QED 104: “Quando c’era lei i treni non arrivavano in orario!”

(…nel giorno dell’Assunzione, commentiamo la discesa agli inferi di una Angela caduta…)

Il successo del blog che non c’è (questo) può essere ricondotto a varie cause: i temi affrontati, la qualità della scrittura, l’approccio adottato, e via dicendo. Credo che molti di voi siano rimasti convinti e coinvolti, in particolare, dalla capacità del blog che non c’è di aiutarvi a prevedere lo sviluppo prossimo e meno prossimo degli eventi in base a un rigoroso ragionamento economico condensato in formule elementari, formule caratterizzate da quella semplicità, da quella economicità in cui risiede la cifra estetica della vera scienza. Prima fra tutte, l’identità dei saldi settoriali, qui spiegata e applicata plurime volte (uno dei ripassi e delle applicazioni più interessanti è qui e riguarda la Francia) ma della quale certamente non può nuocere ripercorrere brevemente il senso, anche per radicare nel (buon)senso economico certe affermazioni e certe categorie che nel dibattito minor vengono sistematicamente travisate.

Il punto di partenza è molto semplice, così semplice e ovvio che regolarmente lo si ignora (il triste destino delle umili verità): in un’economia di mercato si produce per vendere e quindi per guadagnare, il che significa, in buona sostanza, che il valore del prodotto di un sistema economico equivale alla spesa complessiva effettuata per acquistare i beni prodotti, e alle remunerazioni (salari e profitti) complessive di chi li ha prodotti.

Insomma: quando parliamo di Pil (prodotto interno lordo) stiamo parlando non solo del valore della produzione (sottolineo che non si possono sommare mele e clarinetti, ma si può sommare il loro valore, che si ottiene applicando alle quantità fisiche – un chilo di mele, un clarinetto… – il prezzo di mercato), ma anche, necessariamente, della spesa effettuata per acquistare questa produzione, e quindi, necessariamente, dei redditi percepiti da chi ha prodotto i beni. Insomma: in economia la domanda contabilmente deve uguagliare l’offerta (immaginatela come una specie di legge di Lavoisier dell’economia), e quindi il prodotto contabilmente uguaglia la spesa, e siccome i soldi spesi dagli acquirenti privati e pubblici non finiscono in un vulcano, come nell’immaginazione di certi libberisti alle vongole, ma nelle tasche dei venditori e quindi dei produttori, la spesa necessariamente uguaglia il reddito. Ne consegue che ci sono tre modi per calcolare il Pil, e tutti e tre portano allo stesso risultato: come somma dei valori aggiunti dei singoli settori (lato produzione), come somma delle spese effettuate, distinte per categoria di acquirente (lato spesa o domanda che dir si voglia), e come somma delle retribuzioni percepite (lato reddito). Abbiamo illustrato questa equivalenza in dettaglio quando l’abbiamo utilizzata per spiegare il miracolo lettone (un miracolo con la “m” di massacro sociale, come tutti i miracoli “europei”).

Se avete capito questo (e molti, direi praticamente tutti fuori di qui, non lo hanno capito), non avete bisogno di molto altro. Il resto sono simboli che ci permettono di elaborare algebricamente questa tautologia (il prodotto venduto è prodotto comprato) conferendole un minimo di valore ermeneutico, assistendoci cioè nell’interpretazione delle traiettorie macroeconomiche.

Si parte dall’idea che il prodotto-reddito-spesa è la “variabile dipendente” del sistema macroeconomico, e quindi le si attribuisce il simbolo matematico della variabile dipendente, Y. Questo Y, che è il Pil, può essere espresso come somma della spesa delle famiglie per Consumi, delle imprese per Investimenti, del Governo per l’erogazione (e quindi lato utente il consumo) di servizi pubblici, del settore estero per il nostro eXport, che è acquisto di nostri beni da parte di residenti esteri. Ovviamente dovremo sottrarre dalla nostra produzione-reddito-spesa la spesa in beni iMportati, perché si tratta di acquisto da parte nostra di beni che sono stati prodotti, e quindi hanno generato reddito, altrove.

Discende da qui l’identità risorse-impieghi:

Y = C + I + G + X – M

un banale dato contabile che solo un cretino potrebbe contestare (scaturisce direttamente dalle definizioni della grandezze macroeconomiche), ma di cui solo persone istruite riescono a cogliere tutte le implicazioni.

La principale deriva dalla definizione di risparmio, che altro non è che la differenza fra quanto le famiglie guadagnano (Y) e quanto consumano (C+G):

S = Y – C – G

con la “s” di saving (risparmio in inglese).

Ricordandoci quella magia algebrica che va sotto il nome di regola del trasporto, possiamo riscrivere l’identità del Pil così:

Y – C – G – I = X – M

e sostituendo la definizione di risparmio arriviamo dove ci serviva di arrivare oggi:

S – I = X – M

L’eccedenza (deficienza) del risparmio nazionale sugli investimenti nazionali deve essere identica all’eccedenza (deficienza) delle esportazioni sulle importazioni.

Questa semplice verità contabile ci assiste nell’interpretare alcuni fatti macroeconomici rilevanti. Ad esempio, come abbiamo più e più volte ricordato, se un Paese è in surplus estero, cioè esporta più di quanto importi, necessariamente si verificherà almeno una delle seguenti tre cose:

  1. o le sue famiglie consumano relativamente poco (quindi C è relativamente basso e S relativamente alto);
  2. o lo Stato fornisce una quantità relativamente ridotta di servizi pubblici (quindi G è relativamente basso e S relativamente alto)
  3. o le sue imprese (e il suo settore pubblico) investono poco (quindi I è relativamente basso).

Insomma: se X è maggiore di M, S deve essere maggiore di I, e questo risultato lo si ottiene o facendo crescere S o facendo scendere I. Non c’è nulla di magico! Semplicemente, se quel Paese i beni che produce li consumasse lui (e quindi avesse un C e un I alto), non ne avrebbe da esportare. Il mercantilismo (orientamento di politica economica che consiste nel darsi l’obiettivo di massimizzare le esportazioni) è necessariamente repressione relativa della spesa interna (di famiglie o di imprese, pubblica o privata). Dico relativa perché finché dura, cioè finché l’estero compra, può benissimo darsi che nel Paese mercantilista i consumi relativamente bassi (rispetto al reddito nazionale) delle famiglie siano relativamente alti rispetto ai consumi di altri Paesi (ma questo non necessariamente allieta le vittime di simili politiche).

Una delle cose che è stato più difficile far capire ai cialtroni autorazzisti nostri gentili interlocutori è stata che il relativo successo della Germania in termini di conti con l’estero, cioè il suo surplus estero strutturale, dipendeva da una sostanziale repressione degli investimenti. L’idea che la Germania fosse in surplus perché avendo fatto importanti investimenti aveva acquisito una superiore produttività che le consentiva di vendere prodotti a prezzi inferiori era fallace. La fallacia anche qui era nel manico, cioè nel concepire la produttività come un fenomeno di offerta (secondo l’idea ingegneristico-neoclassica del processo produttivo) anziché di domanda (secondo l’idea economico-smithiana-keynesiana del processo produttivo). Non mi dilungo su queste distinzioni, di cui ho parlato ad esempio qui. Sul perché il ragionamento non fili si può discutere, e non è detto che sia una perdita di tempo: qui mi limito ad ribadire che il ragionamento platealmente non fila in quanto la Germania non è stata il campione europeo di investimenti. 

Avevamo evidenziato questa semplice verità dieci anni or sono, in questo post, da cui è tratta questa immagine:

che mostrava come nel periodo di gestazione della grande crisi del 2008-2011, prima dell’arrivo dell’austerità “che fa crescere”, la Germania fosse stata il fanalino di coda degli investimenti europei. 

Come sempre, quelli bravi c’erano arrivati un pochino dopo. Ci vollero cinque anni perché Bruegel mettesse in relazione il surplus estero tedesco con la debolezza degli investimenti tedeschi:

ma naturalmente nemmeno questo servì a estirpare la malapianta dell’autorazzismo piddino: i poveri piddini tuttora vivono nell’illusione di essere splendide eccezioni in un failed State popolato da Untermenschen (voi), un Paese per colpa vostra (certo non loro!) incapace di uguagliare i traguardi di disciplina (e quindi di oculatezza e di produttività) delle Panzer-Divisionen tedesche.

Traguardi che ieri, con una tempistica un po’ sfortunata (per la Fondazione per la sussidiarietà), venivano così eloquentemente illustrati dal Times:

Eh già! Sarà anche vero quello che ci diranno in autunno i sussidiaristi (che in tempi non sospetti hanno dato attenzione al blog che non c’era, motivo per valutare con attenzione i loro argomenti):

(e sarà anche interessante vedere se su quali dati basano le loro analisi e quanto siano disposti a risalire la catena delle cause), ma il fatto è che in conseguenza del grafico che vi ho fatto vedere nel 2013 la situazione nel 2023 è questa:

Gli Svizzeri sono costretti a rifiutare l’accesso alla loro rete ferroviaria ai treni tedeschi perché questi sono in sistematico ritardo e quindi sconvolgono il traffico (e la puntualità) delle Ferrovie Federali Svizzere: un risultato pessimo, quello delle ferrovie tedesche, peggiore di quello delle FS (rectius: di Trenitalia), che invece riesce ad accedere alla rete svizzera con relativa puntualità e senza sconvolgerne il traffico (apprezzerete anche la definizione britannica di piddini: foreigners seduced by stereotypes of German superiority).

Secondo il Times il problema nel 2023 è ovviamente (lo ribadisco) quello che vi evidenziavo nel 2013 e che non poteva non manifestarsi a tempo debito (le logiche della scienza economica sono ferree):

Ci siamo soffermati a lungo su quanto fossero fuori luogo i peana levati dai nostri ascari all’indirizzo di una persona che ha trasformato l’Eurozona nel buco nero della domanda mondiale (la signora Merkel). Dalla sua scomparsa alla sua demonizzazione (cioè al ristabilimento di un minimo di verità storica) sono passati pochi mesi: della Merkel, come di Monti, oggi nessuno, tranne qualche autentico deficiente, rivendica di aver tessuto le lodi, perché oggi si manifesta come incontrovertibile quanto vi dissi illo tempore (nel 2011) sul Manifesto: la Germania stava segando il ramo su cui era seduta. Certo, questa semplice verità (X-M = S-I) aveva un corollario: tutti noi eravamo, e siamo, seduti su rami più bassi (e infatti ora la recessione tedesca ci sta frenando, esattamente come il ritardo dei treni tedeschi sta rallentando i treni svizzeri).

Va da sé che una rete infrastrutturale non si mette (o rimette) su in un giorno, né in un giorno o in un anno si smantella. Per questo i brillanti risultati del mercantilismo tedesco (cioè dello spingere X-M tagliando I) si vedono oggi. Ma non è che non ci fossero stati segnali eloquenti già ai tempi: ricordate ad esempio la storia dell’aeroporto di Berlino?

Nove anni di ritardi e corruzione, che però, essendo alemanna, supponiamo sia stata corruzione benigna, come certe pericarditi.

Mi sembra tuttavia che il ritardo sistematico dei treni tedeschi, considerati ormai meno affidabili di quelli italiani dagli svizzeri, sia il miglior QED del post che scrivemmo dieci anni or sono.

Resta, prima di lasciarci, da espletare un ultimo doveroso compito, in questo che, pur non esistendo, è l’unico organo di informazione del nostro desolato e amato Paese: aggiornare i dati. La Germania è ancora il fanalino di coda degli investimenti in Europa? Ovviamente no, e il motivo dovreste intuirlo. Per illustrarvelo vi riproduco con i dati odierni (tratti da qui) il grafico di dieci anni fa, con le medie 1999-2007, e il suo aggiornamento, con le medie 2008-2022:

Com’è ovvio, la stagione dell’austerità ha compresso gli investimenti dei PIGS, che quindi sono scesi in graduatoria, facendo risalire la Germania. Osserverete però che gli investimenti tedeschi non sono aumentati, in rapporto al suo Pil, e si presume quindi che siano sempre relativamente insufficienti: sono invece diminuiti quelli dei PIGS, che certamente sono diventati insufficienti. Qui in Italia la copertura politica a questa operazione l’ha data il PD, che ora, nel suo consueto stile, incolpa “le destre”…

Due brevi considerazioni.

La prima è che il titolo del Times è tutto sommato compatibile con le analisi della Fondazione per la sussidiarietà. Certo: se ci limitiamo agli ultimi dieci anni, largamente coincidenti con quelli dell’austerità, è chiaro che rileveremo in Italia un livello di investimenti relativamente compresso. Sarà interessante vedere se il rapporto della Fps attribuisce questo dato a congiunzioni astrali o a scelte politiche che hanno un nome e un cognome: PD. La seconda è che la leadership europea, a trazione tedesca, ha scientemente tentato di ridurre l’Italia come la Germania. Del resto, le identità valgono per tutti, anche per noi, ed è quindi ovvio che l’esplosione del nostro surplus estero, di cui parlavamo qui, evidenziandone le catastrofiche conseguenze geopolitiche, anche da noi si sia tradotta in un taglio degli investimenti (non essendo certamente dovuta a un incremento dei risparmi, data la stagnazione dei redditi!), col conseguente degrado della qualità delle infrastrutture. Se questo degrado arriverà al livello di quello tedesco lo sapremo fra qualche anno, ma tenderei a credere di no. Non mi aspetto fra cinque o sei anni titoli del Times sui ritardi italiani che bloccano i treni svizzeri, ma come tutte le affermazioni del blog che non c’è anche questa è un’affermazione scientifica, cioè falsificabile.

Basta avere pazienza, e io ne ho tanta.

Suggerisco anche a voi di dotarvene.

Sarà mia cura cercare di dimostrarvi che ne vale la pena, ma in ogni caso… TINA! Nel prossimo post vi aiuterò a fare di necessità virtù…

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“QED 104: “Quando c’era lei i treni non arrivavano in orario!”” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.