“Ma lei è Totti?”

Ieri ero di turno al TG per annunciare la lieta novella del DEF. Solito circo di fronte a Montecitorio, sotto all’obelisco, selva di microfoni, telecamere, e telecamerine.

Un’apoteosi di spontaneità, in 20 secondi.

Pronti via, faccio la mia dichiarazione, ma… un microfono non parlava con la sua telecamera. L’operatore ferma tutto, si riparte.

Pronti via, mi impapero (strano ma vero, può capitare anche a me).

Ri-pronti ri-via, dico quello che devo dire (anche se in modo meno liberatorio di quanto avrei a quel punto desiderato), mi congedo con un sorriso, faccio due chiacchiere con la cortese ed efficiente accompagnatrice dell’ufficio stampa (loro sono convinti che in loro assenza i giornalisti mi mangerebbero e io apprezzo la loro premura – e anche se loro non lo sanno, la apprezzano anche i giornalisti!), e mi allontano verso nuove avventure (leggere noiosi paper sulle criptovalute per farvi divertire un po’ sabato prossimo).

Mentre dribblo vari gruppetti e gruppuscoli di turisti e astanti vari, impedimento abbastanza gravoso a chi deve rimbalzare da un palazzo all’altro, sento uno: “Scusi, ma lei è Totti?”

Un giovine (molto giovine) con due amiche era di passaggio di fronte a Montecitorio, e suppongo fosse colpito da tanto interesse delle televisioni (addirittura!) per uno che non sapeva assolutamente chi fosse, con lo spirito disincantato e ironico del romano probabilmente voleva capirne di più.

Io mi avvicino, mostro la suola delle mie francesine d’ordinanza, e con un sorriso accogliente replico: “Sì, sono io, vedi i tacchetti? Ora scusa che vado ad allenarmi…”.

(…mi aveva punto vaghezza di spiegargli un po’ meglio la situazione, ma dovevo dedicare il mio tempo a voi, e quindi è andata così. Di una cosa sono certo: lui, il TG, non l’avrà visto. E voi? E vi ricordate di quanto: “Non andrai mai in televisione perché il potere sono cattivi e tu non hai dietro nessuno!11!1!” Beh, io avevo dietro la mia libreria, o voi, a seconda delle interpretazioni, e il problema della televisione ora non è andarci, ma evitare la seccatura, nonostante che a volte mi riservi dei faticosi momenti di ilarità, come questa mattina:

Il tempo passa, i problemi restano, le soluzioni cambiano, ma nemmeno tanto…)


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““Ma lei è Totti?”” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Il MES e l’OMS

Un paio di giorni fa, affacciandomi alla cloaca nera, mi sono imbattuto casualmente in questo tweet degli amici di RadioRadio, fra i pochi con cui parlo volentieri perché mi hanno dato voce quando non erano costretti a farlo:

Mi è venuto spontaneo commentarlo:

citando un episodio di cui ero stato protagonista, verosimilmente dimenticato da molti dei pochi che lo conobbero all’epoca. Non da tutti, però, tant’è che Sherpa810 mi rispondeva così:

facendomi trasalire: quello che vedevo era un tweet di una mia chat! Com’era possibile?

Era possibile perché il 3 dicembre 2019 Claudio era andato a Omnibus a raccontare, appunto, quello che mi era capitato il 12 giugno di quell’anno, e lo aveva fatto con dovizia di particolari, al punto da fornire alla regia un mio Whatsapp, su mia autorizzazione conferitagli alle 19:13 del giorno prima (come risulta dagli archivi), che ovviamente mi ero dimenticato di avergli dato, e che sarebbe comunque stata superflua. Dell’intuito di Claudio mi fido abbastanza!

La gravità dell’evento però non sconvolse nessuno: i migliori amici dell’uomo (che si vuole informare) non fecero titoloni né allora né dopo per evidenziare che il testo di un Trattato così importante era stato scrupolosamente sottratto al vaglio parlamentare, prima di approvarlo in sede europea, facendo strame di quanto l’ordinamento prevede sulla partecipazione del parlamentari nazionali al processo legislativo europeo, disciplinata dalla cosiddetta “Legge Moavero”, e in particolare dal suo articolo 5:

“Il Governo informa tempestivamente” non si traduce con “il Governo ti rinchiude in una stanza con un giovane e brillante consigliere parlamentare degradato al ruolo di bidello durante il tema di italiano delle scuole medie”…

Perfino i giornaletti de l’asinistra, quelli che tanto si erano commossi per le vicende del memorandum greco (approvato come poi qui è stato approvato il PNNR), o del TTIP (sottratto allo scrutinio parlamentare in modalità analoghe a quelle qui applicate alla riforma del MES), non avevano fatto nemmeno “pio” di fronte a cotanta enormità, del tutto ingiustificata. In effetti, quando Alessandro Rivera, un altro dei protagonisti di questa vicenda, in un incontro a margine di una delle mie tante visite al MEF, il primo aprile del 2019, mi aveva opposto l’obbligo di segreto professionale stabilito dall’art. 34 del Trattato, io ancora non sapevo, perché ancora non me lo aveva detto Alessandro Mangia, che me lo avrebbe detto il 7 gennaio del 2020, che per esplicita clausola della dichiarazione interpretativa stipulata in sede di ratifica:

a un parlamentare il segreto non poteva essere opposto!

Che questa cosa non la sapessi io era abbastanza grave: evidentemente non avevo studiato abbastanza. Che non la sapesse Rivera, però, era un po’ difficile, o forse no, considerando i tanti “successi” collezionati nella sua carriera di civil servant.

Ma questo è il passato.

Una legge non assistita da sanzioni tranne quelle di tipo politico e reputazionale non è, nei fatti, una legge (non se ne dispiaccia l’ottimo Prof. Moavero Milanesi): praticamente tutti i rapporti fra il nostro Parlamento e il Parlamento europeo avvengono in violazione o disapplicazione di quella legge, senza che si sappia a che santo rivolgersi (alla Corte Costituzionale?… Lasciamo stare…), e quindi possiamo dire che la prassi regna sovrana (e va bene così). La sanzione politica di questa scorrettezza abominevole c’è stata: il voto del 21 dicembre scorso contro la ratifica. Questo conta, e il resto lo lasciamo alle nostre memorie.

Fatto sta che io il passaggio televisivo del 3 dicembre 2019, che peraltro faceva seguito anche a un passaggio parlamentare in cui Claudio, sempre consultandosi con me, mi aveva chiesto (il 29 novembre) di citare l’episodio, me lo ero perso, e questo mi ha dato spunto per rivedere e mettere in sicurezza un po’ di cosette.

Ad esempio, la chat in cui quel Whatsapp era stato diffuso. 

Trattasi di uno dei 64 gruppi in comune con Claudio, cui se ne aggiungono almeno altri 37 cui Claudio non partecipa (come lui ne avrà cui non partecipo io), tutti creati per il coordinamento delle attività parlamentari a vario livello (con membri di Governo, senza membri di Governo, con gli alleati, senza gli alleati, circoscritte o non circoscritte agli uffici di Presidenza, circoscritte o non circoscritte a un ramo del Parlamento, congiunte con più Commissioni, dedicate a un particolare provvedimento – ad esempio la legge di bilancio – o a una particolare area tematica, ecc.). E qui sto parlando, ovviamente, della legislatura precedente, dalla quale non tutti i gruppi sono stati ereditati (alcuni sono stati rifatti tenendo conto dei nuovi ruoli e della nuova composizione dei gruppi, altri sono caduti in desuetudine, ecc.). Per dire, e per far capire che cosa fa un “capo dipartimento economia”, dei 64 gruppi in comune con Claudio 35 li ho messi su io, 3 lui, e 26 sono stati tirati su da una ventina di altri soggetti vari (otto sono stati creati da membri di Governo, quattro da collaboratori, altri da colleghi parlamentari…). Quando qualcuno rimarca che c’è tanto lavoro che non si vede, ha ragione! E la parte più ingrata ma essenziale del lavoro è coordinare il lavoro degli altri, cosa che si fa prevalentemente per messaggio: il modo più pratico di tenere tutti allineati, di commentare la rassegna stampa, di condividere bozze di documenti, di darsi appuntamenti volanti nei ritagli del tempo di aula, ecc. Sono le tre ore al giorno che passo su Whatsapp di media, a “giocare” col telefonino (secondo i fascisti delle statistiche), spesso per alzare le palle che altri schiacciano: l’uomo macchina vive nell’ombra, e va bene così. Questo, del resto, è uno dei tanti motivi per cui la retorica del “proporzionale puro” con cui “erbobolobuonogiustoesando” eleggerebbe “erijorerappresentanteviscinoarderidorio” non mi convince particolarmente. Un simile meccanismo crea un sistema di incentivi che spinge a fare casino inutile (per avere visibilità sul “deridorio”), non lavoro utile.

Ma di questo parleremo in altre occasioni.

Ho così ripercorso la storia di quel gruppo ristrettissimo (quello che era finito sullo schermo di Omnibus):

scoprendo una cosa che avevo dimenticato: quel gruppo lì, che è ancora oggi il più attivo, era stato creato nel pomeriggio del 12 giugno 2019 in risposta a una condizione di emergenza: sapevamo che Conte si accingeva a approvare una riforma di cui non conoscevamo i contenuti e dovevamo gestire questa situazione incresciosa. Ricordo l’angoscia di quei giorni, la rabbia con cui sperimentavamo l’impossibilità di indirizzare il “nostro” Governo, di assicurare la fedeltà di Conte nelle sedi europee (difficoltà ampiamente esemplificata da questo episodio), l’imbarazzo dei funzionari, lo sforzo per mantenere freddezza di fronte a un dissimulatore pericoloso…

Ecco, nel pensare a quei momenti, alle riunioni nel salottino giallo di Chigi, ai sussurri scambiati in anticamera, allo sconcerto degli alleati, a tante concitate emozioni, al fatto che su quella roba lì, cinque anni fa, avevamo fatto cadere Conte (perché quello che i coglioni chiamano il Papeete in realtà era stato il discorso di Pescara, e dietro quel discorso c’era anche questo episodio, che aveva convinto alla fine, buoni ultimi, anche me e Claudio che si dovesse passare con gli “staccaspinisti”, che erano la stragrandissima maggioranza, e direi la totalità dei membri di Governo…), nel pensare a tutto questo mi veniva da fare qualche riflessione sul tempo, sui frutti che porta, e sull’usura che procura.

Partiamo da qui.

Quando, il 21 dicembre dell’anno scorso, intervenni in aula:

restituendo a tanti piccoli Efialte quanto gli dovevo, quando schiacciai la testa del serpente premendo il tasto rosso, non provai quella gioia, quel sentimento di liberazione, che cinque anni prima, se mi fossi potuto immaginare quel momento, avrei pensato di provare. La sensazione era quella nota a chi legge Proust:

Mais tandis que, une heure après son réveil, il donnait des indications au coiffeur pour que sa brosse ne se dérangeât pas en wagon, il repensa à son rêve, il revit, comme il les avait sentis tout près de lui, le teint pâle d’Odette, les joues trop maigres, les traits tirés, les yeux battus, tout ce que – au cours des tendresses successives qui avaient fait de son durable amour pour Odette un long oubli de l’image première qu’il avait reçue d’elle – il avait cessé de remarquer depuis les premiers temps de leur liaison dans lesquels sans doute, pendant qu’il dormait, sa mémoire en avait été chercher la sensation exacte. Et avec cette muflerie intermittente qui reparaissait chez lui dès qu’il n’était plus malheureux et que baissait du même coup le niveau de sa moralité, il s’écria en lui-même : « Dire que j’ai gâché des années de ma vie, que j’ai voulu mourir, que j’ai eu mon plus grand amour, pour une femme qui ne me plaisait pas, qui n’était pas mon genre ! »

Sì, va bene, avevo, avevamo vinto, ma poi? Tante passioni, tanti sforzi, a quale pro?

Nei 1653 giorni passati da quel 12 giugno 2019 avevamo lasciato per strada tanti amici che avrebbero voluto assistere a quel momento: da Antonio a Emanuele (e Marco ce l’ha fatta per un soffio), ma oltre a questi assenti giustificati avevamo perso per strada tanti… non so come definirli: grillini? Imbecilli? Vigliacchi? Sicuramente tanti deboli (di intelletto e di tempra) incapaci di capire che per schiacciare quel tasto il 21 dicembre, al 21 dicembre bisognava arrivarci, e che tante scelte da loro non capite una sola logica avevano: quella di resistere, di tenere la posizione.

Sì, per schiantare il MES (e Draghi) bisognava cuccarsi Draghi: un altro percorso non c’era, e se chi non lo capiva ex ante era giustificato, perché ex ante anche noi abbiamo avuto tanti dubbi e tante esitazioni, chi non vuole capirlo ex post è solo uno spregevole elminto. E la tristezza, in questo caso, non è tanto nell’aver perso per strada una simile viscida zavorra, quanto nel non essersi accorti di averla caricata a bordo, nell’essersi illusi di aver aggregato, parlando con razionalità e sincerità fin da quando avevo tutto da perdere nel farlo, persone ugualmente razionali e sincere. Non era così. Le contumelie degli sciocchi una certa usura l’avevano provocata. Era, più che altro, il dispiacere di non poter condividere il raggiungimento di un obiettivo anche con chi apparentemente lo aveva condiviso, ma non era arrivato, con la sua testa, a condividere i mezzi per conseguirlo. Questi mezzi non li avevamo scelti noi! Con una Lega al 40% le cose sarebbero andate in modo diverso, ovviamente. Questi mezzi li avevate largamente scelti voi, e c’era qualcosa di ingiusto, e anche di logorante, nel fatto che veniste a rinfacciarceli. Tanto per essere chiari, se avessimo lasciato libera di operare in Italia la maggioranza Ursula, anche la riforma del MES sarebbe passata subito in carrozza.

Usura, quindi, e incapacità di godersi, sia pure per un attimo, a livello emotivo, l’obiettivo raggiunto.

Certo.

Ma intento l’obiettivo era raggiunto, e questo ci diceva che 1653 giorni dopo non eravamo nella stessa condizione di 1653 giorni prima: avevamo portato a casa, scegliendo l’unico percorso che la SStoria ci aveva reso praticabile, un obiettivo che voi ci avevate chiesto di portare a casa. Vi avevamo dimostrato che votare, e aspettare, serve. Anche perché, per dirla tutta, quella storia non era iniziata il 12 giugno del 2019, ma molto prima. La storia della riforma del MES per noi era iniziata con questo scambio di messaggi in un’altra chat di coordinamento con Bruxelles:

(ovviamente messa su dal solito noto), ma la nostra attenzione era molto risalente, risaliva a quella telefonata dal 2012 (“Professòòòòòòre!”), e insomma un po’ di lavoro fatto lo trovate qui.

Dodici anni di lavoro per una vittoria di cui non ho potuto gioire quanto avrei immaginato, ma che indica pur sempre un progresso, il che, detto fra noi, mi rende incomprensibile l’atteggiamento di molti che vogliono negare che delle vittorie siano state conseguite, e che si abbandonano allo sconforto e al disfattismo.

Mi veniva anche da fare un’altra riflessione.

Il famoso tweet di Claudio sul MES, pubblicato il 28 giugno del 2023, il 19 luglio, cioè 21 giorni dopo, aveva fatto un milione di visualizzazioni. Il tweet sull’OMS, pubblicato l’11 febbraio di quest’anno, è ancora a un milione oggi, cioè 56 giorni dopo (nella giornata mondiale della salute, peraltro). Insomma, il tema OMS viaggia a metà della velocità. Eppure, ad affacciarsi nella cloaca nera, per un po’ sembrava che a nulla teneste più che a difendervi dall’OMS e dalla sua gestione della sanità globale!

Anche da qui, secondo me, ci sono un paio di lezioni da trarre, e sono contrastanti.

La prima è che non bisogna darvi retta: gli strepitanti sono una minoranza, per lo più nella stragrande maggioranza dei casi animata dall’unico desiderio di sottrarci voti, non di risolvere problemi, e quindi meglio non curarsene e non darle guazza. Tanto, se i numeri non ci sono, poi non si vedono: esattamente come non si stanno vedendo sotto al tweet dell’OMS (per carità, un milione è un milione, ma se hai molti follower e tieni fissato un post prima o poi ci arrivi:

Il punto è in quanto tempo ci arrivi: se ci sono numeri ci arrivi in fretta, come nel caso del MES, se invece i numeri sembra che ci siano, ma non ci sono, perché gli strepitanti sono i soliti quattro gatti per di più nemici, non ci arrivi in fretta).

La seconda è che bisogna darvi retta, bisogna dedicarvi tempo. La riforma MES riguarda il vostro portafogli, ed è una cosa abbastanza esoterica (single limb CACS, maggioranze qualificate, capitale sottoscritto e versato, SRF backstop: siete sicuri di sapere tutti di che cosa stiamo parlando?). L’OMS riguarda la vostra pelle ed è una cosa abbastanza esplicita: “al prossimo starnuto vi chiudiamo in casa e buttiamo la chiave” (banalizzo, ma insomma ci siamo capiti: lockdown è parola più intelligibile di backstop). Ci siamo spesso chiesti perché la riforma del MES catalizzasse tanta attenzione. Non ci siamo ancora chiesti, forse lo faremo domani dopo aver letto questo post, perché l’OMS, che in fondo è un pericolo più grave ma anche più arginabile (dato che non riscontra a livello mondiale l’unanimità che il MES aveva riscontrato a livello europeo) non riesce a mobilitare altrettanta attenzione, per di più in un pubblico che dovrebbe essere galvanizzato dal fatto di aver appena conseguito una vittoria importante, quella sul MES (ma galvanizzato non è: lo dimostrano i numeri del #midterm e quelli del tweet OMS). Credo che la risposta sia, appunto, che bisogna darvi retta, che bisogna dedicarvi tempo. Dietro al tweet sul MES c’erano oltre dieci anni di lavoro, fatto in particolare qui, in tante discussioni, poi in tutti gli incontri organizzati da a/simmetrie, in infiniti nostri incontri pubblici in giro per l’Italia. Il tema OMS nasce su Twitter, un Goofynomics sanitario non c’è (ci sono tanti bravi ragazzi, ma…), il lavoro sottostante in termini divulgativi è quindi relativamente inferiore, al di là degli strepiti di qualche Erinni strepitante spesso sul nulla… sul nulla e dal nulla nasce il nulla, o almeno il poco. E questa forse è un’altra spiegazione del perché certi temi appassionino più di altri: perché hanno radici più lunghe.

Ma forse ce n’è un’altra ancora: quello che ci ha riuniti qui è stata la coscienza di quanto fossero pericolose, oltre che odiose, le istituzioni europee, e il MES appartiene al loro infausto novero. Non è stato semplice, ahimè, forse perché ci si è investito poco (io ci ho scritto un libro e qualche post, ma evidentemente il core business era un altro) trasmettere la consapevolezza che il problema è un pochino più ampio, che le istituzioni che esercitano un potere invasivo sulle nostre vite, tanto più difficilmente arginabile quanto più indiretto e sottile, sono tutte quelle della globalizzazione, e quindi l’OMS, ma anche l’OCSE (che tanto ha da dire e consigliare ad esempio sui nostri figli o sulle nostre pensioni), l’IEA (che tanto ha da dire sul nuovo feticcio della sinistra, il clima), ecc.

Per ritornare a essere arbitri del nostro destino è tanto necessario liberarsi dal cappio europeo quanto dalla rete di questo soft power. Senz’altro un vaste programme, non lo discuto. Ma se siamo riusciti a liberarci del MES, potremmo anche liberarci dall’OMS. Le condizioni sono due: crederci, ed essere presenti.

Per questo motivo, chi ancora non l’ha fatto vada a sostenere il tweet di Claudio, e si ricordi che al #midterm c’è ancora posto: sta a voi dare il segnale, e il primo errore da non fare è pensare che “tanto lo darà un altro”.

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“Il MES e l’OMS” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Chi di sussidio ferisce, di sussidio perisce

Cominciamo da un disegnino, questo:

Tutto questo rosso, il colore del sangue e degli ipocriti, trasferisce una certa inquietudine, vero? Non diminuirà quando vi avrò spiegato che cosa significa.

LOLE è Loss Of Load Expectation, definita come numero atteso di ore all’anno in cui una quota parte della domanda attesa di energia elettrica non è coperta dal sistema, per vincoli dal lato della produzione o del trasporto (la rete elettrica).

Lo standard di affidabilità (reliability standard) del sistema, fissato dal DM 28/10/2021, è definito come LOLE<3:

ovvero la rete viene considerata affidabile se il numero atteso di ore in cui non tutta la domanda viene soddisfatta resta inferiore alle tre ore in un anno.

La figura è riferita all’anno 2028 e indica che in tutte le regioni italiane si avranno valori di LOLE superiori a 100, cioè che nel 2028 la rete sarà pericolosamente inaffidabile, con elevato rischio di black out. Attenzione: è uno scenario, e dopo vi dirò quali siano le ipotesi e chi ne sia l’autore. Prima però permettetemi una considerazione. L’ultimo black out serio in Italia lo ricordiamo tutti: Uga aveva un mese esatto! Ventuno anni dopo la nostra vita dipende molto più intensamente da una fornitura stabile di energia elettrica, e questo perché siamo diventati tutti “digitali”. Una quantità di funzioni di estrema rilevanza pratica, come comunicare, effettuare pagamenti, entrare in casa (o uscirne), utilizzare elettrodomestici ecc., dall’analogico sono state trasferite al digitale, il che ci rende enormemente vulnerabili a un distacco di corrente.

La figura qua sopra è tratta dal Rapporto Adeguatezza Italia 2023 di Terna, uscito a dicembre e ampiamente commentato sulla stampa specializzata. Vi consiglio di leggere l’originale, perché i commentatori, ovviamente, ne hanno colto i messaggi che i paraocchi dello Zeitgeist consentivano, o imponevano, loro di cogliere. Così, ad esempio, per Energia Italia il rapporto dice (e in effetti lo dice) che il sistema elettrico italiano “risulta essere a oggi ‘adeguato’” (oggi sì!), e poi sottolinea la “necessità di una più forte crescita delle rinnovabili in un momento in cui il cambiamento climatico pone davanti delle sfide importanti da affrontare”. Quindi: ci vogliono più rinnovabili! Per Energia Oltre il sistema elettrico italiano è “adeguato, ma attenzione alle temperature estreme” (il colpevole è quindi il global warming, e in effetti il rapporto descrive molto bene i problemi che le temperature estreme creano: scarsa disponibilità di acqua, superamento delle soglie di temperatura ammissibili per l’immissione in natura delle acque di raffreddamento, ecc.). Uno sguardo un po’ più libero lo offre la rivista più autorevole del settore, Staffetta Quotidiana, secondo cui “Terna conferma rischi da caldo/siccità e dismissione impianti a gas”.

Ecco, qui ci avviciniamo al punto. La “dismissione della generazione economicamente non sostenibile” di cui parla la didascalia della Figura 17 qua sopra…

Perché in effetti qualcuno (tipicamente il mio nuovo amico Il Comico) potrebbe chiedersi: “ma perché mai, visto che stiamo procedendo a vele spiegate sul glorioso percorso delle rinnovabili, visto che le ingentirisorsedelpienneerreerre  finanziano la transizione ecologica, e che quindi nel 2028 si stima che la potenza rinnovabile raddoppi a 71 Gw dai 35 Gw e spicci attuali, perché mai dovremmo trovarci in simili difficoltà, con oltre 100 ore all’anno di fabbisogno elettrico non coperto dalla “bodenza di vuogo” rinnovabile installata?”

In effetti, lo scenario tecnico al 2028, rappresentato nella Figura 13, dice che non ci troveremo in difficoltà:

e ci restituisce l’immagine di un mondo in verde, con LOLE ovunque sotto soglia. Ma allora il catastrofico scenario della Figura 17 da dove salta fuori?

Salta fuori da questo:

All’aumentare delle FRNP (fonti rinnovabili non programmabili), in teoria aumenta la capacità installata complessiva, ma in pratica la capacità programmabile, cioè quella da fonti fossili, viene messa fuori mercato. Le centrali termiche dovranno essere dismesse perché quando operano a regimi ridotti e intermittenti il loro esercizio diventa antieconomico, non consentendo la copertura dei costi fissi. Nel medio periodo (al 2028) si stima che circa 15 Gw di capacità termoelettrica dovrebbero andare in decommissioning, il che, considerando che la CDP (capacità disponibile in probabilità) da rinnovabili all’epoca sarà intorno 10,6 Gw (Figura 8 del rapporto), spiega facilmente perché lo scenario tecnico-economico al 2028 ci dice che il LOLE esploderà. Fra chiusure già previste e chiusure prevedibili la capacità termica scenderà da circa 60 Gw a circa 40 Gw, quindi dismetteremo o dovremo dismettere più generazione termica di quanta generazione rinnovabile potremo installare, e buona notte ai suonatori!

Naturalmente ogni problema ha una soluzione.

Se sei un europeista, la soluzione ovviamente è aggravare il problema in base al noto schema “ci vuole più…”: ci vogliono più rinnovabili, o bisogna disporne più in fretta (congestionando i mercati e aggravando i costi), o roba del genere (in effetti il Fit for 55 obbedisce a una logica simile)…

Tuttavia, se il problema è economico, è facile che la soluzione, nella mente di alcuni, prenda spontaneamente la forma di un sussidio.

La scelta, così, non sarà più fra pace o condizionatori, ma fra sussidiare la generazione termica o boccheggiare dal caldo.

E quindi sussidieremo l’inquinante generazione termica!

Del resto (e sotto ve ne do una testimonianza diretta) mica crederete che gli Usa abbiano investito tanto nel gas per non venderlo? E meno male! Dovendo scegliere fra due imperialismi, per restare a galla meglio non lasciare la via vecchia per la gialla…

Spero apprezziate l’ironia del paradosso: dopo aver sussidiato, per lo più a vostra insaputa, le rinnovabili attraverso il meccanismo degli oneri di sistema, una volta raggiunto il paradiso degli ingenui, quel mondo tutto rinnovabile dove in teoria sole e vento ci liberano dal Male e ci consegnano al Paradiso dell’energia gratuita, in pratica continuerete a sussidiare. Solo che questa volta invece del rinnovabile “pulito” dovrete sussidiare il termico, che è sì “sporco”, ma senza la cui stabilità e programmabilità la rete elettrica diventerebbe pericolosamente inadeguata. Dovremo farlo perché il “ci vogliono più rinnovabili”, nella totale assenza di un ragionamento complessivo sulla gestione delle reti, nel frattempo avrà messo fuori mercato un elemento essenziale per la stabilità delle reti stesse.

Potremmo insomma concludere che mentre un investimento genera un rendimento, un sussidio genera un altro sussidio, magari di segno opposto, perché ogni distorsione della razionalità economica, e qui ne abbiamo viste tante, è sempre foriera di squilibri e di sventure.

Le retorica del green, che per affermare se stessa ha usato l’arma del sussidio, verrà maciullata dalla stessa arma, che non potrà che rivolgersi contro di lei. Triste destino per i tanti “verdi” che imperversano nei parterres televisivi essere costretti a finanziare in bolletta l’odiato fossile!

Il merito immediato di tutto questo, ovviamente, è della geniale von der Leyen, eletta grazie ai voti grillini, e destinata all’oblio a una velocità ancora superiore a quella della sua mentore Merkel. Un’anatra (o altro volatile) zoppa che verrà tenuta ancora un po’ sulla graticola aspettando che bruci (destino inevitabile delle candidature precoci, come ben sa chi si occupa di nomine).

Ma il problema non è circoscritto a noi, non dipende solo dalla pessima qualità della nostra leaderhip, ha anche una dimensione più ampia, e coinvolge una nostra vecchia amica, la governance sovranazionale. Guardate ad esempio che letteraccia si è visto arrivare il direttore dell’International Energy Agency (l’OMS dell’energia) Faith Birol da due di passaggio:

“Perché fai propaganda, invece di fare il tuo lavoro?”, gli chiede il presidente della Commissione Energia e Commercio, Cathy McMorris Rodgers. Saremo curiosi di vedere la risposta, e credo che in ogni caso convenga leggersi bene le domande poste da questa parlamentare statunitense (anche perché, come vi annunciavo sopra, spiegano molto bene perché lu grin s’ha mort, cioè perché non è nelle cose che noi si rinunci ex abrupto al fossile: non lo è per motivi fisici, e non lo è per motivi geopolitici).

Di questo e di altre cose parleremo al midterm, di cui è uscito il programma.

(…ecco: quando vi chiedevo qualche grafico significativo da commentare in effetti pensavo più a roba così. Ma evidentemente non riesco più a farmi capire…)

(…a poche settimane dalle elezioni europee a/simmetrie propone, a Roma, un incontro sui vari eurodisastri, e la risposta, devo dirvelo, è fiacca. Credo sia la prima volta che non andiamo subito in sold out. Sono sorpreso? Forse no. Il precedente del 28 luglio 2021 era stato, a modo suo, eloquente. Quando avevamo chiesto sostegno, non l’avevamo avuto, e se non l’avevamo avuto, verosimilmente, è perché non c’era, e che non ci fosse in quel caso potevamo aspettarcelo, ascoltando i colleghi più esperti che ci ammonivano su come certe battaglie fossero “minoritarie”. In effetti, i numeri e l’evidenza di tutti i giorni, all’epoca, mostravano una schiacciante maggioranza di persone che correvano a fare (salvo poi pentirsene) quello che una minoranza non voleva fare. Non entro nel merito delle scelte: la mia battaglia, condivisa con pochi altri che conoscete e molti che non conoscete, era per tutelare la libertà di tutti, ma era, in tutta evidenza, una battaglia persa, perché era innanzitutto una battaglia di ragionevolezza in un mondo di persone possedute da una simmetrica e simmetricamente irrazionale paura. In tanta simmetria, purtroppo, erano i numeri a essere asimmetrici. La nobile difesa del nobile principio era quindi destinata a schiantarsi. Ovviamente si combatte perché ci si crede. Se fossi della razza di quelli che combattono solo per vincere non avrei mai aperto questo blog: ex post mi ha portato in Parlamento, ma ex ante poteva solo stroncarmi la carriera accademica! Quindi il punto non è tanto, per me, che la battaglia fosse “minoritaria” o maggioritaria. Le mie riflessioni erano concentrate su altri punti. Ad esempio: com’è possibile, mi chiedevo, che la nostra, di noi insider, e la vostra percezione di quale fosse un momento decisivo per manifestare, per manifestarsi, fossero così disallineate? Certo, voi non vedevate tutto quello che vedevamo noi, non potevate cogliere nelle sfumature del dibattito interno l’incrinarsi di certe certezze, non potevate vedere le crepe del dubbio, e quindi non potevate intuire che quello fosse il momento per insinuarvisi. Le nostre informazioni erano asimmetriche. Ma il punto era un altro: se non rispondevate alla nostra chiamata era perché evidentemente non vi fidavate di noi. Non ho difficoltà né a capirlo, né ad accettarlo. Non mi offendo di certo, anche perché ormai sapete che nemmeno io mi fido di voi: la prima forma di rispetto è la reciprocità! Del resto, stiamo appunto discutendo di quanto i fatti mi diano ragione… E poi c’è il tempo, che è un fattore importante, non solo nella sua dimensione puntuale (è sufficientemente ovvio che per segnalare l’importanza del tema europeo il momento giusto sono le elezioni europee: se il segnale non lo si dà probabilmente è perché non lo si vuole dare, e ci sta), ma anche nella sua dimensione estensiva. Passano gli anni e immagino che aumenti la stanchezza. E anche qui c’è reciprocità: sono stanco io, capisco benissimo che possiate essere stanchi voi! Forse potrebbe aiutarci a resistere la constatazione dei progressi che pure ci sono stati. La loro comprensione, tuttavia, è offuscata da tanti elementi oggettivi, inclusa la stessa durata del percorso, il tempo, appunto. Dato per assodato l’obiettivo, che è quello di liberarci, alcuni progressi, come il fatto che persone di cui pensavate che mai vi avrebbero avuto accesso ora sono all’interno delle istituzioni, per chi non ha vissuto quella fase, ma anche per chi l’ha vissuta, può sembrare un progresso meramente personale (er senatore d’a a Lega voleva a portrona), non politico (stiamo creando classe dirigente con esperienza di legislativo e magari anche di esecutivo). Questo, ovviamente, perché se non si sa come funzionano le istituzioni (ma per spiegarvelo abbiamo fatto tanto) non si può apprezzare l’importanza di avere con sé persone che sanno come funzionano e che hanno una reputazione all’interno di esse. Eppure, i risultati si vedono, o almeno che volesse vederli potrebbe facilmente farlo. Ad esempio, fra questo e questo:


sono passati 1611 giorni, 38664 ore, che non sono state facili per voi come non lo sono state per noi, ma che hanno portato dove volevamo che si arrivasse. Lo vedete o no il progresso fra queste due posizioni? Intuite o no che dietro c’è stato tanto lavoro paziente, tanta prudenza, ma tanta tenacia, per non perdere di vista l’obiettivo, e per ricordarlo al momento giusto a chi di dovere? Ricordate, o no, quando tutti davano il nostro migliore amico per Presidente della Repubblica? Capite, o no, che quella sarebbe stata una pietra tombale sul nostro anelito di libertà? Ecco, qui si situa una particolare insidia, che mina alla radice il meccanismo di rappresentanza: l’incapacità di ragionare per scenari alternativi, assistita dalla scarsa memoria storica, che porta regolarmente a dimenticare quale fosse lo scenario
ex ante più probabile, soprattutto in chi più ha strepitato per scongiurarlo. Difficile accontentare i professionisti dello strepito! Nel momento in cui scongiuri quello per cui strepitavano, fatalmente essi dimenticano cosa fosse… D’altra parte, pericolo scampato? Non ancora. Obiettivo raggiunto? Sì. Prezzo? Altissimo, per voi, lo so. Ma le nostre divisioni erano quelle schierate a Piazza del Popolo il 28 luglio del 2021, non altre, e con quelle abbiamo fatto quanto potevamo in questa che è e resta una guerra di logoramento. In un combattimento di questo tipo la nostra unica speranza, per influire sui rapporti interni ed esterni, era aspettare che il tempo ci desse ragione. E, mi spiace dirlo, con tutta la compassione che provavo per voi, purtroppo in termini politici se eravate troppo pochi, o vi palesavate – come state facendo – in pochi, la colpa non era degli altri, era vostra! A noi non restava altra tattica che quella del logoramento, l’alternativa essendo quella di diventare una meteora come un Pancho Pardi o una Sara Cunial qualsiasi! Massimo rispetto umano, ma la battaglia politica si combatte non abbandonando la posizione. Certo, questo esigeva tanta persistenza, e in tutti questi anni, dal 2011 a oggi, è nella vostra presenza, nella vostra vicinanza che ho trovato la forza e la motivazione di continuare a combattere, anche nei momenti più bui – che non sono stati quelli della mia vita parlamentare. Ve ne ringrazio. Di converso, immagino che anche voi abbiate trovato forza e motivazione nella mia presenza, che ora non potete più avere, perché se al momento buono vorrete contare su qualcuno che sappia come comportarsi e a chi rivolgersi, dovete dargli il tempo di fare l’uomo macchina, di entrare negli ingranaggi, possibilmente senza restarne schiacciato, e il tempo richiesto è tanto, tantissimo, e così per voi ne resta poco, pochissimo. Soffro nel non poter sempre ricambiare, restituendovi la motivazione che avete dato a me. Il dibattito fra noi si sfilaccia e si degrada, lo si vede dalla qualità dei commenti, che è direttamente proporzionale al tempo che vi dedico. Ma la soglia di tempo necessaria per attivare un dibattito che sia fruttuoso, che aiuti voi a capire, che mi arricchisca con le vostre segnalazioni, è sempre più inattingibile. In questo preciso momento dovrei fare altro, purtroppo. Recupererò domattina. Ma più di una vita non riesco a vivere, e forse questa esperienza, che tanto mi ha dato e nella quale ho cercato di darvi il massimo, è anche giusto che giunga, come sta fatalmente e fisiologicamente giungendo, a un termine. Da questa esperienza esco trasformato in un modo che mai avrei potuto sospettare: per il fatto di essermi così a lungo confrontato con voi, di aver dovuto gestire le vostre paure e le vostre rabbie, di essere stato partecipe delle vostre gioie, dei vostri dolori, delle vostre vicende familiari (dei vostri matrimoni, dei vostri battesimi,…), ne esco trasformato in animale sociale. Ma ora la comunità che riesco a seguire, cui riesco a dedicarmi, cui è giusto che mi dedichi, perché è mio dovere istituzionale, con cui mi sento più in contatto, e in un contatto più vero, progressivamente non siete voi, ma sono i miei elettori, i miei sindaci, i giovani del mio partito. Persone che spesso ignorano chi io sia – c’è anche qualcuno che guarda la televisione meno di me, vivaddio! – persone con cui ho condiviso infinitamente meno di quanto ho condiviso qui con voi, ma anche persone per cui posso fare qualcosa, qualcosa di concreto, nel mio nuovo ruolo, e farlo in tempi umani, e alle quali, in mancanza, spesso, di una comune visione ideologica, mi lega qualcosa di meno identitario ma più forte: la comune appartenenza all’umanità. Forse, è un’ipotesi, in questa fase della mia vita mi appaga di più bermi un bicchiere di vino con un pastore o un operaio che di me non sa niente (non sa chi sono, che lavoro faccio, e se lo sapesse non saprebbe in che cosa consista…) che estenuarmi per tenere unita, per alimentare una fiammella di speranza in voi, che invece, a sentirvi, sapete tutto, di me e del mondo, e venite a spiegarmelo. Non vi offendete, vero, se però a me interessa più quello che non so (ad esempio, quando e come si seminano le patate in montagna) di quello che già so e accanitamente tornate a insegnarmi (o anche di quello che mi accanisco a spiegarvi e risolutamente non volete comprendere)! Non posso affermarlo con certezza, ma ho qualche dubbio sul fatto che chi ha firmato la Pace di Vestfalia abbia anche dichiarato la Guerra dei Trent’anni (lo svedese senz’altro no, aveva sette anni quando è iniziata!). Forse una conseguenza talmente ovvia da sfuggire all’attenzione delle guerre lunghe è che difficilmente chi le dichiara può vederne la fine. Anche questo, che vale per voi come per me, è un dato da tenere in considerazione. Insomma, anche per l’energia politica c’è un problema di programmabilità – o, se volete, di intermittenza – e di costi! Certo, a fronte di risposte così scarse, non credo sia più ergonomico per me né di qualche beneficio per voi che io mi sbatta tanto per escogitare eventi di qualità, per portare avanti una battaglia culturale. L’esperimento che mi tentava, perché abbiamo visto che funziona, era quello di mostrare a una certa classe dirigente che cosa interessa “ar popolo”, e quello di mostrare “ar popolo” che cosa sa la classe dirigente. In autunno era riuscito, sono certo che la strada sarebbe utile e feconda, ma se non volete percorrerla io non voglio costringervi. Ai miei amici, a quelli con cui condivido il cruccio per il nostro Paese conculcato, né più né meno di sempre, da potenze fisiologicamente ostili, dico sempre che non possiamo rimproverarci di non aver avuto successo dove Keynes aveva fallito! “Le conseguenze economiche di Mr. Churchill” restano la migliore descrizione della nostra situazione, ma non servirono, appunto, a evitare le conseguenze economiche di Mr. Churchill, così come non sono servite, oggi, ad aprire tante menti. Capisco quindi il vostro disamoramento e non vi chiedo di forzare la vostra natura. Almeno questo, a sessantadue anni, cioè quando sono stato costretto, l’ho capito: la natura va assecondata. D’altra parte, però, se riunirvi come community non vi interessa più, se a/simmetrie o questo blog non riescono più a motivarvi e a coinvolgervi, non posso che conformarmi a quel principio di realtà cui auspico che si conformino i miei avversari politici! Ne prenderò atto, e mi risparmierò tanto lavoro inutile. Volevo riscrivere ad Ashoka Mody per il Goofy13, ma prima volevo sentire il segretario della Farnesina per sapere la data del G20 dello sviluppo (che si terrà a Pescara), ecc. Dietro ogni evento c’è lavoro, e quel lavoro non si vede. Organizzare cose per un po’ mi è piaciuto. Ma se non c’è risposta, posso fare altro: ricominciare a suonare, ricominciare a leggere, fare una passeggiata… Mi tocca perfino organizzare gli eventi che organizzate voi! Non più tardi di un paio d’ore fa Claudio mi ha detto di non sapere nulla di uno dei nostri prossimi incontri, forse perché quello di voi che mi aveva coinvolto mi vedeva più come suo segretario che come relatore! Succede anche questo, e succedono tante altre cose: possiamo anche prenderci un sabbatico. Succede anche che è tardi, e me ne vado a dormire. Questo post, per la parte in tondo, stampatelo: è il nuovo “I salvataggi che non ci salveranno”. Potremmo chiamarlo “L’energia pulita che ci inquinerà”. Tenetelo da parte, perché non ce ne saranno più molti. Lavorerò perché il midterm abbia la qualità di sempre, e poi passerò ad altro, come state facendo voi…)

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“Chi di sussidio ferisce, di sussidio perisce” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Un altro problema della sinistra (i salari)

I commenti sotto al post precedente rivelano un esilarante eccesso di beatitudine in questa eletta schiera di happy few: vedo molto “tu fai trionfalismo perché sei un politico de #aaaaalega e quindi siccome sei #aaaaacasta nun te ne frega ggnente che li salari nun aumenteno e ssi li salari nun aumenteno è normale che o’ccupazzione cresce…”, ecc.

Ora, se, come ricorda Céline, pour que dans le cerveau d’un couillon, la pensée fasse un tour, il faut qu’il lui arrive beaucoup de choses et de bien cruelles, la mia umanità profondamente vissuta e sofferta dovrebbe spingermi ad augurarvi di non capire mai perché una simile reazione è fuori luogo. D’altra parte, i tours della vostra pensée (se c’è) non dipendono né da me né da voi, ma dalla logica dei fatti, ed è da quando sono qui che ogni giorno sfido la prima legge della termodidattica:

nel generoso, ma spesso vano, sforzo di farvi capire le cose prima che siano i fatti a farvele capire.

Mi rendo conto che per gli ultimi (ma anche per molti fra i primi) arrivati questo oggettivamente non sia più il blog di un economista “controcorrente” (cioè allineato alla letteratura scientifica e non al liquame fognario che popola i nostri studi televisivi e la nostra saggistica), ma il blog di un “politico” (sarebbe: di un parlamentare, per la precisione, ma la categoria di #aaaaabolidiga ha fritto l’encefalo un po’ a tutti, è tardi e non voglio entrare in infinite precisazioni). Aggiungo che è oggettivamente difficile realizzare che mentre questo blog è rimasto fermo, il mondo gli è girato intorno, per cui le critiche che ora faccio da #aaaaabolidigo di destra sono e restano quelle che facevo da economista di sinistra, per il semplice motivo che i problemi sono gli stessi e le soluzioni sarebbero le stesse. Il riflesso pavloviano di chi arriva qui pensando di essere di sinistra, o che io sia di destra, posso immaginarmelo. Tuttavia, vi assicuro, nonostante che io abbia e voglia continuare ad avere un buon rapporto verso chi ha avuto parole cortesi per me, che la mia intenzione di mantenere buoni rapporti non potrebbe mai tradursi in “trionfalismo” (mah…)! A me non interessa il vostro consenso (non mi interessava quando eravate lettori, tantomeno ora che siete elettori: liberi voi di crederlo o meno…), come non mi interessa fare propaganda qui, nel blog che non c’è. Se dico che l’incremento del tasso di occupazione è una (positiva) anomalia statistica lo dico per il semplice fatto che esso lo è. Non faccio del trionfalismo perché io non so da oggi che laggente stanno male: lo so dal 2011, quando ho cominciato a sgolarmi perché a sinistra qualcuno capisse questo:

Quindi, come dire, esprimetevi, sentitevi liberi, qui siamo in un gigantesco e diffuso confessionale laico, dove voi, protetti non da una grata, ma dall’anonimato digitale, potete aprirvi, e quindi apritevi e chiaritemi: cosa diamine pensate di poter insegnare sulla deflazione salariale a uno che ve l’ha descritta tredici anni fa?

Il discorso, tuttavia, non si esaurisce qui, naturalmente, come sa chi il percorso l’ha fatto. E allora, se volete inveire contro er #aaaaabolidigo accomodatevi pure. Se invece volete capire che cosa sta succedendo, cominciate dal

Glossario

Retribuzione lorda: salari, stipendi e competenze accessorie, in denaro e in natura, al lordo delle trattenute erariali e previdenziali, corrisposti ai lavoratori dipendenti direttamente e con carattere di periodicità, secondo quanto stabilito dai contratti, dagli accordi aziendali e dalle norme di legge in vigore.

Occupati: vedi il post precedente.

Retribuzione lorda pro capite: retribuzione lorda divisa per il numero di occupati dipendenti.

Deflatore dei consumi: rapporto tra consumi nominali, cioè espressi ai prezzi correnti, e consumi reali, cioè espressi ai prezzi di un anno assunto come base.

Retribuzione lorda pro capite in termini reali (“potere d’acquisto dei salari”): rapporto fra retribuzione lorda pro capite e deflatore dei consumi.

Nota: si potrebbe anche usare un diverso indice dei prezzi al consumo (e magari se interessa vi faccio vedere che cosa cambia), ma preferisco usare queste definizioni di contabilità nazionale perché così, se interessa, possiamo tornare indietro fino al 1970 con dati più o meno coerenti in termini statistici.

I fatti

Indubbiamente gli ultimi anni hanno visto un tracollo del potere d’acquisto, ma:

1) non è la prima volta che succede;

2) in almeno un’altra occasione precedente questo tracollo è stato accompagnato da una diminuzione, non da un aumento del tasso di occupazione;

3) gli ultimi trimestri (quelli del Governo attuale) hanno visto un’inversione di tendenza.

Aggiungo subito che siamo molto lontani dall’aver recuperato il livello dell’ultimo tracollo (quindi ancor più lontani dall’aver recuperato il penultimo) e che la strada sarà lunga e dolorosa, ma passa per la crescita, non per il salario massimo (quello che gli altri chiamano “minimo” perché non sanno come funziona il mercato del lavoro) né per il reddito della gleba.

E ora vediamo i dati.

Il monte salari (retribuzioni lorde totali) in termini nominali (a prezzi correnti) è qui:

Credo vediate bene in quali occasioni (tre) le retribuzioni complessivamente erogate sono scese e di quanto, e che sappiate tutti intuirne il perché (crisi Lehman, austerità, pandemia, con la diminuzione più prolungata causata dall’austerità e la diminuzione più visibile causata dalla pandemia.

Vedete anche che dopo la pandemia, alla fine (cioè a destra) del grafico la crescita dei salari nominali è particolarmente rapida, ma… in quel periodo era molto rapida anche l’inflazione! Se dividiamo per gli occupati dipendenti e poi ancora per il deflatore dei consumi (vedete sopra il glossario) otteniamo questo profilo delle retribuzioni pro capite in termini reali:

e qui è ben evidente che l’austerità aveva riportato le retribuzioni lorde in termini reali di fine 2012 al livello di quelle di inizio 1996, con un tracollo di circa 411 euro pro capite a trimestre (137 euro pro capite al mese), mentre l’inflazione post-pandemia (quella di cui parlavamo qui, se ricordate…), ha falcidiato ben 449 euro pro capite a trimestre (circa 150 euro al mese), fra il terzo trimestre del 2021 e il primo del 2023, portandoci ancora più indietro nel tempo. Dal primo trimestre 2023, cioè dall’entrata in vigore della prima legge di bilancio di questo governo, la situazione sta migliorando, sempre troppo lentamente (il recupero, in quattro trimestri, è stato di 72 euro al trimestre), ma meno lentamente dell’ultima volta (il recupero nei quattro trimestri successivi all’ultimo tracollo era stato di 6 euro pro capite a trimestre (cioè due euro pro capite al mese) nel periodo dal terzo trimestre 2013 al terzo trimestre 2014. Per un recupero percettibile bisogna aspettare gli effetti del “bonus Renzi”, introdotto nel secondo trimestre del 2014.

Però…

Non avevate detto che il tasso di occupazione aumenta perché i salari sono diminuiti?

E allora come me lo spiegate questo?

I salari reali, il potere d’acquisto trasferito alle famiglie, sono diminuiti quasi altrettanto con l’austerità, ma allora il tasso di occupazione era anche lui in caduta libera. La correlazione fra tasso di occupazione e livello salariale è stata praticamente sempre positiva: al crescere dell’occupazione cresceva il livello salariale. Fra il 1996 e il 2021 la correlazione è di 0.34. Non è un risultato così strano: se al crescere della disoccupazione i salari diminuiscono, è normale che al crescere dell’occupazione i salari aumentino! Fra il 2022 e il 2023, invece, la correlazione diventa fortemente negativa: -0.66. Questa anomalia in realtà si concentra nel periodo di discesa del salario reale, fra il terzo trimestre 2021 e il quarto 2022 (correlazione: -0.77). Dall’inizio del 2023 la correlazione ridiventa positiva, cioè le retribuzioni ricominciano a obbedire alla legge della domanda e dell’offerta (correlazione: 0.89).

Perché al tempo dell’austerità il calo dell’occupazione (aumento della disoccupazione) portava con sé un calo dei salari (come in effetti dovrebbe essere), mentre al tempo della crisi energetica un uguale calo dei salari è stato associato a un aumento dell’occupazione (diminuzione della disoccupazione)? Perché al tempo della crisi energetica la curva di Phillips non ha funzionato? Un pezzo di questa spiegazione va cercato, probabilmente, nel fatto che al tempo dell’austerità quella che si muoveva era la curva di domanda aggregata, mentre al tempo della crisi energetica si è mossa senz’altro la curva di offerta di breve periodo. Il modello standard, però, quello che vi spiegai qui, non dà pienamente conto di questa dinamica, perché in quel modello una fiammata di inflazione fa diminuire, non aumentare, il Pil e l’occupazione. In termini tecnici la spiegazione va cercata probabilmente tenendo conto della dinamica degli scambi commerciali, ma insomma ora sono veramente cotto e non voglio rivoluzionare la scienza economica (accetto vostre proposte).

A me per ora basta aver portato a casa due punti:

1) se dico che una cosa è anomala, che non si è mai verificata, lo dico a ragion veduta, e infatti un aumento del tasso di occupazione in presenza di un crollo delle retribuzioni reali come quello visto fra 2021 e 2022 prima non si era mai visto;

2) se dico che la sinistra ha un problema, la sinistra ce l’ha, perché una ripresa delle retribuzioni, per quanto insufficiente, rapida come quella verificatasi sotto il Governo di destra sotto la sinistra non si era mai vista.

E questa non è propaganda: è un fatto, e non sto dicendo che il merito sia del Governo: sto dicendo che è così.

Accetto vostre interpretazioni, ma basate sui fatti, non sulla vostra presunzione che chi vi parla voglia convincervi di qualcosa: il mondo in cui vivo è già sufficientemente complesso perché io voglia aggiungervi questo ulteriore livello di complessità…

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“Un altro problema della sinistra (i salari)” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

ll problema della sinistra

 (…uno dei tanti, forse neanche il più importante da quando ha smesso di occuparsi di certe cose. Cominciamo con un breve:)

Glossario

Disoccupati (o “in cerca di occupazione”): Le persone non occupate tra i 15 e i 74 anni che hanno effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane che precedono la settimana a cui le informazioni sono riferite e sono disponibili a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive; oppure inizieranno un lavoro entro tre mesi dalla settimana a cui le informazioni sono riferite e sarebbero disponibili a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive, qualora fosse possibile anticipare l’inizio del lavoro.

Forze di lavoro: Persone di 15 anni e più, occupate e disoccupate.

Inattivi: Persone che non fanno parte delle forze di lavoro, cioè quelle non classificate come occupate o in cerca di occupazione (disoccupate). Rientrano nella categoria coloro che non hanno cercato lavoro nelle ultime quattro settimane e non sono disponibili a lavorare entro due settimane dall’intervista (cioè, in buona sostanza, gli scoraggiati), chi non è disponibile a iniziare un lavoro nelle due settimane successive, e altre frattaglie.

Occupati: Persone tra 15 e 89 anni che nella settimana di riferimento hanno svolto almeno un’ora di lavoro a fini di retribuzione o di profitto, compresi i coadiuvanti familiari non retribuiti (ci rientra anche chi è in malattia, in congedo parentale, in assenza per periodo inferiore a tre mesi e altre frattaglie).

Tasso di disoccupazione: Rapporto percentuale tra i disoccupati in una determinata classe d’età (in genere 15 anni e più) e l’insieme di occupati e disoccupati (forze di lavoro) della stessa classe d’età.

Tasso di inattività: Rapporto percentuale tra le persone non appartenenti alle forze di lavoro (inattivi) in una determinata classe di età (in genere 15-64 anni) e la corrispondente popolazione residente totale della stessa classe d’età.

Tasso di occupazione: Rapporto percentuale tra gli occupati di una determinata classe d’età (in genere 15-64 anni) e la popolazione residente totale della stessa classe d’età.

(fonte: ISTAT).

Esempio

(…così sappiamo di che cosa stiamo parlando…)

La situazione

Oggi sono usciti gli ultimi dati e la situazione è questa:

occupati sempre più su,

disoccupazione sempre più giù.

La relazione allegata al comunicato stampa rappresenta graficamente solo gli ultimi cinque anni, ma il comunicato rinvia a un foglio Excel con gli ultimi venti anni, quindi si riesce a capire un po’ meglio com’è andata:

l’occupazione ha sofferto della crisi finanziaria globale (e al governo c’era la destra) e poi dell’austerità (e al governo c’era la sinistra). Oggi è oltre il massimo storico.

La disoccupazione aveva ovviamente risentito della crisi globale, ma è stata portata in doppia cifra dall’austerità per i motivi mille volte ripetuti (necessità di comprimere i livelli salariali al fine di recuperare competitività di prezzo rispetto ai partner commerciali europei) ed è comunque ora vicina ai minimi storici, pur non avendoli raggiunti, come abbiamo ricordato qui.

I posti di lavoro creati sono per lo più a tempo indeterminato, quindi non precari, come si vede qui:

Attenzione: gli occupati permanenti (a tempo indeterminato) sono misurati sulla scala di destra (che va da 11 a 18 milioni), e quindi il grafico non vi dice che ci sono tanti lavoratori permanenti quanti indipendenti (cioè tanti dipendenti a tempo indeterminato quanti autonomi), perché i primi vanno per i 16 milioni (scala di destra) e i secondi per i 5 (scala di sinistra). La scala di destra però è solo slittata e non compressa (quella di sinistra va da zero a sette milioni e 7-0 = 18-11 = 7), il che significa che le variazioni delle serie sono confrontabili. I contratti a tempo indeterminato stanno aumentando rapidamente, quelli a tempo determinato diminuendo lentamente, gli autonomi sono stati falcidiati dalla crisi pandemica ma ora sono stabili o in impercettibile ripresa.

Ovviamente non va tutto bene. Ad esempio, la disoccupazione femminile, purtroppo, resta sempre più alta di quella maschile. Lo scarto fra le due, però, che era di cinque punti nel 2004, ora è a due punti, livello al quale si è attestato fra 2016 e 2017.

La disoccupazione giovanile resta un serio problema, ed è anche quella su cui ha “morso” proporzionalmente molto di più l’austerità. Va notato però che anche il ritorno ai livelli pre-crisi (nel senso di crises) è più rapido che per le altre classi di età.

Ma il dato più outstanding, proprio nel senso che “sta fuori” dal range dei valori storici, è quello del tasso di occupazione, proprio lui, proprio quello che fin dall’inizio di questo blog gli espertoni citavano (non senza buoni motivi) quale indicatore più significativo rispetto al tasso di disoccupazione. I dati sono questi:

e qui si nota un progresso strutturale del dato riferito alla popolazione femminile:

che è sì più basso della media, ma è significativamente aumentato dal 45% a circa il 53%, mentre quello maschile è semplicemente tornato al 70% dove era all’inizio del periodo.

Per chiarire che non abbiamo a che fare con un dato in qualche modo transitorio, possiamo utilizzare le serie trimestrali, che ci riportano ai favolosi anni ’70:

Le serie sono due: quella ricostruita dall’ISTAT indietro fino al 1977, e quella attuale, calcolata con nuovi criteri che però, come vedete, non differisce sostanzialmente nel livello, e tantomeno nell’andamento, da quella storica. Vedete quindi che il tasso di occupazione non solo non è mai mai mai stato così alto in Italia (quindi si stava peggio quando si stava meglio…), ma anche che non è mai mai mai cresciuto così in fretta!

E questo, quand’anche non fosse un merito di chi è ora al governo, è oggettivamente un bel problema per la sinistra.

Spiaze.

Ma solo per lei…

(…dichiaro aperta la discussione generale…)

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“ll problema della sinistra” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Creazione di moneta ed eutanasia del contribuente

Contravvenendo ai miei saggi propositi, anche questa mattina, al risveglio, mi sono affacciato alla cloaca nera, imbattendomi in questa peerla:

Il più autorevole economista monetario europeo, nel senso di: studioso dell’unione monetaria europea (con tanto di manuale di riferimento giunto alla quattordicesima edizione), dice una cosa che capisco (ma non condivido del tutto), e una che non capisco (ma, come vedrete, il limite è certamente mio).

La cosa che capisco è quella che dice per prima: quando i tassi di interesse salgono, normalmente le banche incorrono in perdite, perché le loro passività (cioè i nostri depositi) sono a breve, mentre le loro attività (cioè i nostri mutui) sono a lungo. In astratto, quindi, al crescere dei tassi praticati dalla Banca centrale dovrebbe corrispondere una crescita dei tassi sui depositi (che significa maggior esborso di interessi per le banche), mentre i tassi sui mutui, essendo stipulati in contratti a lungo termine, dovrebbero adattarsi più lentamente (che significa uguale incasso di interessi per le banche), con danni per il loro conto economico.

La lista di elementi che questo ponzoso (il giavazzometro esplode!) ragionamento trascura è breve ma significativa.

Intanto, si trascura che i mutui, oggi come ieri, vengono proposti prevalentemente a tasso variabile, che è il motivo per cui qui qualcuno mi ringrazia per avergli detto prima di altri che l’inflazione avrebbe morso, e con lei i tassi: mi ringrazia perché combattendo una dura battaglia col proprio istituto è riuscito a farsi dare un tasso fisso, che all’epoca era più costoso, e pressoché subito dopo ha cominciato a fargli risparmiare un sacco di soldi. Ma questo lo hanno fatto gli happy few: i piddini, quorum nomen est legio, hanno ovviamente fatto tasso variabile, e quindi il ragionamento del ponzoso ponzatore non tiene tantissimo: per verificarlo, basta guardare i dati (cosa che i ponzosi ponzatori non fanno, noi sì):

In Banca d’Italia ragionano un po’ a modo loro, questo ormai lo sappiamo, quindi la tavola (che è qui) va letta come fosse arabo: da destra (2020) verso sinistra (2022): nel 2020 gli interessi attivi (quelli percepiti sui mutui) erano 42 miliardi, nel 2022 dieci miliardi in più (effetto del tasso variabile), mentre gli interessi passivi (quelli pagati sui depositi), che nel 2020 erano 11 miliardi, nel 2022 erano 14 miliardi (solo tre miliardi in più).

Le cose quindi sono andate un po’ al contrario di come il ponzoso ponzatore ponzava, e se vi ho spiegato come mai sono andate così dal lato degli interessi attivi (i mutui sono prevalentemente a tasso variabile), non devo spiegarvi perché sono andate così dal lato degli interessi passivi, cioè di quelli che percepiamo sui nostri depositi! Il motivo è semplice: il mercato bancario non è concorrenziale. Da un lato siamo tutti obbligati a detenere un deposito bancario, a pena di morte civile. Dall’altro, però, ormai in Italia le banche significative si contano sulle dita di una mano e fanno evidentemente cartello: la saggia regola del “cane non morde cane” impedisce che si facciano politiche commerciali “aggressive” (innalzando il tasso di interesse) per sottrarsi clientela offrendole un tasso più alto, considerando che poi, finita la manna dei tassi di interessi (attivi) alti, il correntista ridiventerebbe, per la banca, quello che a Roma si dice “un accollo”, cioè un peso, una perdita, una zavorra!

Ma non c’era un Commisariu alla Concorrenzu?

Ma certo che c’era: la signora Vestager, condannata in primo e secondo grado dai tribunali dell’Unione per aver attivato con una decisione che ora tutti possono tranquillamente definire illecita (noi lo avevamo fatto anche ex ante), quella sulla banca Tercas, la catena di eventi che portò alla tragedia delle quattro cosiddette “popolari” (solo una lo era), la vendita delle due venete, ecc. Ma chissà se i GenZ o i punturini, chissà se le varie neoplasie del Dibattito, si ricordano, nel loro delirio livoroso e autocentrato, di questi fatti non irrilevanti? Verosimilmente no. Viceversa, chi invece c’era, e ci stava con la testa, avrà capito che la “concorrenza” per l’UE è solo la continuazione di una politica di aggressione al nostro sistema economico con altri mezzi: cioè con la complicità del PD. PD che, non a caso, è l’espressione e il braccio secolare di quegli interessi che da sempre in Italia fomentano il conflitto intergenerazionale diffondendo la balla del futuro negato ai giovani dalla prodigalità dei padri (mentre gli è stato negato dalla innecessaria austerità del PD).

Ora, se non c’è concorrenza (fatto salvo il caso in cui invocarla a razzo serve a metterci in difficoltà), c’è cartello, e per questo motivo i rendimenti dei depositi sono rimasti al palo e il margine di interesse (percepito dal sistema bancario) è aumentato di circa sei miliardi.

Sinceramente, i 140 miliardi che la Banca centrale avrebbe trasferito al sistema bancario secondo De Grauwe non so che cosa siano né come entrino in questo ragionamento. Vuole forse dire che le banche hanno potuto tenere bassi i tassi passivi, quelli che pagano sulla raccolta, perché la banca centrale le ha massicciamente rifinanziate a tassi più bassi? Sarà… Comunque i tassi praticati dalla Bce sono aumentati, quelli sulle operazioni di rifinanziamento al sistema bancario sono oltre il 4% da un bel po’, mentre i tassi sui depositi sono ancora ampiamente al disotto:

e quindi non vedo (io) come il rifinanziamento della Bce, che avviene a tassi più alti, avrebbe contribuito a tenere bassi i tassi sui depositi. Ma evidentemente qui c’è qualcosa che non capisco io, o forse lo capisco: bisogna dire che #hastatolaBCE perché non si può dire che #hastatolUE.

E va bene così.

La cosa che però veramente non capisco è un’altra: cazzocentra il contribuente? L’affermazione secondo cui in questo modo (cioè rifinanziando un sistema bancario che secondo lui avrebbe dovuto essere in perdita, mentre secondo la concreta evidenza dei fatti era in profitto) la Bce avrebbe spostato le perdite dal settore bancario al contribuente sinceramente non la capisco!

I livelli di possibile lettura di questa affermazione sono due, secondo me (se ce ne sono altri, sentitevi liberi di aggiungerli).

Primo: si può immaginare che De Grauwe voglia dire che favorendo coi suoi trasferimenti il mantenimento di tassi passivi bassi la Bce avrebbe consentito l’abnorme ampiamento del margine di interesse. Sì, d’accordo: ma in questo caso avrebbe senso dire che le perdite sono state trasferite al cliente, via aumento dei tassi attivi non compensato da un aumento dei tassi passivi (strano come un profitto bancario visto dal lato del cliente somigli a una fregatura!). Ora, il cliente è anche un contribuente (quasi sempre), ma in questo ragionamento entra in quanto cliente, perché i soldi di cui si parla (quelli entrati nelle casse delle banche) non vengono dalle sue tasse. Parlare di “taxpayer” in questo caso ha tanto senso quanto ne avrebbe dire che venendo giù l’American Airlines 587 ha posto fine alla vita di 260 contribuenti.

Cazzocentra?

Secondo: visto che parla di contribuenti, mi sorge l’orrido sospetto che De Grauwe voglia suggerirci, o magari addirittura creda, che l’emissione di moneta, e in particolare dei 300 miliardi secondo lui dati dalla Bce alle banche, sia direttamente o indirettamente finanziata dal gettito fiscale. Questo sarebbe particolarmente grave, e per voi non è difficile rendervene conto.

Le parole più dirompenti pronunciate nella legislatura precedente non sono infatti queste:

(come probabilmente avranno pensato punturini e altre neoplasie), ma queste:

“Tutto qua!” I soldi della Bce non vengono dalla raccolta fiscale, sono moneta emessa dalla Banca centrale, la Banca centrale crea moneta, tutto qua!

Perché è così dirompente questo concetto, tanto eversivo da essere riportato in ogni manuale di macro? Semplicemente perché ci ricorda un dato ovvio: il bilancio dello Stato potrebbe essere finanziato con emissione di moneta. Del finanziamento con base monetaria (par. 11.3.3 del manuale di Acocella):

abbiamo parlato in lungo e in largo per oltre dieci anni (qui un post dedicato). Nessuno pretende che sia la panacea, ma oggi la communis opinio dei giornal-oni è che sia una iattura, anche se poi, al momento del bisogno, è inevitabile ricorrere ad esso in forme travisate e per ciò stesso inefficienti. Pensate al quantitative easing: per non finanziare poche decine di miliardi di investimenti pubblici con creazione di moneta, si sono riversate parecchie centinaia di miliardi di finanziamenti sul sistema bancario che li ha allocati in nome dei fatti propri, per lo più facendo carry trading o altre operazioni sostanzialmente neutrali per l’economia reale!

Chest’è!

Su questo semplice dato tecnico (la Banca centrale crea moneta) dovremmo articolare un minimo di riflessione politica. Perché punturini, ggiovani, e simili sono tossici? Perché sono egoticamente confinati in una dimensione epifenomenica della realtà: io non trovo lavoro, mio padre ce l’aveva, quindi mio padre ha rubato il lavoro a me; io vengo soggetto a un obbligo, quindi ora c’è un problema, prima tutto andava bene! La parola metodologicamente sbagliata, quella che genera uno scollamento temporale (il lavoro del padre si è svolto al tempo del padre e non era quindi, a meno di avere la DeLorean in garage, in concorrenza con quello del figlio; il problema c’era anche prima, e svegliarsi prima forse avrebbe contribuito a evitare che al Governo ci andasse chi lo aveva causato), è, naturalmente, io, che prima di essere un raglio è, come sanno le persone colte, il più lurido dei pronomi.

Tutto, incluso i problemi percepiti dagli egotisti tossici, nasce da una decisione che non è italiana, ma globale, perché riflette il rovesciamento a livello globale dei rapporti di forza fra capitale e lavoro: il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia (qui trovate tutti i post dedicati all’argomento, se suggerirei di ripassarli). L’esplosione del debito pubblico italiano è strettamente connessa a quella decisione, come sappiamo. Per chi si fosse messo in ascolto solo ora, ricordo che la decisione della Banca centrale di non intervenire a sostegno delle emissioni di titoli del debito pubblico (cioè la decisione di mettere questo finanziamento esclusivamente in mano a risparmiatori e mercati) costrinse il Tesoro a praticare tassi di interesse più alti, e in definitiva a indebitarsi per pagare gli interessi sul debito, che così raddoppiò in un decennio, andando (a spanne) dal 60% al 120% del Pil nel corso degli anni ’80. La prodigalità delle generazioni passate c’entra il giusto: queste generazioni sono anche quelle che poi avevano riportato il rapporto al 100% prima della crisi, per dire. Il dato determinante è la sconfitta del lavoro e la vittoria della rendita finanziaria: il capitale finanziario, “i mercati”, resi arbitri del destino dello Stato, contitolari (con la magistratura) della funzione di indirizzo politico, da decenni si pappano l’avanzo primario dello Stato, un avanzo che va, appunto, a remunerare l’abnorme crescita del debito determinata da quella lontana decisione.

Come vi spiegai tanto tempo fa, qui il problema non è nemmeno Leuropa. Certo, il Trattato di Maastricht ha consolidato in una norma di livello (secondo alcuni) sovracostituzionale quello che finora era un semplice gentlemen [si fa per dire] agreement o poco più, iscrivendolo in quello che alla fine è diventato il comma 1 dell’art. 123 del TFUE (prima era l’art. 101 del Trattato di Maastricht). Ma in questo senso Leuropa, come nella sua migliore tradizione, semplicemente eseguiva gli ordini, recependo nell’ordinamento eurounitario la Grundnorm, unica e totalizzante, della Terza globalizzazione: l’egemonia dei mercati sugli Stati, realizzata attribuendo ai mercati (per un supposto interesse superiore, quello della “stabilità” e della lotta alla corruzione) il ruolo di finanziatori unici degli Stati, che venivano così privati di una delle loro ragioni costitutive, quella di battere moneta. Certo, al disopra di questa decisione, come antecedente logico e politico, c’è l’affermazione di un mondo unipolare, la “sconfitta del comunismo”, che già all’inizio degli anni ’80 arrancava visibilmente. Il punto che però ai newcomers sfugge è che una cosa che loro danno per scontata, cioè che lo Stato debba rivolgersi al mercato per “avere i soldi” che “non ci sono”, tanto scontata non è: è una decisione politica ed è uno snodo determinante, lo snodo da loro non percepito da cui derivano i problemi che loro riescono a percepire!

Se il ggiovane deve fare una vita di merda è perché allora, nel 1981, non i suoi genitori, ma Ciampi e Andreatta, decisero di mettersi al vento e di far esplodere il costo del finanziamento del debito pubblico. Quindi “Ciampi e Andreatta brutti cacca pupù!”, come si legge in tanti blog di altre neoplasie (gli zerovirgolisti tutti imparaticci e distintivo)? Ma, insomma, sarei più attenuato: il fenomeno è stato globale, come di dati a voi noti mostrano:

ed è difficile valutare se sarebbe stato possibile all’epoca fare altrimenti. Il GenZino potrebbe dire: “Sì, però papà ha votato per Ciampi e Andreatta!” (per Ciampi no, ma lasciamo stare). Beh, anche questo ragionamento non tiene semplicemente perché la decisione, imposta dalla violenza dei fatti, è comunque stata presa al difuori di un circuito democratico. Certo, se la decisione fosse stata esplicita, fosse stata dibattuta in Parlamento, si sarebbe potuto fare un discorso di onestà: “Cari lavoratori, avete perso, quindi ora o tiriamo i remi in barca, o ne pagheremo le conseguenze nei lunghi anni a venire!” Sì, è ovvio che nessun politico potrebbe mai fare un discorso del genere, ma ci siamo capiti: una serie di cose che si sono dovute fare dopo si sarebbero potute fare prima (tenendo per un momento da parte l’allettante ipotesi di fare la guerra “ar monno”, tanto cara ai Rodomonti da sei preferenze…).

Resta però il fatto che se oggi il povero GenZino non ha un futuro, non è perché suo padre ha una pensione (la gestione INPS è squilibrata dal lato dell’assistenza, quindi, ad esempio, del reddito di divananza o reddito della gleba, non dal lato pensionistico, come potrete apprendere qui se non lo sapete), ma perché lo Stato ha dovuto tagliare gli investimenti pubblici per pagare quegli interessi sul debito la cui abnorme esplosione è stata concausata da una decisione che con la pensione dei genitori non ha nulla a che fare. Anzi! I GenZini sono vittime, porelli, di una decisione presa per togliere ai genitori quel poco di pensione che avrebbero potuto avere, per costringerli a rivolgersi al circuito finanziario (secondo pilastro and all that) onde assicurarsi un minimo di reddito dopo l’attività lavorativa. Il nemico dei GenZini non sono i loro genitori: è il nemico dei loro genitori, quello che ha voluto un mondo dove occorressero due stipendi (quello del genitore 1 e quello del genitore 2) per farne uno, e due pensioni (la pubblica e l’integrativa) per farne una (incidentalmente, qui vedete come una certa retorica dell’emancipazione e una certa retorica del conflitto generazionale sono entrambe funzionali al discorso del capitale finanziario: il che non significa che la realtà dell’emancipazione e del conflitto generazionale non siano positive, ma che a retoriche loro stanno messi molto meglio di noi!).

Se mai gli arriverà in testa, ai GenZini, questa cosa ci metterà molto tempo, perché abbiamo capito che per arrivarci non passerà dal meato uditivo esterno ma dal retto: dieci metri e oltre più lunghi e più dolorosi da percorrere di due centimetri e mezzo.

Spiaze tantissimo, anche perché di tempo non ne abbiamo molto, ma tant’è…

Analogamente, il punturino che ci racconta quello che sapevamo, cioè che in Svezia la gestione è stata più efficiente, magari dovrebbe porsi una domanda: non sarà mica che la Svezia è meno ricattabile?

Ma capisco che non si può chiedere agli altri uno sforzo di astrazione, di faticosa risalita della catena causale: gli altri vogliono soluzioni, possibilmente prescindendo dalla conoscenza del problema. Il problema, per come lo pongono nelle loro rivendicazioni, è quello che sento IO: e tanto basti!

Peccato che chi ragiona così sia, appunto, un pezzo del problema…

Concludo tornando al ponzante ponzatore: da De Grauwe può nascere un utile ripasso. Spero che vi sia stato utile, e vi lascio con una domanda. La Banca centrale può condizionare l’attività economica regolando direttamente o indirettamente l’offerta di moneta (cioè la concessione di credito) attraverso il tasso di interesse. Se il tasso di interesse praticato dalla Bce sale, salgono quelli praticati dalle banche per concedere credito, la domanda di mutui scende, l’economia rallenta, ecc. In questo modo si manda in recessione l’economia, che è l’unico modo che la Banca centrale abbia per controllare l’inflazione, visto che essa non dipende dalla moneta ma dalla domanda (altra ammissione epocale passata inosservata ai più).

Bene.

Questo però presuppone che di moneta, e di annesso circuito del credito, ce ne sia una: credo in unum eurum (ma anche in unam liram: per quello che voglio dirvi non cambierebbe molto).

Bene.

Tuttavia la transizione digitale porta con sé una transizione monetaria, che ha generato, via Fintech e altre innovazioni, un florilegio di varie monete, e quindi di ulteriori canali di raccolta ed erogazione del credito. Che impatto ha l’esistenza di queste alternative sulla capacità della Banca centrale di condizionare l’attività economica, di mandarla in recessione quando occorre, cioè, in termini più asettici, sul “meccanismo di trasmissione” della politica monetaria?

Su questa domanda che, mi rendo conto, sembra molto “tecnica” (dormite tranquilli!) ci confronteremo al #midterm.

Per tutti gli altri, ovviamente, ci sono i mutui a tasso variabile…

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“Creazione di moneta ed eutanasia del contribuente” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Unione o transizione? La radice del fallimento europeo.

Dieci anni fa tentammo per la prima volta l’esperimento del #midterm, e ci radunammo a Roma per parlare di Un’Europa senza euro. Dieci anni, e due elezioni europee, dopo, ci ritroveremo a Roma il 13 aprile prossimo per parlare di Un’Europa senza Euro 6.

I tempi cambiano, ma, come vedrete, non cambiano i temi. Semplicemente, la loro lista si allunga perché ad essa si aggiungono ulteriori declinazioni di un tema, quello della transizione, che è il tema fondante e cruciale del progetto europeo.

Su questo vorrei condividere qualche riflessione con voi, anche per raccogliere vostri stimoli e suggerimenti.

Giandomenico Maione, che abbiamo avuto ospite nove anni fa,  nel suo libro del 2014, Rethinking the Union of Europe post crisis, fa un’osservazione determinante, che deve essere compresa bene, nelle sue implicazioni, se si vuole capire in che razza di vicolo cieco ci siamo cacciati. Osserva Maione che la costruzione europea si caratterizza, più esattamente che i Trattati la caratterizzano, come un processo di transizione perenne verso una “unione sempre più stretta” (ever closer union, art. 1 secondo comma del Trattato sull’Unione Europea). Non è però chiaro quando questa unione potrà essere considerata abbastanza stretta da sancire il compimento di questo processo, di questa transizione, né, correlativamente, che forma dovrebbe prendere un’unione per essere considerata abbastanza stretta.

Basta un collier o occorre proprio una garrota?

Questo essere un processo di eterno avvicinamento asintotico ad un asintoto che non c’è, o non si vede, è un elemento particolarmente tossico per la conduzione di un ordinato dibattito democratico sulla costruzione europea. L’inesistenza di un chiaro obiettivo, che, se ci fosse, andrebbe iscritto nella Costituzione che non c’è (quella europea), genera vari livelli di problemi di delega e in particolare di moral hazard, quella forma di comportamento opportunistico del delegato (il politico) che sorge, appunto, quando il delegante (l’elettore) è nell’impossibilità di accertare la negligenza, o addirittura il dolo, del delegato nel definire il suo compito. Se questo compito è indefinito, è definito come una transizione, non come un obiettivo, accertare l’impegno di chi dovrebbe realizzarlo, accertare se e quanto si sia avvicinato al risultato, diventa intrinsecamente impossibile.

Il problema è duplice. Da un lato, evidentemente, il non sapere verso dove, verso cosa, si stia andando, rende impossibile giudicare se ci si stia andando. Di conseguenza, la concettualizzazione del progetto come eterna transizione rende logicamente impossibile valutare la qualità della leadership europea, e quindi la deresponsabilizza. Qualsiasi cosa essa faccia è sottratta alla critica, pour la simple et bonne raison che se si ignora l’obiettivo se ne ignorano distanza e direzione, e quindi resta impossibile valutare se chi è in quel momento al governo abbia compiuto passi nella direzione di guida e con la giusta velocità. Si aggiunga che questa radicale indeterminatezza apre alla possibilità  che la definizione dell’obiettivo finale sia dettata da umori estemporanei, come quelli determinati dallo stato di eccezione implicitamente causato da eventi eccezionali (non a caso, secondo Jean Monnet, l’Unione Europea sarebbe stata “la somma delle soluzioni trovate alle crisi”: perché queste soluzioni, dettate dalla violenza dei fatti, avrebbero imposto la concretezza di un obiettivo definito: risolvere, appunto, la crisi. Inutile dire, e lo si sta vedendo ora col PNRR, che una panoplia di strumenti creati in condizioni di emergenza non necessariamente costituisce l’ossatura di una Costituzione in grado di assicurare i necessari pesi e contrappesi in condizioni di normalità). L’obiettivo volta a volta perseguito, o presentato come perseguendo, poi, è anche alla mercé di rapporti di forze altrettanto estemporanei e transitori fra i singoli Stati membri, rapporti soggetti all’alea dei singoli processi politici nazionali.

Si trova forse scritto da qualche parte che l’obiettivo sia l’elezione diretta del Presidente degli Stati Uniti d’Europa? No. Però se ne sente parlare come di un obiettivo legittimo, lo si dà per assodato e pacifico, ignorando che un simile obiettivo non è stato né sottoposto a un vaglio democratico né, quindi, tantomeno iscritto in un Grundgesetz condiviso.

D’altra parte, il fatto che non si sappia e non si voglia, in fondo, sapere, che cosa l’Unione Europea debba essere, il fatto che non si sappia a che cosa debba condurre questa transizione, rende non solo impossibile valutare se ci si stia avvicinando all’obiettivo finale (e su questo ci siamo intrattenuti fin qui), ma anche se questo obiettivo sia sensato. Se non sai dove stai andando, ovviamente non puoi sapere se ci vuoi andare. Nel dibattito hanno corso solo le valutazioni implicite e scombiccherate di natura comparativa, riferite a esperienze federali sul cui successo ci si potrebbe interrogare da diversi punti di vista (come più volte ricordato, nella creazione degli Stati Uniti d’Europa a noi sarebbe riservata la sorte non brillante dei nativi) e il cui percorso storico è comunque stato totalmente diverso dal nostro, procedendo, per lo più, da una operazione di tabula rasa delle popolazioni o comunque delle culture autoctone che qui in Europa non c’è stata, nemmeno con tutto il male che ci siamo inflitti, e difficilmente ci potrebbe essere. Questa indeterminatezza del punto di arrivo apre allo sgradevole fenomeno per cui, nel momento in cui i cittadini si accorgono che le cose non stanno funzionando come promesso, che la transizione verso una Unione sempre più stretta non sta “deliverando”, come dicono quelli bravi, basta dirgli che se il processo non funziona è solo perché non è ancora compiuto, cioè che ci vuole più Europa. Naturalmente ciò che rende possibile argomentare impunemente il progetto non sia ancora compiuto è il semplice motivo che nessuno sa quale dovrebbe esserne il compimento! In altre parole, la natura di eterna transizione verso l’ignoto del progetto europeo è esattamente ciò che fornisce un fondamento logico all’argomento che altrimenti apparirebbe fallace, ma che tante volte sentiamo ripetere con apoditticamente: quello che attribuisce i fallimenti dell’Europa al fatto che ce ne vorrebbe di più!

Incidentalmente, questo schema logico, lo schema del “ci vuole più”, nato e messo in campo nel dibattito sull’Unione europea, è poi stato applicato anche ad altre situazioni di transizione verso l’ignoto. Pensate ad esempio alla gestione della pandemia! Quando era assolutamente acclarato che un certo approccio terapeutico non aveva le proprietà che gli erano state date attribuite, cioè quelle di immunizzare e sterilizzare i pazienti (nel senso di: renderli incapaci di contagio), la risposta, come ricorderete, è stata che ce ne voleva di più (“ci vogliono più dosi” era la declinazione sanitaria del “ci vuole più Europa”).

Essendo l’Unione Europea ontologicamente una transizione, non stupisce che la transizione sia la cifra della sua azione politica. Nei fatti, quello che l’Europa ci propone oggi è un florilegio di transizioni: la transizione ecologica (o ambientale, o energetica, che si voglia); la transizione digitale; il sostegno a una serie di altre transizioni di cui l’Unione si fa paladina, nella dimensione che ha assunto di stato etico, e che riguardano la sfera più intima di ogni singolo individuo. L’importante è il processo, la fluidità, e non il punto di arrivo, l’identità. Questo, se ci pensate, è il motivo per cui identità e democrazia sono logicamente connesse. Naturalmente un pezzo di questa storia è che è il processo, e non il punto di arrivo, a giustificare l’esistenza di un clero sterminato e opaco di burocrati, il cui compito è appunto quello di farci transitare, di farci transumare. Sono loro i Pastori di questa eterna e indefinita transumanza, e come tutti i Pastori essi rivendicano un ruolo di guida e pretendono un rispetto sacrale.

Restano da mettere a fuoco alcune visibili asimmetrie, o incoerenze che dir si voglia.

Ad esempio, perché per ogni singola transizione al dettaglio (ecologica, ambientale…) la governance europea ci propone obiettivi quantitativi e tempi specifici, veri e propri benchmark in base ai quali si riserva il diritto di dichiarare il successo o l’insuccesso dei suoi singoli Stati, mentre per la sua propria transizione, quella verso unione sempre più stretta, l’Unione Europea non si propone né un obiettivo definito né dei tempi precisi, sottraendosi quindi alla possibilità di vaglio democratico degli elettori? I politici, e i burocrati, europei non possono sbagliare, non sono accountable, non tanto perché sono loro a fissare a se stessi l’asticella, quanto perché questa asticella è evanescente, non c’è! Sì, certo, Ursula, che sia stata o meno corrotta dai cinesi, con il “grande balzo green” ci ha mandato a sbattere, esattamente come 65 anni fa il compagno Mao mandò a sbattere la Cina, e questo lo pagherà, gli elettori avranno voce in capitolo. Un errore simile, però, alla fine è meno disastroso del non sapere dove si stia andando e in quanto ci si debba arrivare. Alla fine, aldilà di tutti i fronzoli e gli accidenti o incidenti di percorso (come quelli che hanno colto impreparati i poveri punturini, ma non che, come noi, li aveva visti arrivare), al di là quindi di epifenomeni come la censura, il controllo manu militari dei social, lo sforzo profuso per condizionare l’opinione pubblica, ecc., più di tutto questo (che è comunque “tanta roba”), la natura antidemocratica, anzi direi ademocratica del progetto europeo risiede in questo: nel suo essere un processo ontologicamente refrattario alla valutazione da parte di un qualsiasi circuito democratico per il semplice fatto di essere un processo verso l’ignoto, verso un obiettivo non specificato se non come work perennemente in progress.

Questo in qualche modo è anche l’aspetto più nuovo e più inquietante. La censura è sempre esistita, il potere ha sempre ristretto con violenza più o meno esplicita il diritto di critica (e qui ne sappiamo qualcosa: ricordate quando ci negavano le aule a Tor Vergata, per dirne una (l’incontro annunciato qui non si è svolto, e non perché io avessi judo)? Ricordate come è nato questo blog?). Il controllo sociale è sempre esistito anche quando non veniva esercitato in forma digitale: può piacere o dispiacere come considerazione, ma si può ragionevolmente argomentare che alcuni aspetti del fenomeno religioso siano stati agiti con funzioni di controllo sociale, un controllo forse più pregnante di quello esercitato dall’Unione europea ma, attenzione, basato sostanzialmente sugli stessi meccanismi simbolici e archetipici. Vogliamo parlare, ad esempio, del tema della colpa, agilmente sostituito da quello del debito pubblico, o della redenzione, che nella religione europea conserva la “r”, quella di “riforme”? La mistica dell’espiazione, della purificazione, del percorso verso la redenzione, insomma: di quella transitio Crucis che sono “le riforme” (altro concetto indefinito, peraltro…), permea tutto il discorso politico europeo, per il semplice motivo che chi lo gestisce ha avuto la scaltrezza di fare proprio un armamentario archetipico che in tutti noi, atei compresi, tocca corde profonde. Censura, controllo sociale, compressione del dibattito, linguaggio sacrale, però sono sempre esistiti: fanno un po’ tenerezza i punturini che se ne accorgono oggi, e che forse, per accorgersene prima, invece di leggere per finta Orwell, avrebbero dovuto leggere sul serio Balzac. Il dato radicalmente nuovo, e quindi difficilmente gestibile, del momento storico in cui viviamo è che oggi essi vengono esercitati in nome di un’autorità che non si sa cosa sia, e quindi che cosa possa garantire in cambio (a parte il ciarpame propagandistico sui decenni di pace e di prosperità). Chi ci restringe non è “lo imperatore”, non è un monarca vestfaliano, non è una Repubblica liberale borghese: è un po’ di tutte queste cose, senza essere in realtà nessuna di esse.

Ed è appunto questo l’elemento che dovrebbe allarmarci.

Oggi le miserevoli vicende della rivoluzione “green” lo hanno fatto capire ad una certa fascia di pubblico, quello particolarmente attaccato al proprio autoveicolo: a Bruxelles ti dicono di andare da una parte prima di aver capito, e senza avere la volontà di capire, da che parte ti stanno dicendo di andare.  Al #midterm ne parleremo con Riccardo Ruggeri, un altro amico che ci ha accompagnato nel nostro percorso (lo ricorderete al #goofy9 parlarci di CEO capitalism). Purtroppo, se l’automobile è un concetto concreto, tangibile, esattamente come lo era il dischetto di metallo chiamato euro, la libertà, la democrazia, l’ordinamento giuridico, la legge fondante di uno Stato o di una comunità, peggio ancora la necessità che una comunità si aggreghi attorno a una norma fondante, sono concetti molto più impalpabili ed evanescenti, appartengono a quella categoria di concetti che nella mente del grande pubblico possono essere definiti solo per negazione. Ci sono infatti cose che, per qualche strano meccanismo di psicologia delle masse (materia a me totalmente ignota), i popoli tendono a rimpiangere quando li hanno persi, molto più che a difenderli quando li hanno ancora. Questo significa che la battaglia che qui da tempo stiamo compiendo per destare a razionalità il maggior numero di interlocutori possibili è oggettivamente una battaglia ardua.

Alle difficoltà appena enunciate se ne aggiunge una fondamentale, di metodo, consistente nel fatto che dobbiamo tutti chiederci quanto il fare il bene degli altri contro la volontà degli altri non coincida poi esattamente col ributtante paternalismo dei Padoa Schioppa, dei Ciampi, e via discendendo.

Bisognerebbe insomma chiedersi che senso abbia lottare per la libertà e l’autodeterminazione di persone che forse preferirebbero restare schiave! Non è un tema secondario, tutt’altro. Il fatto che in Italia esista ancora uno zoccolo duro, apparentemente inscalfibile, di persone che si riferiscono al partito che ha fatto un investimento politico massiccio su questo progetto di “depowerment” e di “unaccountability“, cioè il PD, ci deve incutere non solo e non tanto scoraggiamento, quanto rispetto. Non è escluso, e comunque non va escluso, che siamo noi dalla parte del torto e che invece le magnifiche sorti e progressive di questo processo storico rettilineo verso lo stringersi sempre di più intorno a una cosa che non si sa cosa sia, possa essere effettivamente l’uovo di Colombo, quello che ci mancava e ci manca per ottenere pace e prosperità (e quindi che ce ne voglia “di più”). Certo, la posta in gioco è elevatissima, e quindi ognuno di noi ha il diritto di portare avanti una visione alternativa rispetto a quello che scarnificato dai cascami di una propaganda lezza e putrida ci appare come un’ossatura logicamente incoerente. In questa, come in tante altre cose, si potrebbe argomentare che la gravità delle conseguenze sia tale da determinare una sorta di stato di eccezione, ma qui si entra in una circolarità che è etica prima ancora di essere logica: non possiamo combattere quelli che legittimano se stessi affermando di essere migliori di noi, affermando a nostra volta di essere migliori di loro. Questo modo di fare si attaglia a un un asilo infantile, ma se applicato al mondo degli adulti è, come infiniti esempi anche recenti dimostrano, il germe di sanguinosi e sterili conflitti.

Nel nostro appuntamento di metà anno ci occuperemo quindi non tanto della transizione dell’Unione, del suo punto di arrivo (Stati Uniti d’Europa? Confederazione?… per citare due degli slogan che in modo ricorrente vengono riproposti a vanvera nel dibattito), quanto delle transizioni che l’Unione ci propone, e in particolari di due di esse: quella digitale, di cui la transizione monetaria è un sottoprodotto, e quella ecologica. Due transizioni, si badi bene, che oltre ad avere delle rilevanti contraddizioni interne, tant’è che la transizione ecologica si sta già accartocciando su se stessa, sono anche contraddizione reciproca. La transizione digitale infatti, come del resto la stessa transizione ecologica, richiede una enorme quantità di energia e di materie prime, che non possono essere estratte dalle viscere della terra senza causare un impatto ambientale. Esiste quindi un trade off piuttosto evidente fra digitale e green, e la narrazione che dice di voler portare avanti in parallelo queste due rivoluzioni è un’altra narrazione intrinsecamente truffaldina. Oggi, per fare un esempio, il Bitcoin è uno stato grande quanto la Malesia, e una singola transazione in Bitcoin impiega tanta acqua da riempire una piscina da giardino. L’energia necessaria per alimentare la tecnologia a registri distribuiti sottostante al Bitcoin assorbe una quantità di energia stimata attorno ai 159 TWh (a mezza strada fra i consumi elettrici dell’Egitto e della Malesia: l’Italia è a circa 296 TWh). Non tutte le tecnologie digitali sono così impattanti, naturalmente. Ma l’idea che il “digital” sia amico dell’ambiente perché sostituirebbe la carta che è cattiva perché uccide i nostri amici alberi è totalmente infondata e caricaturale! Non è certo per merito del “diggital” che la superficie dei boschi italiani è in aumento. Un’idea che appartiene appunto a quell’argomentario demagogico, emotivo, basato su sollecitazioni archetipiche, cui ricorre sapientemente il clero europeo per giustificare le proprie decisioni, concepite astrattamente nelle stanze di Bruxelles, tanto impermeabili alla democrazia quanto permeabili dalle lobby. Questo è tanto più vero in un paese in cui, come ben sa chiunque faccia qualcosa, qualsiasi cosa, e da questa eletta schiera tiriamo ovviamente fuori i commentatori televisivi e i giornaloni, in un paese in cui ogni processo amministrativo digitale deve essere replicato in cartaceo perché tale è la volontà della pubblica amministrazione.

Del fondamento, della natura, e delle contraddizioni di queste rivoluzioni parleremo con due esperti che avete conosciuto all’ultimo goofy, dove hanno avuto uno spazio troppo ristretto: Gianluca Alimonti e Michele Governatori. A commentare il loro confronto, e questa è una novità metodologica che sottopongo alla vostra sagace attenzione, avremo un panel di amministratori di società del settore, cioè di uomini pratici, quelli di cui Keynes un po’ diffidava, ma senza i quali, vi garantisco, non sarebbe possibile mandare avanti la baracca. Sarà utile per voi capire se e quanta consapevolezza dei limiti di certe retoriche esista nelle classe dirigente, come sarà utile per la classe dirigente capire quanto interesse esiste per certi temi, e quanta attenzione le ordinary uninstructed persons pongono al loro lavoro.

E questi sono solo alcuni dei temi che tratteremo. Per gli altri (euro incluso), ci leggiamo domani (cioè oggi), o forse dopodomani, cioè a Pasquetta. Il link per la registrazione è qui.

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“Unione o transizione? La radice del fallimento europeo.” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Una precisazione e una richiesta

 (…una delle tante fatte nel corso dei decenni…)

(…all’ombra…)

Non è che perché gli altri propongono soluzioni assurde (per motivazioni ideologiche, per deficit intellettuale, per corruzione, non importa), che noi dobbiamo dire che il problema non c’è.

Il problema mi pare ci sia.

Ricordo a tutti, prima che si apra il dibattito, che il modo migliore per valutare una soluzione è vedere se è coerente con la narrazione del problema, che gli anni si vivono uno alla volta, e quindi tre  o quattro “eccezioni” di fila diventerebbero comunque difficili da gestire, sotto ogni profilo, considerato che i nostri tempi non sono quelli geologici, ma quelli della nostra effimera biologia.

Quanto detto vale per l’una e per l’altra parte: per chi è sicuro che le emissioni non c’entrino nulla, e per chi è talmente sicuro che c’entrino che per combatterle è disposto perfino… a farne di più!

(…al #midterm parleremo anche di questo, e a questo proposito ho una richiesta da farvi: quali sono, a vostro avviso, i grafici più iconici, più usati, o più abusati, per sostenere i meriti dell’una o dell’altra parte, per intenderci, degli elettricisti e dei gasati? Nella vostra frequentazione quotidiana del liquame social, quali argomenti – possibilmente riassumibili in grafici – vedete utilizzare? Io ormai non vedo neanche più, il mio filtro fa passare solo la banda dei segnali deboli, ma suppongo che ci siano grafici che dimostrano che stiamo bollendo, grafici che dimostrano che non sta succedendo nulla, grafici che pesano l’anidride carbonica, grafici che pesano i ghiacci negli oceani, ecc. Probabilmente Critica climatica è una buona fonte di immondizia – peccato che a sua volta non ne citi la fonte, rendendosi ahimè poco utile – e un motivo ci sarà! Se ne aveste e poteste suggerirli mi facilitereste di molto il lavoro e ve ne saremmo grati in due…)

Post scriptum del 31/3/2024, ore 11: cari amici, vedo che non riesco a farmi capire. A me non interessa aprire un dibattito sulle cause del riscaldamento globale! Mi interessa aprire un dibattito sulle soluzioni proposte. Voi direte: ma se non appuri la causa, come puoi trovare una soluzione? Giusto! Ma le dinamiche del dibattituccio che si è aperto su questo tema ci mostrano chiaramente che qui siamo a livello identitario e religioso. La sinistra ha fatto di questo tema la nuova lotta di classe (peccato che sia al contrario) e per convincere i suoi adepti della loro superiorità morale ha abusato, nelle forme che le sono consuete, del principio di autoritarietà. Non ha senso contestare i dogmi, a mio avviso, tanto più quando sono sostenuti da una pioggia di miliardi (nostri) spesi in propaganda. L’operazione che mi interessa è diversa: non riflettere sui cicli di Milankovic (ringrazio comunque Fabio per i suoi contributi sempre utili), ma ragionare su quanta energia servirebbe se tutto fosse elettrificato, quanto rame occorrerebbe per metter su tutte le colonnine di ricarica, come risolvere il problema dell’intermittenza, come si incrocia lo sviluppo dell’offerta rinnovabile con quello della domanda “diggital end grin”, ecc. Io credo a tutto, quindi credo anche alla cioddue, all’austerità che fa crescere, ecc. Però se guardo i dati nel secondo caso, vorrei guardarli, e farli discutere, anche nel primo. Claro?

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“Una precisazione e una richiesta” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Addendum al dizionario

(…il processo di enshittification di Twitter procede a passi spediti. Nonostante qualcuno pensi, e dato le alternative si possa anche credibilmente sostenere che, Elon sia uuuuuuuuuno di nooooooooooi!, la realtà della mia user experience, e a quanto vedo oggi anche della vostra, è che la situazione si stia degradando in un letame dal quale non può nascere che un fiore, quello maleodorante del vaffanculo. Fra Imbecilli Autentici e Intelligenze Artificiali, è inevitabile che tenda asintoticamente a zero l’interesse per un luogo in cui il rapporto troll/interlocutori tende esponenzialmente all’infinito, tanto che sto pensando di tirarmene fuori, almeno per un po’, considerando che il tempo che nevroticamente finisco per dedicare a quel buco nero e maleodorante è, in fondo, tutto tempo che sottraggo a voi e quindi a un confronto più civile e argomentato. E anche se voi, lì, date spesso il meglio, con interventi incisivi e satirici che mi strappano di quando in quando un sorriso, alleviando la fatica del vivere quotidiano, anche se dal liquame putrido ogni tanto aggalla una notizia, la trasformazione in piattaforma di “microblogging” – si dice così? – con tweet o thread lunghissimi in cui invece di cercare la sintesi ci si abbandona alla lurida tentazione di spiegare agli altri come va “er monno”, cercando l’applauso di chi la pensa come noi, o pensa di pensarla come noi, o pensa di pensare, mi sta irreversibilmente disamorando, ricopre di una cappa di plumbeo disinteresse un mezzo che una volta, almeno, aveva il richiamo di costringere a una ricerca espressiva, ed era, non fosse che per questo, destinato agli happy few. Pochi possono esprimersi con poche parole, con molte parole possono ambire a farlo in molti… Le guerre esplicite, poi, e prima ancora la pandemia, hanno trasformato la piattaforma in un lugubre corteo di pretenziosi saccenti con la verità in tasca, tutti smaniosi di propinarvela e di imporvela ricorrendo alla ributtante pornografia de “i bambeeneeh”, che, non si sa bene perché – cioè si sa benissimo! – sono sempre i propri, e mai gli altrui. Ogni volta che un cialtrone in utroque posta su Twitter una foto di “bambeeneeh” un romanzo di Dostoevskij va in autocombustione: il nostro secolo è quello del male della banalità, della banalità che è incapace di riflettere sul male. D’altra parte, nessuna riflessione sul male ha mai arginato il male, anche se da queste riflessioni emerge nitida una allarmante regolarità: il male è causato da chiunque voglia imporre il bene… E così, mentre si annulla lo spazio logico per un confronto razionale e argomentato, dall’altro si annega nello spazio tipografico l’icastica concisione che il luogo prima imponeva, rendendolo, se non meno tossico, più fruibile. Non che fosse, questo, un esito inatteso! Da un lato è piuttosto ovvio che fra noi e uno degli uomini più ricchi del pianeta non possano esserci tantissimi punti di contatto, a parte quelli dati dalla comune appartenenza all’umanità e dal fatto che l’uomo è spiritoso e spesso strappa un sorriso. Io gli sarò per sempre grato di averci sciacquato da torno “er Barbetta”, ma in termini di dinamiche oggettive, ripeto, differenze significative non ne vedo. D’altra parte, un po’ come sarebbe complicato argomentare che un coltello possa essere usato per suturare, vedo arduo immaginare che una infrastruttura messa su non per liberarci, ma per controllarci e condizionarci – perché i social questo sono – possa, salvo casi felici, costituire un grande momento di presa di coscienza democratica e di empowerment – che non ho mai capito come si traduca – dei proletari digitali di tutto il mondo! L’appello alla libertà di pensiero fatto da chi ha i mezzi per imporre senza troppe difficoltà il proprio pensiero suona vagamente ipocrita, nei fatti non pare sia molto più che un elemento di marketing utile ad attrarre un pubblico in crescita – e l’intelligenza dell’uomo sta nell’averlo capito: il pubblico di quelli che non vogliono che altri dicano loro come pensare. Ci sono però forti probabilità che la musica non cambi, cambi solo il suonatore. Fra le conseguenze ancillari – ma non tanto – di questa enshittification ce n’è una da cui vi avevo messo in guardia per tempo: un luogo costruito per reprimere il dissenso non può che essere disseminato di trappole per chi dissente! A parte l’ovvio fatto che chi dissente, se lo fa in un regime a democrazia impoverita, dovrebbe avere tutto l’interesse a non farsi tracciare – e non mi fiderei troppo dell’anonimato, amici miei, perché ove le cose si mettessero male i vostri indirizzi IP, e una pletora di altri dati di localizzazione, potrebbero facilmente essere usati contro di voi – resta il dato, vecchio come il mondo, che qualsiasi corpo sociale – che sia una manifestazione, una riunione di partito, o un social – può essere infiltrato da agents provocateurs allo scopo di causare incidenti, e uno dei più evitabili, ma anche inevitabili, in quell’ambiente sommamente infiltrabile che è Twitter è la querela! Non è un caso se qui l’esigenza di non cadere vittime di rappresaglie da parte delle “luride carogne perbeniste della gauche caviar” è stata evidenziata ben undici anni fa, originando il nostro Dizionario, del quale vi propongo oggi tre rapide integrazioni…)

Invece di dire:
Prova a dire:
Non me ne frega un cazzo!
Lo leggerò con interesse.
L’AD e il presidente si stanno scannando.
L’AD e il presidente sono sinergici.
Non capisce un cazzo!
È un gran lavoratore.
(…proseguite voi…)

(…e sì, lo avrete capito: con il progressivo ampliarsi delle mie frequentazioni si sono moltiplicate le occasioni per praticare il mio sport estremo preferito: l’eufemismo. D’altra parte, se la lezione di questo post è che viviamo in una gigantesca bolla di ipocrisia, nell’attesa che qualcuno, o meglio qualcosa, ci fornisca lo spillo per bucarla, l’unica via percorribile è, come sempre, quella di sfruttare la forza dell’avversario. E siccome parte integrante di questa forza è il metodo, facciamolo nostro e usiamolo a nostro vantaggio. Vedete altre possibilità? Immagino che Valeriuccio ne veda: lui, a cavallo di un triciclo e con lo scolapasta in testa, muove mestolo in resta guerra ar monno in nome della purezza e durezza – de coccia – d’antan. Ma oggi il problema è un altro, è quello adombrato nel post precedente. Faccio i miei migliori auguri a chi pensa di essere più bravo di me: la cosa mi rassicura, perché certamente beneficerò dei risultati del suo lavoro! Nell’attesa, scusatemi, ma preferisco prenderla a ridere per non piangere…)

(…il che non toglie che ogni tanto vi beccherete un post come il precedente…)

(…con l’occasione vi ricordo che fra due settimane saremo a Roma per il midterm. La prima legge della termodidattica mi solleva dal peso di spiegarvi perché la vostra presenza oggi, oltre a essere sempre gradita, è anche particolarmente utile. L’esperienza fatta il 28 luglio del 2021 è eloquente, per chi l’ha saputa capire. Ora mi muovo verso Ovest, e più tardi vi racconto di che cosa parleremo il 13 aprile. Datevi una mossa perché la sala è quella dell’altra volta, e oltre a voi adorabili sciroccati avremo anche “classe dirigente” fra il pubblico: non è detto che coinvolgerla sia determinante – nulla lo è – ma senz’altro non coinvolgerla non ci ha aiutato, finora…)



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“Addendum al dizionario” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

“Il Signore ti dia altri cento anni!”

Fabrice, ayant l’air de marcher au hasard, s’avança dans la nef droite de l’église, jusqu’au lieu où ses cierges étaient allumés ; ses yeux se fixèrent sur la madone de Cimabué, puis il dit à Pépé en s’agenouillant : Il faut que je rende grâces un instant ; Pépé l’imita. Au sortir de l’église, Pépé remarqua que Fabrice donnait une pièce de vingt francs au premier pauvre qui lui demanda l’aumône ; ce mendiant jeta des cris de reconnaissance qui attirèrent sur les pas de l’être charitable les nuées de pauvres de tout genre qui ornent d’ordinaire la place de Saint-Pétrone. Tous voulaient avoir leur part du napoléon. Les femmes, désespérant de pénétrer dans la mêlée qui l’entourait, fondirent sur Fabrice, lui criant s’il n’était pas vrai qu’il avait voulu donner son napoléon pour être divisé parmi tous les pauvres du bon Dieu. Pépé, brandissant sa canne à pomme d’or, leur ordonna de laisser son excellence tranquille.

(…sempre più spesso “mon excellence” si imbatte in mendicanti, cioè in quelle persone che ci offrono l’opportunità di aiutare in concreto quell’umanità per la quale tutti siamo disposti a spenderci in astratto, quelle persone che pongono, a chi voglia porsele, due domande impegnative: “come ha fatto a ridursi così?” e “io, al suo posto, cosa farei?”. Ogni volta, inevitabilmente penso al giovane Del Dongo, travolto sul sagrato di San Petronio dalle conseguenze non imprevedibili della sua trasognata e impulsiva generosità. La reazione istintiva di molti, spesso anche la mia, è quella di ignorare questa presenza più perturbante che importuna. Non è facile sostenere lo sguardo di chi, abdicando alla propria dignità, si affida alla solidarietà altrui. Non lo è, perché non è facile chiedere, non è facile confessare  in pubblico la propria fragilità, e di converso non è facile essere scossi nella propria certezza di essere al sicuro. Perché come è capitato a lui, così potrebbe capitare a te. Certo, anche in questo, come in altri casi, bisogna diffidare dei professionisti! Tuttavia, da un lato, non so a voi, ma a me capita sempre più di sorprendere a tendere la mano persone “come noi”, persone visibilmente istruite ed educate, aggrappate disperatamente a quel minimo sindacale di decoro che le condizioni gli consentono, persone che si avvicinano sussurrando, che in tutta evidenza ancora non si rassegnano, non vogliono ammettere di essere costrette a tanto per tirare avanti. Persone, per semplificare, che vorrebbero lavorare, che un lavoro magari ce l’hanno avuto, o una pensione. Dall’altro, quand’anche fossero dei lazzaroni, resterebbe il fatto che sono uomini, e certo, se da un lato sussidiare il lazzarone è un incentivo – questo è l’argomento abituale di chi si sottrae – d’altra parte soprattutto se sei o pensi di essere cristiano ti sarà capitato di leggere “te autem faciente eleemosynam, nesciat sinistra tua quid faciat dextera tua, ut sit eleemosyna tua in abscondito, et Pater tuus, qui videt in abscondito, reddet tibi.” Le opere di misericordia, insomma, per noi non dovrebbero essere un optional, e vi do una brutta notizia: nel pacchetto non è compresa solo la misericordia corporale dell’euretto abbandonato frettolosamente in mano altrui, ma dovrebbe essere anche compresa la misericordia spirituale della sopportazione e della consolazione, insomma: dell’ascolto, o, se volete, di quello che oggettivamente non possiamo dare, perché noi per primi, ahimè, non l’abbiamo: il tempo.

Del resto, potremmo anche dirci che uno Stato sociale esiste, e che dovrebbe pensarci lui. La teoria è qui, e qui. Sarebbe utile capire, caso per caso, se e quanto sovvenga ai singoli casi particolari, ma, appunto, ci vorrebbe del tempo, quel tempo che forse dovrei prendermi per questa, come per altre cose – incluso il dialogo con voi – ma che viene sacrificato in nome di esigenze più pressanti (a volerne, se ne trovano sempre).

Ieri “mon excellence” usciva da uno dei palazzi del potere vero, dove si era intrattenuto in questioni più o meno rilevanti con un detentore del potere vero, e a un angolo di via del Corso si è imbattuto in una signora anziana, non troppo trasandata. Ho tirato dritto, poi non so perché mi sono fermato, mi sono frugato le tasche, sono tornato indietro, e le ho affidato un pezzetto di carta non troppo stropicciato. Apparentemente quello che non cambiava la vita a me la cambiava a lei: si chiama utilità marginale! Sorpresa e confusa la signora si profondeva in ringraziamenti. E io, preoccupato da un possibile “effetto San Petronio”, a dirle che non doveva, che era il minimo che potessi fare (ma evidentemente era molto oltre il massimo di quanto gli altri facevano), che le auguravo una buona giornata e che mi dispiaceva di non potermi trattenere.

E lei: “Sei una buona persona, il Signore ti dia altri cento anni!”

E io: “Grazie, ma me ne bastano molti di meno!”…)

(…ma è veramente così?…)

(…avrete constatato una certa mia fatica nel proseguire qui il nostro percorso. Non riesco più a star dietro a questa come a tante altre cose, comprese quelle che ho sacrificato a questa. Il tempo che posso dedicarvi si è compresso, la mia ora è una vita di incontri, incontri da organizzare, incontri cui partecipare, e di pratiche da istruire. La solitudine è diventata una risorsa scarsa, la lettura un paradiso perduto, inclusa quella dei vostri commenti, cui altresì non ho più tempo di rispondere, e così il dialogo fra di noi si sfilaccia…






















































[pausa]















































[qui in mezzo ci sono state tre telefonate e infiniti messaggi Whatsapp per una bega riguardante una cosa successa in una regione]





















….si sfilaccia lentamente, inesorabilmente. Sento che vi perdo e ci perdiamo mentre il momento richiederebbe che fossimo più saldi che mai, perché il nemico è in affanno, e questo lo rende particolarmente insidioso, e perché avete dimostrato, con la vostra presenza, di essere in grado di aiutarci a definire una linea più razionale (fra FinDay e voto sul MES c’è un chiaro rapporto di causa-effetto). D’altra parte, in queste pause forzate si accumulano così tanti temi, sono così tante le cose su cui vorrei confrontarmi con voi (pressoché ogni giorno si apre con una conferma degli scenari che abbiamo delineato lungo gli anni, a partire da quelli determinati dalle prevedibili difficoltà di Francia e Germania), che da un lato il motore della narrazione si ingolfa per eccesso di alimentazione, e dall’altro, però, i tempi ridotti per elaborare tutte queste conferme rischiano di confinare il blog a una stucchevole, notarile, autocompiaciuta enumerazione di cose che ci eravamo detti, perché mancano il tempo, il dialogo, il confronto necessari per capire insieme dove queste cose ci portano.

Ma siamo sicuri di non averlo capito, siamo sicuri di volerlo capire, e siamo sicuri di non essercelo già detto?

Alla fine, andremo dove era inevitabile che si sarebbe andati. Quando nel 2011 vi dissi che la Germania avrebbe segato il ramo su cui era seduta mi era piuttosto chiaro, e, ne sono certo, era chiaro anche a voi, che noi eravamo seduti su un ramo più basso. Siamo in quel ricorrente momento della storia in cui il capitalismo deve rianimare il ciclo dell’accumulazione. Qui ormai non può esserci ripresa senza ricostruzione, e per esserci ricostruzione, come vi dicevo in una delle ultime dirette Facebook, di quei lacerti di tempo che riesco a dedicarvi, deve esserci distruzione. As simple as that. Anche il “green” a modo suo era una ricostruzione, la ricostruzione di un mondo (quello green) che non c’era mai stato. Apparentemente questo ci esentava dallo spiacevole compito di distruggerlo, ma in realtà “lu grin” era ugualmente distruttivo e disgregante per il nostro tessuto industriale e per la nostra vita quotidiana, era un’autostrada verso la definitiva e totale subalternità dei nostri Paesi, e quindi non sta funzionando (s’ha mort) perché i cittadini, giustamente, non lo vogliono. C’è un’altra cosa che nessuno vuole, in astratto, ma che poi in concreto si ripresenta, e si andrà su quella lì, sui grandi classici: se debito deve essere – e non può non essere, dati gli squilibri interni all’area, squilibri autoinflitti, ma non per questo meno reali – allora debito sia, ma almeno debito di guerra, debito fatto per una “buona” ragione: la produzione e l’acquisto di armi. Siamo sicuri di non essercelo mai detto? Io sono quasi sicuro di avervi scritto più volte che le tensioni generate dalle nostre assurde regole fatalmente avrebbero condotto a una simile valvola di sfogo. L’abbattimento dei freni inibitori, se da un lato ci libera della mielosa ipocrisia che per anni ci ha presentato i conflitti coloniali come “missioni di pace”, dall’altro è un elemento di ovvia inquietudine.

Alla fine, la mia lassitudine, il mio disamoramento, vengono anche dal fatto che tutto vorrei tranne che scrivere il QED definitivo, anche perché di questi tempi non si sa se qualora esso si palesi ci sarebbe il tempo o il modo di scriverlo, né a beneficio di chi esso verrebbe scritto.

Ma insomma, forse sono troppo pessimista: sarà il tempo, saranno gli anni che passano, sarà la frustrazione di non potervi sempre restituire il molto che mi avete dato né prendere il molto che avete ancora da darmi, ma anche questa curiosità non possiamo scioglierla: dicono i giornali che io sono coinvolto nell’elaborazione del programma per le europee, che a mio avviso sarebbe molto semplice da scrivere: meno Europa!, e in quello che i giornali dicono ci deve essere qualcosa di vero, perché fra un po’ ho una call…)

(…e quindi, pensandoci meglio, in effetti altri 100 anni farebbero comodo, soprattutto se fosse possibile riceverli in due o tre tranche da vivere contemporaneamente, perché da solo è veramente complicata! Ci vediamo presto che devo parlarvi del #midterm…)

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“”Il Signore ti dia altri cento anni!”” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Carità e coscienza

(…aspettando i risultati delle elezioni in Sardegna…)

Da plurimi e convergenti indizi afferro quale sia stato il principale ostacolo alla capacità di coinvolgimento di questo blog, un ostacolo vecchio quanto il mondo, codificato dalla saggezza popolare (ex multis: pancia piena non crede al digiuno), un ostacolo oggettivamente insormontabile.

Spesso ci siamo ripetuti, citando Upton Sinclair, che era inutile cercare di far capire certe cose a persone il cui stipendio dipendeva dal non capirle. Questo è senz’altro vero. Forse è altrettanto e più vero che è impossibile cercare di far capire certe cose a persone convinte che esse non le riguardino.

Il primo tema politico, insomma, resta sempre quello della carità, intesa come l’accorgersi delle cose che non vanno quando ancora non sono capitate a te.

Me ne sono reso conto leggendo qualche giorno fa su Sinistrainrete un articolo del Chimico scettico.

Urgono due premesse: la prima è che sì, ogni tanto leggo Sinistrainrete, è un aggregatore (o, come dice lui, archivio) di blog interessante, ovviamente in diversi gradi di lettura: può darsi che qualcosa sembri interessante a me per motivi diversi da quelli per cui sembra interessante a lui, ma questo poco importa. Chi vi scrive qui è lo stesso che ha aperto il blog tredici anni fa. Resto fra i blog consigliati da Sinistrainrete e credo che ci siano vari motivi per questa scelta che potrà sembrare strana a dei turisti del dibattito. Il primo di questi motivi è che “sinistra” non significa “PD”, che anzi della sinistra è il contrario!

Seconda premessa: del Chimico scettico e del suo blog ho appreso l’esistenza durante la pandemia, anche se il blog preesisteva (risulta iniziato nel 2018). Ho sempre trovato il suo lavoro equilibrato e interessante, se non altro perché a differenza di un altro recente meteorite, Critica climatica, cita le fonti ed è più accorto nel reprimere eventuali pulsioni antipolitiche. Quindi non ce l’ho su con lui, al contrario!, e quello che segue non va letto come una : “Guarda quello [epiteto a piacere] del Chimico scettico che non si rende conto ecc.!”, ma al contrario come uno sconsolato: “Guarda come siamo messi se perfino una persona pregiata come il Chimico scettico si è perso certi dettagli…”.

Quali dettagli?

Faccio prima se vi riporto la frase che ha colpito la mia attenzione: “gli ultimi due anni mi hanno fatto capire com’è che il fascismo si è diffuso in Italia” (in questo articolo).

Ora, noi qui una riflessione sul pericolo di derive autoritarie di vario genere, più o meno assimilabili al “fascismo” storico, l’abbiamo avviata da tanto tempo e su diversi piani: soffermandoci desolati sul conformismo della professione scientifica, tutta pronta a mettere la propria firma sotto a un progetto (quello dell’unione monetaria) in cui i suoi esponenti più autorevoli avevano individuato più di un “effetto collaterale” (e ci dicevamo costernati che se al fascismo si erano opposti in dodici, all’eurismo nella professione accademica si era opposto solo uno); analizzando le conseguenze redistributive delle politiche di austerità (cioè di svalutazione interna) cui l’eurismo naturaliter conduceva, quelle politiche di cui oggi tutti dicono, più o meno convintamente, che fossero un errore, senza però chiarire quale motivazione questo errore avesse, ovvero quali ne fossero i risultati in termini di dialettica fra classi sociali (cosa che noi avevano fatto ad esempio qui, parlando della Lettonia, ma prima ancora qui…); riflettendo quindi sul legame storico fra politiche di austerità, polarizzazione del discorso politico e avvento dei regimi autoritari, un tema che oggi è mainstream, al punto che siamo già alle meta-analisi (cioè agli articoli che sintetizzano i risultati di un’intera letteratura: uno è questo, e vale la pena di dargli un’occhiata), ma che certo era altrettanto mainstream quando dicevo, inascoltato e incompreso sul “manifesto”, che “nel lungo periodo le politiche di destra avvantaggiano solo la destra” (qui), o quando, un pochino (dieci anni) prima del meritorio lavoro di Galofré-Vilà e altri su austerità e ascesa del partito nazista, ci rendevamo conto che Hitler non era il prodotto della mitologica “inflazione di Weimar”, ma dell’austerità (qui ad esempio ce lo documentava Alex), e ce ne preoccupavamo.

Insomma, la riflessione che mi veniva, leggendo le parole del pregiato Chimico scettico, era forse un po’ ingenerosa, e sicuramente molto insidiosa (il rischio del paternalismo è sempre imminente, come, del resto, quello del grillismo). Potrei sintetizzarla così: ci sono tante brave, ottime persone che di questo:

non hanno mai saputo niente (o, peggio ancora, lo hanno metabolizzato aderendo distratte al racconto del mainstream, o magari alla consolante idea che “tanto qui non potrà succedere!”), e che da questo:

non sono (ancora) state attinte.

Ora, attorno a questa constatazione potremmo organizzare diverse riflessioni, ma non ho tempo di farlo in modo sufficientemente strutturato, quindi vi accontenterete.

La prima riflessione è che carità vuole non solo che ci si accorga del Male e lo si contrasti prima che esso ti colpisca personalmente, ma anche che non lo si invochi come strumento pedagogico!

Certo che se il povero Chimico scettico si fosse trovato in mezzo a una strada nel periodo in cui tanti imprenditori si sono tolti la vita forse una riflessione l’avrebbe fatta, ma forse anche no. Come dicevo oggi alla Scuola di formazione, se a molti è passato inosservato il fatto che il percorso storico del Pil invece che alla C di crescita ci ha portato alla D di depressione, ciò significa che essi evidentemente hanno mantenuto o aumentato le proprie posizioni di benessere relativo. Ma allora, visto che la somma deve sempre fare il totale, questo significa anche che moltissimi altri siano stati letteralmente frantumati dalla crisi, al punto da non poter neanche organizzare una riflessione, neanche abbozzare una presa di coscienza. Non è augurando a chi non ha capito di ritrovarsi come il pensionato greco che riusciremo a costruire la diffusa consapevolezza necessaria per cambiare traiettoria.

D’altra parte, la storia dei “punturini” contiene due lezioni importanti e complementari: la prima, per loro, è che puoi disinteressarti di quanto ti accade intorno, ma prima o poi la realtà busserà alla tua porta; la seconda, per noi, è che sulla presa di coscienza individuale, sulla reazione alla minaccia esistenziale diretta, non si può costruire alcun discorso politico di sufficiente respiro.

Insomma: il fatto che altri si accorgano che siamo in una situazione delicata è senz’altro positivo. Senza una corretta attribuzione di responsabilità, però, senza una corretta analisi, rischia di diventare un fatto episodico, effimero, di alimentare il pulviscolo degli “zero virgola”. L’anomalia italiana esiste, ed è nel fatto che chi ci ha condotto da B a D sia ancora in Parlamento con percentuali ragguardevoli, il che significa che c’è una percentuale ragguardevole di italiani che ha visto difesi i propri interessi da chi ha portato il Paese in depressione, o, più probabilmente, che non ha maturato una coscienza sufficientemente lucida di quali siano i suoi interessi.

Come possiamo aiutare questa presa di coscienza?

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“Carità e coscienza” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Il reddito di Giavazzanza e la scoperta della partita doppia

(…il titolo è parzialmente da attribuire a uno dei più simpatici di voi…)

“La posizione del mainstream è in rapida evoluzione”, è scritto nel nostro Dizionario.

Non è del tutto corretto.

Nonostante quanto si dice sull’accelerazione dei processi storici, la nostra personale Guerra dei trent’anni sta durando i canonici trent’anni: la posizione del mainstream evolve, ma in modo talmente lento che si rischia di essere vittime di change blindness, il fenomeno neuropsichiatrico che un nostro amico ci descrisse in un post di nove anni fa che vale la pena di rileggere, individuandolo come fondamento neurologico del metodo Juncker (descritto qui).

La change blindness, così, ci affligge due volte: quando ci nasconde le avanzate del nemico, e quando ci nasconde le sue ritirate. Nel secondo caso è forse anche più insidiosa, perché ci impedisce di occupare, rivendicandolo, il terreno abbandonato dal nemico. Succede ogni volta che loro dicono, come fosse chissà quale scoperta, chissà quale parto della loro fertile mente (senz’altro ben concimata), cose che dicevamo da sempre, semplicemente per averle lette nei libri su cui tutti abbiamo studiato. Ma appunto, se da un lato la lentezza del cambiamento ci impedisce di percepirlo, dall’altro questo non significa che esso non sia in corso. Sottolinearlo, prenderne atto, esserne coscienti, ci aiuta a dare un senso e una direzione alla nostra lotta. Aiuta anche a sfuggire alla trappola di portare avanti un discorso meramente notarile (la registrazione degli interminabili QED), che rischia di essere stucchevolmente autocelebrativo e mortalmente noioso (per chi scrive prima che per chi legge), e quindi, in definitiva, escludente, più che esclusivo (si può essere includenti ed esclusivi, ed è molto meglio che essere escludenti ed inclusivi…).

Vi ho ricordato più volte, e vi sarà anche venuto a noia, l’8 settembre di Giavazzi, che poi fu un 7 settembre, quello del 2015:

quello in cui il Prof. Ing. Giavazzi venne a dirci una cosa che qui sapevamo fin dall’inizio e avevamo messo nero su bianco cinque anni prima nel famoso articolo rifiutato dal blog della Bocconi:

cioè che la crisi in cui eravamo impantanati non dipendeva dal debito pubblico, ma dal debito privato contratto con creditori esteri, cioè da squilibri di bilancia dei pagamenti.

Mi sono andato a rileggere i post di settembre 2015: aprii quel mese in uno stato di prostrazione, che curai andando a trovare per la prima volta Scarpetta di Venere, mi ricreai andando alla scoperta di Libberopoly, cercai di spiegare, inascoltato, perché le donne non fanno più figli, mi rallegrai con voi per la nostra vittoria ai Macchia Nera Awards, assegnammo il Big Beaver Award, feci un bel concerto, e chiusi il mese con la soddisfazione di veder citato il mio lavoro da un nostro recente amico, ma non mi sembra che dedicai, né che dedicassimo, sufficiente attenzione a questo significativo arretramento del Prof. Ing., a parte per un po’ di cagnara su Twitter:

(un po’ effimera, se non condotta con il dovuto piglio), e per una impercettibile allusione nel post del 7 settembre:

Forse non occorreva dire molto di più, o forse sì, forse un minimo di approfondimento andava fatto, perché quando i Bocconi boys, sommi sacerdoti del controintuitivo, accondiscendono a registrare l’ovvio, dietro un motivo c’è, e non è detto che sia un motivo banale!

Oggi ci risiamo.

Non su VoxEU, dove un minimo standard di decenza devono mantenerlo, perché è letto anche da colleghi meno conformisti e subalterni di quelli nostrani, ma sul Corriere della Sera (che è un diverso genere letterario, come qui ben sappiamo), l’ineffabile ingegnere ci delizia con la profondità delle sue analisi, aggrovigliandosi in un coacervo di contraddizioni tenute insieme dal tenace mastice di un radicale disprezzo per la democrazia, che è poi disprezzo per il demos, cioè per voi. Accecato dall’odio verso gli sdentati, verso i redneck, verso i fascioleghisti, verso chi non la pensa come lui, cioè verso gli italiani (in Italia), il nostro migliore alleato, in questa battaglia in cui, essendo in inferiorità numerica, dobbiamo contare sulle forze dell’avversario, commette un errore clamoroso, questo:

Senza farsi né in qua, né in là, il nostro ineffabile ci dice quello che qui tutti abbiamo sempre detto e saputo, cioè che la retorica del debito pubblico “onere sulle generazioni future” non tiene. Il debito oggi può rendere migliore la vita dei cittadini di domani, semplicemente perché a fronte di questo debito, di queste passività, c’è necessariamente un credito, ci sono delle attività tangibili o intangibili di cui le generazioni future beneficiano (migliori infrastrutture, una migliore istruzione, ecc.). A differenza della volta precedente, però, in cui il generale Giavazzi si era semplicemente arreso all’evidenza, ammettendo che la crisi non poteva essere stata causata da un debito, quello pubblico, che era stabile o in diminuzione pressoché ovunque, questa volta le sue esternazioni necessitano di una lettura attenta. Motivazioni e intenzioni del cambio di orientamento non sono difficili da leggere e ci porteranno, come vedrete, a scenari che da tempo qui ci aspettiamo di dover affrontare.

Il presupposto è che oggi come ieri Giavazzi è saldamente dalla parte di politiche redistributive a favore del capitale, dalla parte dell’abbattimento dei salari reali a favore di profitti e rendite. Per un po’ lo strumento di questo obiettivo è stato l’euro, con la deflazione salariale cui esso necessariamente conduceva. Ora che l’euro ha esaurito il suo potenziale distruttivo, perché la deflazione salariale ci ha riportato in equilibrio con l’estero, per proseguire sulla strada delle politiche Hood Robin occorre altro, e questo altro, come ci siamo detti, è il green, il proseguimento della lotta di classe al contrario realizzato sussidiando le imprese per gonfiarne i profitti, e abbattendo i salari reali tramite un innalzamento dei prezzi dei prodotti.

Politiche simili generalmente conducono a una crisi di domanda, ma di questo Giavazzi, che è offertista, non si cruccia, verosimilmente perché nemmeno se ne rende conto. La preoccupazione di Giavazzi è un’altra: che gli elettori europei votino contro politiche che li impoveriscono. L’indignazione di Draghi, pardon: di Giavazzi, di fronte a una simile mancanza di riguardo è palpabile, ma siccome entrambi desiderano (per il momento) mantenere un’apparenza di democrazia, un rimedio occorre trovarlo. La risposta è semplice: ai sussidi alle imprese vanno aggiunti sussidi ai lavoratori, un reddito di Giavazzanza finanziato con debito (rigorosamente europeo) che tenga tranquilli i lavoratori vicino al livello di sussistenza, e che “le generazioni future” ripagheranno perché in cambio avranno avuto un mondo più pulito.

Per bocca del suo pupazzo il ventriloquo Draghi ci fa finalmente sapere quale sia il debito buono: quello contratto per erogare sussidi, e per finanziare il riarmo! La logica sottostante è piuttosto chiara, e poco importa che i sussidi non siano di per sé un paradigma di spesa produttiva, e gli armamenti siano invece per definizione spesa distruttiva. Siamo ormai arruolati: un esito che non dovrebbe stupire chi mi segue da un po’, perché non ho fatto molto per nasconderlo:

C’è ovviamente da preoccuparsi, per tanti motivi. L’assurdità dell’esercito unico europeo in un contesto in cui non si riescono a gestire con sufficiente tempestività e con obiettivi condivisi neanche quel minimo di strumenti economici che si sono messi in comune dovrebbe balzare agli occhi di tutti, e comunque l’abbiamo ampiamente sviscerata in altre sedi, analizzando la Security and Defense Union. Una declinazione del “più Europa” particolarmente inquietante. Dobbiamo però restare freddi e infilarci in questa crepa dialettica del mainstream, allargandola a nostro vantaggio. Del ragionamento tendenzioso e grossolano di Giavazzi dobbiamo tenere solo un pezzo: fare debito pubblico non necessariamente danneggia chi viene dopo. E a questa verità lapalissiana dobbiamo aggiungere un risoluto: anzi!

Anzi!

Non è danneggiando i genitori, abbassando il loro livello di reddito, di istruzione, di salute, che potrai salvare i figli! Non è abbattendo gli investimenti che si incrementa la produttività, e noi, come ricordai in aula al ventriloquo di cotanto pensatore, siamo stati l’unico fra i grandi Paesi europei ad avere investimento netto negativo, cioè distruzione di capitale fisico:

ovviamente in coincidenza con il massiccio taglio di investimenti pubblici di cui nessuno si ricorda:

Non è corretto dire che il debito pubblico “non è necessariamente” un “onere scaricato sui giovani di domani” che “dovranno ripagare il debito che oggi si emette”. Non è vero perché i giovani domani non dovranno ripagare nessun debito: sarà il mercato a rinnovarlo, se domani ci sarà sufficiente crescita, e quindi sufficiente gettito fiscale, per pagare gli interessi, ma la crescita ci sarà se ci saranno sufficienti lavoratori e sufficiente capitale fisico. Ne consegue che le politiche di austerità non aprono, ma chiudono spazi fiscali nella misura in cui distruggendo capitale umano e fisico prendono il Paese meno produttivo, intaccano la sua capacità di creare valore, e nella misura in cui distruggendo reddito fanno crescere, anziché calare, il rapporto debito/Pil.

Lo abbiamo preannunziato, è successo, ora tutti possono vederlo coi loro occhi.

E quindi il debito non va contratto per tenere buone, sussidiandole, le vittime di politiche regressive, le vittime dell’austerità: va contratto per fare politiche progressive, di investimento e non di sussidio.

A loro fa paura che voi lo capiate e vi regoliate di conseguenza a giugno. Ve lo dicono pure! Più di questo che cosa volete?

Restiamo saldi e non cediamo alle provocazioni.

Buona serata e buona settimana!

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“Il reddito di Giavazzanza e la scoperta della partita doppia” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Inflazioni

Si dice che la storia si ripeta, e a noi che abbiamo visto e compreso la tragedia euro è fisiologico che le sue ripetizioni appaiano farsa. Fatto salvo il diritto di chi invece non c’era, e se c’era dormiva, di attribuire il  nobile rango di tragedia a un dramma che ha per protagoniste le virostar o consimili gliScienziati, mi sembra importante che ripetizioni dello stesso schema narrativo (tragiche o farsesche che siano, o che le si vogliano considerare) vengano correttamente individuate come tali. L’unico vaccino contro le narrazioni è il riconoscerle. Solo questo può disinnescarne il potenziale retorico, cioè persuasivo, e consentirci di mantenere, a prezzo di un minimo input di ragionamento analogico, un decente equilibrio emotivo e mentale, una minima capacità di analisi razionale dei fatti e delle loro interpretazioni.

Per fare un banale esempio, nella diretta di oggi:

segnalavo che nel proporci il “vaccino” euro i “virologi” dell’epoca (Prodi & friends) trascurarono di attirare la nostra attenzione sui possibili effetti collaterali di cotanto farmaco. Del resto, lo stesso accade anche nella proposizione (o imposizione) del “vaccino” green: sembra che il litio si trovi a vil prezzo negli scaffali dei supermercati, sembra che le pale eoliche a fine vita si possano semplicemente ripiegare e mettere in tasca, ecc. Le narrazioni si aggirano nella landa incantata dei free lunch, dove tutto è possibile, e soprattutto lo è ghrhaduidamendhe (ricorda qualcosa?)!

Ma il mondo non funziona così.

Le controindicazioni del “vaccino” euro scaturivano, guarda un po’, dal fatto che esso veniva proposto, cioè, possiamo anche dircelo, surrettiziamente imposto, a una platea di pazienti molto diversificata: pazienti giovani, in età dello sviluppo, e vecchi, pazienti obesi di debito o finanziariamente snelli, pazienti più o meno febbricitanti di inflazione, ecc. Si tratta, insomma, del famoso tema delle politiche one-size-fits-all, delle politiche a taglia unica. Può un unico tasso di interesse (o di cambio) andar bene per economie diverse o in fasi diverse della loro esistenza? Perché anche a parità di età, peso, e conformazione, altro è un convalescente e altro è un paziente nel pieno vigore. La risposta ovviamente è no, e la scienza, che, nonostante i validi sforzi dei gliScienziati, in fondo, nel lungo periodo, tende a riproporsi fastidiosamente come una versione formalmente corretta e validata del buonsenso, dava proprio questa risposta.

Come nel caso di altri “vaccini”, anche nel caso dell’euro gli effetti collaterali non solo c’erano, ma erano anche stati correttamente individuati ab initio  dalla scienza (che non è la sua cugina puttana, cioè Lascienza, come vi ho spiegato qui quando la medicina non vi interessava, ma lei si stava già interessando di voi). Non solo! Erano anche correttamente specificati nei “bugiardini” delle istituzioni, che appartengono, come le case farmaceutiche, al novero delle entità che non possono permettersi di non dire la cosa giusta mentre fanno la cosa sbagliata! La reputescion è tutto, e siccome carta canta e villan dorme (ma non dovrebbe!), ecco ad esempio che nel 1999 mamma BCE ci informava premurosamente del fatto che:

“Sta andando tutto bene, i prezzi stanno convergendo, in ogni caso sta andando meglio che da altre parti, ma se i prezzi dovessero divergere allora sarebbero necessarie le riforme strutturali”.

Insomma, quello che sapete perché qui ne abbiamo parlato fin dall’inizio:

Non è erdebbitopubblico a rendere necessarie le riforme strutturali, ma la mancanza di competitività, cioè l’aumento dei prezzi dei prodotti nazionali, per rispondere al quale è necessario causare disoccupazione, a fine di sbriciolare il potere contrattuale dei lavoratori, abbatterne i salari, e recuperare per questa selva oscura la competitività ch’era smarrita. Era questo lo scopo inconfessato della riforma del mercato del lavoro, che avevamo descritto nel 2012, e che oggi chiunque può leggere nei dati.

Qui leggete il quasi raddoppio della disoccupazione:

mentre qui sotto ne vedete le conseguenze, cioè il ribaltamento del differenziale di inflazione (con l’inflazione che diventa più gagliarda a Nord):

da cui deriva l’apprezzamento del tasso di cambio reale del Nord (il prezzo dei beni del Nord in termini dei beni del Sud):

cui corrisponde una ricomposizione degli squilibri esterni (il saldo della bilancia dei pagamenti che torna positivo al Sud) e della posizione finanziaria netta sull’estero, come abbiamo visto qui:

Messo in un altro modo, l’effetto collaterale sgradevole della moneta unica era che essa implica un tasso di cambio unico (quello fissato dalla Bce), ma non un tasso di inflazione unico. Possono esistere differenziali di inflazione anche rilevanti fra i vari Paesi, e questi differenziali possono determinare squilibri che vanno però curati con riforme strutturali (leggi: disoccupazione) perché un tasso di interesse unico non può essere utilizzato per mitigare tassi di inflazione diversi!

Chiaro il punto?

Se la Ruritania ha l’inflazione al 6% e la Cracozia all’1%, e i due Paesi sono Stati membri di un’unione monetaria con obiettivo di inflazione al 2%, i casi sono due:

1) se comanda la Ruritania, la Banca centrale unica alzerà il tasso di interesse fino a quando l’inflazione ruritana non scende al 2%. Nel frattempo, in Cracozia l’elevato costo del denaro causerà un crollo del credito e quindi degli investimenti (cioè della spesa per macchinari e attrezzature, che le imprese normalmente finanziano con credito bancario) e anche della spesa per consumi (nella misura in cui le famiglie dopo aver pagato il mutuo non avranno più soldi da spendere). Morale della favola, alla fine la Ruritania avrà i prezzi sotto controllo e la Cracozia sarà in recessione.

2) se comanda la Cracozia, i tassi di interesse verranno tenuti bassi, per rianimare l’economia e il processo inflattivo in Cracozia, e la Ruritania vedrà il proprio tasso di inflazione salire ulteriormente o quanto meno non convergere rapidamente al 2%, ma così facendo perderà competitività e andrà in deficit di bilancia commerciale verso la Cracozia, accumulando debito estero e aprendo le porte a una crisi finanziaria.

Come sapete, noi siamo la Cracozia, la Germania è la Ruritania, e comanda la Ruritania, motivo per cui i tassi sono alti e noi cresciamo meno di quanto potremmo, avendo un’inflazione tendenziale che ormai è sotto l’1%.

Perché per così tanto tempo questo fenomeno, che tutti i libri di testo descrivono, è stato poco (o comunque meno) evidente?

Semplicemente perché in un ambiente in cui l’inflazione era mediamente bassa, erano mediamente piccoli gli scarti fra i tassi di inflazione. Se escludiamo l’ipotesi di deflazioni drastiche (cioè di tassi di inflazione negativi e forti in valore assoluto), allora capite subito che un’inflazione media al 2% la avremo in contesti in cui i singoli tassi vanno dall’1% al 3% (a spanne). Difficile immaginare un contesto in cui una media del 2% risulta da tassi che vanno dal -6% al 10%! Tutto può essere, ma…

Viceversa, quando l’inflazione media viaggia sul 10% (poniamo), allora è facile che ci possano essere scarti elevati, che questo 10% sia la media fra (poniamo) il 15% in un paese e il 5% in un altro. Insomma, senza andare su cose troppo tecniche come questa:

si intuisce che fra il livello dell’inflazione e la sua dispersione (incertezza) una qualche relazione esiste.

I periodi di bassa inflazione, che tanti mali hanno portato, fra cui le varie ZIRP, un bene però ce l’avevano, ed era quello di garantire una dispersione tutto sommato sostenibile fra tassi di inflazione, cioè di mitigare la necessità di politiche monetarie, di livelli di tasso di interesse, diversificati per Paese.

Ma ora le cose non stanno proprio così…

Ve lo mostro (come promesso) con un grafico che raffigura il livello medio e la dispersione dell’inflazione, quest’ultima calcolata con l’indicatore più semplice, il range, cioè la differenza fra i tassi di inflazione massimo e minimo registrati negli SM (Stati Membri) dell’Eurozona:

Si vede bene che la situazione attraverso cui siamo passati di recente e da cui non siamo ancora completamente usciti ha rappresentato e rappresenta un momento di stress unico nella storia dell’Unione monetaria, con differenziali di inflazione che si sono avvicinati ai 20 punti percentuali a metà 2022:

Ora le cose stanno un po’ meglio, ma siamo ben lontani da una situazione sostenibile:

(i dati, variazioni tendenziali su rilevazioni mensili, sono di Eurostat).

Con 6 punti di differenziale fra il Paese con inflazione più sostenuta e quello con inflazione più bassa, che siamo noi, non si regge a lunghissimo. Ma tirar su i tassi sperando che la Germania si avvicini abbastanza rapidamente dal 3.8 al 2 (perché della Slovacchia anche chi se ne frega, credo pensino a Francoforte!) quando noi siamo allo 0.5 comporta, ovviamente, che qui si soffra parecchio. I tassi di interesse reale in Germania sono ancora sostenibili: da noi molto meno, con una serie di conseguenze, ad esempio sull’accumulazione del debito pubblico.

E attenzione! Un pezzo di questa eterogeneità è dovuto al legame fra volatilità e livello dell’inflazione, per cui si può pensare di curarlo agendo come che sia sul livello (banalmente, se bombardassimo tutta l’Eurozona con un sufficiente numero di testate nucleari l’inflazione convergerebbe ovunque a zero, come tutto il resto: la Lagarde per fortuna non ha testate ma solo tassi, e quindi può causare danni più contenuti, ma resta il punto che sempre dal causare un danno devi passare). Un altro pezzo però è semplicemente eterogeneità! Fateci caso: i Paesi più sfortunati in termini di inflazione, nei due esempi che vi ho fatto, sono due Paesi di recente ingresso: Estonia e Slovacchia. In effetti, nel grafico precedente ho considerato quei Paesi (come tutti gli altri) solo dalla data del loro ingresso, ma se rifacessimo il grafico come se l’attuale Eurozona “a venti” fosse nata appunto a venti, cioè come se la Croazia, l’Estonia, ecc., fossero entrate nel 1999, il risultato sarebbe stato questo:

In altri termini, l’attuale episodio di elevatissimi scarti fra l’inflazione massima e minima non sembrerebbe più un caso eccezionale ed isolato, ma il terzo di una serie. 

Contro questi banali dati dell’esperienza storica ed economica non si può fare nulla. Anche cianciare di “bilancio pubblico federale” o simili ha poco senso. Non è con la politica di bilancio che riesci a riassorbire in modo rapido simili squilibri nominali, perdite di competitività così rapide. E in ogni caso, a che ti serve il bilancione unicone europeone se il problema è il “fine tuning” a livello nazionale? A nulla, perché per usare in modo differenziato a livello nazionale una massa battente di risorse disponibile a livello sovranazionale occorrerebbero livelli di solidarietà impensabili ora e irrazionali sempre!

Quindi, miei cari amici, ma de che stamo a parlà?

Ci vuole tanta pazienza, e per indurvi ad averla vi ricorderò che i fatti hanno la testa dura, e che, per nostra fortuna, non siamo noi quelli che li stanno prendendo a capocciate!

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“Inflazioni” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Il “green” e la lotta di classe

Non vi intratterrò a lungo e preferirei non intrattenervi per nulla. Purtroppo però da un lato non posso dare per scontato che l’ovvio sia tale per tutti, e dall’altro mi infastidisco quando qualche tardivo enunciatore dell’ovvio viene portato sugli scudi come un novello Keynes (o Marx, o Smith). Mi corre quindi l’obbligo questa sera di repertarvi succintamente l’ovvio.

Una proposta di policy che preveda da un lato massicci sussidi pubblici alle imprese per sostenerne i profitti, e dall’altro un’erosione del salario reale, realizzata inducendo coattivamente i lavoratori ad acquistare beni più costosi, determina in re ipsa una redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale, ed è quindi la cara vecchia lotta di classe al contrario che avevamo imparato a riconoscere, in diverso contesto, nel post genetico di questo blog.

Il green è questo: sussidiare, nel nome di un fine superiore, aziende che non hanno mercato, e comprimere, nel nome di un fine superiore, i salari reali dei lavoratori dirottandone la spesa su prodotti più cari (vuoi a causa delle innovazioni tecnologiche – fuori mercato – che incorporano, vuoi a causa della tensione inflattiva che l’eccesso di domanda di alcune materie prime necessariamente determina e determinerà).

Si può argomentare che ciò conduca a un mondo migliore, in particolare che nel lungo periodo, quando sarete tutti morti, questo condurrà a un mondo di energia facile e a buon mercato, al Paradiso Terrestre. Qualcuno potrebbe essere interessato ad argomentarlo ma a me qui e ora non interessa discuterlo. A me qui interessa solo evidenziare il fatto che la proposta green come oggi è articolata si traduce in una politica redistributiva fortemente regressiva, che danneggia i ceti deboli e avvantaggia il grande capitale. Questo è il motivo per cui piace tanto al WEF, non certo la devozione al Grande Capro o altre baggianate da bollicina di metano social.

Per chi sta qui queste dovrebbero essere #lebbasi, i ferri del mestiere!

Nel diciannovesimo post di questo blog avevamo messo bene in evidenza il legame fra ecologismo e austerità, e quello che scrivemmo in quel post che all’epoca fece molto discutere resta tutto valido. Tout se tient: i gatekeeper salvatori di Ursula erano anche quelli della decrescita e della biowashball. L’invito a comprimere i consumi nel nome di un fine superiore era strettamente connesso alla necessità di rendere socialmente accettabili (in nome di un fine superiore) politiche di compressione dei consumi, cioè, appunto, l’austerità, la distruzione di domanda interna necessaria a riequilibrare la nostra posizione netta (meno reddito, meno consumi, meno importazioni, meno deficit estero).

Il green è solo una versione esasperata e per certi versi caricaturale (dall’austerità dei Savonarola decrescisti alle treccine della bimba climatista) della stessa storia.

Con questo non si vuole negare alcunché. Semplicemente, si vuole far notare che, come già fu con l’euro, i saccenti coglioni soloni “progressisti” sono gli utili idioti di un progetto regressivo che colpisce per prime le classi sociali che la “sinistra” nasceva in qualche modo per proteggere, un progetto che presenta rilevanti margini di irrazionalità all’interno della propria stessa metrica (se il problema è la CO2, allora facciamo i conti su quanta ne produce un’auto elettrica nel suo ciclo di vita), un progetto che avrebbe alternative che nessuno vuole considerare, e che poi sono quelle di cui vi parlavo nel Tramonto dell’euro:

Il secondo punto di questa lista è quello che oggi si chiama “mitigazione”, una strada che nessuno vuole intraprendere perché è fatta di investimenti pubblici diffusi sul territorio e che generano occupazione: ma alle grandi imprese i sussidi (che hanno una ricaduta concentrata e diretta nei loro profitti) fanno molto più comodo degli investimenti (che hanno una ricaduta diffusa sul territorio), e quindi il discorso prevalente è orientato nel modo che sappiamo: quello di una nuova economia di comando green e ESG il cui scopo è riproporre, in altre e più nobili vesti verdi, quello che detto da Warren Buffet agli utili idioti verdi sembrerebbe inaccettabile (ma sono loro i primi a contribuire alla sua concreta realizzazione)! Una volta che il discorso è orientato così, la politica ha difficoltà a imprimere un corso diverso, quand’anche lo volesse, e comunque non può agevolmente farlo, non in una colonia governata a botte di direttive e regolamenti decisi altrove (un altrove dove i cittadini si sono ampiamente rotti i coglioni e lo stanno dimostrando, peraltro…).

Come Carlo Cipolla ci ha spiegato, si può essere stupidi in una infinità di modi, e quindi, come dire: accomodatevi, l’ospitalità è sacra! Vi esorto però a evitare un particolare modo di essere stupidi: venirmi a dire che sono un negazionista. Io qui non sto parlando del problema, ma delle soluzioni, anzi, dell’unica soluzione che viene proposta, e vi sto dicendo che questa proposta redistribuisce soldi dalle vostre tasche a quelle di chi le ha già piene (e vi sto anche dicendo che non sarebbe l’unica proposta, e che ce ne sarebbero di meno regressive in termini di distribuzione del reddito).

Chi nega questo semplice dato economico non è un negazionista: è un coglione. E come diceva la mia nonna, pe’ malati c’è la china, pe’ verdi non c’è medicina!

E ora dite la vostra, che io la mia l’ho messa a verbale.

P.s. del giorno dopo: sto mandando in spam tutti i commenti che mi suggeriscono l’imperdibile video del prof. Shapiro della Chattanooga University il quale dimostrerebbe che ecc. (fregnaccia naturalistica a piacere). Qui il tema è un altro e sono grato a chi si atterrà ad esso.

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“Il “green” e la lotta di classe” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

L’UE è una URSS che ce l’ha fatta (finora…)

Detesto Facebook quasi quanto l’ipocrisia.

Ogni tanto sospetto che dovrei vincere queste mie avversioni se volessi aspirare al ruolo di autentico politico di territorio. Lo scopo del gioco, mi sembra ormai evidente, non è infatti tanto quello di essere presenti, quanto quello di dimostrare con l’aiuto del signor Pan di Zucchero che si è stati presenti: un bel selfie sorridenti, un post punteggiato di “Bene!”, “Avanti!”, “Andiamo a vincere!”, e l’omo campa… Non suonino a critica queste parole, perché non lo sono: bisogna fare il pane con la farina che si ha, in chiesa coi santi e in taverna coi ghiottoni, ecc. Se questo è quello che il general public percepisce come presenza politica, in quel beauty contest keynesiano cui l’attività politica si è ridotta (ricordate? “It is not a case of choosing those which, to the best of one’s judgment, are really the prettiest, nor even those which average opinion genuinely thinks the prettiest. We have reached the third degree where we devote our intelligences to anticipating what average opinion expects the average opinion to be.“), se lo scopo del gioco non è tanto essere presenti (cui bono, visto che gli stessi elettori che ci chiedono mirabilia sono quelli che ci hanno condannato all’irrilevanza?), se lo scopo è mostrare che si è stati presenti, sottrarsi a quest’ultima bisogna alla fine danneggerebbe la squadra, che viene giudicata non per quello che fa o non fa, ma per quello che la gente si aspetta che debba fare (e quindi “Bene!”, ecc.).

Va poi detto che “l’onorevole non mi risponde al telefono!” è un genere letterario: per quanto tu possa essere presente e assiduo, il vittimismo grillino, fatto per metà di una radicale incomprensione del lavoro parlamentare, e per l’altra metà dell’irriducibile convinzione di essere il perno del cosmo, è una costante biometrica (non mi spingo fino all’antropometrica) ineliminabile! Ma come ogni cosa per cui non c’è soluzione, anche questo è un non problema.

So far, so good

D’altra parte, questo blog è nato per lasciare una traccia nei cuori delle persone, non nelle loro bacheche.

Non ve lo dico per sancire la mia definitiva rinuncia a lasciare una traccia nei vostri cervelli (non mi arrendo)! Volevo invece sottolineare che ci sono circostanze, momenti, incontri, che mi sembrerebbe di prostituire se mi compiegassi a darne il resoconto standard del bravo politico presente nel (le bacheche del) territorio. Di quei momenti posso riferire solo qui, in questo non luogo, un luogo cui l’inesistenza e l’irrilevanza conferiscono un’intimità particolare, quella che mi ha consentito di condividere con voi in passato tanti momenti della mia vita familiare e professionale, e a voi di condividere con me e tutti noi momenti della vostra. La chiamiamo umanità, anche se, visto che in un processo di tempo homo si è identificato con vir, possiamo presumere che “umanità” sia diventata una parola di odio, una parola di-vi-si-va, ed è comunque una facoltà cui  in molti hanno abdicato, forse perché sordamente consapevoli del non potersela permettere.

Volevo oggi riferirvi brevemente di uno di questi incontri.

Qualche giorno fa dovevo recarmi a Lama dei Peligni.

Non pensate a Toledo: la “lama” dei Peligni non era quella impugnata dai Peligni, non è quella di una spada, ma quella della Murgia (quella vera), e i Peligni forse nemmeno c’erano arrivati, scollinando dal valico della Forchetta, a Lama, perché la Valle Peligna in realtà è dall’altra parte della Maiella, come voi ben sapete, e il territorio di Lama pare fosse occupato dai Sanniti, in particolare dai Carricini, quelli di Juvanum, che sarebbe questo:

Insomma: il nome di questo bel paese di un migliaio di abitanti contiene un doppio equivoco, il che non toglie che ci si viva bene, almeno dal Neolitico, e che, anche se magari non ne avete mai sentito parlare, esso sia legato a cose di cui potreste aver sentito parlare, come questa, già teatro di una brutta storia, che oggi sarebbe considerata bruttissima (e andrebbe censurata) perché scritta da un fasheesta.

E io che ci andavo a fare?

Mentre in macchina scendevo dalle propaggini della Montagna d’Ugni, aggiravo Palombaro, mi intrufolavo dietro lo stabilimento del noto pastificio (immediatamente intercettato da una security più efficiente di quella del #goofy), risalivo da Civitella Messer Raimondo (questo Raimondo qui, che una traccia nella storia l’ha lasciata, al tempo della contesta fra aragonesi e angioini), in effetti la stessa domanda tormentava anche me! Preciso: sapevo di andare a sostenere due amici, due candidati alle elezioni regionali, ero anche curioso di sostare in un Paese dal quale ero passato forse solo una volta, salendo da Fossacesia a Pescocostanzo (due bei posti, ma non ditelo troppo in giro, che sul turismo non la penso come la Hollberg ma molto peggio, anche perché io so di cosa parlo), questo lo sapevo.

Ma non sapevo che cosa avrei detto, né che cosa avrei dovuto dire.

Sì, i nostri candidati de quo sono due eccellenti persone e si sono date da fare in consiglio regionale, portando risultati, e naturalmente lo avrei ribadito con convinzione. Peccato che questo fatto, pur non essendo scontato, lo sembra. Vale qui il:

Teorema di Bagnai sulla neutralità elettorale dell’emendamento.

Ipotesi: sia data una Repubblica parlamentare.

Tesi: nessun emendamento per quanto rilevante ha mai spostato né mai sposterà un voto.

Dimostrazione: quando le cose vanno bene, il cittadino pensa che ciò gli sia dovuto, e ha perfettamente ragione di pensarlo! 

…che è poi il motivo per cui devo nascondere, con grande sforzo, un sorriso di infastidita accondiscendenza quando vedo laggente sbattersi ultra vires per far approvare una cosa del cui merito, se ha un senso, sarà il Governo ad appropriarsi (vedi il caso della mia proposta di legge sul contante o di quella di Claudio sui vandali o dell’emendamento di Molinari sull’IRPEF agricola), mentre i diretti interessati si limiteranno a dire che non va bene e che volevano di più (vedi il caso dell’emendamento sulle multe ai vaccinati). Questo teorema di neutralità mina alla radice una delle retoriche che furono alla base dell’adesione al governo Draghi, e in generale di ogni scelta “governista”: “laggente ci votano perché noi amministriamo bene, quindi andiamo al Governo e #facciamocose, che la gente ce ne sarà riconoscente!”

Sì, è vero che, per come ho imparato a conoscerli, i nostri amministratori esprimono una buona cultura amministrativa, sanno attrarre e utilizzare fondi (i famosi fondi italiani erroneamente detti “europei”, perché di europeo in quei fondi c’è solo l’uso assurdo che se ne fa, come sottolineato qui), è tutto vero, è tutto giusto.

Ma è il mondo a essere ingiusto e irriconoscente!

Purtroppo non funziona così, perché la normalità ha due difetti insanabili: mentre assicurarla richiede uno sforzo titanico, essa stessa resta impercettibile. Chi si accorge delle cose normali? Chi si chiede quanto lavoro ci sia dietro? Chi si predispone a ringraziare per questo sforzo? Nessuno. Ne consegue che in un Paese in cui le cose stanno andando così:

(come ci siamo detti a fine anno), e in cui quindi la maggioranza soffre, se pure talora inconsapevolmente, quello che devi dare non è un emendamento, o un fondo “europeo” con annessa pecetta propagandistica da apporre sull’uscio, ma un’alternativa.

Queste riflessioni rispondevano anche a un’altra domanda: mi sarei dovuto addentrare nei problemi del paese, raccogliendo aneddoti dai miei militanti, o da qualcuno dei tanti amici sindaci circonvicini che frequento (poco più sopra ci passo le vacanze, ed è sempre una buona idea essere amici dei sindaci di posti meravigliosi), e magari prepararmi un discorzetto su cose che chi mi ascoltava comunque conosceva meglio di me? Forse anche no, non era il mio ruolo, ma eventualmente quello dei candidati, e forse non era nemmeno quello di cui chi avrei incontrato avrebbe avuto bisogno, quand’anche non sapesse e non fosse possibile illustrargli che il suo destino era di finire in C e non in D…

Questa, e altre cose, rimuginavo mentre parcheggiavo e entravo nella sala del consiglio comunale, che ospitava l’incontro. L’atmosfera era piacevolmente accogliente, quasi natalizia. In poche decine di uomini di ogni età, che riempivano l’ambiente raccolto, si trovavano il bambinello, un angelico lattante biondo non (ancora) interessato alla politica, ma già capace di stare in società, la Madonna sotto forma di connessa giovane madre, e i pastori, uomini dai volti incisi come le valli della montagna madre che guardano verso il mare, molti più anziani di me. Quasi tutti ignoti, tranne un mio ex studente (ce n’è sempre uno: in dodici anni di insegnamento si semina più di quanto si possa immaginare), gratificato a suo tempo da due 29 (non ricordavo di essere così bastardo…), e un paio di nostri amministratori e militanti. Entravo in quella sala con una certa rispettosa circospezione: ero arrivato tardi di pochi minuti, avevano già cominciato a parlare (in Abruzzo non so mai su quale fuso regolarmi, se su UTC+0 o UTC+1: quella era la sera di UTC+1…), non volevo distrarre i colleghi che stavano parlando, e non volevo nemmeno fargli fare brutta figura. Ero anche un po’ overdressed, perché venivo dritto dall’inaugurazione dell’anno giudiziario, dove non sarebbe stato il caso di presentarsi underdressed (anche se, per dirla tutta qui dove nessuno la legge, secondo me in Italia questo me lo sono letto solo io, ma capisco che molti possano trovare Saint Simon o Proust delle letture inutili, e alla fine questo è il meno rispetto al fatto che molti mi credono ancora in Senato…), e non avrei mai voluto che quel mio essere incravattato in un completo a tre pezzi potesse essere letto come il tentativo di rimarcare un rango o di frapporre un diaframma.

In quattordici anni di esposizione in contesti pubblici ho sempre parlato a braccio, non mi sono mai scritto un discorso, ma spesso l’ho trovato scritto sulle pareti delle aule che mi hanno accolto. Ed è andata così anche questa volta. Di fronte a me, accanto alla porta d’ingresso, campeggiava ben visibile una lapide dedicata alla memoria dei patrioti della Brigata Maiella, una storia che per qualche strano motivo, come ho detto a Pietransieri nel commemorare questi morti, resta un po’ nascosta nel panorama culturale degli italiani, come l’Abruzzo resta nascosto nella loro geografia mentale.

E così, quando mi hanno dato la parola, ho detto ai miei rappresentati, perché comunque in Parlamento sono io a rappresentarli, quello che mi frullava per la testa. Ho detto loro che immaginavo il legittimo orgoglio del sindaco comunista che il 25 aprile del 1989 affiggeva una lapide per ricordare il sacrificio di quei patrioti, e anche, possiamo dircelo, per appropriarsene politicamente, senza sapere che 198 giorni dopo quel gesto nobile, per quanto certamente venato da una scusabile scorrettezza, un altro manufatto sarebbe crollato, lasciando “lu sindache” orfano della sua casa politica, e avviando quel processo storico che avrebbe portato la sinistra a cercare protezione in un altro referente esterno: in assenza di ideologia e finanziamenti dell’Unione Sovietica, la sinistra, per governare a dispetto degli elettori, si sarebbe posizionata sotto l’ombrello dell’Unione Europea.

“Perché alla fine”, dicevo ai miei rappresentati, “l’Unione Europea è un’Unione Sovietica che ce l’ha fatta. Ma voi, dicevo ai più anziani, voi vi potete immaginare un Breznev venire a dirci che dal 2035 dobbiamo passare tutti all’auto elettrica, e il distretto industriale di Atessa si fotta? Vi potete immaginare un Andropov dirci che dobbiamo sostituire la farina di solina con quella di grillo, e gli arrosticini con la carne coltivata? Potete concepire un Černenko che ci impedisca di vendere una casa a meno che prima non ci spendiamo un pozzo di soldi in prodotti cinesi per renderla “verde”?”

“No”, proseguivo, “una cosa simile era al di fuori di quanto fosse lecito concepire anche nel peggiore degli scenari, quello in cui i cosacchi avessero abbeverato i propri cavalli alle fontane di Piazza San Pietro. Ma dove non sono arrivati i gerarchi russi, sono arrivati i tecnocrati europei. E come ci sono riusciti? Facendoci abbassare la guardia. Perché al tempo dei due blocchi era chiaro che il mondo era diviso in due, che potevi stare di qua o di là, il riferimento ideologico “di là” era la difesa del lavoro (sull’efficacia di questa difesa si può discutere), il riferimento ideologico “di qua” era la difesa del mercato (tradotto in pratica come socialismo dei ricchi, quello che socializza solo le perdite), ma insomma si capiva che una tensione esisteva, che niente era dovuto, che bisognava impegnarsi e lottare, e per organizzare e indirizzare questa lotta c’erano i partiti. Poi ci hanno detto che era tuttapposct, e non dovevamo preoccuparci: la nostra libertà era al sicuro perché aveva vinto la democrazia, cioè noi. Ma il mondo è ancora diviso in due, e per capire chi è l’avversario dobbiamo guardare chi attenta alla nostra libertà: l’Unione Europea. Tanti lo hanno capito e tanti lo stanno capendo, per cui, se quello che vi ho detto vi suona sensato, sostenete il partito di chi vi ha portato a questa riflessione. La lotta per avere più libertà, oggi, è la lotta per avere meno Europa. E quella lapide ci racconta che anche ieri non è che le cose stessero in modo molto diverso.”

Contrariamente a quanto potessi aspettarmi, a conferma del fatto che chi parla col cuore parla al cuore, il discorso, non particolarmente più lungo di così, pareva convincesse i presenti. Mi sono poi fermato a parlare con loro, entrando nella granularità dei dissidi e delle bizze che sarebbe tanto meglio poter comporre e sedare. La vita è fatta anche di questo. Che però ora, in questo meraviglioso mondo pacificato e unipolare, stiamo subendo livelli di condizionamento esterno semplicemente inimmaginabili al tempo del conflittuale mondo bipolare, questo lo avevano capito tutti, forse perché, prima che mi materializzassi nel mio completo a tre pezzi, lì non ci aveva pensato nessuno.

E ora, dopo aver condiviso con voi queste scene dalla vita di provincia, queste memorie del mio collegio analogico, con voi che siete il mio collegio digitale, vi saluto e torno a occuparmi di griglie: griglie di emendamenti, griglie di pareri, griglie di audizioni, griglie di nomine. Non è robba che sse magna: è un noioso lavoro, e qualcuno deve pur farlo.

(…ricordatevi quello che ci disse Jacques Sapir: fino al giorno prima tutti erano convinti che il sistema non funzionasse, e tutti erano convinti che sarebbe durato per sempre…) 

(…amo la Hollberg, anche se finora non ho avuto il tempo di scriverglielo. Perché purtroppo le cose stanno come dice lei. Le strade dove camminavo da bambino, per mano ai miei genitori, emanano oggi il lezzo dell’etnico e del fashion – sapete quando si passa per il duty free in aeroporto? L’odore delle botteghe, dei rosticceri, dei droghieri, l’incenso delle chiese, la resina dei cipressi, tutto è annichilito dal rullo compressore delle economie di scala, dei franchising, dei grandi numeri. Amo il mio collegio perché conserva delle sacche tenaci di autenticità: e qualsiasi autenticità, qualsiasi radice, anche se formalmente non tua, è meglio della fintaggine. Del resto, anche in centro a Roma, città che non ho mai sentito veramente mia nonostante ne abbia tanto amato la cultura nelle sue varie stratificazioni, ormai soffro per quella presenza opprimente. Forse l’Abruzzo è protetto dall’essere terra di passaggio. Guardate la Puglia, luogo di arrivo un tempo delle pecore – a Foggia – e oggi dei turisti – in Salento. Tutto bellissimo: la Natura e l’Arte. Ma quando cominci a voler piacere a qualcuno di diverso da te, e che in fondo non conosci, ti addentri in un territorio impervio e ostile dove sei destinato a subire molte perdite, prima fra tutte quella dell’autenticità. Forse ne soffri solo tu, perché per definizione chi proviene da un altro humus non è in grado di percepire il danno fatto. Certi processi vanno gestiti prima che il danno sia fatto. Dopo è inutile parlare di filiere corte e di presidi slow food…)

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“L’UE è una URSS che ce l’ha fatta (finora…)” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Sprofondo rosso: la situazione debitoria dei Bleus

(…per il collegio analogico parto nel pomeriggio, domani si inaugura l’allungamento della pista dell’aeroporto di Pescara – che speriamo non sia la premessa di un’invasione di locuste, ma consenta di connettere i nostri distretti industriali con il resto del mondo – e oggi sono a casa a fare lavoro d’ufficio. Mi è venuto però in mente un modo diverso di dirvi una cosa che vi dico da sempre, e comincio la giornata da qui, dal mio collegio digitale…)

Ogni tanto mi chiedo se il post più citato di questo blog (più citato da me, intendo), cioè il primo, “I salvataggi che non ci salveranno”, sia stato letto e compreso da qualcuno. Spero di sì, contro ogni evidenza. Qualche giorno fa l’amica Durezza del vivere ci segnalava che nel dibattito pubblico francese si fa strada la coscienza della fragilità della situazione:

e il nostro amico GioMacone, volendo essere colto, diceva probabilmente il contrario di quanto intendesse dire. Essoterico è infatti ciò che si rivolge all’esterno della comunità, ciò che può essere comunicato ai non iniziati, come esoterico è ciò che si rivolge all’interno, che è comunicabile o comprensibile solo agli iniziati. Rivolto pro bono pacis a tutti un invito a non fare i colti, soprattutto se si è di sinistra (ormai quella roba lì non è più nel vostro DNA, lasciate perdere…), e ricordato che l’uso della punteggiatura è il marker sovrano della familiarità coi libri senza figure (o dell’assenza di tale familiarità), evidenzio che il mio intervento era chiaramente esoterico: usava il nostro linguaggio, dove le “parole macedonia” e la pronuncia ggiornalistica (erdebbitopubblico, detto tutto d’un fiato) vengono usate come espediente espressivo per evidenziare i luoghi comuni da bar, e puntava il dito su un dato che chi non ha fatto “il percorso”, il gradus ad Parnassum, non può intravedere, ma che alla fine di questo post non potrete ignorare.

Anche se sono tiepidamente convinto dell’opportunità di fare conversioni e quindi di sbattersi per parlare essotericamente (la verità è che le conversioni le faranno, come sempre, le bombe: lo scrittore Céline prevarrà sul pittore Luca 15,7, e sarà inevitabile un passaggio per Genesi 19,24), oggi non è agli altri che parlo, ma a noi, perché mi sembra più importante evidenziare il senso di un percorso, la consapevolezza di ciò che sappiamo o almeno dovremmo sapere, la giustezza delle nostre intuizioni. Mi affretto però a mettervi in guardia da un rischio, il solito: quello che avete capito, o credete di aver capito, usatelo innanzitutto per mettere in salvo voi stessi, poi per tentare (invano) di aprire qualche mente, ma mai come corpo contundente, come “veritah” da brandire come una clava. Non serve a nulla e squalifica voi e il messaggio che credete di portare.

Allora, torniamo al punto.

Le esternazioni di Moscovici evidenziano un dato in qualche modo rassicurante: tredici anni dopo gli occhi sono ancora autisticamente puntati nella direzione sbagliata, quella, appunto, de “erdebbitopubblico”. Insomma, tutti guardano questo grafico:

Figura 1

(fonte: EUROSTAT) e, per carità, l’operazione ha un senso, se non altro perché la fanno tutti! Nei mercati finanziari la reputazione gioca un ruolo essenziale, e noi sappiamo che it is better for reputation to fail conventionally than to succeed unconventionally, dal che consegue che è senz’altro meglio, se si vuole sembrare degli esperti affidabili, concentrarsi su indicatori che raccontano solo un pezzo della storia, se è il pezzo di cui parlano tutti gli altri. È proprio l’importanza della reputazione nella dinamica dei mercati finanziari a determinarne l’intrinseco conformismo, con le note conseguenze, e già questo dovrebbe farci riflettere su quanto sia intrinsecamente stupido affidare le nostre sorti a un’istituzione (il mercato finanziario) che funziona così, su un’istituzione che mentre fa della diversificazione del rischio un mantra (scientificamente fondato) tende endogenamente alla concentrazione delle opinioni, per una inesorabile dinamica sociologica, con tutto quello che ne consegue in termini di fragilità finanziaria. Ma tanto, quando il mercato fallisce, il conto lo appoggia a noi (e dobbiamo anche ringraziarlo)!

Letta nella metrica del rapporto debito/Pil, e schiacciata dall’ordine di grandezza degli ultimi sconvolgimenti, la storia sembra essere quella di un fallimento del nostro Paese, di un successo della Germania, e, appunto, di una “fragilità” della Francia.

Questa storia di rapporti al Pil ha senz’altro un senso.

Il problema del debito pubblico non consiste nel fatto che le generazioni future dovranno “ripagarlo”, come dicono i cretini, ma nel fatto che le generazioni presenti dovranno rinnovarlo a scadenza (quest’anno si va per i 400 miliardi di scadenze), e questo problema è facilissimamente risolvibile se il Paese emittente è in grado di dimostrare che saprà onorare il pagamento di interessi, cioè “servire” il debito. Il servizio del debito assorbe risorse, ovviamente. Detto in francese: sossòrdi. Ne consegue che la capacità di un Paese di generare valore, cioè la sua crescita, è la migliore garanzia per i creditori internazionali. Il discorso naturalmente è più complicato di così (stiamo trascurando che in un mondo di crescita e piena occupazione il lavoro cercherà di tirare la coperta della distribuzione del reddito dalla propria parte, lasciando al freddo la rendita finanziaria, per cui nonostante che la crescita sia la migliore garanzia che il capitale ha di essere remunerato, tendenzialmente il capitale tifa recessione per tenere sotto controllo il suo antagonista), ma teniamolo per ora a questo livello di semplicità e ripetiamolo in sintesi: il problema del debito non è ripagarlo ma servirlo, e, come diceva Domar, il problema del servizio del debito è essenzialmente quello di ottenere la crescita del reddito nazionale, del PIL.

Non è solo roba da archeologia keynesiana e non sono solo le parole di un fasheesta nazixenoomofobleghista professorino di provincia come me, ovviamente. A beneficio dei cretini segnalo che è esattamente quello che dice Moscovici, se pure in modo implicito, laddove nel suo intervento si inquieta perché:

(devo tradurvelo?).

Quindi sì, il rapporto al Pil de “erdebbitopubblico” un senso ce l’ha in quanto indicatore della nostra capacità di servire il debito, che poi è esattamente il motivo per cui avremmo dovuto evitare questo disastro:

Figura 2

(documentato nel post sulla sostenibilità del sistema pensionistico). A questo proposito, mi piacerebbe farvi osservare che dal 2000 a prima della nostra crisi il nostro debito/Pil era in lieve discesa e quello degli altri in lieve salita, e che l’avvio dei debiti nazionali su traiettorie fortemente divergenti è stato il risultato della crisi, o meglio della sua gestione, con l’austerità. Lo si vede bene, questo, alla fine della Figura 1, dove è chiaro che sospendendo le regole l’Italia è riuscita a riportare sotto controllo molto rapidamente il suo pur elevato rapporto debito/Pil.

Il punto, però, è sempre quello: stiamo parlando di una variabile relativamente poco rilevante, e ne stiamo parlando in un modo relativamente poco appropriato.

Cominciamo dalla seconda osservazione: l’inappropriatezza deriva dal concentrarsi esclusivamente sul numeratore. Non ci vuole molto a farlo capire, e ve lo faccio vedere in due modi diversi. Intanto, se non avessimo ucciso il Pil con l’austerità, cioè se a partire dal 2008 il Pil nominale fosse cresciuto allo stesso tasso di crescita medio sostenuto nel periodo dell’euro, la situazione oggi sarebbe questa:

e i relativi calcoli sono qui:

(fonte: IMF), dove Y è il Pil nominale storico, D il debito pubblico, g la crescita del Pil nominale (media 2000-2008 uguale a 3.76%), Y* il Pil nominale controfattuale (cioè quello che dal 2009 cresce al 3.76%), D/Y il rapporto debito/Pil storico e D/Y* il rapporto debito/Pil controfattuale, cioè costruito usando Y*.

Anche questo grafico non è il parto di un nazixeno ecc. di provincia, ma è stato presentato under Chatham House rules da un prestigiosissimo civil servant in una sede behind enemy lines (il che significa che Essi, come li chiamerebbe Luciano, sono perfettamente consapevoli del vero problema, anche se in pubblico non possono nemmeno farlo sospettare)!

A scanso di equivoci, certo, lo so che la crisi c’è stata per tutti, ma negli altri Paesi l’impatto sul Pil nominale è stato considerevolmente diverso:

In Francia la crescita nominale si è circa dimezzata, in Germania è aumentata, da noi si è ridotta a meno di un quarto di quello che era prima della crisi, ed è sufficientemente ovvio che l’assassinio degli investimenti pubblici da parte di Monti-Letta-Renzi-Gentiloni è stata magna pars del problema:

Con un denominatore (il Pil) così perturbato da eventi esogeni (l’austerità), forse può sfuggire quale sia la reale dinamica del numeratore (il debito). Sono qui per aiutarvi! È questa:

Fatto 100 il debito nel 2000, quello italiano è quasi raddoppiato, passando a circa 200 (204, per la precisione), quello tedesco invece pure (è passato da 100 a 205), mentre quello francese è più che triplicato, passando da 100 a 339. Vista così l’anomalia francese, su cui noi insistiamo da più di un decennio (vi ricordate il QED 10 e tutte le sue successive conferme?), fa veramente paura, e sicuramente il nostro caro amico Moscovici:

un pochino sta stringendo…

Voi direte: ma la Francia partiva da una posizione avvantaggiatissima, quindi anche se ha più che triplicato il suo debito pubblico sctaapposct, non c’è probblema, ecc. Non nego che la nostra situazione sia più delicata, ma voi i debiti pubblici di Italia, Francia e Germania li avete mai visti? Sono qui:

e non mi pare che da questo angolo di osservazione emerga un’assoluta anomalia italiana, o sbaglio? L’anomalia resta quella del Pil, di cui sappiamo le cause: le dissennate politiche di Monti, Letta, Renzi, Gentiloni.

E a questo punto, però, avrei voluto che almeno uno di voi si fosse posto una domanda, che certamente nessuno si è posto: “Sì, va bene, ma perché parliamo di questo? Perché insistiamo sul debito pubblico quando noi, qui, sappiamo, tu ci hai dimostrato, che il vero problema è quello estero, e che l’indicatore da monitorare, conseguentemente, non è il saldo pubblico, ma quello estero, come del resto sosteneva lo stesso Economist in tempi non sospetti?”

Eh già, perché?

Ma, il perché ve l’ho detto sopra: perché quando si è incasellati in un frame comunicativo che non si ha la forza di sovvertire, qualche volta può essere utile abbandonarsi alla corrente! Facciamo finta che il problema sia il debito pubblico, e non quello privato contratto con creditori esteri: in ogni caso, l’analisi che vi ho proposto sfata qualche luogo comune, e aiuta a concentrarsi sulla vera anomalia (quella del Pil).

Ma noi qui sappiamo che il vero problema è il debito privato con l’estero, e in generale il debito estero (pubblico o privato). Il motivo era noto prima ed è evidente adesso: in caso di crisi, sul debito pubblico interviene la Banca centrale, magari obtorto collo, perché altrimenti salta tutto, mentre è un po’ difficile immaginare che una Banca centrale rifinanzi le aziende! Per quello ci sono le banche, e eventualmente il problema che una Banca centrale deve porsi è come non farle fallire. Vi ricordate il ui are not ier to cloze spredz?

E vi ricordate com’è andata poi a finire?

Con tutto il rispetto per la perspicacia dell’ispettora Clouseau, non poteva andare a finire diversamente. Ma il fatto che chi ha un grosso debito estero poi vada a gambe all’aria lo abbiamo invece visto accadere mille e una volta ed è stato sancito anche da quelli bravi nel loro personale 8 settembre, che fu un 7 settembre:

La crisi scoppia quando c’è un sudden stop, un arresto improvviso del rifinanziamento delle posizioni debitorie con l’estero (il fenomeno del sudden stop in economia riguarda il debito estero), come qui avevamo capito da subito osservando che:

E allora, se la mettiamo in termini del debito veramente pericoloso, quello estero, la Francia come sta?

Sta così:

Figura 3

Non è una grossa novità: questo grafico sintetizza tutte le cose che sapete o dovreste sapere: la correzione, grazie all’austerità, della nostra posizione netta sull’estero (ne avevamo parlato qui):

l’incapacità della Francia di uscire dalla trappola dei deficit gemelli, di recuperare competitività, essendo a casa loro socialmente insostenibile una cura da cavallo come quella inflitta a noi, e il parassitismo della Germania, che dopo aver recuperato competitività con una riforma del mercato del lavoro finanziata in deficit nel 2003 (come spiegato qui) ha beneficiato in modo parassitario della propria fama di “porto sicuro” (safe haven) e delle politiche della Bce (che ha sostenuto il suo debito – che non ne aveva bisogno – quanto quello dei Paesi in crisi), ottenendo un duplice e connesso vantaggio: quello della svalutazione dell’euro, che le ha consentito di accumulare surplus esteri fino a oltre 2000 miliardi di euro, e quello dei tassi negativi, che le hanno consentito di far diminuire il proprio debito.

Ma quello che non vi ho mai fatto vedere, e conseguentemente non avevo visto nemmeno io, è l’inesorabile e inquietante sprofondo rosso dei Bleus:

Non so se il nostro vecchio amico Pierre (Moscovici) lo abbia capito o meno, ma lui dovrebbe preoccuparsi di quella roba lì. Certo, la Francia non è un’Irlandetta o una Spagnetta qualsiasi, ne sono assolutamente consapevole: gli attacchi dei mercati hanno anche una dimensione geopolitica e sotto questo profilo la Francia ha sicuramente delle garanzie. Resta il dato economico: la Francia è un grande Paese con un enorme problema di competitività che non sa come risolvere e non sta risolvendo, mentre noi il nostro problema di debito estero lo abbiamo risolto, se pure a costo di aggravare il problema del debito pubblico uccidendo il Pil (ma sopravvivendo alla sua morte).

Della situazione francese avevamo osservato soprattutto il dato di flusso (la persistenza del saldo estero negativo della Francia, l’ultima volta qui):

ma osservare il dato di stock, cioè l’accumulazione di questi saldi negativi in un gigantesco debito estero netto, di dimensioni mai raggiunte nel nostro Paese, è abbastanza frightening, come direbbe uno bravo. Non a caso di questi numeri nessuno vi parla: i mercati sono corretti, non amano rovinare le sorprese! Io, invece, che sono dispettoso, adoro farlo, come ben sapete…

Mi avvio a concludere (cit.).

Mi resta solo da dirvi perché è rassicurante il fatto che tutti guardino nella direzione sbagliata, e per di più con delle lenti deformanti! Ma è semplice: perché questo ci garantisce che l’asteroide (finanziario) arriverà e farà il suo lavoro. Quale? Beh, gli asteroidi della reputazione tendono a fottersene: la loro reputazione non è data da quello che dicono (non parlano!), ma dalla loro massa, che a giudicare dai grafici qua sopra è piuttosto ingente. Possiamo immaginare quindi che il loro impatto sarà purtroppo (spiace) più grave per i fragili, piuttosto che per quelli che chi vuole mantenere alta la propria reputazione di analista finanziario deve definire fragili. È già successo, ricordate? Quando arrivò l’ultimo asteroide, attorno al 2010, chi ci rimise le penne per prime furono Irlanda e Spagna, i due Paesi col debito pubblico più basso e il debito estero più alto (cioè la posizione netta negativa più elevata).

Ovviamente noi siamo per la composizione pacifica dei conflitti, per il prevalere della razionalità economica, e per una nuova Bretton Woods, come lo sono tanti altri, che però dimenticano quali cogenti forze spinsero tutti a sedersi attorno a un tavolo nel 1944, mentre i Sovietici entravano a Vilnius e i marines sbarcavano a Guam (dove invece oggi, per diversi motivi, sbarcano soprattutto giapponesi).

Bene intendenti pauca.

(…ah, ove mai non fosse chiaro, la Figura 3, cioè lo sprofondo rosso del debito estero francese, spiega perché l’ispettora Clouseau, dopo aver detto che lei non era lì per cloze spredz, ha dovuto correre a cloze spredz, altrimenti le banche francesi scoppiavano come pop cornz. Detto fattualmente: a me le polemiche non interessano…)

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“Sprofondo rosso: la situazione debitoria dei Bleus” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Il PD e i tagli alla spesa pubblica: lezioni per la destra

La pulcinellata alla Camera l’avete potuta vedere tutti:

I dati li avevate potuti vedere qui:

e quindi un’idea sulla consistenza delle recriminazioni della Schlein (che il Signore ce la conservi!) ve l’eravate potuta fare.

Ora, è un fatto che io ho una propensione per la Meloni semplicemente perché a suo tempo dimostrò di essere una persona aperta all’ascolto (l’altra certo non era tipa di venire a un #goofy), e resto grato alla cara memoria di Antonio Triolo che me la presentò tanto tempo fa. Penso anche che lei mi sia grata del fatto di non disturbarla (tanto ci pensa Borghi, inutile duplicare). Siccome però amicus Plato sed magis amica veritas, rilevo che in questo caso nessuna delle due contendenti, né quella che ha trionfato secondo i media di destra, né quella che ha trionfato secondo i media di sinistra, hanno detto l’esatta verità.

La menzogna della Schlein (che il Signore ce la conservi!) è tutta nel grafico qua sopra, quindi non ci tornerei su.

L’imprecisione della Meloni mi è stata segnalata da un membro del mio staff (sì, noi arroganti individualisti narcisisti tendiamo a lavorare in squadra: vedi com’è strano il mondo!) e in effetti rafforza l’argomento della Meloni. Il problema non è quindi che la Meloni abbia mentito come mente la Schlein (che il Signore ce la conservi!)  quando nega le evidenti responsabilità del suo partito nell’overkill della sanità italiana (chiaramente visibile nel grafico qua sopra). Il problema è che avrebbe potuto spargere il sale sulle rovine della Schlein (che il Signore ce la conservi!), ma per qualche motivo non lo ha fatto.

Per spiegarvi a che cosa mi riferisco devo entrare in aspetti legislativi.

Quello cui le due contendente (dico così per non offendere una delle due, l’altra è una persona spiritosa) si riferiscono nel loro scambio è il comma 71 dell’articolo 1 della legge 23 dicembre 2009, n. 191, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (aka legge finanziaria 2010)

ovvero il provvedimento che nella seconda finanziaria (si chiamava così la legge di bilancio) del Governo Berlusconi quater ancorava la spesa finanziaria per il successivo triennio ai valori del 2004.

Credo però che, complice, per una volta, il mancato uso della tecnica dei rimandi normativi, contro la quale si era giustamente scagliato nella XII legislatura il collega Serafino Pulcini con una sua interessante proposta di legge costituzionale in materia di redazione e semplificazione degli atti normativi, sia sfuggito un dettaglio.

Quale?

Il fatto che il tetto alla spesa non è stato adottato nel 2009, come dice la collega Schlein (che il Signore ce la conservi!).

È stato adottato qui:

Dice: “e che d’è sta robba?”.

Sono qui per servirvi! Trattasi del comma 565 dell’articolo 1 della Legge 27 dicembre 2006, n. 296, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (aka legge finanziaria 2007). Sarebbe, per capirci, la prima legge di bilancio del Governo Prodi bis.

Insomma: il tetto alla spesa per il personale della sanità pubblica è stato adottato da Prodi, quando era primo ministro del secondo Governo Prodi, e non da Meloni, quando era Ministro per la gioventù (non ho detto “giovinezza”!) del quarto Governo Berlusconi.

La mia inesausta Barmherzigkeit mi impedisce di far notare quanto sia comunque ridicolo attribuire a un Ministro per la gioventù la paternità di un provvedimento in materia sanitaria (“questo specifico problema l’ha creato lei!”); mi impedisce anche di infierire sull'”e non certo noi!”: perché, Prodi era un fascista? Secondo le categorie di questo blog sì, ma secondo le categorie dei professionisti dell’antifascismo direi proprio di no: mi sembra che fosse del PD, cioè del “noi” cui si riferiva la Schlein (che il Signore ce la conservi!).

Ci sarebbe tanto da dire, ma mi fermo qui.

E la morale della favola, quindi, qual è?

Direi che ce ne sono almeno due: la prima, mi sembra evidente, è “non faccia la destra ciò che ha fatto la sinistra”. Il Governo Berlusconi ha senz’altro sbagliato nel prorogare, in nome del “ce lo chiede l’Europa”, le scellerate disposizioni del Governo Prodi. Attenzione: qui non mi riferisco al fatto che le politiche procicliche sono sbagliate (non solo in recessione, ma soprattutto in recessione). Qui mi riferisco al fatto che fare quello che fa il PD è comunque sbagliato e resterebbe tale anche se fosse la cosa giusta! Insomma: reitero il mio accorato appello all’ideologia.

UE = PD = cose che non si nominano a tavola, period.

Ma se di tutto quello di nefasto che il PD propone vai a far tuo e riproporre proprio i tagli sulla sanità, allora quando la Leuropa arriva e ti depone (come confessò il ciabattino che somiglia a Mister Bean) non puoi aspettarti che il popolo si scaldi più di tanto in tuo favore.

E la seconda morale?

Beh, la seconda morale è che lo staff va costruito con attenzione. Nessuno di noi potrebbe prendere da solo le infinite decisioni che deve prendere nell’unità di tempo. Ne consegue che la qualità di chi ti aiuta a prenderle è determinante.

E ve lo dice uno che vi ha sempre detto che avrebbe preferito perdere da solo che vincere in compagnia! Eppure, dietro ogni mio discorso c’è tanto lavoro, non solo mio, ma anche di una squadra scelta con cura: perché, nonostante vi detesti, tutto vorrei tranne che deludervi.

Strano il mondo, vero?

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“Il PD e i tagli alla spesa pubblica: lezioni per la destra” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Chi ha dato e chi ha avuto: i numeri veri dei fondi UE

Il risultato non dovrebbe essere sorprendente: nei rapporti finanziari con l’UE ci abbiamo complessivamente rimesso. Non vedo come si possa sostenere il contrario, non solo e non tanto perché lo dicono i numeri (vi fornisco subito dopo le fonti dei dati e uno specchietto riassuntivo), quanto perché logica vuole che sia così. Nel progetto europeo l’Italia, soprattutto dopo gli “allargamenti”, si è trovata in condizioni di relativa preminenza, con un reddito pro-capite relativamente superiore a quello di tanti altri Stati membri. Il principio di coesione cui il bilancio europeo si ispira (e di cui qui avete un dettagliato resoconto) comporta quindi che gli italiani paghino per chi ha meno di loro.

Il fatto che nei nostri rapporti finanziari con l’UE il risultato sia complessivamente in perdita quindi sarebbe anche commendevole, in quanto rispondente a un principio solidaristico cui astrattamente si potrebbe aderire, considerando anche che in altre epoche (cioè all’epoca della Comunità Europea), l’Italia, di questo stesso principio, aveva beneficiato.

Il fatto però è reso a mio avviso indigeribile da tre circostanze:

1) gli operatori informativi questo fatto lo negano in modo pressoché sistematico, raccontandoci invece un’UE generosa nei nostri confronti (dove la generosità, come ci ha spiegato Romina Raponi, consiste esclusivamente nel dirci che cosa dobbiamo fare coi nostri soldi);

2) i beneficati in alcuni casi notevoli (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria…) non sottostanno ai nostri  stessi vincoli perché sono dotati di quel fondamentale strumento di politica economica che è la politica valutaria (hanno cioè una propria valuta e la manovrano per assorbire shock macroeconomici), il che rende il nostro aiuto abbastanza superfluo e la loro concorrenza abbastanza sleale (qui sotto vedete in che modo i tassi di cambio reale di Ungheria, Polonia e Italia hanno reagito alla crisi del 2008: Ungheria e Polonia hanno potuto svalutare subito, e questo le ha indubbiamente aiutate):

3) i fondi che ci vengono restituiti sono utilizzati dall’UE per fare propaganda a se stessa con un profluvio di targhe, simboli, bolli e ceralacche (basta pensare alla scuola dove portate i vostri figli: le targhe all’ingresso trasmetteranno a voi e ai vostri bambini l’idea che senza il generoso sostegno dell’UE quella scuola non sarebbe stata mai edificata! Peccato che quel generoso sostegno consti di soldi vostri…)

Alla fine la circostanza 3, che per me è la più urticante (se vuoi farti propaganda fattela coi soldi tuoi, cribbio!) è in fondo la più naturale: tutti sanno che la pubblicità la paga il cliente!

Ma veniamo ai numeri e alle loro fonti.

In Italia i rapporti finanziari con l’UE vengono monitorati dall’IGRUE (Ispettorato Generale per i Rapporti finanziari con l’Unione Europea), una “regione” di quello “Stato nello Stato” che è la RGS (Ragioneria Generale dello Stato). Le meticolose Relazioni annuale dell’IGRUE sono una delle principali fonti utilizzate dalla Corte dei Conti per redigere la sua Relazione annuale (che trovate qui).

Tutto molto bello, ma siccome noi siamo europei (non europeisti) le fonti che ci interessano sono quelle europee (non se la prendano le istituzioni nazionali: non è sfiducia!).

Del tema ci siamo già occupati qui, ma nel frattempo sono passati quattro anni e può essere utile consultare i dati aggiornati che si trovano alla pagina EU spending and revenue 2021-2027 in un foglio Excel intitolato EU spending and revenue – Data 2000-2022 (per le date antecedenti il riferimento resta lo EU Budget Financial Report del 2008).

I numeri che ci interessano sono sostanzialmente due:

il totale delle spese (dell’UE a beneficio dell’Italia) e il totale delle risorse proprie (del bilancio UE versate dall’Italia). Qui vedete questi numeri per l’anno 2000, che, come potrete controllare, coincidono (e non potrebbe essere altrimenti) con quelli riportati nell’EU Budget Financial Report del 2008:

Per vostra comodità riporto questi numeri in una tabella per ogni anno dal 2000 al 2022, usando per semplicità come intestazione delle colonne: Ricevuti, Dati e Saldo (quindi Ricevuti sono la spesa totale (dell’UE per lo Stato membro), Dati sono il totale delle risorse proprie (dell’UE ricevute da parte dello Stato membro), e il saldo è la differenza fra Ricevuti e Dati):

Sintesi: partendo dal 2000 (ma se si partisse da prima cambierebbe poco, e in peggio) abbiamo sistematicamente dato più di quello che abbiamo preso, e la differenza cumulata assomma a 97 miliardi.

A questo punto, però, i più scaltriti di voi potrebbero chiedersi: e il pereperepere (per gli amici PNNR)?

Giusto!

Dobbiamo considerare anche gli effetti di cassa connessi al PNRR, che sono riportati, a partire dal 2021, in questo quadro del “foglione” Excel:

Attenzione però! Le cifre vanno verificate e capite, e la prima cosa da capire è che tutto NGEU è finanziato con soldi presi in prestito, che vanno quindi restituiti, per cui, come in ogni prestito, a un effetto di cassa positivo oggi (un incasso) corrisponderà un effetto di cassa positivo domani (un esborso, cioè un rimborso). La cosa che probabilmente non tutti hanno capito è che questo riguarda non solo quelli che nel contesto del “recovery” vengono definiti loans (prestiti), ma anche quelli che vengono definiti contributi a fondo perduto o sovvenzioni (grants).

Ripagheremo anche il fondo perduto. 

Ma dove è scritto, e qual è quindi la differenza fra prestiti e fondo perduto?

Ma semplicemente è scritto nelle informazioni per gli investitori, cioè per chi ha prestato, sta prestando e presterà soldi alla UE nel quadro di NGEU.

La differenza fra prestiti e “fondo perduto” è questa:

i prestiti saranno rimborsati direttamente dagli Stati Membri, mentre il “fondo perduto” sarà rimborsato dal bilancio della UE.

E voi direte: quindi noi non dobbiamo rimborsarlo! E no, non funziona così. Funziona così:

Funziona che per ripagare via bilancio UE il cosiddetto “fondo perduto” gli Stati membri dovranno pensare ad altre “risorse proprie”, cioè, in definitiva, ad altre tasse per i cittadini. Ci sono le “Next Generation own resources”: mai sentito parlare del mercato del carbonio? Lo Emission Trading System e il Carbon Border Adjustment Mechanism saranno utilizzati per rimborsare il fondo perduto.

E come avverrà questo miracolo, come si arriverà dal carbonio al rimborso?

Semplice: passando dalle vostre tasche.

Tutto quello che comprerete costerà un po’ di più (o perché prodotto in Europa da aziende che avranno pagato un po’ più cari i permessi di emissione di CO2, o perché prodotto all’estero e quindi sottoposto al dazio “ecologico” del CBAM), e una parte della differenza verrà usata per rimborsare un prestito sul cui utilizzo non vi siete potuti compiutamente esprimere. Ma ovviamente questo non basterà, e quindi per l’occasione verrà innalzato anche il contributo delle altre risorse proprie. E dove sta scritto?

Ma è specificato nella DECISIONE (UE, Euratom) 2020/2053 DEL CONSIGLIO del 14 dicembre 2020 relativa al sistema delle risorse proprie dell’Unione europea e che abroga la decisione 2014/335/UE, EuratomDecisione del Consiglio (UE, Euratom) 2020/2053, la cosiddetta own resources decisions, dove è scritto chiaro e tondo che:

cioè che in deroga al principio secondo cui le “risorse proprie” (i soldi dati dallo Stato membro al bilancio UE) non posso eccedere lo 1.4% del RNL (reddito nazionale lordo) dello Stato membro, per ripagare il “fondo perduto” di NGEU questa soglia può essere innalzata di 0.6, arrivando quindi al 2%, fino al completo rimborso, e comunque non oltre il 2058.

Chiaro, no?

Il beneficio di NGEU, del recovery, del pereperepere, insomma, chiamatelo come volte, non è quindi quello di ottenere un regalo! Il beneficio esiste e consiste nel fatto di poter anticipare certe spese (che è il motivo per il quale normalmente si contraggono prestiti), ma questo beneficio, oltre a essere minimo, a parere di chi scrive (e non solo) è più che compensato da tre serie criticità:

1) con quei soldi non possiamo fare quello che vogliamo noi, ma quello che vuole chi ce li presta (avete presente andare in banca a chiedere un mutuo e la banca ve lo accorda se però sceglie lei che casa acquistate? No, ovviamente, perché nel mondo normale non funziona così. Nell’UE funziona così);

2) quei soldi sono pressoché impossibili da spendere perché l’intermediazione dell’UE aggiunge un livello di complicazione burocratica che non tanto gli italiani, quanto gli efficienterrimi Leuropei del Nord  non riescono a gestire:

3) il beneficio ipotetico derivante dal fatto che nel caso dei grants gli interessi li avrebbe pagati l’UE è anch’esso azzerato dal fatto che siccome della pianificazione finanziaria di NGEU si sono occupati due giuristi nordici diversamente attrezzati sotto il profilo delle competenze finanziarie, il carico di interessi che l’UE deve ripagare sui grants è già abbondantemente fuori con l’accuso, come saprete (chi segue Goofynomics lo sa da aprile 2023):

il che richiederà una revisione del MFF (Multilateral Financial Framework, il bilancio dell’UE), e indovinate un po’? Sì, avete indovinato: un ulteriore carico di “risorse proprie” (cioè di soldi vostri).

Qui c’è un articolo di quelli bravi, risalente a maggio 2023, io che ci sarebbero stati problemi a finanziarsi mi ero pregiato di dirvelo nel luglio 2020:

e che ci sarebbero state tante nuove tasse fin dall’inizio, ed ex multis qui:

Dopo aver chiarito questo aspetto (cioè che anche il “fondo perduto” è un prestito, e quindi come tale non va nel conto economico), vi fornisco anche la tabella comprensiva del fondo perduto:

Siamo sempre in credito, complessivamente, anche se lo sbilancio totale scende a 64 miliardi, ma dopo una breve parentesi in cui saremo apparentemente beneficiari netti come nel 2021 e nel 2022 dal 2028 il saldo annuale tornerà negativo, e pesantemente! (per via delle risorse proprie di NGEU, dell’innalzamento del massimale, e delle ulteriori risorse proprie richieste dall’imprevisto carico di interessi: tutte spese afferenti al rimborso delle “sovvenzioni”).

Nota bene: tanto è vero che i prestiti (loans) non vanno in conto economico, che nel foglio Excel quelli che trovate sono solo i contributi a fondo perduto (che però tali non sono, ma sono prestiti per i motivi che vi ho scritto e documentato). I soldi incassati in totale infatti li trovate nello NGEU tracker:

e i 10198 che vedete per il 2021 nello specchietto precedente corrispondono agli 8954 della Recovery and Resilience Facility riportati dallo NGEU tracker più le somme provenienti dagli altri strumenti “minori” di NGEU (sostanzialmente, finanziamenti addizionali degli abituali fondi europei):

Le cosiddette “sovvenzioni” (il fondo perduto) comunque sono poco meno di 70 miliardi:

di cui una trentina già incassati (ma non ancora restituiti). Questo significa che se nel prossimi tre anni non ci fosse alcun nostro esborso, ma solo quegli incassi, il nostro bilancio con l’UE resterebbe in rosso. Ma gli esborsi ci saranno, e accresciuti per i tre motivi che vi ho documentato.

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“Chi ha dato e chi ha avuto: i numeri veri dei fondi UE” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Contributivo, retributivo, capitalizzazione, ripartizione

Molto velocemente, che devo arrivare prima della neve (attesa per stasera).

Da alcuni commenti al post precedente, e da alcuni rigurgiti della cloaca nera, intuisco che una significativa maggioranza di italiani vive in un equivoco: quello secondo cui il passaggio al sistema contributivo (riforma Dini, per gli amici legge 335 del 1995) avrebbe reso il sistema pensionistico più sostenibile perché ognuno finanzierebbe da sé la propria pensione con i contributi che versa.

In altri termini, molti confondono il metodo di calcolo contributivo con l’adozione di un sistema a capitalizzazione.

Purtroppo (e ovviamente) non è così, e visto che hanno voluto non farvelo capire (altrimenti lo avreste capito) e quindi non vi sarà facile credere a me, proiettando un film già visto con l’euro vi fornisco subito l’auctoritas di un vero economista, il prof. Brunetta, attualmente presidente del CNEL, che nella sua audizione alla Commissione che mi onoro di presiedere ha specificato quanto segue:

(il resoconto lo trovate qui). Il cambio di metodo di calcolo (ancorato ai contributi versati anziché alle ultime retribuzioni percepite) non comporta un cambio di sistema di finanziamento, e ci mancherebbe! Se si fosse passati da un sistema a ripartizione a un sistema a capitalizzazione così, “de bbotto”, sarebbe stata una tragedia, perché ovviamente intere coorti di pensionati sarebbero rimaste senza pensione. Come mai? Ma per il semplice fatto che i contributi dei lavoratori attivi, anziché a finanziare le pensioni correnti, sarebbero andati, quali novelli zecchini d’oro, nel Campo dei miracoli finanziari, dove si sarebbero moltiplicati (salvo crisi uso Lehman…) in attesa di finanziare le pensioni future.

Lo stesso euro non può essere simultaneamente dato a un pensionato e investito da qualche parte!

Detta in modo brutale (non me ne si voglia), il passaggio dal retributivo al contributivo non significa il passaggio a un sistema che si autofinanzia e che quindi può relativamente fregarsene di demografia e crescita. I soldi vengono sempre dai contributi dei lavoratori attivi correnti, ma col contributivo puoi pagare un po’ di meno i pensionati correnti.

E quelli futuri?

Senza crescita economica e demografica, come mi avrete più volte sentito dire, né il metodo retributivo né quello contributivo offrono garanzie di sostenibilità. L’uno e l’altro metodo si applicano a un sistema a ripartizione, si basano cioè sul fatto che ci sia qualcuno che i contributi li stia pagando (non: li abbia pagati. Li stia pagando!).

E per pagare i contributi bisogna nascere, bisogna lavorare, e bisogna guadagnare.

Tre cose che, dopo l’austerità, sono diventate tutte più difficili, in particolare l’ultima, per i motivi riassunti dal noto grafico:

Chiarito l’equivoco, quando potrò tornerò su alcuni interessanti commenti al post precedente, riconoscendo ad anto e Alberto49 di aver sollevato certi temi in tempi non sospetti, quando mai avrei pensato di dovermi occupare per lavoro di pensioni.

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“Contributivo, retributivo, capitalizzazione, ripartizione” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Austerità e sostenibilità del sistema pensionistico

(…titolo molto didascalico…)

(… [20:17, 16/1/2024] Un amico che voi conoscete ma non indovinereste mai chi è: Bell’intervento da Brambilla.

[22:18, 16/1/2024] Alberto Bagnai: Ma la gente non capisce, non capisce! Sono veramente disperato.

[22:18, 16/1/2024] Alberto Bagnai: Comunque grazie!…)

Ringrazio Itinerari previdenziali, il suo Comitato scientifico e in particolare il suo presidente, il Prof. Alberto Brambilla per avermi invitato a questo interessantissimo momento di approfondimento e confronto.

Lo sforzo profuso da Itinerari previdenziali per presentare un quadro quantitativo oggettivo e veritiero del complesso mondo della previdenza, con un lavoro che definirei di vera e propria mediazione culturale fra dati e politica, è particolarmente meritorio. A fronte di un quadro sfaccettato, e di analisi prospettiche non sempre organiche, il Bilancio redatto da Itinerari Previdenziali rappresenta oggi un prezioso strumento di valutazione. Qui troviamo, in un solo documento, una visione d’insieme che insiste in particolare su fonti e sostenibilità del finanziamento del sistema previdenziale.

Come ogni anno, il quadro che ci consegna il Rapporto è caratterizzato da luci ed ombre. Da ottimista preferisco sempre iniziare dalle notizie cattive. Indubbiamente, il dato più inquietante messo in luce dal Rapporto è riferito all’esplosione della spesa assistenziale. Un dato, vorrei sottolinearlo, che di per sé non rappresenterebbe una assoluta novità, ma che inquieta per due motivi: per la dinamica in rapida accelerazione, e perché è totalmente assente dal dibattito pubblico, tutto incentrato sul tema pensioni.

Si potrebbe quindi sintetizzare questa parte dicendo che se un’emergenza previdenziale esiste, non è però del tutto corretto identificarla con un’emergenza pensionistica, soprattutto quando si imposti, come il Rapporto fa, un confronto corretto con la situazione di altri Paesi europei. 

Arrivano quindi le notizie buone:

  1. riprende, dopo la parentesi della pandemia, il miglioramento del rapporto attivi/pensionati, che è arrivato a quota 1,44 (lo evidenzia la Tabella 6.1 a pag. 111). Non è ancora stato raggiunto il massimo pre-pandemia (1,46), non è stata raggiunta quella che Itinerari previdenziali ha evidenziato come soglia di sicurezza (1,5), ma le prospettive di questo fondamentale indicatore di tenuta del sistema sono in rassicurante crescita;
  2. aumenta il tasso di occupazione e con esso le entrate contributive;
  3. migliora il saldo fra entrate e prestazioni, e il deficit del sistema, che scende di quasi 7 miliardi rispetto ai 30 dello scorso anno.

Sul versante delle Casse privatizzate, quello più attinente alla Commissione che mi onoro di presiedere, si registrano un numero di iscritti sostanzialmente stabile, rispetto all’anno precedente, e situazioni di equilibrio finanziario, con avanzi di gestione in un quadro in cui le Casse hanno complessivamente dimostrato di essere in grado di attuare il “welfare integrato” e hanno manifestato la propensione a svolgere il ruolo di investitori istituzionali ed a contribuire allo sviluppo dell’economia reale del Paese.

Anche queste notizie relativamente buone vanno però contestualizzate alla luce della “grande transizione demografica”. Un tema su cui il rapporto insiste molto, e che viene rappresentato in modo plastico dalla figura 6.1 a p. 122

che illustra il “grande pensionamento” tramite la consistenza delle coorti dei “baby boomers”: l’ondata di questi ultimi non si è ancora esaurita, e il rapporto indica la necessità di cautele per evitare che l’“equilibrio sottile” sui cui il sistema si regge venga compromesso.

La transizione demografica è nella vita di ognuno di noi, di me che a sessantun anni non ho nipoti, essendo stato nipote di un nonno che all’epoca era più giovane di quanto lo sia oggi (ma anche di un nonno morto più giovane di me, quindi non mi lamento). Un destino condiviso, immagino, anche da molti di voi, e espresso nelle statistiche efficacemente riassunte nel rapporto.

Da vecchio macroeconomista, mi permetto di aggiungere un elemento di analisi, che vorrei proporre come indagine specifica alla Commissione Enti Gestori: oltre all’inverno demografico bisogna tenere conto dell’inverno macroeconomico, non solo e non tanto per piangere sul latte versato, quanto per valutare correttamente l’efficacia dei precedenti interventi riformatori, al fine di indirizzare meglio un eventuale “cantiere delle riforme”, per trovare se non la bussola che auspica il professor Brambilla, almeno il suo ago. La metto in un altro modo, rifacendomi all’interessante contributo del prof. Brunetta, che ha articolato la sua audizione alla Commissione Enti Gestori sul tema della perenne necessità di interventi di riforma del sistema previdenziale italiano: ha senso chiedersi se questa reiterata necessità di correzioni dipenda solo dal fatto che le riforme precedenti erano in qualche modo sbagliate, o se magari la necessità di correggere il tiro sia dipesa da altri fatti, imprevisti e imprevedibili dal riformatore.

In altre occasioni ho ricordato che secondo il Fmi il Pil reale, depurato dagli effetti dell’inflazione, nel nostro Paese tornerà al valore anteriore alla crisi finanziaria globale (il valore del 2007) fra due anni, nel 2026. Speriamo di accorciare questi tempi: per anticiparli di un anno, al 2025, occorrerebbe crescere all’1% nei prossimi due anni, per anticiparli di due anni, al 2024, occorrerebbe crescere del 2% l’anno prossimo.

Obiettivi che nel contesto macroeconomico attuale sono estremamente ambiziosi. Per dare un termine di paragone, al volume di Pil del 2007 la Francia e la Germania sono tornate (superandolo) nel 2011. Quattro anni di arresto del sistema contro19.

La situazione non è molto diversa se si analizzano le dinamiche del Pil nominale, cioè del valore della produzione, che per definizione tiene conto anche dell’evoluzione dei prezzi, e che è quello utilizzato per calcolare i rapporti delle varie grandezze finanziarie.

In questo caso il picco anteriore alla crisi è stato raggiunto nel 2008, ma mentre Germania e Francia sono tornate a quel valore già nel 2010, l’Italia lo ha raggiunto solo nel 2015. Sette anni di arresto del Pil nominale contro i due di Francia e Germania. Possiamo leggere anche alla luce di questa disastrosa anomalia lo scalino nel rapporto fra spesa per pensioni e Pil leggibile nella figura 1.4 a p. 20 del precedente rapporto:

uno scalino che dura per tutta la fase di arresto del Pil nominale e si stabilizza quando il Pil nominale debolmente si riprende. 

Sarebbe interessante verificare se gli scenari dei vari riformatori tenevano conto di prospettive così catastrofiche, che rappresentano una assoluta anomalia nella storia del Pil dell’Italia unita (guerre mondiali comprese):

(…n.b.: per carità di patria non ho nemmeno pensato di presentare il grafico in scala logaritmica, ma siccome qui ci sono palati fini, a voi lo faccio vedere:

e chissà se qualcuno lo sa interpretare…).

Questo arresto assolutamente anomalo del Pil ha origini ben precise, rinvenibili nelle politiche di austerità. Per dare qualche ordine di grandezza, secondo l’OCSE nel 2018 gli investimenti pubblici erano 30 miliardi al disotto del loro sentiero tendenziale. Dal 2020 la sospensione delle regole ha consentito di riavvicinarli alla loro tendenza, ma nel 2022 erano ancora di 20 miliardi al di sotto del loro sentiero storico.

Il Rapporto, giustamente, fotografa l’esistente e non si avventura in controfattuali, che però possono essere utili a chi vuole valutare ex post la validità degli interventi di riforma.

Se il Pil nominale fosse rimasto sulla sua tendenza:

(come hanno fatto i Pil dei nostri principali partner europei) nel 2022 sarebbe stato di circa il 20% più alto:

e quindi i rapporti al Pil, ceteris paribus, proporzionalmente più bassi. Andando alla Tabella 6.4 di pagina 116:

questo significa che nel 2022 il rapporto fra spesa pensionistica e Pil, invece del 12.97%, sarebbe stato del 10.36%, e al netto della Gestione Interventi Asstenziali e dell’IRPEF lo stesso rapporto, invece dell’8.6% sarebbe stato del 6.9%.

Ci dobbiamo, insomma, porre seriamente il problema di quanto la sostenibilità della finanza pubblica, in senso lato, e in particolare quella del sistema previdenziale pubblico, sia stata compromessa esattamente da quegli interventi che si proponevano di tutelarla, di quanto l’adeguatezza delle pensioni future sia stata minata da interventi posti in essere in nome delle generazioni future, e che oggi vengono generalmente ritenuti errati.

Le opinioni cambiano, ma le macerie restano!

Lo sottolineo per porre con forza all’attenzione di una platea così qualificata quella che ritengo sia fra le varie emergenze nazionali la più urgente da risolvere. L’attenzione alla demografia e alla natalità è senz’altro commendevole e ben indirizzata, ma una maggiore sostenibilità delle gestioni previdenziali non si consegue solo dando alla Patria figli propri o altrui, ma anche, e forse soprattutto, dandole investimenti, cioè crescita, cioè stabilità dei percorsi di carriera individuali, cioè possibilità concreta di realizzare le proprie aspirazioni alla genitorialità, cioè, attenzione!, minore spesa per interventi assistenziali, e maggior gettito fiscale e contributivo.

Lo dico non per sminuire ma per valorizzare le proposte del Rapporto le cui sagge proposte sarebbero frustrate laddove in un contesto di crisi si attuassero politiche pro-cicliche i cui effetti ho cercato di aiutarvi a quantificare.

(…in realtà poi sono andato a braccio e quindi se volete le esatte parole pronunciate le trovate qui:

e se vi regge il cuore – o un altro organo interno a scelta – potete trovare anche tutto l’evento nella web tv della Camera.

Io, lo confesso, ero già con la testa ai prossimi appuntamenti – all’ambasciata indiana dove ho incontrato inaspettatamente uno di voi, che deve avermi visto piuttosto stanco, e poi a una cena di lavoro, dove sono arrivato ancora più stanco – ma mi fido abbastanza di chi abitualmente legge e non guarda come una mucca ecc.:


e il problema è che soprattutto l’intervento del venerabile – a suo modo – collega Tabacci, per il quale ho simpatia, riscontrava compiaciuti cenni di assenso in un pubblico che credo proprio non abbia capito che cosa gli ho detto. Forse non è facilmente spiegabile, o io non ne sono in grado, o l’orrore di esserci fatti in tempi di pace una cosa che è due volte più grave di quella che ci siamo fatti nell’ultima guerra è tale da comandare all’istinto di sopravvivenza un’immediata rimozione psicanalitica. La fossa che ci siamo scavati, per nulla, nella serie del Pil non la vuole vedere nessuno: gli fai vedere che si sono fumati il 20% del Pil nominale, e ti parlano pure loro di Idraulik e della tabaccaia scalabile, e il pubblico compunto annuisce, forse perché si ritrova in un terreno familiare, nel letame che ogni giorno gli propinano gli operatori informativi, quelli così accaniti nel perseguire
usque ad effusionem alieni sanguinis le fake news, perché il letame puzza, sì, ma ci si abitua, e alla fine il suo tempore e confortevole.

Non capiranno mai, e quindi non ci aiuteranno mai a uscirne.

Non ne usciremo, pertanto, in modo non traumatico, ma anch’io, invecchiando, vedo che comincio a ripetermi, perché questo ve l’ho sempre detto, mentre voi maturando, forse cominciate a capirlo, e a rimuovere a vostra volta questo orrore, e gli orrori naturaliter da esso conseguenti…).

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“Austerità e sostenibilità del sistema pensionistico” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.