggio su Twitter, Elon Musk pone quella che chiama una “vera domanda”, che ha però fin dal principio un suono retorico. Il risultato infatti appare scontato, considerato l’emittente del messaggio: il 76 per cento dei 3,4 milioni di utenti che hanno votato indica i politici come meno degni di fiducia. Se l’eccentrico patron di Tesla non è nuovo a provocazioni via social, l’episodio merita tuttavia qualche attenzione, sia per ciò che rivela del rapporto tra i super miliardari, il potere politico e la moltitudine dei senza-potere, sia per la dimensione massiccia della partecipazione al sondaggio che, anche al netto di possibili profili fake, segnala un pericolo nuovo, persino visto da un’Italia che di uomini ricchi pronti ad aizzare il pubblico contro politici di professione ne ha conosciuti più d’uno. Il tweet esprime la quintessenza dell’antipolitica di una classe proprietaria che dipinge il lavoro di parlamenti e governi come inutile, dannoso e fondamentalmente avverso non solo al proprio interesse ma all’interesse del “popolo” che, sgravato da oneri e imposizioni, sarebbe più libero di perseguire la propria felicità. “La politica è un generatore di tristezza”, scrive Musk in un altro post. Fino a qui, siamo su un terreno che conosciamo. In Italia, Silvio Berlusconi ha lungamente contrapposto la propria abilità di uomo d’impresa all’inerzia dei politici di professione. Però il suo caso, come quello di altri imprenditori milionari che “scendono in campo”, implica ancora il desiderio di partecipare al gioco della politica, conquistare il governo, fino magari a impadronirsi della macchina dello stato; non quello di fare a meno dello stato, o di sostituirsi al suo potere. L’aspetto storicamente inedito dei super ricchi con patrimoni a dodici cifre, quelli di cui parla Riccardo Staglianò nel suo libro Gigacapitalisti (Einaudi), è che “si tratta di privati cittadini in grado di fare cose prima appannaggio solo degli stati”: dalla gestione di scambi a livello planetario alla sorveglianza di massa, fino ai viaggi spaziali. Privati che fanno tutto ciò come privati, senza l’ambizione di conquistare il potere politico. Cosa significa allora «fidarsi» dei miliardari, che non rendono conto a nessuno, più che dei politici che rispondono all’elettorato? Significa vedere nei primi una promessa di felicità, anche se le loro innovazioni paiono lontane anni luce dalla vita e i problemi quotidiani delle persone comuni? E pur sapendo che nella crisi pandemica questi hanno moltiplicato i propri guadagni, mentre milioni di persone regredivano sotto la soglia minima di benessere? Sono domande che trovano risposta solo guardando il rovescio della medaglia, osservando la perdita generale di fiducia in partiti politici che faticano a rappresentare componenti sempre più ampie del demos, e la distruzione del credo nell’uguaglianza che tiene in vita la democrazia. Solo che di queste dinamiche i “gigacapitalisti” come Musk, Jeff Bezos o Mark Zuckerberg non sono spettatori interessati, sono attori. L’informazione tossica delle piattaforme social, l’attentato ai diritti dei lavoratori, il ricatto esercitato verso gli stati, sono solo alcuni dei modi con cui favoriscono la crescita del malessere individuale, insieme alla sfiducia nel collettivo e nella politica. Per questo, come scrive Staglianò, dire che rappresentano una minaccia per la democrazia “non è un’iperbole”. E poiché la loro ambizione è globale, nessuna democrazia può dirsi al sicuro», in G. Serughetti, Il caso Elon Musk. L’antipolitica dei miliardari minaccia la democrazia, in “Domani”, del 30/05/2022, p. 5.
7 Dall’intervista di Simonetta Fiori, Stefano Rodotà: “Dignità, la parola chiave”, in “la Repubblica”, 23 luglio 2013, in https://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/2013/07/23/news/stefano_rodot-63509800/, visitato il 27 giugno 2022.
8 Repot Istat, Istituto nazionale di statistica, dove troviamo «Il valore dell’intensità della povertà assoluta – che misura in termini percentuali quanto la spesa mensile delle famiglie povere è in media al di sotto della linea di povertà (cioè “quanto poveri sono i poveri”) – registra una riduzione (dal 20,3% al 18,7%) in tutte le ripartizioni geografiche. Tale dinamica è frutto anche delle misure messe in campo a sostegno dei cittadini (reddito di cittadinanza, reddito di emergenza, estensione della Cassa integrazione guadagni, ecc.) che hanno consentito alle famiglie in difficoltà economica – sia quelle scivolate sotto la soglia di povertà nel 2020, sia quelle che erano già povere – di mantenere una spesa per consumi non molto distante dalla soglia di povertà», p. 2.
di Paolo Desogus
di Alberto Scotti
Poi questi so quelli che parlano di titoli e competenze. Immagino che quelli titolati per loro siano tosa, tommasi e chiara ferragni.
Patriarcato in crisi. «Può piacere o no, ma la civiltà occidentale dall’invasione dorica di 1500 anni prima di Cristo si imposta su un’idea di patria potestas. Questo chiaramente non c’entra col condividerlo o meno, è la realtà. E’ una cosa che dura grosso modo, per poi andare in crisi, fino al nostro Rinascimento – la parole del filosofo – E’ una rivoluzione vera, culturale e antropologica. Già nei drammi di Shakespeare è chiarissima la crisi del modello patriarcale. Via via questa crisi si approfondisce, l’epoca storica della famiglia borghese segna una grave crisi nella cultura patriarcale. E’ venuto sempre meno, con drammatica rapidità nell’ultimo periodo, il ruolo della figura maschile all’interno della famiglia. Io ritengo che queste tragedie siano il frutto, nelle personalità più deboli e più fragili, di questa loro centralità e di questa loro figura di riferimento, di questo loro esercizio del potere, ma anche legittimità valoriale».
di Alessandro Orsini
Il filmato virale di Stuart Seldowitz che attacca il gestore di un carretto di cibo Halal con offese islamofobiche e invoca la morte di altri bambini palestinesi ha messo a nudo il legame tra l’estremismo e la politica estera statunitense.
Seldowitz, ex consigliere per la sicurezza nazionale alla Casa Bianca di Obama e numero due del Dipartimento di Stato per gli affari israelo-palestinesi, è stato sorpreso per le strade di New York a vomitare bigottismo nudo e crudo su arabi e musulmani che violentano le loro figlie, scrive The Grayzone.
“Hai violentato tua figlia come ha fatto Maometto?”. Seldowitz è stato sorpreso mentre chiedeva a un lavoratore di un carretto alimentare in una fredda notte di novembre a New York. “Se abbiamo ucciso 4.000 bambini palestinesi, non è stato abbastanza”.
Ma il riprovevole episodio che vede Seldowitz protagonista non è stato un incidente isolato. Anzi, è la personificazione del connubio tra il bigottismo di rango e l’estremismo assiomatico del consenso trasversale delle fazioni della politica estera statunitense. Prima della sua ascesa alla celebrità di Internet, Seldowitz ha trascorso almeno un anno a molestare maliziosamente le diplomatiche russe e ha persino tentato di insidiare il cane dell’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Dmitry Polyanskiy.
L’ambasciatore ha dichiarato a The Grayzone che vedere il filmato di Seldowitz è stata una “rivelazione” per lui, perché lui e la sua squadra sono stati “molestati da lui per più di un anno e non siamo riusciti a identificarlo”.
Secondo Polyanskiy, Seldowitz ha persino cercato di “molestare” il suo cane durante una passeggiata. “Il che è troppo per me”, ha aggiunto l’ambasciatore.
Seldowitz faceva parte di un gruppo di manifestanti contro la Russia alle Nazioni Unite dopo l’avvio dell’operazione militare in Ucraina e si appostava all’ingresso della missione russa per seguire e insultare i diplomatici che uscivano dal loro posto di lavoro.
The Grayzone has obtained footage of ex-State Dept official Stuart Seldowitz harassing Russian diplomats by the UN
Now infamous for his viral Islamophobic rant, Seldowitz allegedly called Russian UN officials “whores” and even harassed a diplomat’s doghttps://t.co/K976DS3yag pic.twitter.com/tcPsibv5Ih
— The Grayzone (@TheGrayzoneNews) November 22, 2023
“Era insistente e personale. Questo è il problema”, ha insistito Polyanskiy. “Non abbiamo problemi se qualcuno esprime preoccupazioni o disaccordi con le nostre politiche, ma quando la cosa diventa personale e una persona molesta e pedina le donne, insultandole, dicendo loro che sono ‘puttane’ e tutte queste cose, è qualcosa che non potremmo sopportare”, ha affermato a The Grayzone.
In un video ottenuto da The Grayzone, si vede Seldowitz aggredire verbalmente una persona che sta facendo una pausa sigaretta fuori dalla missione russa alle Nazioni Unite. Seldowitz definisce la collega donna “puttana”, poi le si avvicina e le chiede: “Sei una delle prostitute di Putin?”.
Secondo Polyanskiy, il Dipartimento di Polizia di New York non ha fatto nulla per fermare Seldowitz o assistere la squadra diplomatica nell’identificazione del suo molestatore seriale, liquidando il tutto come un problema di libertà di parola. Seldowitz ha smesso solo quando “gli statunitensi comuni hanno cercato di ragionare con lui e di dirgli che sta facendo cose fuori posto”.
A questo punto sarebbe troppo facile liquidare i commenti razzisti come demenza senile. Invece, l’ex alto funzionario statunitense con i suoi comportamenti ha gettato la maschera, mostrando il vero volto dell’Occidente ‘democratico’.
Israele e Hamas avrebbero concordato un cessate il fuoco di quattro giorni che prevede il rilascio di 50 ostaggi detenuti da Hamas in cambio di 150 ostaggi detenuti dalle forze israeliane.
In un articolo intitolato “I funzionari dell’amministrazione Biden vedono la prova che la loro strategia sta funzionando nell’accordo sugli ostaggi”, Politico descrive l’accordo come “la più grande vittoria diplomatica dell’amministrazione durante il conflitto” e riferisce che i funzionari della Casa Bianca lo definiscono una “rivendicazione” del processo decisionale di Biden – un livello di vanagloria del tutto inappropriato per un risultato minimo come quello di non uccidere bambini per qualche giorno (e che in realtà è stato negoziato dal Qatar).
In molti paragrafi di questo articolo è riportata una frase che sta ricevendo molta attenzione sui social media, secondo la quale, secondo le fonti di Politico, c’è stata una certa resistenza alla pausa tra le lotte all’interno dell’amministrazione per il timore di permettere ai giornalisti di entrare a Gaza per raccontare le devastazioni che Israele ha inflitto all’enclave. Politico ha riferito che:
“E c’era qualche preoccupazione nell’amministrazione per una conseguenza non voluta della pausa: che avrebbe permesso ai giornalisti un accesso più ampio a Gaza e l’opportunità di risaltare ulteriormente la devastazione del luogo e di rivolgere l’opinione pubblica contro Israele”.
In altre parole, la Casa Bianca teme che una breve pausa nel massacro israeliano di civili a Gaza permetta ai giornalisti di riportare la verità sul massacro israeliano di civili a Gaza, perché danneggerebbe gli interessi informativi di Stati Uniti e Israele. Temono che il pubblico diventi più consapevole dei fatti e della verità.
Inutile dire che se si sta dalla parte giusta della storia non ci si preoccupa del fatto che i giornalisti riportino fatti veri su eventi attuali, danneggiando così il sostegno pubblico ai propri programmi.
Ma questo non è il lato da cui gli Stati Uniti e Israele si sono sempre schierati, ed è per questo che l’impero statunitense sta attualmente imprigionando Julian Assange per aver fatto del buon giornalismo sui crimini di guerra degli Stati Uniti e perché Israele ha una storia decennale di minacce e attacchi ai giornalisti.
Durante la campagna di bombardamenti israeliana a Gaza nel 2021, l’IDF avrebbe preso di mira più di 20 istituzioni giornalistiche palestinesi nell’enclave, oltre alla torre che ospitava i media internazionali AP e Al Jazeera.
Durante l’attuale attacco Israele ha ucciso decine di giornalisti palestinesi, a volte bombardando attivamente le loro case dove vivono con le loro famiglie. La campagna dell’IDF per eliminare i giornalisti scomodi ha fatto sì che il Committee to Protect Journalists definisse questo conflitto il più letale mai registrato per i giornalisti, ovunque.
Sia gli Stati Uniti che Israele hanno attaccato la stampa in questo modo perché i loro governi sanno che chi controlla la narrazione controlla il mondo.
Hanno capito che il potere è controllare ciò che accade, ma il potere ultimo è controllare ciò che la gente pensa di ciò che accade. La coscienza umana è dominata dalle narrazioni mentali, quindi se si riesce a controllare le narrazioni dominanti della società, si può controllare l’uomo.
Questo è il motivo per cui i potenti sono stati in grado di rimanere al potere nella nostra civiltà: perché lo capiscono, mentre noi, il pubblico, generalmente non lo capiamo.
È per questo che ci bombardano con la propaganda dei mass media senza sosta, è per questo che lavorano per censurare Internet, è per questo che Assange langue in prigione, è per questo che Israele uccide abitualmente i giornalisti ed è per questo che la Casa Bianca ha paura di ciò che accadrà se i giornalisti di tutto il mondo riusciranno a portare le loro telecamere a Gaza.
(Traduzione de l’AntiDiplomatico)
“Io non esito a dire che il progetto di uno Stato ebraico in Palestina adottato dal Congresso sionista mondiale è criminogeno e genocidario dall’inizio. Questo progetto è andato avanti e siamo ormai arrivati all’ultima tappa che prevede l’annessione del residuale 17% della Palestina storica con l’espulsione del maggior numero possibile di palestinesi. Quelli che rimarranno saranno costretti all’apartheid.” Con queste parole, a l’AntiDiplomatico, la scrittrice Vera Pegna illustrava magistralmente quale sia l’obiettivo finale del regime di Tel Aviv e la vera ratio dietro la mattanza di Gaza.
Nel secondo giorno di tregua, che ha permesso il rilascio di decine di donne e bambini palestinesi (con i tg italiani che continuano a considerarli fantasmi così come quando venivano barbaramente incarcerati), Quds Network ha reso pubblici sui suoi canali social tre video che vogliamo riportare senza nessun commento ulteriore, ma semplicemente come le prove provate delle parole di Vera Pegna.
La banalità del male.
1. “Ahmad Manasrah è stato rapito 8 anni fa, quando aveva solo 13 anni. Questo video trapelato mostra un ufficiale israeliano che lo “interroga”. Questo è il modo in cui gli israeliani trattano i bambini palestinesi. Israele ha rapito oltre 880 bambini palestinesi solo nel 2023″
Ahmad Manasrah was kidnapped 8 years ago when he was only 13 years old.
This leaked video shows an Israeli officer “interrogating” him. This is how the Israelis treat Palestinian children.#Israel kidnapped over 880 Palestinian children in 2023 only. pic.twitter.com/DoG5L1DdcI
— Quds News Network (@QudsNen) November 24, 2023
2. “Noa guarda, il tuo ragazzo ti ha comprato una nuova collana fatta in Gaza.” Soldati israeliani si vantano di aver rubato nelle case che hanno bombardato e dove hanno effettuato la pulizia etnica dei loro legittimi proprietari. Questa collana apparteneva ad una ragazza palestinese, che aspettava la data del suo matrimonio, ma l’hanno uccisa.
“Noa look, Your boyfriend has bought you a new necklace made in #Gaza.”
Israelis brag about stealing from houses that they bombarded and ethnically cleansed their owners.
This necklace belonged to a Palestinian girl, who was waiting for her wedding but the Israelis killed her. pic.twitter.com/QqKrG7aocH
— Quds News Network (@QudsNen) November 25, 2023
3. “Dedico questa esplosione a mia figlia Ella per il suo compleanno” Un maggiore israeliano ha dedicato l’esplosione di un intero edificio ieri a Gaza, poco prima della pausa, al compleanno di due anni di sua figlia Ella.
“Dedicating this explosion to my daughter Ella for her birthday”
An Israeli Major dedicated the exploding of an entire building in #Gaza yesterday, shortly before the pause, to his daughter Ella’s 2-year birthday. pic.twitter.com/ttFTxF03bc
— Quds News Network (@QudsNen) November 25, 2023
La banalità del male.
di Michele Blanco*
La politica italiana riflette i vizi culturali del nostro paese, ma oggi siamo passati direttamente da parentopoli a parentocrazia. Infatti in tutto il sistema politico italiano vige una legge ferrea: Come far eleggere parenti, mariti e mogli… nel sistema elettorale senza preferenze.
Johann Wolfgang Goethe, che nella seconda metà del XVIII secolo viaggiò per anni in Italia, amava la nostra nazione e gli italiani, malgrado questo scrisse: “L’Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade, ancora truffe al forestiero … c’è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina; ognuno pensa per sé, è vano, dell’altro diffida, e i capi dello stato, pure loro, pensano solo per sé”. Dopo secoli, purtroppo, vediamo che la situazione non è cambiata affatto. Secondo Peter Nichols, giornalista britannico che fu per trent’anni corrispondente del Times in Italia, la Famiglia è «il più celebre capolavoro della società italiana attraverso i secoli, il baluardo, l’unità naturale, il dispensatore di tutto ciò che lo stato nega, il gruppo semisacro, il vendicatore e il rimuneratore». Il Giornalista allude chiaramente alla compattezza dei rapporti famigliari, alla centralità che essi hanno, nel nostro paese, rispetto agli interessi generali della società civile e dello Stato.
Chi detiene il potere spesso immagina, nel nostro paese si è passati ai fatti, di poterlo esercitare anche a favore di parenti, congiunti, amici. E’ anche un modo per verificare sul campo quanto potere si ha e fino a dove lo si può esercitare. Se si riesce nell’operazione a favore di un parente, significa che il proprio potere non è sterile ma, esercitarlo, può determinare il soddisfacimento di qualche aspirazione in qualche caso perfino illegittima. Dunque nessuna novità ma semmai il perpetuarsi di comportamenti inaccettabili, spesso illegittimi, sempre insopportabili.
Oggi però verifichiamo un “salto di qualità” se così si può dire. Da parentopoli siamo passati direttamente alla parentocrazia. Anche in questo caso, non è che ci troviamo di fronte ad un fenomeno inedito; nei Paesi con una scarsa consuetudine democratica, non infrequentemente ai vertici degli Uffici, anche di quelli più importanti, ci imbattiamo in numerosi parenti dei potenti, tutti nei ruoli di comando. Ma da noi, in Italia, la parentocrazia, sia pur non sconosciuta, non rappresentava una consuetudine cosi radicata forse anche perché un pizzico di pudore, se non di attenzione, imponevano almeno una riflessione prima di farsi affiancare sul seggio parlamentare da un congiunto con una affinità parenterale più o meno vicina.
Oggi, con una legge elettorale scellerata, dove i candidati non vengono eletti ma scelti da una oligarchia di politici, gli argini si sono rotti e nei collegi, maggioritari o proporzionali che siano, ritroviamo mogli, figli, nipoti, fidanzate, amanti. La tentazione di far eleggere la moglie, la fidanzata, un congiunto diretto è diffusa tra tutti i partiti. Serve a far definitivamente non solo quadrare il bilancio familiare ma ad elevare il reddito in modo considerevole, a circondarsi di persone di assoluta fiducia e consonanza politica anche se, non infrequentemente, anzi spessissimo, ne risente la qualità della proposta politica. Dall’altro lato è da considerare che una legge elettorale cosi fatta male rende completamente ininfluente la volontà di riconoscere capacità ed intelligenze.
Queste doti ci saranno nei tanti congiunti candidati e poi quasi sicuramente eletti ma è indiscutibile anche che il loro destino viene scelto dal parente potente, oligarca e non certo favorito dalle loro capacità. In definitiva abbiamo, per questi comportamenti, un parlamento non di eletti ma di scelti, composto da parenti e conoscenti, fedeli, amici, parentocratico e con una percentuale bassissima di meritevoli e capaci. Non è certo un buon viatico per un parlamento che deve fare scelte importanti e perfino epocali in un tempo fatto di guerre armate e commerciali, razziali ed economiche che avrebbe voluto che fossero richiamati al servizio politico della nazione persone capaci e scelte democraticamente dai cittadini, invece di mogli, amiche, amanti, fratelli, cugini e “nani e ballerine”.
Nel contesto del nostro paese l’ascensore sociale, cioè la possibilità reale di realizzarsi attraverso lavoro e sacrifici, funziona solo, oltre che per i parenti dei politici, per chi si trova nelle fasce alte della popolazione e ha buone conoscenze personali e famigliari. Sono meno del 30 per cento le persone che si riconoscono appartenenti alle classi medie. Le classi medie, in una società capitalista, da sempre hanno rappresentato il nucleo fondante e stabilizzatore della società stessa. Nella definizione di ceto medio vale sempre la perfetta definizione del sociologo Arnaldo Bagnasco, secondo la quale ne faceva parte: “chi ritiene di aver trovato un posto per lui accettabile e riconosciuto nella società in cui vive senza seri problemi per un soddisfacente tenore di vita e di sicurezza per il futuro”.
L’Italia è un Paese che si percepisce spaccato in due, con il 51 per cento degli italiani che si sente incluso e il 46 per cento che si percepisce escluso. Il dato si polarizza nelle classi sociali: gli inclusi salgono al 65 per cento nel restante ceto medio, mentre gli esclusi volano al 66 per cento nei ceti popolari. La maggioranza degli italiani (56 per cento) sostiene che la propria rete sociale e amicale è in contrazione (al 65 per cento tra i ceti popolari), mentre la quota che avverte la rete in crescita si ferma al 38 per cento (44 nel ceto medio). Il 37 per cento degli italiani non è in grado di fare fronte a una spesa imprevista (una quota che nei ceti popolari sale al 63 per cento); il 16 per cento ha difficoltà a pagare le bollette (40 per cento nei ceti popolari). Ma dopo gli ultimi accadimenti, in particolare la guerra in Ucraina, che ha portato l’aumento dell’inflazione come conseguenza dell’aumento dei prezzi dei carburanti e del gas.
Un fenomeno significativo come la diminuzione delle vendite di generi alimentari, non avveniva da decenni, una tendenza che segnala la difficoltà anche del ceto medio-basso a mantenere il proprio tenore di vita, per effetto dell’aumento delle voci del suo paniere-base di spesa (energia e cibo). Il risultato economico è stato quello di accentuare anche all’interno degli intermedi una polarizzazione alto-basso.
Si nota che la maggior parte delle nuove proposte di investimento (alberghi e immobiliare, soprattutto) sembra indirizzata a privilegiare il mercato di alta gamma che non si è ridotto di consistenza e si è dimostrato non risentire rispetto all’aumento dell’inflazione. In questo contesto nessuno si accorge che ci sono larghi strati della popolazione che vivono una sofferenza economica, ma anche civile e democratica. Di certo non basta andare incontro a questi “sventurati” con un atteggiamento caritatevole: serve un’analisi critica dei meccanismi che generano l’ingiustizia sociale, come fanno alcuni politici che si dicono di sinistra.
Bisogna riflettere sul paradigma economico dominante, seppur in crisi, del neoliberismo. Se non si riporta la politica in una condizione di superiorità rispetto all’economia, è impossibile pensare di fermare la crescita delle diseguaglianze. Ma oggi la qualità della vita e i legami sociali sono andati in crisi. E in una situazione come quella attuale non si può tollerare che i lavoratori siano sempre più sfruttati, precari e senza certezze ed è giusto mettere in cima all’agenda politica la lotta alle diseguaglianze. Però gli slogan non bastano più, se si punta a costruire un discorso serio, servono proposte di modifica delle strutture della società, dalla sanità alla scuola, al ruolo dello stato in economia. Proposte radicali e al tempo stesso concrete, e, soprattutto, facilmente comprensibili. L’insicurezza esistenziale di milioni di persone va contrastata con provvedimenti reali e concreti. Servirebbe un grande e serio partito di sinistra con un’immagine completamente nuova. I partiti “di sinistra” attuali sono pro-establishment e senza forza critica verso il sistema dominante.
Serve una chiara sconfessione delle scelte passate: un passaggio indispensabile per rivolgersi a chi subisce ingiustizie. Inoltre si avverte la necessità di un vero sindacato che abbia maggiori capacità di mettersi in sintonia con una larga fetta del mondo del lavoro, quella dei non garantiti. L’esempio del salario minimo è chiaro: bisogna essere consapevoli che la contrattazione nazionale da sola non basta a garantire salari dignitosi.
Una nuova sinistra, che vorrei, partecipativa e sociale per acquistare credibilità verso i settori della società più in sofferenza deve fare e portare avanti, concretamente, proposte serie che vadano a dare dignità, stabilità e garanzie economiche ai lavoratori. Perché è dimostrato che un pezzo del popolo, nelle periferie delle grandi città soprattutto, ha scelto la destra perché non sapeva più a che santo votarsi. Sulle macerie del neoliberismo la destra ha prosperato. E quindi non basta certo solo evocare, con vuote parole, il soccorso verso i poveri per invertire questa tendenza. Bisogna fare delle vere riforme, perché il termine «riformista» nasce per indicare chi voleva superare il capitalismo con metodi non violenti, in contrapposizione, di metodo ma non di finalità, ai rivoluzionari. Non come negli ultimi 45 anni che il termine “riforma” è stato utilizzato per indicare chi vuole smantellare lo stato sociale per lasciare campo libero al mercato, alle privatizzazioni, alla sanità privata. Ma all’orizzonte non si vede, con certezza, ancora nulla che vada in questa direzione.
*Questo articolo è stato pubblicato su https://www.eguaglianza.it/
Negli ultimi tre decenni, l’1% della popolazione più ricca nel mondo ha accumulato il doppio delle
ricchezze del restante 99% del resto degli abitanti del nostro pianeta. Per capire come, facciamo un
semplice esempio: Elon Musk [1] ha pagato per anni una aliquota fiscale [2] effettiva del 3% circa,
mentre una piccola commerciante di riso in Uganda
pagava il 40%. Lei vive con 80 dollari al mese e Musk con 180 miliardi in dollari statunitensi di patrimonio stimato. Una possibile soluzione chiara per sanare questa disuguaglianza: dobbiamo tassare i ricchi. Persino il presidente degli Stati Uniti Biden ha da pochi mesi proposto una tassa per i miliardari del suo Paese. Un’adeguata pressione dell’opinione pubblica mondiale potrebbe spingerlo a promuovere l’idea anche agli altri leader mondiali.
Con un’imposta al massimo fino al 5% sul patrimonio degli ultra-ricchi si potrebbe riscuotere abbastanza denaro per far uscire dalla povertà 2 miliardi di persone. Dal 2021 abbiamo assistito ad una profonda conversione persino del Fondo Monetario Internazione [3], che era impensabile solo alcuni mesi prima, infatti Gita Gopinath, capo economista e direttore del dipartimento di ricerca del FMI, parla di una ripresa che sia ecosostenibile e capace di «arrestare la crescente disuguaglianza». E, mentre indica come prioritari gli «investimenti in infrastrutture digitali per aumentare la capacità produttiva e rafforzare l’assistenza sociale», sottolinea che risulterà «essenziale» migliorare la capacità e progressività fiscale. Cioè serviranno maggiori prelievi fiscali, ma meglio distribuiti tra i cittadini, facendo pagare effettivamente le
tasse soprattutto a chi è veramente ricco.
Un messaggio chiaro, ribadito dal direttore generale dell’FMI, Kristalina Georgieva: «Una tassazione progressiva è un elemento chiave di una politica fiscale efficace». Ma è soprattutto Vitor Gaspar, ex ministro delle finanze portoghese, ad aver parlato più chiaro e più forte. Al Financial Times ha, infatti, dichiarato che «i lavoratori ad alto reddito e le aziende che hanno prosperato nella crisi del coronavirus dovrebbero pagare tasse aggiuntive per mostrare solidarietà a coloro che sono stati colpiti più duramente dalla pandemia. Una tassa temporanea aiuterebbe a ridurre le disuguaglianze sociali che sono state
esacerbate dalla crisi economica e sanitaria».
Basti pensare che la Wealth Tax Commission britannica ha valutato lo scorso anno che una tassa patrimoniale una tantum dell’1% solo sui patrimoni sopra il milione di sterline frutterebbe 260 miliardi di sterline (oltre 300 miliardi di euro) in 5 anni. E una misura similare, o comunque ispirata al principio solidaristico che chi più ha più deve contribuire, nel contesto attuale, sarebbe utile su più fronti. Poiché, oltre che offrire risorse alle casse pubbliche in crisi, rassicurerebbe sul fatto che la lotta contro il Covid-19 e le grandi disuguaglianze sarebbe uno sforzo collettivo solidaristico dell’intera società mondiale, in collaborazione con le comunità locali.
Il grande valore simbolico e finanziario di una simile tassa di scopo favorirebbe così una coesione sociale oggi quanto mai fondamentale, a prescindere da tutto. In gran parte delle economie più sviluppate del mondo la disuguaglianza di reddito è, come sappiamo, aumentata sensibilmente a partire dalla fine dagli anni settanta. Malgrado questo nella seconda metà del ventesimo secolo la crescita economica è stata costante ed è ripartita con slancio dopo la crisi finanziaria del 2008-2009
Eppure la grande ricchezza generata non è, evidentemente, arrivata a tutti. Ci sono stati grandi vincitori, un piccolo numero di persone, ma anche grandi sconfitti, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale.
Secondo Angus Deaton, premio Nobel per l’economia e tra gli autori di uno studio quinquennale sulla disuguaglianza nel Regno Unito per conto dell’Institute for fiscal studies (Ifs), «la sensazione che il capitalismo contemporaneo non porti benefici a tutti è molto diffusa». Le cause sono tante e riguardano principalmente le politiche fiscali, la tecnologia, la globalizzazione, la deregolamentazione, l’istruzione, il forte indebolimento dei sindacati e le assurde politiche di austerità. Certo in un sistema basato sull’economia di mercato è inevitabile un certo grado di disuguaglianza, ma le differenze estreme possono avere conseguenze gravi e certamente, inutili e ingiustificate. Tra le più visibili degli ultimi anni c’è la polarizzazione della politica e la forte ascesa del populismo, in molti paesi democratici nel mondo.
Nel Regno Unito, in molti hanno attribuito all’aumento della disuguaglianza la Brexit e negli Stati Uniti d’America l’elezione di Donald Trump, così come l’affermazione di nuovi movimenti politici, non propriamente democratici, in Europa. Ted Howard, cofondatore dell’istituto di ricerca Democrazia collaborativa, ritiene che solo tre individui, Bill Gates, Jeff Bezos e Warren Buffett, posseggano una quantità di ricchezza superiore ai 160 milioni di statunitensi più poveri. Howard ritiene che «Il problema non è legato solo alla giustizia economica, ma anche alla democrazia. È possibile mantenere una cultura e
uno stato democratici quando la distribuzione della ricchezza non è affatto democratica? Si tratta di una minaccia molto seria».
Oltre alle divisioni politiche, l’aumento della disuguaglianza può produrre anche risultati economici negativi. Gli economisti di destra sostengono che la redistribuzione del reddito sia controproducente, ma il Fondo monetario internazionale sottolinea in modo inconfutabile che le divisioni sociali possono destabilizzare la crescita e creare le condizioni per un improvviso rallentamento. Un’economia rischia di soffocare se milioni di persone non possono contribuirvi. Dobbiamo provare ad invertire la tendenza sappiamo che l’uguaglianza completa potrebbe essere un obiettivo irraggiungibile, e inoltre alcuni economisti pensano che una società del tutto equa potrebbe essere perfino indesiderabile perché cancellerebbe ogni diversità e dinamismo. Ma dobbiamo chiederci: la disuguaglianza ha superato i limiti tollerabili? Come possiamo invertire la tendenza? Come possiamo evitare i fenomeni più estremi? Il ragionamento che ha prevalso negli ultimi quarant’anni è che la crescita economica rappresenta l’antidoto più efficace contro la disuguaglianza. Se la torta è più grande, tutti avranno una fetta più grande.
A tal proposito il politico laburista Peter Mandelson è citato spesso per una frase pronunciata negli anni novanta, quando ha dichiarato di «non essere contrario all’idea che alcune persone diventino scandalosamente ricche, purché paghino le tasse». La scelta del metodo per ridurre la disuguaglianza dipende molto dall’opinione che si ha del lavoro e del suo valore. Il lavoro duro merita un guadagno maggiore? I banchieri e gli imprenditori sono più importanti degli infermieri e dei medici? Gli incentivi finanziari sono lo strumento migliore per massimizzare il potenziale delle persone? Finora le armi
principali nella lotta alla disuguaglianza sono state le tasse e la spesa pubblica.
La tassazione progressiva e i trasferimenti di ricchezza sono importanti, ma non sono l’unico modo per combattere le diversità di reddito e di ricchezza. Ma alcuni dati sembrano dimostrare l’efficacia della politica fiscale. Nel Regno Unito, senza tenere conto della redistribuzione attraverso le tasse e i servizi, il 20 per cento più ricco guadagna dodici volte di più rispetto al 20 per cento più povero. Una volta inseriti nell’equazione i trasferimenti di ricchezza e la pressione fiscale, però, il divario risulta più che dimezzato.
Alcuni economisti e politici hanno sposato la causa del reddito di base per garantire una rete di sicurezza e scongiurare la povertà, mentre altri ritengono preferibile una spesa mirata in favore dei più bisognosi. C’è anche chi vorrebbe concentrarsi su un aumento della spesa per l’istruzione e i servizi. L’economista francese Thomas Piketty [4], esperto mondiale nel campo della disuguaglianza, ha proposto una tassa globale sulla ricchezza, applicata a livello mondiale con la supervisione di organismi internazionali.
Mentre l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha proposto di aumentare le tasse di successione per evitare l’estrema concentrazione della ricchezza. Ma questi tagli delle tasse sono temi politici molto delicati e spesso non si riescono ad applicare a causa di stratagemmi complessi che sfruttano un mondo sempre più globalizzato, dove il capitale può superare i confini statali eludere il pagamento delle tasse e raggiungere i paradisi fiscali. Il solo parlare di tassa sulla ricchezza, tra l’altro, fa scattare i consueti allarmi sulla possibilità che un’economia possa perdere gli investimenti dei ricchi
spingendoli a lasciare il paese.
Un’alternativa, sostenuta anche da Ed Miliband [5], è l’idea della “predistribuzione”, secondo cui un aumento della spesa per la sanità e l’istruzione certamente può ridurre il persistere della disuguaglianza di reddito tra una generazione e l’altra, oltre ad alimentare a lungo termine i tassi di produttività, occupazione, distribuzione equa della ricchezza e reddito. Alcuni economisti hanno suggerito che dare più potere democratico alle persone potrebbe scongiurare un aumento della disuguaglianza. Ma come sembra dalle reali esperienze Scandinave [6] è proprio tassando maggiormente le grandi aziende multinazionali e i super-ricchi che i governi vedrebbero realmente aumentare le loro risorse. Infatti, se le multinazionali dell’energia hanno registrato nel periodo 2022-2023, profitti record, la Shell ha registrato più di 20 miliardi di dollari in un semestre, Total 29 miliardi, BP 16 miliardi, cifre mai viste prima, lo devono solo alla situazione politica, e in particolare alla guerra in Ucraina, e non a un aumento della loro produttività o dei loro investimenti.
Le tasse sui super-profitti devono essere introdotte ovunque nel mondo, come raccomandato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres, e molti Paesi, soprattutto in Europa, hanno già iniziato a farlo.
Anche le aziende farmaceutiche hanno visto i loro profitti aumentare a dismisura grazie alla pandemia, anche se i vaccini sono stati sviluppati soprattutto grazie a sussidi pubblici. Anche il settore alimentare, dove gli oligopoli sono molto diffusi, ha tratto grandi vantaggi dalla situazione. È proprio speculando sui mercati di prodotti alimentari di base come il grano che un altro settore, quello finanziario, sta realizzando profitti senza precedenti. E non parliamo delle aziende digitali, grandi vincitrici della pandemia e campioni di strategie di elusione fiscale. Le multinazionali non sono entità fantasma. Quando i loro profitti aumentano, sono i loro principali azionisti a beneficiarne, anche se in modo discreto.
Prendiamo
l’esempio di Cargill che, insieme ad altre tre aziende, controlla il 70% del mercato alimentare globale: l’azienda ha realizzato più di cinque miliardi di dollari di profitti lo scorso anno, il più alto nei suoi 156 anni di storia e si prevede che quest’anno i profitti saranno ancora ancora maggiori. Nei primi due anni della pandemia sono emersi 573 nuovi miliardari, ovvero uno ogni 30 ore, secondo i calcoli di Oxfam. La ricchezza totale dei miliardari equivale oggi al 13,9% del Prodotto interno lordo globale, tre volte di più rispetto al 2000, e i 10 uomini più ricchi del mondo possiedono più ricchezza del 40% più povero
dell’umanità, ovvero 3,1 miliardi di persone.
In Italia la situazione è veramente grave e preoccupante. Infatti il sistema fiscale italiano, da moltissimi anni, versa in una crisi gravissima che ne mina il corretto funzionamento infatti non risponde più ad una tassazione progressiva, come previsto dal dettato Costituzionale, tanto da mettere in discussione e la stessa legittimazione democratica. L’argomento tasse è particolarmente grave dato che in Italia, come negli altri Paesi dell’Europa, una elevata pressione fiscale è necessaria al finanziamento dei sistemi di welfare moderni democratici e inclusivi. Una giusta e corretta distribuzione del carico fiscale è quindi un elemento fondamentale del contratto sociale e della convivenza civile in cui i cittadini dovrebbero
riconoscersi.
La massiccia e ingiustificata evasione ed elusione fiscale di intere categorie di contribuenti che nascondono al fisco parte importante della loro base imponibile proveniente maggiormente da redditi di lavoro autonomo e da impresa individuale. Ancor di più le rendite finanziare sono molto avvantaggiate. Agli stessi contribuenti è poi riservata una imposta sostitutiva, con determinazione forfettaria dell’imponibile e aliquota piatta, molto favorevole cui si è aggiunta, per chi non aderisce al regime forfettario, l’aliquota piatta sugli incrementi di reddito. Il trattamento agevolato per lavoratori autonomi e
professionisti si traduce in una serie di distorsioni che aggravano la scarsa produttività del settore dei servizi, questo si sta rivelando come uno dei limiti principali dell’economia italiana.
La frammentazione del sistema di imposizione per cui non solo le diverse tipologie di reddito sono trattate con ingiustificata differenza, ma esistono differenziazioni anche all’interno di tali categorie, con la grave conseguenza che, pure a parità di reddito, i contribuenti subiscono prelievi molto diversi. I regimi cedolari e sostitutivi, molto diffusi, sottraggono una parte rilevante dei redditi alle addizionali comunali e regionali all’Irpef, e quindi al dovere di contribuire al finanziamento dei servizi pubblici locali. Il trattamento difforme dei diversi redditi di capitale, il cui onere varia da 0 al 26%, influisce negativamente su una corretta allocazione del risparmio, e quindi sugli investimenti.
La struttura delle aliquote effettive dell’Irpef, caratterizzata dall’esistenza di aliquote implicite molto elevate, con effetti negativi sulla trasparenza delle imposte, che, a causa del sistematico svuotamento della sua base imponibile, riserva sempre più la progressività del prelievo ai soli, sempre più tassati, redditi di lavoro dipendente e pensione.
La pianificazione fiscale aggressiva dei gruppi multinazionali, che sostanzialmente eludono ed in maggior parte evadono le tasse. Il meccanismo di pagamento concentrato su due versamenti, a saldo e in acconto, che crea seri e inutili problemi di liquidità a molti contribuenti. L’arretratezza del catasto che penalizza fortemente i proprietari di immobili di minor pregio rispetto a quelli di maggior valore. L’eccessivo peso del prelievo fiscale e contributivo sul lavoro dipendente rispetto agli altri redditi e agli altri fattori di produzione. Il sistema di riscossione totalmente inefficiente che determina la concessione di costanti e periodiche cancellazioni di ruoli, di cui molti sarebbero perfettamente esigibili. Il ricorso continuo a
misure di definizione agevolata dei carichi tributari che coltiva la convinzione, o quasi certezza, dell’impunità per l’infedeltà fiscale. La mancanza di volontà politica per trovare le soluzioni legislative e amministrative necessarie a consentire il pieno utilizzo di tutte le banche dati sia per il contrasto preventivo dell’evasione sia per l’ efficientamento dell’attività di riscossione.
Diventa chiaro che tutti i principi fondamentali di un buon sistema fiscale sono in Italia inapplicati, con gravi conseguenze non solo di disparità di trattamento, ma anche di distorsioni economiche che determinano, inesorabilmente, una riduzione della crescita. Sono ormai numerosi gli studi che dimostrano come una significativa riduzione dell’evasione fiscale, conseguita a parità di pressione fiscale complessiva, determinerebbe un significativo aumento del Pil italiano, oltre che, in prospettiva, alla diminuzione del carico fiscale per tutti i cittadini. Non è possibile continuare ad ignorare questa ed altre analoghe carenze, per altro molto evidenti. Ma purtroppo la delega fiscale recentemente approvata dal Governo [7] non affronta, anzi trascura ed ostacola la necessità di rendere il fisco la casa di tutti e non più un sistema di abusi, privilegi, ingiustizie e iniquità.
Il sistema di welfare, deve essere esteso in tutte le sue componenti anche ai lavoratori indipendenti, per motivi di equità e per evitare che le gravi lacune esistenti possano diventare un alibi per l’infedeltà fiscale. Figuriamoci se possiamo essere pronti a far pagare effettivamente le tasse ai super-ricchi.
1 Elon Reeve Musk, (Pretoria, 28 giugno 1971) multimilardario è un imprenditore sudafricano con cittadinanza canadese
naturalizzato statunitense. Ricopre i ruoli di fondatore, amministratore delegato e direttore tecnico della compagnia
aerospaziale SpaceX, fondatore di The Boring Company, cofondatore di Neuralink e OpenAI, amministratore delegato e
product architect della multinazionale automobilistica Tesla, proprietario e presidente di Twitter. Ha inoltre proposto un sistema
di trasporto superveloce conosciuto come Hyperloop, tuttora in fase di sviluppo.
2 Utiliziamo il termine “aliquota fiscale effettiva” riferendoci al termine coniato e ai calcoli effettuati da ProPublica (2021), e
indichiamo quanto viene pagato annualmente in tasse rispetto alla crescita della ricchezza stimata durante quell’anno.
L’aliquota fiscale effettiva di Elon Musk, basata sui dati trapelati dall’agenzia delle entrate statunitense, è stata in media del
3,27% tra il 2014 e il 2018.
3 A questo proposito: «Ci è voluto troppo tempo, ma sembra che il Fondo monetario internazionale (Fmi) abbia finalmente
capito alcune dure verità. La principale è che le economie in crescita riescono a ripagare più facilmente il debito pubblico. Il
consolidamento fiscale (cioè la riduzione del deficit, soprattutto attraverso il taglio della spesa), la strategia preferita dall’Fmi,
ostacola quindi gli sforzi per ridurre il rapporto tra debito e pil, perché frena la crescita economica. Non è certo una scoperta.
L’economista John Maynard Keynes l’aveva sottolineato quasi un secolo fa e da allora molti l’hanno ribadito. Di certo lo
sapevano i negoziatori dell’accordo di Londra del 1953, che ridusse il peso del debito della Germania Ovest e creò le
condizioni per il boom economico del dopoguerra … Per decenni il Fondo ha dato per scontato che tagliare la spesa pubblica
fosse l’unico modo per affrontare i problemi legati al debito. Oggi sembra riconoscere gli errori del passato», in J. Ghosh, Il
Fondo monetario fa i conti con la realtà, In “Internazionale”, n. 1509, del 28 aprile 2023, p. 38.
4 Si vedano in particolare T. Piketty, Capitale e ideologia, Milano, La nave di Teseo, 2020; Id., Una breve storia
dell’uguaglianza, , Milano, La nave di Teseo, 2021, dove Piketty «propone una storia comparativa delle disuguaglianze tra
classi sociali nelle società umane. O meglio una storia dell’uguaglianza, perché nel corso della storia si verifica un processo di
lungo termine finalizzato a una maggiore uguaglianza sociale, economica e politica. Non si tratta certo di una storia pacifica, e
ancor meno lineare. Le rivolte e le rivoluzioni, le lotte sociali e le crisi di qualsiasi natura svolgono un ruolo decisivo nella
storia dell’uguaglianza, che è anche scandita da fasi involutive e da derive identitarie. Resta il fatto che esiste, almeno dalla
fine del XVIII secolo, un processo storico orientato verso l’uguaglianza. Il mondo dei primi anni del XXI secolo, per quanto
ingiusto possa sembrare, è più egualitario di quello del 1950 o di quello del 1900, i quali, di per sé, erano già per molti aspetti
più egualitari di quelli del 1850 o del 1780. Affermare l’esistenza di una propensione verso l’uguaglianza non costituisce
affatto un motivo di soddisfazione. Si tratta, al contrario, di un invito a continuare la lotta su un fondamento storico solido.
Riflettendo sul modo in cui il processo verso l’uguaglianza si è effettivamente prodotto, è possibile trarre lezioni preziose per il
futuro, comprendere meglio sia le lotte e le mobilitazioni che lo hanno reso possibile, sia i dispositivi istituzionali e i sistemi
giuridici, sociali, fiscali, scolastici, elettorali che hanno consentito all’uguaglianza di diventare una realtà duratura. Purtroppo,
però, il processo di apprendimento collettivo delle istituzioni giuste perde la sua forza, spesso a causa dell’amnesia storica, del
nazionalismo intellettuale e dell’impermeabilità dei saperi. Per proseguire la marcia verso l’uguaglianza è dunque urgente
tornare a studiare la storia e oltrepassare i confini nazionali e disciplinari. Questo libro ottimista e di mobilitazione collettiva
tenta di procedere in tale direzione», p. IV di copertina.
5 Edward Samuel Miliband (Londra, 24 dicembre 1969) è un politico britannico, leader del Partito Laburista e dell’opposizione
di governo dal 2010 al 2015, nonché membro del Parlamento britannico.
6 In tutte le statistiche sulla distribuzione dei redditi i paesi Scandinavi registrano la minore disuguaglianza al mondo, e questo
con alte e progressive tassazioni sui redditi più alti. Sul tema si veda: C. Trigilia, La sifda delle disuguaglianze. Contro il
declino della sinistra, Bologna, Il Mulino, 2022.
7 «L’impostazione della riforma fiscale del Governo Meloni si allontana decisamente dal dettato costituzionale e pesa
maggiormente sulle fasce più deboli. Ricordiamo ai lettori il dettato dell’art. 53 della Costituzione della Repubblica Italiana
che recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è
informato a criteri di progressività”. Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha fatto già sapere che intende modificare la
Costituzione nata dalla Resistenza. Anche la riforma fiscale si inserisce in un pericoloso disegno di restaurazione
antidemocratico. Ma la Sinistra ed il Partito Democratico, usciti sconfitti dall’assenteismo al voto, sono impegnati nelle beghe
interne di potere, si preoccupano delle pagliuzze e non vedono le travi che stanno crollando», in
https://www.avantionline.it/dal-governo-meloni-una-riforma-di-ingiustizia-fiscale/, visitato il 12 maggio 2023.
*Questo articolo è stato pubblicato su https://www.eguaglianza.it/
Il Reddito di cittadinanza, che è presente in tutte le nazioni europee con importi spesso più importanti di quelli che erano finora previsti nel nostro paese, viene introdotto per la prima volta in Italia nel 2019 esso ha spostato, come mai prima, nella storia della nostra nazione, 8 miliardi di euro l’anno dalla fiscalità generale ai due decimi più poveri della distribuzione del reddito, riuscendo, come non avveniva dagli anni 90 del secolo scorso, ad ottenere una riduzione della disuguaglianza tra il 20% della popolazione più ricca e il 20% dei più poveri nel Paese.
In Germania, uno dei primi paesi a introdurre una forma di tutela per chi fosse senza lavoro, questo strumento, il Bürgergeld, dopo l’ok del Senato federale tedesco, sarà, a partire dal prossimo anno, addirittura potenziato. Quindi in Germania la misura vede un allargamento della platea che si avvicinerà quasi ai 5 milioni di persone.
In alcuni stati come Svezia, Slovacchia e, recentemente, Spagna, il sistema è centralizzato a livello nazionale, mentre in altri tra cui Austria e Paesi Bassi è gestito localmente. In Spagna il governo socialista di Pedro Sánchez ha introdotto nel 2020 l’Ingreso Minimo Vital (IMF), una misura di welfare per garantire a disoccupati e famiglie in difficoltà un assegno che va da un minimo di 462 a un massimo di 1.015 euro al mese. L’importo dell’IMV varia a seconda della dimensione del nucleo familiare, viene erogato in 12 mensilità ed è cumulabile con altri tipi di prestazioni sociali.
Il fine ultimo della misura è soprattutto il contrasto alla povertà. E, proprio per questo, la misura prevede requisiti meno stringenti rispetto ad altri Paesi e può essere richiesto anche dagli stranieri che si trovano da almeno un anno in Spagna. In Francia, chi ha più di 25 anni ed è disoccupato può richiedere il Revenu de solidarité. Il sussidio è stato introdotto nel 2008e prevede un supporto economico che va da circa 500 euro – in caso di mono nucleo familiare – a circa 1.000 euro per le coppie con figli. La misura non ha nessun limite temporale.
La misura può essere richiesta anche per integrare i redditi dei lavoratori sotto la soglia fissata annualmente per raggiungere il reddito minimo. Per incentivare chi beneficia del Rsaa rientrare nel mercato del lavoro, il governo francese ha varato anche il Prime activité, una sorta di integrazione dello stipendio che può essere richiesta da chiunque guadagni meno di 1.800 euro (una volta e mezzo il salario minimo legale).
La soppressione del Reddito di Cittadinanza sostituito con l’Assegno all’Inclusione, una misura categoriale rivolta esclusivamente alle famiglie con minori, anziani o disabili, costituisce una profonda e preoccupante novità rispetto al criterio di universalità selettiva che aveva caratterizzato le due precedenti misure nazionali di contrasto alla povertà, prima il Rei e poi il Rdc. Viene infatti abbandonato il principio del reddito minimo (oggi, come visto, vigente nella maggior parte dei paesi europei), il quale prevede che qualsiasi nucleo familiare che si trovi in condizione di povertà debba ricevere un sostegno minimo al reddito. La conseguente riduzione della platea degli aventi diritto è infatti rilevante.
Ma persino la revisione peggiorativa fatta del governo Meloni, che non riconosce circa 600 mila nuclei famigliari dal Rdc (non entreranno nel nuovo programma a causa dei criteri rigidi di accesso), lascia comunque una spesa di circa 5 miliardi per circa 700 mila nuclei che prenderanno l’assegno di inclusione, e rappresenta una risorsa inimmaginabile per tutti i governi italiani, fino al 2018, che al massimo avevano destinato 1,5 miliardi alla lotta alla povertà. Bisogna riconoscere e ricordare che il decreto Dignità nel 2018, dopo anni di flessibilità selvaggia e sfruttatrice dei precari e poveri, ha aggredito, per la prima volta, la flessibilità del lavoro che diventa solo precarietà, ponendo delle causali come giustificazione per l’utilizzo del lavoro temporaneo, al fine di eliminare gli enormi abusi, che si erano avuti, e limitare la precarietà di reddito e la condizione di profonda instabilità dei lavoratori.
Questo provvedimento che ancora nel 2023 riesce a dare ancora buoni frutti, restringendo lo spazio per il lavoro a tempo determinato almeno fino a maggio 2023. Dopo abbiamo la revisione, anche questa molto peggiorativa, del governo Meloni, effettuata col cosiddetto decreto 1° maggio, che non abolisce definitivamente il dl Dignità, ma affida alle parti (aziende e lavoratori) la facoltà di derogare alle causali.
Sappiamo benissimo che effetti peggiorativi per i lavoratori si avranno da questo tipo di deroga. In effetti il governo si lava le mani delle responsabilità della precarietà e, non tenendo conto del dato di fatto inconfutabile che il lavoratore è sempre l’anello debole nel rapporto di lavoro, lo abbandona inesorabilmente a se stesso, alla mercé del datore di lavoro. Infatti avremo il dato certo che nel prossimo futuro il lavoro temporaneo aumenterà ulteriormente, lasciando milioni di lavoratori senza nessuna tutela.
Sul salario minimo, provvedimento presente in tutte le legislazioni europee, ad esempio in Germania è fissato a 12 Euro l’ora. In Italia, secondo i dati Inps, i lavoratori con bassi salari (meno di 1.000 euro mese) sono il 29% e oltre 4 milioni guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora.
I settori in cui si concentrano i bassi salari sono i servizi, la ristorazione il turismo, il commercio, la logistica, i trasporti, i servizi alla persona, le pulizie, la vigilanza, l’agricoltura.
La contrattazione collettiva non riesce, soprattutto in questi settori, ad alzare i salari: sono i settori più frammentati dell’economia, dove esiste molta contrattazione pirata, con lavoratori meno sindacalizzati e rapporti di lavoro caratterizzati da temporaneità e altissimo turn over. Anche per questo è necessario, e nemmeno sufficiente, un salario minimo legale, che sicuramente non sarebbe di intralcio alla buona contrattazione in migliori settori dell’economia, e non potrebbe abbassare sotto i 9 euro il salario orario. Ma eviterebbe il diffusissimo sfruttamento, altamente presente in Italia in tutti i settori con bassi salari. Ricordiamo, non lo si fa abbastanza mai, che il numero dei poveri assoluti è salito a 5,6 milioni di persone, abbiamo circa 3 milioni di lavoratori precari e in media ogni anno circa 4,2 milioni di rapporti di lavoro a termine, sia nel pubblico che nel privato.
Oggi nel nostro paese tasse e bassi salari comprimono la classe media tanto da renderla quasi indistinguibile dai lavoratori più poveri. L’inflazione negli ultimi due anni ha eroso circa il 15% del potere d’acquisto e le rinunce nei consumi sono cresciute.
La disoccupazione giovanile intorno al 25% è tra le più alte in Ue e i nostri giovani laureati con fatica trovano lavoro adeguato alla loro professionalità e sempre più spesso emigrano all’estero, dove tutti i giovani italiani sono apprezzati e riescono ad avere salari e stipendi che di solito sono il doppio di quelli che avrebbero in Italia, a parità di condizioni lavorative, con il riconoscimento della stabilità del rapporto di lavoro. Tutti gli studiosi riconoscono che abbiamo un’area del disagio economico di circa 12 milioni di persone, si tratta di disoccupati, persone povere inattive, precari, giovani insoddisfatti, lavoratori poveri, e parti importanti della classe media. Questa enorme area di disagio mette in evidenza che le disuguaglianze ci avvicinano pericolosamente verso un modello economico che inevitabilmente sarà caratterizzato da bassi consumi e bassi salari, con crescita economica ridotta.
Tutti gli economisti sono concordi che un modello che vuole fare competizione solo sul costo del lavoro, rendendo bassi i salari, piuttosto che sull’innovazione, con meno industria e più servizi a basso contenuto tecnologico, e sfruttamento del lavoro, non porta alla crescita economica e ad un futuro florido per la stragrande parte della popolazione.
Bisogna tenere conto anche che la trasmissione intergenerazionale della povertà è più intensa che nella maggior parte dell’Ue: quasi un terzo degli adulti tra 25 e 49 anni a rischio povertà inesorabilmente proviene da famiglie povere. Evidenza che stronca l’assurda “narrazione della meritocrazia”, del disagio economico come colpa delle persone, ma chiaramente deriva da motivi “ereditari” chi è povero, proviene da una famiglia povera, rimane povero.
Quindi il modello italiano attuale è, senza ombra di dubbio, un modello che si addice più a un’economia povera di un paese sottosviluppato che a una nazione che sia economicamente fiorente, con opportunità di realizzarsi per i giovani e tutti i cittadini, non solo per una piccola minoranza di super ricchi. Stiglitz, il professore della Columbia University, premio Nobel per l’Economia sostiene che “le diseguaglianze sono in crescita in tutto il mondo e i governi di destra devono sapere che tagliando le tasse ai più abbienti la povertà e le ingiustizie aumentano”.
Tanto aumentano le povertà e le ingiustizie che secondo Stiglitz: “La ricchezza nelle mani di pochi [comporta] una tragedia collettiva che minaccia la [stessa] democrazia”, in fondo bisogna sempre tenere presente che “Le diseguaglianze non sono inevitabili”, sono evitabilissime. Incomprensibile sembra il vero e proprio odio di classe espresso contro chi, povero senza volerlo essere, ha percepito il reddito di cittadinanza in Italia.
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Nel giorno del vertice Biden-Xi Jinping, il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador ha incontrato il suo omologo cinese, nel primo incontro ufficiale tra i presidenti, e in questa occasione i legami bilaterali sono stati elogiati.
López Obrador e Xi si trovano a San Francisco (California, USA), nell’ambito del vertice della Cooperazione economica Asia-Pacifico (APEC), che riunisce i leader di 21 nazioni.
“Ho visitato il Messico 10 anni fa e sono rimasto profondamente colpito dalla splendida e lunga storia, dalla cultura e dal popolo caloroso e ospitale del vostro Paese”, ha detto inizialmente Xi, secondo quanto riferito dall’ambasciatore cinese nel Paese latinoamericano, Zhang Run.
López Obrador tiene su primer encuentro oficial con Xi Jinping en San Francisco
El presidente mexicano se reúne con su homólogo chino previo a la cumbre del Foro de Cooperación Económica Asia-Pacífico (APEC). pic.twitter.com/T4CCTsxRku
— Sepa Más (@Sepa_mass) November 16, 2023
Il leader cinese ha elogiato López Obrador per i suoi “oltre cinque anni al potere, guidando il governo e il popolo messicano verso il progresso, l’innovazione e realizzando importanti risultati nel processo di sviluppo nazionale”.
“L’amicizia tra Cina e Messico ha attraversato alti e bassi e si è rafforzata nel tempo”, ha sottolineato Xi.
In questo senso, ha ribadito la volontà di “continuare la tradizionale amicizia di mezzo secolo” che entrambe le nazioni hanno e, allo stesso modo, “portare le relazioni a un nuovo livello”.
Da parte sua, López Obrador ha ribadito “l’impegno a continuare a mantenere buone relazioni a beneficio dei nostri popoli e delle nostre nazioni”.
Prima del dialogo bilaterale, la stampa locale ha chiesto a López Obrador quali argomenti avrebbe discusso nel suo incontro con Xi. “È un’agenda aperta”, ha risposto. Ha risposto affermativamente anche quando gli è stato chiesto se avrebbe invitato il suo omologo cinese a visitare il Messico nel prossimo futuro.
Relazioni e legami economici Cina-Messico
I legami Cina-Messico hanno registrato una crescita significativa nel corso degli anni, segnati dal rafforzamento della cooperazione economica tra queste due nazioni emergenti. Poiché entrambi i paesi mirano alla diversificazione economica e all’influenza globale, le loro relazioni bilaterali sono state approfondite attraverso il commercio, gli investimenti e gli scambi culturali. La crescita dei loro legami economici racchiude un grande potenziale per favorire lo sviluppo reciproco e facilitare l’integrazione regionale.
Un fattore chiave che influenza la crescita dei legami economici tra Cina e Messico è la complementarità delle loro economie. La Cina, essendo la seconda economia più grande del mondo, vanta competenze nella produzione e nell’innovazione tecnologica, mentre il Messico possiede una forza lavoro qualificata e una posizione geografica strategica. Questa sinergia ha portato ad un aumento dei flussi commerciali, con entrambe le nazioni che hanno sfruttato i reciproci punti di forza. Inoltre, i due paesi hanno beneficiato di una serie di accordi commerciali, come l’accordo di libero scambio Cina-Messico del 2005, che ha facilitato un maggiore accesso al mercato e ridotto le barriere commerciali, favorendo ulteriormente la cooperazione economica.
Inoltre, gli investimenti della Cina in Messico sono stati determinanti nel rafforzare i loro legami. Le aziende cinesi hanno sempre più riconosciuto il Messico come una destinazione attraente per gli investimenti grazie al suo contesto imprenditoriale favorevole e alla sua vicinanza agli Stati Uniti. Questi investimenti si sono concentrati principalmente su settori come la produzione automobilistica, l’energia e le telecomunicazioni. Di conseguenza, le industrie messicane hanno ricevuto una spinta, mentre le aziende cinesi hanno ottenuto l’accesso a nuovi mercati e risorse, contribuendo alla crescita dei loro legami economici.
Nel 2022, la Cina si è posizionata come secondo partner commerciale del Messico nel mondo e primo tra le nazioni della regione Asia-Pacifico.
Allo stesso modo, le vendite internazionali del Messico alla Cina sono state di 722 milioni di dollari nell’agosto 2023, mentre gli acquisti internazionali hanno raggiunto i 10.261 milioni di dollari. Il gigante asiatico detiene una quota del 18,5% delle importazioni del Paese latinoamericano.
Quindi, l’approfondimento dei legami economici tra Cina e Messico rappresenta una pietra miliare significativa nelle loro relazioni bilaterali. Attraverso la complementarità, gli accordi commerciali e gli investimenti cinesi, entrambi i paesi sono stati in grado di sfruttare i propri punti di forza e generare vantaggi reciproci. Mentre continuano a rafforzare la cooperazione economica, Cina e Messico possono sfruttare ulteriormente il loro potenziale per lo sviluppo sostenibile, l’integrazione regionale e l’influenza internazionale. Questa partnership in continua crescita costituisce un elemento essenziale per le aspirazioni di entrambe le nazioni sulla scena globale.
Riceviamo e pubblichiamo
di Leone Lazzara, tranviere in servizio all’ATAC di Roma
LA CLESSIDRA RIEMPITA
Dopo la fine delle Seconda guerra mondiale, l’Occidente europeo si ritrovò sconfitto, ovvero la Germania e l’Italia, e vincitore ma sotto la tutela militare di quello statunitense, tranne la Spagna e il Portogallo, comunque già irregimentate dalle Dittature di Franco e Salazar. La globalizzazione, avviata dall’Inghilterra cento anni prima, fu interrotta dalla presenza dei paesi del Patto di Varsavia, che fecero economia a sé, e da quelli liberatisi dal colonialismo, in primis Cina e India, chiusi in una inevitabile autarchia, tutta tesa a fondare e rafforzare i relativi stati.
L’Europa venne ricostruita con i dollari, è vero, ma essi furono presi in prestito, non arrivarono nelle mani di Tizi e Cai stranieri con l’intenzione di comprare a destra e a manca le attività primarie, e insediando i loro marchi in quelle secondarie. Un oceano di dollari, rigorosamente restituiti fino all’ultimo centesimo, fluì dalla parte alta di un’immaginaria clessidra, consentendo quindi ai paesi europei di ricostruire le loro basi industriali, con i proprietari indigeni costretti però a fare i conti con le forze lavoratrici organizzate sia nei sindacati che nei partiti di riferimento, e con ampi margini giuridici di movimento garantiti dalle rispettive Costituzioni.
Le forze lavoratrici, dopo un decennio di repressioni anche durissime delle loro lotte rivendicative, cominciarono sia a strappare profitto al rinascente Capitale europeo (il versante sindacale) sia a premere per la costruzione dello Stato sociale (il versante politico). In Italia, la riscossa del mondo del lavoro fu particolarmente marcata e, dopo altri trent’anni di conflittualità quasi ininterrotta, nel 1989, i cittadini avevano Salario diretto a tempo indeterminato, Salario indiretto pubblico (Scuola e Sanità gratuiti e Trasporti a basso costo), Salario differito pubblico (Pensione) e l’Equo canone che imponeva limiti agli affitti. Così, a partire dal volano costituito dai dollari prestati e restituiti fino all’ultimo centesimo, l’Italia era diventata la quinta potenza economica mondiale e, grazie alle lotte sindacali e politiche, più della metà del PIL di quel tempo era gestita dallo Stato e le sue aziende, ovvero dai suoi organi elettivi, che indirizzavano direttamente ed indirettamente l’economia.
Su questo solido impianto economico, poggiarono sicure due fondamentali conquiste sociali, cioè le Leggi sul divorzio e l’aborto, l’istituzione di una rete di Enti locali elettivi che inverarono una diffusa partecipazione alla vita politica, e dunque una corposa e pervasiva vita culturale. Non era il Paradiso, era quanto ottenuto da tutta la classe lavoratrice italiana in quarant’anni di lavoro e di lotte. Fu allora, tecnicamente nel giro di tre anni, che la clessidra fu rovesciata, con un’operazione che, in contemporanea, spiazzò completamente tutte le classi dirigenti dei paesi europei, in Italia preparata da un’operazione illecita di poco meno d’un decennio prima, che aveva consentito alla Banca d’Italia di accumulare e gestire le masse monetarie del Debito pubblico emesse dal Ministero del tesoro, comportandosi come una banca privata, il che le permise di forgiare con il tempo la spada di Damocle del Debito pubblico.
LA CLESSIDRA SVUOTATA
I Banchieri e gli Industriali, insomma, progettarono e portarono a compimento singoli Colpi di Stato in tutti i paesi europei, per soggiogare la politica all’economia, che poteva ricominciare l’opera di globalizzazione dopo lo sfaldamento del patto di Varsavia e le aperture dei mercati asiatici. Le dirigenze di tutti i partiti socialdemocratici, socialisti e comunisti d’Europa, furono letteralmente abbagliate dalla tiritera mediatica sulla politica spendacciona, subalterna alle pretese delle masse popolari, e i loro stessi dipartimenti economici presi in contropiede da una teoria economica spacciata per nuova e salvifica, mentre in realtà era sempre l’originaria pretesa del capitalista di decidere cosa, come e per chi produrre, rigorosamente senza alcun tipo di vincolo e pianificazione politica.
Salvo qualche voce fuori dal coro, isolata e titubante, a nessuno dei referenti dei lavoratori venne in mente di andarsi a rileggere cosa diceva Marx 120 anni prima a proposito del debito pubblico apparso improvvisamente sulla scena come il frutto della coscienza sporca dei popoli, come la trasfigurazione della loro ingordigia senza fine. In realtà, dice Marx: “il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s’impossessò di tutta l’Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede innanzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato – dispotico, costituzionale o repubblicano che sia – imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico”.
Ora, è indubbio che l’abbaglio totale dei gruppi dirigenti dei partiti di sinistra fu causato sia dalla decennale propaganda anti politica dei Banchieri e degli Industriali, sia dalla fine dell’esperienza economica alternativa messa in piedi dai sovietici. Lo stralunamento, il venire meno di ogni riferimento concreto, il senso della sconfitta epocale, persino il senso di colpa per essere vissuto al di sopra delle proprie possibilità, come veniva incessantemente rimproverato alle masse popolari di tutta Europa, ci sta tutto. Ma poi sarebbe dovuta tornare la lucidità, ci si sarebbe dovuti rimboccare le maniche, ripartendo da Il Capitale, l’analisi ancora oggi più aggiornata della società contemporanea, per prendere le misure della nuova realtà in essere e prepararsi ad affrontarla.
Non lo si fece in nessun paese europeo; anzi, i riformisti di ogni latitudine scelsero la via della divisione dai rivoluzionari, rinominati prima vetero comunisti e poi radicali. Una scelta che si è rivelata addirittura esiziale per i popoli europei, condannandoli ad un graduale ma inesorabile impoverimento economico, con il relativo portato dello smantellamento dello Stato sociale, dello sfilacciamento sociale e dell’involuzione culturale. Le privatizzazioni iniziate con il rovesciamento della clessidra imposto dal Mostro del Debito pubblico, cominciarono a togliere dalle mani dei lavoratori quote di salario diretto e indiretto che finirono nella Borsa, per cui la vita si fece via via più complicata e difficoltosa, sicché le istituzioni elettive divennero sempre più ininfluenti, di conseguenza ci si affidò sempre più all’estemporaneità delle scelte individuali, via via perdendo consapevolezza culturale dell’Insieme paese. Se devi lavorare sempre di più per sempre di meno, l’idea che il voto possa risolvere i problemi diventa una chimera, ti ritrovi solo con te stesso, gli altri diventano tuoi concorrenti e ti convinci che non c’è nessun collante a tenere insieme il mondo in cui vivi. Tutti contro tutti.
Il Debito pubblico fu, insomma, la manna dal cielo che permise ai Banchieri e i Padroni di ricreare la condizione ottocentesca dello sfruttamento, sbrindellando ogni sovrastruttura istituzionale, sociale e culturale derivata dall’arricchimento della classe lavoratrice. Tale nozione era già patrimonio non solo della letteratura economica e politica, ma anche di quella sociologica e persino psicologica. Come questo elemento possa essere sfuggito a chi si professava marxista, è un mistero tutto occidentale, e tuttora insondato. In Italia, le forze cosiddette riformiste chiusero il PCI, fondando il PDS, poi divenuto DS e infine PD; mentre le forze cosiddette vetero comuniste e poi radicali, si raccolsero nel PRC, da cui si distaccarono in seguito una miriade di gruppi e gruppetti sempre più autoreferenziali, irrilevanti e corrosivi di un’identità fin dall’inizio fragile e contraddittoria, appunto.
Nel complesso, fino alla nascita del PD, i riformisti si limitarono ad accompagnare lo svuotamento della clessidra, sia per l’opposizione dei rivoluzionari sia per la resistenza sociale e culturale del loro stesso elettorato, ancora memore dei sacrifici fatti per conquistare il benessere pregresso. In seguito, essi si misero sempre più scopertamente alla testa di tale operazione, radicando il loro elettorato nel blocco di quelli che avevano sì da perdere; ma, proprio perché il futuro lo avevano potuto avviare nel quadro storico precedente, furono convinti che il tempo delle vacche grasse era finito, e toccava accontentarsi. Gli altri, quelli di dopo, quelli che il futuro lo scopersero sempre più incerto, e alla fine compresso dallo sfruttamento e dall’alienazione incipienti, li avrebbero dovuti difendere i rivoluzionari.
Il PRC contrastò per inerzia questo svuotamento economico, istituzionale, sociale e culturale imposto dalla crisi artificiale del Debito pubblico, creata e gestita dai Banchieri e gli Industriali per rovesciare la clessidra. Tale inerzia positiva derivò dal fatto che il suo elettorato proveniva dallo stesso bacino cui attingevano i riformisti, quello del PCI; dunque, aveva la stessa solida posizione economica, coscienza viva della democrazia partecipata, una duratura esperienza di socialità, e un corposo bagaglio culturale, e non voleva rinunciarvi. Tutto questo potenziale tese ad esprimersi per inerzia, appunto perché privo della base strategica economico-politica prevista dal termine “rifondazione” nel nome PRC, e cominciò a venire meno dopo la scissione del 1998, reggendo altri dieci anni, prima di disperdersi sempre più rapidamente, solo perché stimolato dalla visione del Manifesto di Porto Alegre, che raccolse l’adesione delle forze progressiste di molti paesi su una linea ben più concreta di opposizione alla globalizzazione, perché attuata laddove esse governavano.
Alla sua prima prova elettorale, nel 1992, il PRC ottenne 2.204.000 voti, i quali, occorre di nuovo sottolinearlo, non erano soltanto elettori, ma una comunità con un certo benessere economico, coscienza della democrazia partecipata, esperienza della socialità e bagaglio culturale: tutte cose via via più immateriali e prodotte in successione l’altra dall’una, che lo svuotamento della clessidra, le privatizzazioni, avrebbe costantemente ridotto e negato alle generazioni seguenti.
Il partito aveva oltre 100.000 iscritti e migliaia di Circoli che presidiavano l’intero territorio nazionale. Alle successive elezioni politiche, nel 1994, il PRC prese 2.344.000 voti, che spese in Parlamento con una strenua opposizione alla contro riforma delle pensioni, che i riformisti appoggiavano dopo aver assemblato una maggioranza di governo composita, affidandone la guida a Monti, un tecnocrate espressione diretta del potentato economico-finanziario, approfittando delle divisioni interne del Centrodestra vincitore delle elezioni, che avevano portato alla caduta di Berlusconi. Tuttavia, già in quell’occasione ci fu una piccola diaspora di parlamentari che uscirono dal PRC e furono determinanti per la nascita del governo.
Era un segnale, si trattava di un segnale, ma le sue implicazioni profonde non furono colte da nessuno, in seno al partito. Quella piccola diaspora mostrava che il PRC non era in grado di “rifondare” il comunismo, ovvero che il suo gruppo dirigente non era coeso, ovvero che le appartenenze politiche precedenti della sua classe dirigente impedivano la sintesi politica, quindi la pianificazione di una strategia; dunque, la possibilità di creare spazi di manovra tattici che non ne compromettessero la stabilità. Già allora, dunque, si intravedeva la fragilità di un personale politico perennemente tentato dalle scelte soggettive e opportunistiche; la qual cosa indicava appunto la completa inconsapevolezza dell’avvio del degrado economico, istituzionale, sociale e culturale determinato dal rovesciamento della clessidra, dal travaso di soldi dall’economia reale a quella virtuale della Borsa.
Nel PRC confluirono militanti e dirigenti del PCI, di DP, cioè gli eredi dei Movimenti del ’68, nonché quelli del ’77 e del ’91.
Fatto salvo lo schematismo, nei primi si può individuare la convinzione che il partito potesse avere lo stesso ruolo di quello di provenienza, cioè insieme di lotta e di governo, saldamente ancorato al referente sindacale. Cosa, questa, palesemente impraticabile, visto che la base economica, istituzionale, sociale e culturale del PCI era stata appena divisa, e i riformisti si erano arrogati il ruolo di governo.
I sessantottini avevano in mente di rimodellare il partito ad immagine e somiglianza della stagione da loro vissuta; un’operazione del tutto sovrastrutturale, che riecheggiava il marxismo ripudiando l’esperienza sovietica e, più in profondità, il centralismo democratico. Finalmente liberi di restituire al personale lo spazio negato dalla forma partito precedente, essi non fecero che alimentare un dibattito adolescenziale, all’interno con un revisionismo d’accatto, che col senno del poi distribuiva patenti di comunismo ai personaggi storici del movimento operaio complessivo, all’esterno stimolando l’emersione di dirigenti sempre più appariscenti e null’altro.
I settantasettini portarono dentro il partito la foga anarcoide che li aveva spinti allo scontro aperto contro lo Stato, proprio nel momento culmine dell’onda lunga delle lotte pluridecennali, proprio quando si completava insomma la costruzione dello Stato sociale, che era l’unica rivoluzione possibile in Occidente. Un anacronismo clamoroso e conclamato, che facilitò oltremodo il piano golpista del Capitale, alimentando la teoria degli opposti estremismi che interruppe il travaso di voti dalla DC al PCI.
I panterini, quelli del Movimento del ’91, si ritrovarono nel partito per forza di cose più che per scelta. Questa generazione scontò il disorientamento sociale e politico prodotto dal rovesciamento della clessidra, che era già per certi versi parossistico; l’adesione al PRC fu per loro naturale in quanto soggetto di opposizione; non per la storia, che era tutta da fare, non per le finalità strategiche, inesistenti, più che altro per la possibilità di lottare organizzati, affidandosi cioè alla tattica. Questa è la generazione più ignara della storia economico-politica della Prima Repubblica, perché ne ha vissuto la fine senza avere avuto la possibilità di viverla.
Le centinaia di migliaia di persone che si iscrissero per almeno un anno al PRC durante i due decenni successivi, finirono in questo tritato di contraddizioni, o preda del settarismo nei gruppi e gruppetti che proliferarono in continuazione da tale ventre molle. Questo coacervo indistricabile di storie vissute, senza un impianto economico-politico da inverare, alla testa di una massa rilevante del paese, continuò ad andare avanti per inerzia fino alle elezioni del 1996, nelle quali il PRC ottenne 3.214.000 voti, il suo massimo storico. Un risultato per certi versi clamoroso, decisamente incoraggiante, sostanzialmente dipeso dalla formidabile opposizione al governo Monti, che sprigionò un ritorno di fiamma dell’elettorato riformista contro il rovesciamento della clessidra, le privatizzazioni, sollecitato anche dalla scelta dei dirigenti riformisti di coalizzarsi con i partiti eredi del progressismo cattolico, intriso di cultura clientelare, refrattario alla concezione laica della socialità, nella quale l’individuo è tale solo in quanto appartenente alla comunità.
Dopo due anni di appoggio esterno al governo di Centrosinistra, che drogava i consumi con gli aiuti di Stato alle aziende automobilistiche nel mentre pianificava le privatizzazioni, il PRC decise di staccare la spina all’esecutivo. La causa fu il disatteso provvedimento dell’abbassamento dell’orario di lavoro a 35 ore, mentre non aveva recato disturbo l’approvazione del cosiddetto Pacchetto Treu, una mina brillata al centro del mercato del lavoro, che consentiva assunzioni biennali nel pubblico e nel privato, incentivate dal pagamento governativo di una parte dei contributi pensionistici, e dal trattamento economico inferiore a quello vigente. Una volta creato il meccanismo per cui ti assumo per due anni a Contratto di Formazione Lavoro, ho introdotto la precarietà nel mondo del lavoro, o no? I due provvedimenti, la riduzione delle ore di lavoro settimanali e la precarizzazione del mondo del lavoro, a spese dello Stato e del lavoratore, sono antitetici o no? Non può venire prima l’altro e poi l’uno, se arriva l’altro non può arrivare l’uno.
Qualcuno avrebbe dovuto chiedere alla dirigenza del PRC: pensate di essere una Giuria che sta premiando un’opera d’arte, una prova di gara sportiva, letteraria o di altro genere? Cos’è il vostro, un impegno nell’arena culturale del paese? Questa domanda non la fece nessuno, ma la risposta non voluta, la diede dodici anni dopo il segretario del PRC, che dopo essere stato per sedici anni segretario di un partito comunista, si dimise in seguito alla disfatta elettorale del 2008 profetizzando: “il marxismo sarà una tendenza culturale”.
È difficile, davvero difficile giustificare tanta maldestrezza politica. Al gruppo dirigente del PRC mancava proprio l’ABC dell’intero retroterra conflittuale fra Capitale e Lavoro, la conoscenza minima degli accadimenti reali di tutto il secolo precedente. E, difatti, in nome della vocazione al partito di lotta e di governo, gli ex dirigenti del PCI fecero la scissione favorendo la nascita di una coalizione di governo
sgangherata, protagonista di svariate e gravissime nefandezze (l’appoggio dell’Italia alla guerra di aggressione alla Serbia, la modifica della Costituzione che avviò la privatizzazione del potere centrale alle regioni, la privatizzazione dell’azienda delle telecomunicazioni, la limitazione del diritto di sciopero nei trasporti pubblici e altro ancora).
Alle successive elezioni del 2001, il PRC e gli scissionisti del PDCI presero complessivamente 2.490.000 voti; non ha nessuna importanza riportare qui le rispettive quote, mentre è invece importante sottolineare la perdita di 724.000 voti rispetto al massimo ottenuto cinque anni prima. Entrambi i partiti erano stati sconfitti, i rancori pesarono sulle linee politiche di entrambi, corrodendone ancora di più la credibilità.
Il PRC adottò quella sessantottina, ponendo al centro la questione dei diritti, come se questi potessero essere rivendicati in una condizione di impoverimento economico, sociale e culturale, come se gli italiani fossero quelli di prima dell’89, come se gli assilli economici non determinassero confusione mentale, sconforto, abbrutimento, regressione culturale, insomma: chiusura mentale ed egoismo, cioè repulsione verso tutti i diritti che non siano i propri. C’era anche la patrimoniale sulle grandi ricchezze, come parola d’ordine, ma nessun accenno al fatto che, tramite la Borsa, era operante il trasferimento di ricchezza dalla società a un pugno di persone. Anziché bloccare il riflusso di denaro dall’economia reale a quella finanziaria, mantenendo in piedi le attività produttive, ci si accontentava di briciole che non potevano in alcun modo colmare le casse dell’Erario sostenendo così l’offerta dei servizi pubblici.
In sostanza, i dirigenti del PRC si comportarono come se il momento storico fosse progressivo, pronto ad esprimere un avanzamento sovrastrutturale, mentre le cose stavano esattamente all’opposto: l’Italia stava regredendo economicamente; quindi, la fiducia nelle istituzioni elettive stava venendo meno, la socialità si stava sfaldando e la cultura dissipando. In quelle condizioni, rivendicare diritti era fuori dal tempo, e quindi risultò provocatorio per i conservatori, alimentando un dibattito esacerbato che incattivì gli animi di tutti, sollecitando lo spirito reazionario del paese. Fu un regalo, allo spirito reazionario del paese.
I dirigenti del PDCI si ostinarono ad offrirsi ad ogni tipo di alleanze con i riformisti, convinti di potersi permettere chissà quale pressione moderatrice della loro azione, dal basso di una percentuale elettorale risibile, per non dire imbarazzante. Dieci anni dopo essersi uniti, i rivoluzionari si ritrovarono divisi, complessivamente più deboli e ancora del tutto inconsapevoli che gli accadimenti in atto erano prodotti dal rovesciamento della clessidra.
Quanto detto da Marx sul debito pubblico, evidentemente, restava sconosciuto ai gruppi dirigenti di entrambi i partiti, sicché l’adesione al Movimento di Porto Alegre di entrambi, con il suo respiro internazionale, servì nei fatti solo da motore propagandistico per tenere insieme gli elettorati. Non si denunciò apertamente l’inganno del Debito pubblico, declinando in modo comprensibile alle masse, le ragioni per le quali la politica doveva ritornare a guidare l’economia.
E non lo si fece, vale la pena ripeterlo, perché era misconosciuto, tale inganno; prova ne sia che la privatizzazione del Trasporto Pubblico Locale era già da tempo partita da Roma, nella cui giunta il PRC (la scissione non era avvenuta) pesava ed aveva incarichi di rilievo. E partì da Roma perché era la roccaforte dei tranvieri in Italia, sia per la dimensione dell’azienda, la più grande d’Europa, sia per l’ineguagliabile combattività dei lavoratori, che in passato avevano persino scioperato a sostegno della azienda di Latina che produceva Coca Cola, a rischio di chiusura. In pratica, i rivoluzionari diedero una mano ai riformisti per avviare una privatizzazione che, altrimenti, non solo sarebbe stata molto ma molto più difficile, ma il luogo di lavoro si sarebbe anzi potuto rivelare un caposaldo di resistenza. Dopo dieci anni e una scissione, i gruppi dirigenti rivoluzionari erano sprofondati nel politicismo, Il Capitale restava chiuso in qualche cassetto di chissà chi chissà dove.
L’agenda dei successivi cinque anni di governo del Centrodestra, vincitore delle elezioni, fu letteralmente dominata dagli interessi personali di Berlusconi, al punto da frenare l’azione del rovesciamento della clessidra, la privatizzazione, e tanto da creare la convinzione sia fra i riformisti che i rivoluzionari, di potersi coalizzare con successo e cambiare registro al paese. Non è dato sapere come questo si fosse potuto fare con un programma di 280 pagine, e insieme a Mastella, un ex democristiano che stava nel Centrosinistra solo perché nel Centrodestra non c’era posto. Un’alchimia politica; si trattava di un’alchimia politica per vincere le elezioni, niente di più. La radicalizzazione dello scontro politico, quasi interamente dovuta al clamoroso conflitto d’interessi, che aveva visto Berlusconi usare il suo ruolo istituzionale per azzerare gli innumerevoli processi in corso, portò entrambi gli schieramenti a fare il pieno, con il PRC e il PDCI che presero 3113591 voti, sfiorando il massimo storico di prima della scissione, ma il Centrosinistra vincitore per un pelo.
Mastella fece cadere il governo due anni dopo e il bilancio fu fallimentare, ricordato dalle masse per l’aumento del bollo auto e il biglietto d’entrata negli ospedali, più che per la liberalizzazione di alcuni Ordini professionali. Nel 2007 i riformisti avevano fondato il PD, e approfittarono della crisi di governo per additare gli alleati agli elettori come il problema del Centrosinistra. Così, dopo aver raccattato tutto quello che si poteva raccattare per andare al governo, i riformisti si presentarono alle elezioni come vittime dei ricatti degli alleati, ma pronti al riscatto presentandosi da soli. I rivoluzionari misero in piedi e in fretta e furia L’Arcobaleno, che fu di fatto la replica in sedicesimo della fondazione del PRC ma senza falce e martello nel simbolo. Tutto quello che era loro mancato, strategia, capacità tattica, cultura politica omogenea, non poté certo apparire d’incanto, tanto più che nella Lista c’erano transfughi riformisti, in nessun modo intenzionati a rifondare il comunismo. Insomma: un Papocchio dell’ultima ora, breve e sbiadita replica del parto sofferto
attraverso il quale era stato fondato il PRC. Alle elezioni del 2008, L’Arcobaleno prese 1124298 voti, un terzo di quelli del PRC e il PDCI alla tornata elettorale precedente, e largamente insufficienti a superare la soglia di sbarramento per entrare in Parlamento.
I successivi tre tentativi di rientrare; 2013, 2018 e 2022, sono stati fatti ricorrendo ogni volta a liste dell’ultimo momento, che replicavano in tutto e per tutto il tentativo del 2008; Rivoluzione civile, Potere al popolo e Unione popolare, che hanno preso rispettivamente 765000, 313000 e 370000 voti. Dunque, i quattordici anni trascorsi fuori dalle aule parlamentari, sono stati caratterizzati da scissioni continue dei rivoluzionari verso destra e verso sinistra del proprio campo, con trasmigrazioni di apparati ed elettori prima, e apparati senza elettori dopo, salvo poi ritrovarsi tutti insieme nel Papocchio di turno. Uno spettacolo tragicomico, farsesco; avanspettacolo che non interessa quasi più nessuno, dato che lo svuotamento della clessidra, le privatizzazioni, ha pompato decine di miliardi l’anno dall’economia reale a quella virtuale, spingendo decine di milioni di persone a ridosso e al di sotto della soglia di povertà; gente senza futuro, che non vota più, che non partecipa a niente e, per tutto questo, produce una sub cultura arata in continuazione dalle scorrerie reazionarie.
Un panorama pauroso e desolante, quello economico, istituzionale, sociale e culturale italiano, frutto della suddetta e più e più volte ripetuta finanziarizzazione dell’economia, della quale i gruppi dirigenti del PRC non hanno mai percepito né la forza né la portata; e meno che mai l’hanno percepito gli epigoni scissionisti, sempre più numerosi, e sempre più incarogniti in interminabili, astrusi ed insulsi duelli ideologici.
RIEMPIRE LA CLESSIDRA
Quanto sta accadendo a livello planetario, chiude ogni spazio di manovra ai riformisti e certifica l’ininfluenza dei rivoluzionari.
Tutti coloro, dirigenti, militanti e noi scriventi, che si sono fatti vecchi sbagliando una volta dopo l’altra, continuando imperterriti fino all’ultimo, cioè ora, devono finalmente ammettere il proprio fallimento davanti ai milioni di italiani che non li votano più. Se l’ammissione è sincera, cioè consapevole, c’è ancora modo di costruire il partito che serve ai lavoratori, uno e uno soltanto.
Se l’ammissione è sincera, cioè consapevole, non ci sarà alcuna difficoltà a recuperare gli assi portanti del Partito dei lavoratori: 1) Assumere per intero la storia del movimento socialista e comunista; da Marx a Pol Pot, nessuno escluso, perché dalla Storia si devono trarre insegnamenti pratici, non principi morali. 2) La vita del partito deve essere regolata dal centralismo democratico, che è l’unico modo per far vibrare all’unisono l’intellettuale organico che esso dev’essere.
L’estrema esiguità di quanti siamo, ci mette fuori giuoco come minimo per lungo tempo, consentendoci però di avere tempo per imparare ad analizzare la realtà attraverso la dialettica struttura/sovrastruttura.
Ci vorrà il tempo che ci vorrà, ma quando avremo finalmente compreso fino in fondo che i tre pasti al giorno (lavoro e Stato sociale) e la realizzazione di sé (nel sociale e nel privato) sono due facce della stessa medaglia, ci renderemo conto di avere marinato la scuola di vita per trent’anni, disquisendo di scempiaggini adolescenziali, che ci hanno fatto sistematicamente sbagliare tutte le interrogazioni elettorali di quelli che pretendevamo di guidare.
Allora sì che saremo in grado di rovesciare noi la clessidra, la politica rimetterà le briglie all’economia e ci riprenderemo il maltolto.
di Michele Blanco*
L’intero processo di integrazione europea è nato per impedire lo scoppio di un’altra Guerra Mondiale, negando la possibilità che ideologie autoritarie e razziste potessero tornare al potere, ottenendo egemonia sul sistema statale europeo. L’intero processo è stato progettato per limitare rivalità di potere, dispute territoriali tra gli stati nazionali.
Inoltre, l’integrazione è stata concepita per superare l’identità nazionale, mettendo insieme i vari nazionalismi, arti, culture, storie e personaggi europei, per potenziare la consapevolezza della forza della diversità europea. Infatti, i numerosi collegamenti tra diverse persone e popoli, tanto interagenti quanto in competizione tra loro, sono stati i fattori chiave della civiltà europea.
L’integrazione europea è stata concepita, per la costruzione di un ordinamento così forte da essere in grado di rafforzare il lato creativo della diversità, respingendo quello distruttivo. Con la firma dei trattati di Roma, nel marzo del 1957 si stabilì che l’Europa era destinata a svilupparsi attraverso l’integrazione economica, utilizzando il boom economico degli anni ‘50 e i suoi evidenti potenziali di prosperità come veicolo per favorire una cooperazione più integrata tra i governi europei.
La comunità aveva lo scopo di portare la prosperità economica a tutti gli europei. Le ultime notizie sono tristi e incomprensibili per la sana razionalità umana, non solo, non usciamo dalla guerra attraverso la mediazione politica, questo sarebbe il ruolo di un Europa unita, almeno questo risulta da tutti i documenti che hanno portato alla nascita dell’Unione Europea, ma la guerra viene incredibilmente messa al centro di tutto.
Il voto del primo giugno 2023 dell’Europarlamento che ha approvato senza battere ciglio la relazione della Commissione europea denominata Asap (Act to Support Ammunition Production) rende possibile che governi nazionali possano impegnare a man bassa fondi già destinati al Pnrr (Il Piano di Ripresa e resilienza) e per l’avvio del Next generation Eu per indirizzarli direttamente a spese militari. Invece L’UE ha sempre rappresentato un progetto di pace: è nata dalle ceneri della guerra, con l’obiettivo finale di evitare uno scoppio delle ostilità tra e contro europei.
L’Unione europea di oggi dovrebbe, oltre a essere un mercato unico, essere un’elargitrice di sussidi dai più ricchi a chi ha più bisogno e, ancor di più, un esperimento di governance basato sulla democrazia partecipativa di centinaia di milioni di cittadini europei. Ma hanno deciso qualcosa i cittadini europei sul togliere gli investimenti sul futuro dei nostri giovani ed elargirli ai costruttori di armi e di morte?
Non troviamo nessuna giustificazione giuridica, morale o democratica per questa scellerata decisione. Il compito Costituzionale delle leadership europee era, ed è assolutamente, quello di come fermare il disastro della guerra russo-ucraina, come di tutte le guerre. Invece ora abbiamo l’unica prospettiva, l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, come se questo non precipitasse ancora di più nella voragine la crisi ucraina. Nessuno avverte che la soluzione non si trova in più armi e più guerra, garanzia di ulteriore morte e distruzione. Con il voto del primo giugno, che tace completamente e insieme allontana anche la prospettiva di un cessate il fuoco e di un negoziato, siamo in una situazione particolarmente grave. Perché all’ordine del giorno non c’era nemmeno l’invio di armi ma l’inizio di una politica di riarmo che i governi stanno imponendo alle varie nazioni dell’Unione Europea.
Oggi sembra che nemmeno la deterrenza nucleare riesca a fermare questa incredibile corsa alle armi, non fa a quanto pare più paura la ripetuta minaccia atomica che incombe. L’Europarlamento ha votato sì all’autorizzazione ad un prelievo forzato, ad una distrazione di fondi che non è prevista da nessuno dei Trattati europei.
Tali trattati impediscono di finanziare con soldi comunitari le industrie militari nazionali. Perché l’Europa, la sua ragion d’essere principale, è segnata dai fondamenti della sua costruzione fino ad ora dall’allontanare la guerra proprio per aver conosciuto la tragedia delle due guerre mondiali. Stavolta però la decisione presa è quella di attingere, per la produzione di armi, ai fondi destinati alle Regioni per sostenere le politiche sociali, il lavoro e il diritto allo studio, l’ambizione ambientalista della transizione ecologica e, dopo tre anni di pandemia, il nuovo, ineludibile, assetto della sanità, in più l’attenzione al
dramma delle migrazioni epocali e al diritto d’asilo. La decisione dell’Europarlamento mette in discussione tutto: sia il fatto che nuovo armamento può essere prodotto utilizzando fondi che erano destinati a migliorare la vita delle persone dopo le costrizioni da pandemia, sia i fondamenti stessi dell’Unione europea.
L’indirizzo è chiaro, visto che la prospettiva è quella di una guerra di anni se non infinita, l’obiettivo praticato è passare inesorabilmente dallo Stato sociale allo stato di guerra (dal welfare al warfare). Un indirizzo purtroppo non solo europeo ma mondiale. Lo conferma il trend della spesa globale del 2022 dove la spesa militare globale ha raggiunto la cifra record di 2.200 miliardi dollari con Stati Uniti, Russia, Francia, Cina e Germania – che ha deciso un riarmo di ben 100 miliardi di euro – in prima fila, e l’Italia è sesta nel campionato mondiale degli esportatori di armi. Ora che era possibile, dopo anni di inutili politiche neoliberiste restrittive e di austerità delle politiche dell’Unione Europea, spendere i soldi del Pnrr per opere civili e sociali, umanitarie, per l’istruzione e il futuro dei giovani, ci ritroviamo a dovere buttare la speranza di un mondo migliore in armi e strumenti di morte e distruzione.
Si spera che la decisione non sia definitiva. Non tanto perché il voto finale sull’atto è previsto per luglio 2023, ma perché per la prima volta cresce l’area di dissenso verso queste scelte scellerate. A fronte di una opinione pubblica, secondo ripetuti sondaggi, molto contraria in Italia e in Europa, si avverte la necessità di alzare più forte la voce contro la guerra, perché si fermi il massacro di vittime civili ormai dell’una e dell’altra parte, come di tanti bambini e indifesi, lo stesso massacro dei militari mandati al macello. Diventa fondamentale dire che il riarmo, inutile, di 27 eserciti europei non avvenga non avvenga a discapito degli indifesi e delle nuove generazioni.
*Questo articolo è stato pubblicato su https://www.eguaglianza.it/
PICCOLE NOTE
Di rilievo lo scoop del Washington Post sul Nord Stream 2, che sarebbe stato sabotato dall’Ucraina. Al di là della veridicità della ricostruzione, palesemente falsa (a fare il lavoro sono stati i più esperti sabotatori anglosassoni), resta che la rivelazione era tesa ad affondare la candidatura del capo delle forze armate, generale Valerij Zaluzhnyi, alla successione di Zelensky,
Il WP spiega, infatti, che a dirigere l’operazione contro l’gasdotto russo fu il colonnello Roman Chervinsky, che riferiva al generale tenendo all’oscuro il presidente. Da cui l’inaffidabilità di Zaluzhnyi, che in un’intervista rilasciata il 1 novembre all’Economist aveva dichiarato che la guerra è ormai in stallo, cioè è finita. Di fatto, si era proposto di chiuderla al posto di Zelensky.
Diverse speculazioni vogliono che Zaluzhnyi sia il candidato della Gran Bretagna, perché ha lanciato la sua candidatura sul giornale della City, e che l’articolo del WP sia lo stop della CIA, perché l’Agenzia sosterrebbe Zelensky e il proseguimento del conflitto.
In realtà, la CIA, e in particolare il suo capo William Burns, da tempo stanno tentando di chiudere questa guerra. Ne abbiamo scritto in note pregresse, riportando le diverse missioni di Burns per tentare di aprire strade in tal senso.
Non che i funzionari dell’Agenzia siano diventati pacifisti, semplicemente reputano che una guerra di lunga durata non sia proficua per gli interessi degli Stati Uniti, come dettagliava uno studio della Rand Corporation, Istituto prossimo all’Agency (vedi Piccolenote: “La Rand: l’Ucraina non deve diventare una guerra infinita”).
Inoltre, reputare che il WP si faccia portavoce solo dei desiderata della CIA è riduttivo, essendo il media usato da diversi poteri americani, soprattutto i neocon, ai quali sembra più attribuibile il niet all’Endgame e il sostegno incondizionato a Zelensky e al suo afflato per la prosecuzione ad infinitum del conflitto.
La prospettiva della CIA era dettata da mero realismo: la guerra ucraina ha prodotto i suoi frutti, avendo subordinato in via provvisoriamente definitiva i Paesi europei agli Stati Uniti ed essendo stato rescisso il rapporto tra questi e la Russia, oltre a tutti i benefici economici apportati all’apparato militar industriale USA. Tali successi possono essere messi a repentaglio da una guerra a oltranza, che rischia di logorare più l’America e i suoi alleati che la Russia.
Al di là del ruolo della CIA nella querelle, resta che questa è la prospettiva più realista per quanto riguarda la guerra. La figura di riferimento del realismo politico americano è Henry Kissinger, che più volte ha raccomandato di chiudere la guerra suscitando l’ira della leadership di Kiev. L’ultima sua modulazione su un possibile Endgame è la cessione alla Russia dei territori attualmente occupati e l’adesione della parte restante dell’Ucraina alla Nato.
Così veniamo all’attualità. L’opzione Kissinger è stata rilanciata di recente dall’ex segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen, suscitando anche stavolta le ire dell’inner circle del presidente ucraino.
A dichiarare apertamente che l’opzione Kissinger è l’unica via percorribile per salvare l’Ucraina è stato Alexei Arestovich, l’ex consigliere di Zelensky che da tempo si è proposto come punto di riferimento di un’opposizione nazionalista alle follie dell’ex comico, arrivando a candidarsi a un’ipotetica elezione presidenziale.
Così il sito Strana sintetizza quanto scritto su Telegram da Arestovich: “L’ex consigliere dell’ufficio del presidente, Alexey Arestovich, ha invitato l’Ucraina ad aderire alla NATO senza i territori occupati dalla Russia”.
Arestovich sembra muoversi in piena sintonia con Zaluzhnyi, che il 6 novembre ha postato un “mi piace” a una sua osservazione pubblicata su facebook (ormai la politica si fa così; regressione adolescenziale alquanto generalizzata).
Così lo scontro che in questi anni ha dilaniato la politica estera americana, tra i realisti e i fondamentalisti neocon e liberal, si ripropone nella colonia ucraina, sullo sfondo di una catastrofe che la sta sprofondando sempre più nell’abisso, con una guerra ormai persa e un sostegno occidentale sempre meno convinto e distratto dal conflitto mediorientale.
Resta che sulla strada degli sfidanti di Zelensky ci sono due ostacoli formali. L’ex comico ha fatto approvare al Parlamento un norma nella quale si dichiara l’impossibilità di trattare con la Russia e un’altra che esclude le elezioni fino alla fine della guerra (da cui è ovvio che ha tutto l’interesse a proseguirla). Contesa aperta e senza esclusione di colpi, quella tra le due fazioni, come dimostra l’omicidio occasionale dell’attendente di Zaluzhnyi.
Interessante una dichiarazione immaginifica di Arestovich sul conflitto, che egli divide in tre guerre separate. Così Strana: “La prima guerra, secondo lui, è durata dal 24/02/22 al 02/04/22”. ‘L’Ucraina ha vinto questa guerra a titolo definitivo’, ha detto Arestovich.
“La seconda guerra è iniziata il 02/04/22 e si è conclusa il 01/11/23 (il giorno in cui è apparso sulla rivista Economist l‘articolo del comandante in capo delle forze armate ucraine Valery Zaluzhnyi”, quando cioè Zaluzhnyi per la prima volta ha riconosciuto che la controffensiva era fallita. Arestovich ha commentato così tale (fase della) guerra: “Abbiamo concluso questa guerra con un pareggio. C’erano molte speranze, ma è stato un pareggio”. Strana prosegue spiegando che, secondo Arestovich, la terza guerra è iniziata il 01/11/23 e, a suo avviso, “la perderemo”.
Insomma, bisogna finirla subito, accontentandosi del pareggio precedente. Purtroppo non stiamo parlando di una partita di calcio, ma di una mattanza, dal momento che gli ucraini continuano a essere mandati al macello contro forze preponderanti per non si capisce cosa, dal momento che la guerra è persa.
“Si avvicina la resa dei conti politica della fallita offensiva estiva”, rileva The Hill raccontando le vicissitudini di cui sopra in un articolo dal titolo significativo: “L’Ucraina si sta risvegliando alla realtà”. Una realtà nella quale Putin “sta combattendo una guerra mondiale contro l’America – e sta vincendo”.
Ma per spiegare l’ostinazione di Zelensky, The Hill fa un cenno ancora più significativo: “Il presidente Zelensky è sempre più messianico”. Vero, tanto che sta cercando in ogni modo di legare la sua causa, anche personale, a quella israeliana, dove imperversa il messianismo militante (e militare).
Così lo scontro, anche qui, è tra il realismo rappresentato dall’opzione Kissinger contro il messianismo e le sue guerre infinite.
Detto questo, bisogna fare i conti con la Russia, che potrebbe non accettare di avere la NATO a Kiev. Ma, del caso, l’opzione Kissinger può trovare altre modulazioni, più accettabili.
Non è un mistero che gli Stati Uniti d’America sono complici di Israele nel massacro della Striscia di Gaza. Il problema è che, il loro appoggio ad Israele, come ha riferito ieri Bloomberg, si è addirittura intensificato.
In un documento risalente alla fine dello scorso ottobre, intitolato “Israel Senior Leader”, sono elencate le armi che Tel Aviv sta cercando per completare il suo massacro a Gaza.
Sono incluse nell’elenco: “missili a guida laser per la sua flotta di cannoniere Apache, così come proiettili da 155 mm, dispositivi per la visione notturna, munizioni anti-bunker e nuovi veicoli militari […] che vanno oltre la ben pubblicizzata fornitura di intercettori Iron Dome e Bombe intelligenti della Boeing Co.”
Washington non ha perso tempo e secondo Bloomberg sta già esaudendo i desideri di Tel Aviv con la spedizione delle armi richieste. Non solo, il Dipartimento della Difesa sta inviando altro materiale bellico dai suoi magazzini negli USA e in Europa.
Dunque, come si evince dal documento di Bloomberg, 36.000 di munizioni per cannoni da 30 mm, 1.800 munizioni anti-bunker M141 e un minimo di 3.500 dispositivi per la divisione notturna sono stati consegnati a Israele.
Il Pentagono ha precisato che il Dipartimento della Difesa sta “sfruttando diverse strade, dalle scorte interne ai canali industriali statunitensi, per garantire che Israele abbia i mezzi per difendersi”, aggiungendo che “questa assistenza in materia di sicurezza continua ad arrivare quasi quotidianamente”. Non sia mai che manchino le munizioni per disintegrare Gaza e i suoi abitanti.
Già la scorsa settimana, i media israeliani avevano annunciato che la difesa israeliana aveva ricevuto il carico di una nave mercantile che trasportava circa 2.500 tonnellate di equipaggiamento militare e che oltre 120 aerei e diverse navi hanno consegnato a Israele oltre 7.000 tonnellate di armi.
Senza contare che Washington, dal 7 ottobre, per sostenere Israele ha schierato decine di navi da guerra e centinaia di soldati nell’Asia occidentale.
Proprio lunedì scorso, il Center for Constitutional Rights (CCR), ha citato in giudizio per complicità nel genicidio di Gaza, il Presidente statunitense Joe Biden, oltre ai Segretari di Stato e alla Difesa, Antony Blinken e Lloyd Austin.
Dal 7 ottobre, intanto, sono 11.300 i palestinesi uccisi a Gaza dalle incursioni israeliane, quasi la metà bambini.
Funzionari della Casa Bianca “mettono sempre più in guardia Israele dal cercare di evitare vittime civili nella Striscia di Gaza”, ha avvertito Bloomberg.
In un altro articolo, Bloomberg ha ribadito che “la Casa Bianca è sempre più frustrata dalla condotta di Israele nella guerra contro Hamas mentre il bilancio delle vittime civili aumenta e gli appelli dell’amministrazione rimangono inascoltati, ampliando la spaccatura tra gli stretti alleati.”
Inoltre, il portale ha precisato che “i funzionari amministrativi stanno avendo quelle che descrivono come conversazioni più difficili con le loro controparti israeliane, mentre gli Stati Uniti cercano di influenzare il conflitto solo per essere ignorati da Israele”.
Tutto questo non implica che il sostegno militare, politico e finanziariodegli USA a Israele si possa minimamente arrestare.
Tra l’altro, ieri, la Casa Bianca ha avallato la menzogna di Israele in merito alla gestione di un centro di comando sotto l’ospedale Al-Shifa di Gaza da parte di Hamas.
Ieri, a tal proposito, Hamas ha accusato gli USA di aver dato il via libera ad Israele per il brutale assalto all’ospedale Al-Shifa.
PICCOLE NOTE
E così è arrivato il giorno dell’assalto ad al Shifa, il più grande ospedale di Gaza, obiettivo predestinato dell’attacco israeliano a Gaza. Le foto che circolano sul web sono strazianti, inutile aggiungere. A israele serviva un successo eclatante e da giorni segnalano che sotto l’ospedale si nasconderebbe il quartier generale di Hamas.
Verrà trovato anche se non c’è, altrimenti per Tel Aviv sarebbe una debacle dalla quale sarebbe impossibile rialzarsi. Già girano fotografie di armi che apparterrebbero ad Hamas abbandonate su scaffali. Altre fotografie arriveranno a provare che tanta ferocia era giustificata.
Shlomi Eldar, su Haaretz di ieri, vergava un articolo alquanto irridente sul famigerato quartier generale di Hamas di al Shifa: “Per anni, l’establishment della difesa ha affermato che gli alti dirigenti di Hamas si nascondono al sicuro sotto i reparti ospedalieri e le sale operatorie […] La nostra immaginazione, o almeno la mia, sta facendo gli straordinari”.
“Le teorie che circolano sui media israeliani dipingono una visione immaginaria di una sala da guerra blindata, una sala di controllo piena di documenti al suo interno, da cui partono gli ordini per il lancio di razzi contro Israele. Se espandiamo un po’ la nostra immaginazione, forse vedremo anche una grande mappa di Israele piena di spille e segni di spunta per ogni razzo lanciato che il sistema Iron Dome non è riuscito a intercettare”.
“In questa sala di comando sicuramente si possono trovare i leader di Hamas, Yahya Sinwar e Mohammed Deif, e gli alti ufficiali della sua ala militare, circondati da tunnel tortuosi pieni di carburante e cibo sufficienti per durare mesi”.
“Ma non ci sono solo i leader di Hamas. Il Wall Street Journal ha recentemente citato un alto funzionario israeliano che ha affermato che nei nei tunnel sotto l’ospedale si troverebbero alcuni degli ostaggi. La ‘rivelazione’ di quel funzionario israeliano non si basava su alcuna informazione documentata. Se gli ostaggi israeliani fossero stati effettivamente detetenuti nei tunnel sotto Al-Shifa, probabilmente non avrebbe fornito volontariamente queste informazioni al Wall Street Journal, mettendo così in pericolo la vita degli ostaggi o spingendo Hamas a portarli altrove”.
“Ma tutte queste speculazioni vengono costruite per preparare l’opinione pubblica israeliana e mondiale all’incursione dell’esercito all’interno dell’ospedale e, nel frattempo, per preparare una scenografia di vittoria”. Ma è possibile che “la montagna si riveli un granello di sabbia”, commenta il cronista… probabile che il granellino, sempre che esista, venga amplificato. Tanti i modi.
Eldar prosegue interpellando i lettori: “Immaginate una foto di soldati israeliani con fucili, elmetti e giubbotti antiproiettile che irrompono nei corridoi di un ospedale in cui la maggior parte dei pazienti è in gravi condizioni, compresi i prematuri dell’unità neonatale, che non possono essere evacuati come ordinato dai militari. Cosa si penserebbe all’estero?”.
È esattamente quel che è successo. E cosa si pensa all’estero è alquanto ovvio, nonostante si stia tentando in tutti i modi di attutire la portata dell’accaduto.
Quanto alla credibilità delle fonti israeliane, e come piccolo cenno su quanto sta accadendo, riportiamo un articolo del New York Times che smentisce l’affermazione dell’IDF secondo cui lo scorso venerdì l’ospedale di al Shifa era stato colpito da razzi di Hamas, con conseguenti stragi.
The New York Times: Le prove indicano i bombardamenti israeliani negli attacchi al più grande ospedale di Gaza
“Le prove esaminate dal Times riguardo ad Al-Shifa puntano più direttamente su attacchi da parte di Israele – non è chiaro se intenzionalmente o accidentalmente. Oltre ai resti dei proiettili, un’analisi dei video mostra che tre dei proiettili sono stati sparati contro l’ospedale da nord e da sud, contrariamente alla traiettoria occidentale indicata su una mappa mostrata dall’IDF, che secondo essi era basata su rilevamenti radar. Un esame delle immagini satellitari ha mostrato che all’inizio di venerdì c’erano posizioni dell’IDF a nord e a sud dell’ospedale”. Da dove, cioè, sono partiti i colpi.
Non solo: “Gli attacchi analizzati dal Times non sembrano aver preso di mira le infrastrutture sotterranee. Due dei raid più gravi hanno colpito il reparto maternità ai piani superiori”… inutile commentare.
Il NYT aveva già smentito, nei primi giorni di guerra, il video che l’IDF aveva portato come prova che la prima, massiva, strage avvenuta ad al Shifa era stata occasionata da un missile della controparte.
John Kirby, portavoce del Consiglio di Sicurezza Usa, in una conferenza stampa ha affermato: “Non abbiamo dato l’ok alle loro operazioni militari presso l’ospedale – non diamo l’ok alle altre loro operazioni tattiche. Queste sono operazioni militari israeliane che pianificano loro”. L’imbarazzo dell’amministrazione Biden è palese, lo strombazzato “ordine basato sulle regole” ha una strana declinazione in Medio oriente. Ma nulla fanno per frenare.
Non solo la mattanza a Gaza Nord. Questo il titolo di un articolo di Haaretz del 12 novembre: “Mentre bombarda Gaza, Israele spara per uccidere i palestinesi in Cisgiordania”. Alcuni giorni fa, un articolo su al Jazeera dal titolo “L’inferno a Gaza Sud”, che documentava come anche nella cosiddetta zona sicura, nella quale sono stati fatti evacuare i palestinesi di Gaza Nord, si muore per colpi più o meno accidentali delle forze israeliane, malattie e sfinimento. La pagina è stata chiusa… tant’è.
Al Jazeera: Aggiornamenti sulla guerra Israele-Hamas: palestinesi uccisi nell’attacco israeliano a Jabalia
Quanto durerà? Così Amos Harel su Haaretz: “Il ministro degli Esteri Eli Cohen […] ha valutato lunedì che la finestra di opportunità diplomatica di Israele si è ridotta a due o tre settimane. Questa è più o meno anche la valutazione espressa più o meno sottovoce dall’establishment della difesa. Il ministro della Difesa Yoav Gallant vuole molto più tempo”. Probabile che vinca la prima prospettiva, ma non sarebbe la fine; le forze israeliane dovrebbero procedere con “operazioni mirate”, scrive Harel, come suggerito dagli americani.
I palestinesi di Gaza, e di altrove, sono allo stremo. Se tale situazione prosegue, il genocidio non potrà essere occultato. Si ricordi che il genocidio degli armeni, che coinvolse 1.200.000 persone, non fu consumato con un eccidio di massa, ma spingendoli a marce forzate in cui a “centinaia di migliaia morirono per fame, malattia o sfinimento“. Nel caso di Gaza non ci saranno marce, ma l’esito rischia di essere lo stesso.
Il noto giornalista già vincitore del Premio Pulitzer Seymour Hersh ha ribadito, citando le sue fonti che, in pratica, gli Stati Uniti d’America non hanno più il controllo di Israele nel massacro che si sta consumando nella Striscia di Gaza, avvertendo che “a Washington si osserva un vuoto di potere”.
Nella sua piattaforma Hersh su questo aspetto ha scritto che il segretario di Stato americano Antony Blinken sembra apparire “in un continuo stato di smarrimento, mentre [il primo ministro israeliano Benjamin] Netanyahu continua a fare quello che vuole a Gaza.”
Citando un funzionario a conoscenza della questione, il reporter, esperto di questioni mediorientali, ha citato un funzionario, ha spiegato che “c’è un vuoto di potere a Washington”, non solo, “nessuno dirige lo spettacolo”, mentre in questo scenario gli Stati Uniti continuano a inviare armi a Israele. “C’è il caos alla Casa Bianca. Dicono sempre le stesse cose”, ha raccontato la fonte, mentre le autorità americane si stanno adoperando con ogni mezzo per aiutare Joe Biden nella sua rielezione alla Casa Bianca.
Hersh è partito dal punto che Netanyahu vuole che Hamas sia eliminata. Il funzionario statunitense ha spiegato al giornalista che l’esercito israeliano (IDF) “sta distruggendo le strutture precedentemente bombardate” con lo scopo di distruggere i tunnel e non renderli più utilizzabili. Per rendere l’idea di quello che sta avvenendo a Gaza, la fonte ha spiegato a Hersh che “la città di Gaza ora assomiglia all’Amburgo del 1943”, bombardata da Regno Unito e Stati Uniti.
Hersh ha spiegato che Israele aveva ipotizzato di riempire i tunnel con gas lacrimogeni ed esplosivi CS. “Il CS è una forma migliorata di gas lacrimogeno, ampiamente utilizzato come agente sedativo antisommossa. Ciò potrebbe anche salvare la vita dei soldati israeliani durante l’assalto ai sistemi di tunnel”.
Secondo il giornalista il piano di Israele, una volta terminata la guerra, è quello di istituire, attraverso le sue forze militari o di polizia “un’Autorità Palestinese rivitalizzata, sotto la nuova leadership approvata da Israele”. Una fonte israeliana aggiornata sui piani di Netanyahu, ha riferito che è al vaglio delle ipotesi quella “trasformare tutta Gaza in una delle aree della Cisgiordania che, secondo gli accordi di Oslo, è ora sotto il controllo della sicurezza israeliana”. Quindi, in questo modo Israele controllerà chi arriva e chi lascia Gaza. “I confini con l’Egitto rimarranno [sotto il controllo di] Israele e non dell’Egitto, come in passato”, ha detto.
Favoreggiamento del genocidio a Gaza, è l’accusa, secondo quanto ha riferito Al-Jazeera ieri, con la quale il Centro per i Diritti Costituzionali (CCR) ha citato in giudizio il Presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, rispettivamente i Segretari di Stato e alla Difesa, Antony Blinken e Lloyd Austin, per “incapacità di prevenire e complicità nel genocidio in atto da parte del governo israeliano”.
Il CCR si rese protagonista anni fa di un contenzioso che si risolse con una vittoria contro l’ex Presidente USA G.W Bush riguardo il riconoscimento del diritto di rappresentanza legale dei prigionieri di Guantanamo.
L’organizzazione per i diritti umani ha intentato questo procedimento rappresentando le organizzazioni palestinesi per i diritti umani, dei palestinesi di Gaza e dei cittadini statunitensi con parenti intrappolati nella Striscia assediata.
Nella sua denuncia il CCR ha ricordato che “numerosi leader del governo israeliano hanno espresso chiare intenzioni genocide e hanno utilizzato caratterizzazioni disumanizzanti dei palestinesi, compresi gli ‘animali umani’”.
Inoltre, ha osservato che le “dichiarazioni di intenti”, unite con le “uccisioni di massa” di palestinesi, confermano “la prova di un crimine di genocidio in corso”.
Su questa linea anche lo storico israeliano e studioso dell’Olocausto Raz Segal ha ribadito che la campagna di bombardamenti israeliana è “un caso di genocidio da manuale”.
Le vittime palestinesi a Gaza aumentano ogni giorno, sono più di 11.000, quasi la metà sono bambini, ma il sostegno finanziario e militare a Israele non solo si è intensificato, ma dalla Casa Bianca è giunto anche il rifiuto nel fissare termini sull’uso delle armi statunitensi utilizzate a Gaza.
“Immediatamente dopo il lancio della campagna di bombardamenti senza precedenti di Israele su Gaza, il presidente Biden ha offerto un sostegno ‘incrollabile’ a Israele, che lui e i funzionari dell’amministrazione hanno costantemente ripetuto e appoggiato con sostegno militare, finanziario e politico, anche se le vittime civili di massa aumentavano parallelamente la retorica genocida israeliana”, ha lamentato il CCR.
Nella denuncia si evidenzia che, dal momento che Washington è uno stretto alleato di Israele e il maggiore fornitore di armi, potrebbe rappresentare “effetto deterrente sui funzionari israeliani che ora perseguono atti di genocidio contro il popolo palestinese”.
Al contrario, Biden, Austin e Blinken “hanno contribuito a portare avanti il ??più grave dei crimini”.
Astha Sharma Pokharel, un avvocato del CCR, ha dichiarato ad Al Jazeera: “Hanno una responsabilità significativa ai sensi del diritto internazionale consuetudinario, secondo il diritto federale, per prevenire questo genocidio, per smettere di sostenere questo genocidio. Ad ogni passo, ad ogni occasione, hanno fallito. Hanno continuato a fornire copertura a Israele; hanno continuato a fornire sostegno materiale a Israele, e attualmente intendono inviare più denaro e più armi a Israele”.
Ha perso cinque parenti a causa dei bombardamenti israeliani a Gaza dal 7 ottobre scorso la cittadina statunitense rappresentata dal CCR, Laila al-Haddad che con amarezza racconta: “Ho pagato perché Israele uccidesse i miei cugini e mia zia, non c’è niente da fare”. Ed ha aggiunto: ”Sono stati i soldi delle mie tasse a farlo, a mandare quelle bombe in Israele per uccidere la mia famiglia. E quindi sento che io e tutti gli altri contribuenti americani abbiamo la responsabilità unica di ritenere responsabili il nostro governo e i nostri funzionari eletti”.
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