Global Times – La Cina spera che l’Italia mitighi le preoccupazioni UE sull’energia

Il Ministro del Commercio cinese, Wang Wentao, ha sottolineato l’importanza di rafforzare i legami tra Cina e Italia, invitando l’Italia a svolgere un ruolo chiave nel promuovere una visione equilibrata e aperta sull’energia rinnovabile a livello europeo, come scrive il quotidiano Global Times.

Durante il 15° Meeting della Commissione Congiunta Economica e Commerciale tra i due Paesi a Verona, Wang ha evidenziato l’intenzione di intensificare la cooperazione bilaterale, prendendo spunto dall’eredità storica della Via della Seta per promuovere nuove opportunità di investimento e crescita.

L’obiettivo è quello di potenziare la collaborazione verde tra Italia e Cina, accelerando la transizione verso un’economia a basso impatto ambientale. Wang ha auspicato che l’Italia, attraverso il suo ruolo nell’UE, possa sostenere una politica energetica più aperta e collaborativa con la Cina.

Il Vicepresidente del Consiglio italiano e Ministro degli Affari Esteri, Antonio Tajani, ha ribadito l’importanza di una relazione stabile e di lungo termine con la Cina. Tajani ha accolto con favore gli investimenti cinesi in settori innovativi, come quello delle auto elettriche, e ha espresso l’auspicio di un rafforzamento dei legami commerciali e dei collegamenti aerei tra i due Paesi.

Il 2024 rappresenta un traguardo significativo per la collaborazione tra Italia e Cina, celebrando il 20° anniversario del loro Partenariato Strategico. Questo partenariato ha segnato una fase di crescita e sviluppo economico bilaterale, guidato dalla visione dei leader di entrambi i Paesi, evidenzia il quotidiano cinese.

Nel frattempo, a Milano è stata lanciata l’iniziativa “Invest in China”, un’occasione per le imprese italiane di esplorare le opportunità di investimento nel mercato cinese e di rafforzare i legami commerciali.

Zhu Bing del MOFCOM ha sottolineato l’importanza della collaborazione tra Italia e Cina, riconoscendo le capacità manifatturiere italiane e la reputazione dei suoi marchi nel mondo.

Mario Boselli, presidente della Fondazione Italia Cina, ha evidenziato l’importanza di promuovere i prodotti italiani di alta qualità nel mercato cinese, sottolineando l’impegno della Fondazione nel facilitare questo processo.

Milei su Israele a Gaza: “Stanno seguendo la strategia giusta”

Il Presidente argentino Javier Milei ha spiegato in un’intervista al Washington Post che il suo forte sostegno a Israele nella sua campagna nella Striscia di Gaza è dovuto al fatto che ritiene che Israele stia “seguendo la giusta strategia”.

Rispondendo a una domanda della giornalista Lally Weymouth sul suo sostegno “senza mezzi termini” a Israele, Milei – che ha anche commentato la possibilità di convertirsi all’ebraismo – ha ricordato che il suo primo viaggio diplomatico da presidente è stato proprio nella nazione ebraica, dove ha espresso il suo sostegno “non solo per il Paese, ma per il popolo”. 

“Dal mio punto di vista, Israele sta agendo all’interno delle linee guida internazionali e credo che la strategia che sta seguendo sia quella giusta, perché non si può negoziare con i terroristi”, ha detto Milei, aggiungendo che dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ha condannato “l’attacco terroristico” e sostenuto “il legittimo diritto di Israele all’autodifesa”.

Secondo Milei, durante il suo governo, l’Argentina ha “intrapreso un cambiamento radicale” nella politica internazionale, “abbracciando le idee di libertà” che, secondo lui, “hanno portato tanta prosperità al mondo” e sono alla base dell’Occidente, inteso come Stati Uniti e anche Israele. In questo senso, ha sottolineato che “i valori di Israele” sono “la pietra angolare delle idee dell’Occidente”.  

Lavrov afferma che la conferenza svizzera sull’Ucraina è “una strada che non porta da nessuna parte”

Tenere una conferenza sull’Ucraina in Svizzera è una “strada che non porta da nessuna parte”, poiché Mosca non ritiene che l’Occidente sia sinceramente pronto a impegnarsi in negoziati equi, ha dichiarato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov coe riporta l’agenzia TASS.

“Che questa sia una strada verso il nulla, per usare un eufemismo, è evidente a qualsiasi normale osservatore politico. Ieri, il presidente russo Vladimir Vladimirovich Putin ha nuovamente chiarito e reso comprensibile la nostra posizione durante l’incontro con Alexander Grigoryevich Lukashenko. Non ho nulla da aggiungere. Non vediamo alcun desiderio a Kiev o da parte dei suoi padroni di condurre gli affari in modo equo”, ha affermato il diplomatico di punta in una conferenza stampa dopo la riunione del Consiglio dei ministri degli Esteri della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) a Minsk.

“Invece di un dialogo diretto senza ultimatum, l’Occidente sta imponendo il cosiddetto processo di Copenaghen, pianificando una conferenza in Svizzera, dove, è stato esplicitamente dichiarato, vogliono formulare e finalizzare i famigerati 10 punti della formula di pace del [presidente ucraino Vladimir] Zelensky e poi presentarla alla Russia”.

HSBC si unisce alle aziende che lasciano l’Argentina

Le grandi aziende internazionali continuano a lasciare l’Argentina. A loro si è aggiunta la holding bancaria HSBC Holdings PLC, riferisce Bloomberg.

Il presidente argentino Javier Milei sta cercando di attrarre investimenti esteri per contribuire a stabilizzare l’economia traballante. Invece, alcune grandi aziende internazionali stanno lasciando il Paese, si legge nella pubblicazione.

HSBC Holdings PLC venderà le sue attività in Argentina al Grupo Financiero Galicia per 550 milioni di dollari. Clorox ha già abbandonato l’Argentina e Exxon Mobil Corp. potrebbe andare via. Walmart Inc., Falabella SA e LatAm Airlines Group SA hanno lasciato l’Argentina durante la pandemia.

L’unità argentina di HSBC “provoca una significativa volatilità negli utili del gruppo”, ha affermato in una dichiarazione l’amministratore delegato Noel Quinn, aggiungendo che le sue attività in Argentina “hanno una connettività limitata con il resto della nostra rete internazionale”.

La decisione di lasciare il paese arriva nel mezzo della peggiore crisi economica dell’Argentina degli ultimi due decenni. Gli analisti prevedono che l’economia del Paese subirà una contrazione per il secondo anno consecutivo. Per aiutare a combattere l’inflazione e ridurre il deficit di bilancio, il presidente ultraliberista è ricorso a riforme economiche shock, svalutando il peso di oltre il 50% e tagliando la spesa pubblica. Gli analisti intervistati da Bloomberg prevedono che l’inflazione raggiungerà quasi il 300% su base annuo.

 
 

 

 

5 formidabili droni in forza all’Iran

Con l’industria della difesa sorta dalle ceneri della sanguinosa guerra Iran-Iraq degli anni Ottanta, la Repubblica Islamica dell’Iran si è lentamente affermata come una delle principali potenze missilistiche e di droni del mondo. Gli scienziati della difesa hanno creato più di cinquanta diversi progetti di droni, dagli UAV tattici a corto raggio, ai droni a razzo e a elica per la ricognizione, l’attacco e la guerra elettronica a lungo raggio.

Memore dell’esperienza degli embarghi sulle armi e delle sanzioni sul suo settore della difesa, l’Iran è orgoglioso dello sviluppo e della produzione di armamenti con un altissimo tasso di indigenizzazione dei componenti e, per quanto riguarda i droni, ha creato sia progetti di produzione propria sia progetti di reverse-engineering da UAV statunitensi e israeliani che hanno commesso l’errore di volare nello spazio aereo della Repubblica Islamica.

Di seguito 5 droni prodotti dall’Iran, presentati da Sputnik:

Shahed 136

Lo Shahed 136 (in italiano “Testimone 136”) è un drone ad ala delta unico, semplice e a basso costo creato dalla Iran Aircraft Manufacturing Industrial Company (acronimo persiano HESA) e dalla Shahed Aviation Industries – creatori di un’intera linea di UAV ed elicotteri militari.

I droni, del peso di 200 kg l’uno, sono lunghi 3,5 metri e hanno un’apertura alare di 2,5 metri; il motore a pistoni degli UAV alimenta un’elica bipala a spinta.

Gli Shahed 136 possono accelerare fino a 185 km all’ora e hanno un’autonomia stimata fino a 2.500 km. Gli UAV a navigazione satellitare e guida inerziale sono designati come munizioni loitering/drone kamikaze, con un carico utile di 50 kg sufficiente a colpire infrastrutture, fortificazioni, navi da guerra, caserme militari, porti, aerodromi, concentrazioni di soldati nemici e altri obiettivi strategici e sul campo di battaglia.

Lo Shahad 136 è stato presentato nel 2021 e negli ultimi tre anni è stato impiegato in massa nelle forze armate iraniane. 

Mohajer 10

Tra i più recenti progetti di droni nell’arsenale iraniano c’è il Mohajer 10 (lett. “Immigrante 10” o “Santo Migrante 10”), un UAV multiuso presentato nel 2023 e progettato per la sorveglianza, gli attacchi a lungo raggio, la guerra elettronica e la superiorità a tutto spettro.

Progettato dalla Qods Aviation Industries Company – il più vecchio produttore iraniano di droni – il Mohajer 10 è un UAV a media altitudine e lunga resistenza che, con i suoi 6,5×4,2×18,2 metri e un raggio d’azione fino a 2.000 km, è uno dei più grandi veicoli aerei senza pilota dell’arsenale nazionale.

L’UAV ha una durata di 24 ore, un’altitudine massima di volo di 7 km e una velocità massima di 210 km all’ora. Il Mohajer 10 ha un carico utile fino a 300 kg, sufficiente per trasportare missili o bombe multiple sganciate dall’aria e/o apparecchiature di sorveglianza e guerra elettronica.

La serie di droni Mohajer è apparsa per la prima volta a metà degli anni ’80 e inizialmente aveva scopi di ricognizione. Il Mohajer 10 è stato progettato per soddisfare le esigenze delle forze di terra dell’esercito iraniano e quelle delle forze di terra e della marina delle Guardie rivoluzionarie islamiche.

Arash 2

Realizzato dalla Defense Industries Organization, l’Arash 2 (in italiano “Eroe 2” o “Verità 2”) è un drone d’attacco a elica con un raggio d’azione di 2.000 km, una velocità massima di 185 km all’ora e un tetto di volo di 12.000 piedi.

Entrato in servizio con le forze armate nel 2020, questo UAV d’attacco da 2.000 kg, lungo 4,5 metri e con un’apertura alare di 4 metri, può essere equipaggiato con fino a 260 kg di esplosivo ed è progettato per colpire obiettivi strategici. È stata messa in campo anche una variante a razzo dell’Arash 2, nota come Kian-2 (lett. “King 2” o “Realm 2”), che vola a una velocità di circa 400 km/ora.

Oltre al suo pacchetto di esplosivi, l’Arash 2 avrebbe capacità di sopprimere le difese aeree nemiche.

Karrar

L’HESA Karrar (lett. “Attaccante violento”) costituisce una famiglia di UAV versatili a reazione, introdotti per la prima volta nel 2010 e che si ritiene abbiano preso spunto dal Beechcraft MQM-107 Streaker.

Creato principalmente come drone bersaglio dall’esercito e dall’IRGC per esercitarsi con bersagli antiaerei e antimissile durante le esercitazioni, il Karrar è diventato un UAV universale grazie all’ingegno degli scienziati della difesa iraniani, che ne hanno convertito varianti per trasportare bombe da 225 kg, missili antinave e siluri, bombe a guida satellitare e persino missili aria-aria.

Il Karrar può accelerare fino a 900 km all’ora durante il volo e ha un’autonomia dichiarata di 1.000 km in una missione di sola andata. I droni pesano 700 kg, sono lunghi 4 metri e hanno un’apertura alare di 2,5 metri. A differenza degli MQM-107, che hanno un motore montato in basso, i Karrar sono dotati di un motore a turbogetto montato in alto.

Secondo quanto riferito, i karrar sono finiti nelle mani degli Hezbollah libanesi e sono stati utilizzati dagli alleati del governo di Assad contro i terroristi nel corso della guerra sporca condotta dalla CIA contro la Siria negli anni 2010.

Kaman 22

Completa l’elenco il Kaman 22 (lett. “Arco dell’esercito 22”), un veicolo aereo da combattimento senza pilota a lunghissimo raggio sviluppato e prodotto dall’Aeronautica militare della Repubblica islamica dell’Iran. Presentato nel 2021, il drone si distingue per essere il primo drone da combattimento a fusoliera larga dell’Iran, con un raggio d’azione fino a 3.000 km, un tempo di resistenza di 24 ore, un tetto di servizio di 8.000 metri e un carico utile di 300 kg.

Questo grande UAV, paragonato da alcuni osservatori della difesa all’MQ-1 Predator (ma con una coda a forma di V montata verso l’alto, anziché verso il basso, e con spunti di design di altri droni indigeni di produzione iraniana, come lo Shahed 129, il Fotros e l’Hamaseh), è lungo ben 6,5 metri, alto 2,5 metri e ha un’apertura alare di 17 metri. Il drone ha un peso lordo di 1.700 kg.

Oltre alle missioni di combattimento, l’UAV è progettato per la ricognizione e la guerra elettronica, compresa l’individuazione e la fotografia di obiettivi distanti e l’uso di munizioni intelligenti, o per missioni antiaeree e di attacco al suolo con munizioni a guida laser.

Damasco: “115,2 miliardi di dollari saccheggi e sabotaggi degli USA in Siria”

 

Il rappresentante permanente siriano presso l’Ufficio delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali a Vienna, Hassan Khaddour, ieri, ha rivelato le cifre e le conseguenze economiche dei danni per i saccheggi, i furti continui di idrocarburi degli Stati Uniti d’America con la complicità delle milizie filocurde.

Si parte dai danni provocati dalla guerra per procura ai danni della Siria imposta dall’occidente e dalle potenze regionali usando i gruppi terroristici.

Con il 70 per cento del parco industriale distrutto, le perdite sono stimate in circa 60 miliardi di dollari.

Secondo Khaddour, “il numero degli impianti industriali privati ??danneggiati, registrato solo nelle province di Damasco, Aleppo, Hama e Homs, ammonta a circa 4.200, mentre 49 fabbriche del settore statale hanno cessato la produzione.”

Il diplomatico siriano ha ricordato che “la Siria ha bisogno di almeno 210 miliardi di dollari per ripristinare il corso della produzione industriale com’era prima della guerra.”

Le perdite nel settore degli idrocarburi

Il rappresentante di Damasco ha sottolineato che il settore petrolifero che “prima della guerra costituiva la principale fonte di reddito per lo Stato siriano, mostrano che i danni derivanti da saccheggi e sabotaggi da parte degli Stati Uniti ammontano a 115,2 miliardi di dollari.”

Inoltre, si stima che le forze statunitensi e le loro milizie ‘terroristiche e separatiste’ hanno rubato tra i 100 e i 130mila barili al giorno e recentemente questa cifra ha raggiunto i 150mila, a cui si aggiungono 60 milioni di metri cubi di gas naturale all’anno.”

Riguardo i danni indiretti “il valore supera gli 87,7 miliardi di dollari, una cifra che rappresenta i mancati benefici di petrolio greggio, naturale e gas domestico derivanti dalla diminuzione della produzione.”

Dal Ministero degli esteri siriano hanno, dunque, ribadito che “queste non sono semplici cifre, ma prove che dimostrano la responsabilità degli Stati Uniti e dei loro alleati per la sofferenza e il deterioramento della situazione economica e umanitaria dei siriani.”

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L’AntiDiplomatico e LAD edizioni sono impegnati a sostenere l’associazione “Gazzella”, in prima linea nel sostegno della popolazione di Gaza. 

Con l’acquisto di “Il Racconto di Suaad” (Edizioni Q – LAD edizioni) dal nostro portale, finanzierete le attività di “Gazzella”.

La Cina chiede la “rapida” ammissione della Palestina all’ONU

 

La Palestina ha bisogno di almeno altri 9 voti per completare la sua adesione alle Nazioni Unite (ONU). I paesi che detengono il veto, inclusa la Cina, non possono opporsi apertamente. Gli Stati Uniti, che hanno anch’essi questa capacità, hanno esitato.

La portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Mao Ning, ha chiesto di continuare ad agire sulle questioni politiche, avvertendo che l’attuale escalation del conflitto a Gaza dovrebbe servire da “promemoria” sul fatto il problema deve essere risolto.

“L’unico modo per spezzare la spirale dei conflitti tra palestinesi e israeliani è attuare pienamente la soluzione dei due Stati”, che implica “la creazione di uno Stato di Palestina indipendente e la lotta all’ingiustizia storica”, ha sottolineato Mao in una conferenza stampa.

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Presidente Sudafrica: ciò che sta accadendo a Gaza è puro “genocidio”

 

Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha avvertito, ieri, che i palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza stanno affrontando un genocidio dopo 70 anni di discriminazione, oppressione e apartheid nei loro confronti.

“Il bombardamento indiscriminato di civili da terra, aria e mare se non si può considerare un genocidio, e allora cos’è?”, si è chiesto, denunciando come lo sfollamento forzato e la fame di una popolazione non costituiscono un genocidio.

Ramaphosa ha ricordato che questa settimana ricorrono i 30 anni dal genocidio ruandese e, a tal proposito, ha sottolineato che questa volta il Sudafrica non rimarrà in silenzio di fronte a quello in atto a Gaza e, indipendentemente dalla razza, dall’etnia, dalla religione e dal credo politico delle vittime, agirà e prenderà le misure necessarie.

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Sea Shield-2024, contadino moldavo ai soldati USA: “Cosa ci fate qui? Tornate a casa!”

L’esercitazione navale Sea Shield-2024, avviata sotto l’egida della Romania con la partecipazione di 12 paesi membri della NATO, arriva in un momento di grande incertezza e tensione geopolitica. Questa massiccia dimostrazione di forza navale nei pressi del Delta del Danubio e del Mar Nero non può essere considerata un mero esercizio di addestramento, ma piuttosto un segnale forte inviato in un contesto internazionale estremamente delicato, caratterizzato da un pericolo sempre più tangibile di conflitto aperto con la Russia, e il rischio concreto di un conflitto nucleare.

Secondo quanto riportato dal Ministero della Difesa rumeno, il simulacro vedrà la partecipazione di oltre 2.200 militari e 135 piattaforme, includendo navi da guerra, aeromobili e veicoli corazzati, con l’obiettivo dichiarato di affrontare “attività illegali” nelle acque del Mar Nero e del fiume Danubio, nonché di garantire la sicurezza delle infrastrutture critiche. Tuttavia, in un contesto di crescente tensione tra NATO e Russia, è difficile non interpretare queste manovre come un segnale di sfida diretta nei confronti del Cremlino.

L’invito esteso alla Moldavia e alla Georgia, paesi non membri della NATO, a partecipare al simulacro aggiunge ulteriore combustibile alle fiamme della tensione regionale. Sebbene l’Ucraina, direttamente coinvolta nel conflitto con la Russia, abbia deciso di non partecipare, la presenza di truppe statunitensi in prossimità dei suoi confini non può che alimentare ulteriormente le preoccupazioni per una possibile escalation.

Nel contesto delle esercitazioni NATO in corso, alcuni soldati statunitensi si sono spinti fino al confine tra Moldavia, Ucraina e Romania per ricognizioni. Un agricoltore moldavo – secondo quanto riporta il quotidiano turco Aydinlik – sorpreso dalla presenza dei militari mentre si trovava nei suoi campi con un bambino in braccio, ha manifestato il suo dissenso verso le manovre belliche.

Il dialogo tra l’agricoltore e i soldati è stato il seguente:

    Agricoltore moldavo: “Cosa state facendo qui? Tornate a casa, negli Stati Uniti! Qui non ci sono soldati russi.”
    Soldato statunitense: “Siamo qui per fornire aiuto.”
    Agricoltore moldavo (sorridendo): “Non state aiutando. State provocando una guerra qui. Qui non ci sono soldati russi.”

I successi del boicottaggio al regime israeliano: il caso McDonald’s e l’app “No Thanks”

 

di Agata Iacono

 

Da questa parte del “mondo democratico occidentale”, molti di noi si dibattono tra rabbia e la sensazione drammatica di impotenza nell’assistere allo sterminio in diretta di un intero popolo.

A volte questo senso di frustrazione si trasforma in disagio somatizzato, in depressione (parlo per me e per gli amici e compagni con cui mi confronto ogni giorno). In altri casi, invece, rischia di generare reazioni di autoconservazione fatalista, ricerca del deus ex machina, rimozione.

Eppure qualcosa si muove. Qualcosa possiamo fare. Una piccola goccia insistente sta scavando la roccia.

McDonald’s è costretta a riacquistare il franchising israeliano. L’azienda si riprenderà 225 punti vendita dopo che il franchising è diventato un punto di riferimento per le proteste contro il genocidio del popolo palestinese. La catena di fast food è stata oggetto di boicottaggio, soprattutto dopo la dichiarazione di aver fornito pasti gratuiti ai militari israeliani dal 7 ottobre.

McDonald’s Corporation ha dichiarato che il franchising israeliano “ha agito senza l’approvazione della sede centrale”. McDonald’s aveva respinto quelle che aveva definito “notizie inesatte” da parte della rete internazionale BDS (Boicottando Disinvestimento Sanzioni), sulla sua posizione nei confronti di Gaza. L’isolamento di Israele nel mondo e anche le proteste interne ad Israele hanno contribuito a far sì che l’azienda statunitense mancasse le aspettative di vendita nel quarto trimestre dello scorso anno. La crescita delle vendite della divisione della catena di fast food per il Medio Oriente, la Cina e l’India nel periodo ottobre-dicembre è stata di appena lo 0,7%, molto al di sotto delle aspettative del mercato del 5,5%. Un crollo che arriva dopo che i clienti dei Paesi a maggioranza musulmana hanno chiesto il boicottaggio di McDonald’s in risposta all’annuncio di Alonyal, che ha portato le sedi di Paesi come l’Egitto, la Giordania e l’Arabia Saudita a prendere le distanze dalle donazioni e a impegnarsi collettivamente per milioni di dollari in aiuti ai palestinesi di Gaza. Con i suoi oltre 40.000 ristoranti in tutto il mondo, il destino delle 225 sedi in Israele non sarà probabilmente un ago della bilancia per i profitti, ma l’amministratore delegato Chris Kempczinski ha dichiarato “che l’azienda ha registrato un “impatto commerciale significativo” in diversi mercati del Medio Oriente e in alcuni al di fuori della regione a causa del conflitto tra Israele e Hamas.”

In sintesi: l’azienda madre, McDonald’s, prende le distanze dalla gestione “locale”. Si sfila: non era stata autorizzata né frutto di accordi la decisione del franchising israeliano Alonyal Limited di distribuire i pasti all’esercito israeliano. Vince il mercato, come sempre.

Un’altra iniziativa di rilievo, abbastanza interessante, è la sperimentazione dell’app No Thanks, scaricabile gratuitamente sui cellulari.

No Thanks è un’app utilizzata per boicottare Israele a livello commerciale. Le sue funzioni principali includono una directory di marchi e uno scanner di prodotti che ci indicano se i produttori appoggiano Israele o hanno legami con il Paese, in modo che ognuno possa scegliere se acquistare o meno. L’obiettivo di questa app è boicottare i marchi e i prodotti che appoggiano Israele durante il conflitto bellico ed è diventata nota grazie a un video virale che si è diffuso sui social network. Il funzionamento è semplice: l’utente scansiona il codice a barre di un prodotto attraverso la fotocamera del telefono o cerca un marchio nel motore di ricerca. Immediatamente l’interfaccia indicherà se il produttore appoggia o meno Israele. Inoltre, scaricando No Thanks gratuitamente, possiamo anche accedere all’elenco delle aziende segnalate, ordinate per settore. L’app No Thanks APK è stata creata da Ahmed Bashbash, uno sviluppatore palestinese che ha perso il fratello e i familiari nei bombardamenti indiscriminati di Israele sui territori di Gaza. Alla tecnologia degli algoritmi della strategia militare israeliana, risponde con la tecnologia che, invece, aiuta a distinguere, a selezionare, a fare una scelta mirata e consapevole. Unica pecca: non c’è ancora la versione in italiano, ma si può scegliere l’inglese o il francese; le indicazioni sono scritte in linguaggio semplice e comprensibile da tutti.

Infine, ma non in ordine di importanza, registriamo l’espandersi delle iniziative accademiche in Italia, tese a rifiutare i finanziamenti di Israele alla ricerca.

Nelle università italiane aumentano infatti le richieste di vietare la partecipazione a un bando di collaborazione in scadenza il 10 aprile con università e istituti di ricerca israeliani. Lo scorso marzo aveva già preso posizione il senato accademico dell’università di Torino, quindi quello della Scuola Normale Superiore e recentemente si sono uniti in un appello di boicottaggio docenti, dottorandi e assegnisti degli atenei di Firenze, Bari, Pisa, Bologna, Napoli, Roma, dove molte università sono occupate dagli studenti che chiedono la fine immediata del genocidio e l’intervento delle istituzioni (che intervengono, al momento, solo per reprimere le mobilitazioni…).

Il bando è stato pubblicato all’interno di un accordo tra Italia e Israele: tra il Ministero dell’Innovazione, Scienza e Tecnologia (MOST) per la parte israeliana, e la direzione generale per la promozione del “sistema paese” del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) per la parte italiana, cioè la direzione che si occupa di promuovere all’estero economia, cultura e scienza italiane. Il bando vuole finanziare progetti di ricerca tra i due paesi in tre settori in particolare: tecnologia del suolo, dell’acqua e ottica di precisione.

Foreign Affairs: l’Occidente non riuscirà a dividere Russia e Cina

Solo un decennio fa, la maggior parte dei funzionari degli Stati Uniti e dell’Europa non vedeva di buon occhio la forza del partenariato emergente tra Cina e Russia, ritenendo che l'”apparente” riavvicinamento tra Mosca e Pechino fosse destinato al fallimento. Essi ritenevano che la relazione sarebbe stata minata dalla crescente asimmetria di potere a favore della Cina, dalla persistente diffidenza tra i due vicini dovuta a una serie di dispute storiche e dalla distanza culturale. Inoltre, si prevedeva che Pechino avrebbe sempre apprezzato i suoi legami con Washington e i suoi alleati, mentre Mosca avrebbe temuto il rafforzamento di Pechino e cercato un contrappeso in Occidente.
 
Tuttavia, scrive Foreign Affairs, la realtà è che Cina e Russia sono oggi in rapporti più stretti che mai dagli anni Cinquanta. Il processo di riavvicinamento è iniziato nel 2014, ma ha preso nuovo slancio dopo l’inizio dell’operazione speciale della Russia in Ucraina.
 
Sebbene il Regno di Mezzo abbia inizialmente cercato di assumere un atteggiamento attendista, la maggior parte dei dati disponibili mostra che nei due anni successivi all’inizio del conflitto ucraino, le relazioni tra Cina e Russia sono diventate molto più forti. I Paesi hanno ampliato i legami economici e commerciali e si sono notevolmente avvicinati anche nei settori della sicurezza e della cooperazione militare.
 
Il generale riscaldamento delle relazioni si riflette anche nei sondaggi di opinione in Russia, compresi gli ultimi dati ottenuti congiuntamente dal Carnegie Endowment e dal Levada Centre. Alla fine del 2023, l’85% dei russi avrà una visione positiva della Cina, mentre solo il 6% avrà una visione negativa del Paese. Più della metà dei russi intervistati ha dichiarato di volere che i propri figli imparino il cinese.
 
Come si legge nella pubblicazione, tutto ciò ha molto a che fare con gli sforzi consapevoli dei leader di Russia e Cina, Vladimir Putin e Xi Jinping, ma è anche un effetto collaterale della crescente frattura tra l’Occidente e i due Paesi. A questo proposito, l’Occidente dovrebbe abbandonare “i futili tentativi di spingere un cuneo” tra Mosca e Pechino e prepararsi invece a un periodo prolungato di confronto simultaneo con le due potenze nucleari, scrive Foreign Affairs.

L’oblio del Genocidio dei Nativi Americani: oltre 55 milioni di morti

 

di Raffaella Milandri*

Negli ultimi eventi di guerra abbiamo sentito spesso parlare di “genocidio”. Chiariamone la definizione e, soprattutto, chiediamoci perché l’Olocausto Indigeno delle Americhe non sia menzionato nella tragica lista dei genocidi.     

Il conteggio dei morti

Sono decenni che il mondo accademico si interroga sulla stima reale di quello che sia costato in vite umane l’arrivo degli Europei nelle Americhe e l’impatto successivo della dominazione. Le recenti conclusioni dei ricercatori dell’University College London, guidati da Alexander Koch, sono state pubblicate su vari articoli accademici e in una intervista al Business Insider: “Tra il 1492 e il 1600, il 90% delle popolazioni indigene nelle Americhe è morto. Ciò significa che circa 55 milioni di persone sono morte a causa di guerre, violenza e di agenti patogeni mai visti prima, come vaiolo, morbillo e influenza”.

A questa stima vanno aggiunti i Nativi morti tra il 1600 e il 1900, quindi già in “regime” di convivenza e di dominazione degli Europei e dei nuovi Stati da essi creati, e qui la valutazione di vari studiosi oscilla da poche centinaia di migliaia a decine di milioni di morti. Cito qui una frase del 1775 del capo Cherokee Tsi’ yu-gunsini o Dragging Canoe: “Intere nazioni indiane si sono sciolte come palle di neve al sole davanti all’avanzata dell’uomo bianco. Hanno lasciato solo il nome del nostro popolo (…). Verrà proclamata l’estinzione dell’intera razza”.

Nella seconda metà dell’Ottocento alcune fazioni del Congresso statunitense sostennero un vero e proprio sterminio fisico dei popoli nativi; gli “amici” degli indiani, come Pratt della Carlisle Industrial School, sostennero un genocidio soprattutto culturale. Carl Schurz, un ex commissario per gli Affari Indiani, concluse che i popoli nativi avessero “questa severa alternativa: sterminio o civilizzazione”. Henry Pancoast, un avvocato di Filadelfia, sostenne una politica simile nel 1882. Affermò: “Dobbiamo macellarli o civilizzarli, e quello che decidiamo di fare, dobbiamo farlo rapidamente”. L’opera di civilizzazione contemplava, in effetti, una azione decisa per far loro dimenticare cultura, linguaggio e origini e farli diventare “bianchi”.

Concentriamoci ora sugli Stati Uniti. Il professor David Michael Smith della University of Houston, che riporta gli studi, tra gli altri, di Russell Thornton e David Stannard, sottolinea come anche dal 1900 in poi le morti non naturali non si siano fermate. “Le morti di Nativi che si sono verificate negli Stati Uniti dal 1900 in poi, a causa dell’eredità del colonialismo e del razzismo istituzionalizzato contemporaneo devono essere conteggiate. Il numero totale di morti indigene è stato causato da guerre, repressioni e violenze razziste, ma anche dalle dure condizioni economiche e sanitarie. La scarsità di informazioni statistiche sulle nascite, i decessi e la mortalità degli Indigeni per gran parte del ventesimo secolo rende impossibile stimare con precisione il numero totale di morti in eccesso. Una stima di almeno 200.000 decessi totali attribuibili all’eredità del colonialismo e del razzismo istituzionalizzato dal 1900 in poi è molto prudente”.

Per alzare realisticamente le cifre è sufficiente pensare alla sterilizzazione forzata delle donne native americane, terminata (speriamo) alla fine degli anni Settanta, di cui vi parlerò in un prossimo articolo. Oppure alle scuole residenziali indiane, terminate alla fine degli anni Novanta, di cui vi ho raccontato in un articolo precedente. Tutti strumenti di morte creati negli Stati Uniti dove, peraltro, si è iniziato già agli albori con le coperte infette di vaiolo e la famosa “acqua di fuoco”.

La domanda è: perché la parola genocidio non viene automaticamente associata ai Nativi Americani? La risposta è semplice. Come molti media evitano accuratamente di divulgare informazioni sulle condizioni passate e presenti dei Nativi Americani, a maggior ragione non si parla di genocidio, che stona terribilmente con la “terra della libertà”. Approfitto per ringraziare L’Antidiplomatico per avermi dato lo spazio di questa rubrica per parlare di tematiche tanto scottanti quanto evidenti.

Il concetto di genocidio

La UN Genocide Convention è un trattato internazionale che mette al bando il genocidio e obbliga gli Stati parte a implementare l’applicazione di tale divieto. Ecco il contenuto dell’Articolo II della Convenzione delle Nazioni Unite per la Prevenzione e la Punizione del Crimini di Genocidio, 1948.

«Nella presente Convenzione, per genocidio si intende uno dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale:

  1. a) Uccidere i membri del gruppo;
  2. b) causare gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo;
  3. c) infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica, totale o parziale;
  4. d) Imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo;
  5. e) trasferire con la forza bambini del gruppo a un altro gruppo».

Per approfondire: https://www.un.org/en/genocideprevention/genocide-convention.shtml

E’ interessante notare che questa Convenzione fu adottata dall’United Nations Center for Human Rights nel 1948, ma fu approvata negli Stati Uniti solo nel 1988 da Ronald Reagan.

L’accusa di genocidio non sarebbe quindi un pianto romantico di liberali e buonisti. Si adatta perfettamente alla situazione dei Nativi Americani.

Attualmente la Convenzione contro i Genocidi è stata siglata da 153 stati (ultimo lo Zambia nel 2022) sui 193 totali membri dell’Onu.  

Il Papa e il genocidio

Come abbiamo visto in uno degli articoli precedenti, il Papa si è recato alla fine di luglio  2022 in Canada, per porgere le scuse alle comunità indigene sullo scempio delle scuole residenziali indiane, organizzato dallo Stato, al quale la Chiesa Cattolica ha preso parte. Brittany Hobson, del Canadian Express, ha chiesto al Papa in conferenza stampa durante il volo aereo di ritorno:

«“Lei sa che la Commissione canadese per la verità e la riconciliazione (TRC) ha descritto il sistema delle scuole residenziali come genocidio culturale, e questa espressione è stata corretta semplicemente in genocidio. Le persone che in questa scorsa settimana hanno ascoltato le Sue parole di scusa hanno lamentato il fatto che non sia stato usato il termine genocidio. Lei userebbe questo termine e riconoscerebbe che membri della Chiesa hanno partecipato a questo genocidio?”.

Papa Francesco: “È vero, non ho usato la parola perché non mi è venuta in mente, ma ho descritto il genocidio e ho chiesto scusa, perdono per questo lavoro che è stato genocida. Per esempio, ho condannato pure questo: togliere i bambini, cambiare la cultura, cambiare la mente, cambiare le tradizioni, cambiare una razza, diciamo così, tutta una cultura. Sì, è una parola tecnica – genocidio – ma io non l’ho usata perché non mi è venuta in mente. Ma ho descritto che era vero, sì, era un genocidio, sì, sì, tranquilla. Tu dì che io ho detto che sì, è stato un genocidio. Thank you”».

E Papa Francesco si è dimostrato di parola, quando il giorno dopo usciva il comunicato di Vatican News: “Papa Francesco: È stato un genocidio contro le popolazioni indigene”.

 Link: https://www.vaticannews.va/en/pope/news/2022-07/pope-francis-apostolic-journey-inflight-press-conference-canada.html

 

*Scrittrice e giornalista, Raffaella Milandri, attivista per i diritti umani dei Popoli Indigeni, è esperta studiosa dei Nativi Americani e laureata in Antropologia.

Membro onorario della Four Winds Cherokee Tribe in Louisiana e della tribù Crow in Montana. Ha pubblicato oltre dieci libri, tutti sui Nativi Americani e sui Popoli Indigeni, con particolare attenzione ai diritti umani, in un contesto sia storico che contemporaneo. Si occupa della divulgazione della cultura e letteratura nativa americana in Italia e attualmente si sta dedicando alla cura e traduzione di opere di autori nativi.

NYT: il sequestro dei beni russi si trasformerà in un disastro finanziario per gli Stati Uniti

Recentemente, il presidente della Camera degli Stati Uniti Mike Johnson ha parlato di un potenziale disegno di legge per confiscare i beni russi, che ha definito “pura poesia”. Tuttavia, secondo il New York Times, questo passo molto probabilmente si trasformerà in un disastro per Washington e, “se Johnson crede che gli Stati Uniti stiano ‘proiettando debolezza’ oggi, aspetti finché non li vedrà senza la loro valuta di riserva”.

Come sottolinea il quotidiano statunitense, il sequestro dei beni russi rappresenta un pericolo per l’economia USA, poiché altri paesi, non solo la Russia, lo considereranno giustamente alla stregua di un atto di rapina. Quindi non sorprenderebbe se la prossima volta un governo straniero ci pensasse due volte prima di collocare le proprie risorse negli Stati Uniti o in uno dei suoi alleati della NATO. E questo, di conseguenza, indebolirà lo status del dollaro come principale valuta di riserva mondiale.

“Se la Russia, la Cina e altri rivali diplomatici decidono che i loro asset in dollari sono vulnerabili e che non possono più fidarsi del dollaro come mezzo di scambio, sentiremo il dolore di quei 34.000 miliardi di dollari di debito sovrano in un modo che ora non sentiamo”, spiega il quotidiano statunitense. Il mantenimento dei vantaggi della valuta di riserva dipende direttamente dal comportamento degli Stati Uniti come custode affidabile e neutrale dei beni altrui “e se iniziamo a rubare i soldi degli altri, la situazione potrebbe cambiare”.

Newsweek – Gli statunitensi saltano i pasti per pagare la casa

Per non perdere il tetto sopra la testa, gli americani sono costretti a fare sacrifici, rinunciando alle vacanze e talvolta anche al cibo, riporta Newsweek in riferimento a un recente sondaggio condotto dalla piattaforma Redfin.

Secondo l’indagine, un quinto degli intervistati ha ammesso di risparmiare sul cibo per pagare l’affitto o il mutuo. Più di un terzo degli intervistati ha dichiarato di aver cancellato una vacanza perché temeva di non riuscire a pagare l’immobile in tempo. Alcuni intervistati hanno anche rimandato le visite mediche.

I tassi ipotecari statunitensi hanno raggiunto il livello record dell’8% lo scorso anno e da allora sono scesi molto lentamente, attestandosi attualmente intorno al 7%. La rata mensile mediana del mutuo negli USA alla fine di marzo era di 2.700 dollari per un tasso del 6,79%, con un aumento del 9% rispetto a un anno prima.

The Times – La NATO sopravvaluta il proprio potere: non è nemmeno in grado di difendere l’Ucraina

Per celebrare il 75° anniversario della NATO a Londra, le bandiere di tutti i 30 membri dell’alleanza sono esposte in Mall Street, che collega Buckingham Palace a Trafalgar Square. Come osserva l’editorialista del The Times Edward Lucas, l’esposizione riflette la peggiore abitudine della NATO di fare dichiarazioni e gesti altisonanti ma vuoti.
 
Secondo Lucas, l’esposizione è certamente un bel colpo d’occhio, ma non serve a nulla per aiutare l’Ucraina nei suoi sforzi militari contro la Russia. Inoltre, in un momento in cui tutte le attrezzature e i fondi dovrebbero andare a Kiev, la NATO sta conducendo la più grande esercitazione Steadfast Defender dai tempi della Guerra Fredda.
 
Secondo l’editorialista, 75 anni dopo la sua fondazione, l’Alleanza Nord Atlantica è “in disordine e non ha idea di quale sia il suo futuro”. La NATO non è in grado di aiutare non solo l’Ucraina, ma anche i suoi Stati membri in caso di guerra con la Russia.
 
Il fatto è che la NATO ha una serie di problemi. Ad esempio, la struttura di comando della NATO è in disordine, le scorte di armi sono scarse, le infrastrutture sono inadeguate, la logistica è fragile e le stesse attrezzature sono obsolete. Anche le promesse di una forza di reazione rapida, secondo Lucas, riflettono ipotesi estremamente ottimistiche.
 
Altrettanto problematica è l’inadeguatezza della pianificazione. L’attuale approccio della NATO al conflitto con la Russia si basa su un pensiero obsoleto e compiacente: qualsiasi guerra sarà breve, solo una o due settimane, perché la superiorità tecnologica dell’Occidente le permetterà di sferrare colpi schiaccianti contro la Russia e la paura delle armi nucleari statunitensi impedirà un attacco di rappresaglia. Questi calcoli non solo sottovalutano le capacità della Russia, ma sopravvalutano anche quelle dell’Occidente.
 
Sulla carta, la NATO prevede di colmare molte delle lacune entro il 2030. Tuttavia, l’alleanza deve “fare molto di più e molto più velocemente”, esorta l’editorialista.

Alessandro Orsini – Le democrazie occidentali, le dittature e l’antropologia culturale

 

di Alessandro Orsini*

 

C’è questa idea senza alcun fondamento empirico secondo cui le democrazie occidentali sono sempre migliori delle dittature. Lo studio della storia smentisce questo pregiudizio.

Ci sono dittature che non uccidono nessuno e democrazie che compiono massacri. Gli Stati Uniti e Israele sono due democrazie occidentali. Eppure stanno sterminando il popolo palestinese. Di contro, la Corea del Nord è una dittatura, ma non sta sterminando nessuno.

Sotto il profilo dell’antropologia culturale, l’idea secondo cui le democrazie occidentali sono sempre “migliori” è radicata nella concezione razzista del mondo tipica dell’uomo europeo. Un tempo gli europei pensavano che i bianchi fossero superiori ai neri. Poi il razzismo dell’uomo europeo si è spostato dal colore della pelle al tipo di regime politico. Tuttavia, la conclusione è sempre la stessa: gli europei sono superiori. Gli intellettuali occidentali hanno elaborato molte strategie cognitive per preservare la credenza che l’Occidente sia una civiltà superiore. Poi, periodicamente, arriva una nuova Gaza.

 

*Post Facebook del 8 aprile 2024

Polyansky: la Russia esorta a sostenere la candidatura della Palestina all’ONU

La Russia invita tutti i membri della comunità internazionale a sostenere la candidatura della Palestina all’adesione all’ONU.

Come riporta RIA Novosti, lo ha dichiarato il primo vice rappresentante permanente della Russia presso l’organizzazione, Dmitry Polyansky, in una riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

In precedenza, la Palestina aveva chiesto ufficialmente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di considerare la sua richiesta di ammissione all’ONU.

Come ha osservato Polyansky, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU esaminerà la questione dell’ammissione della Palestina in un formato chiuso. 

“Donbass. Ieri, oggi e domani”. Il documentario che in Italia non deve essere visto

 

di Agata Iacono

 

Al teatro Flavio, a Roma, si è svolta la prima proiezione del documentario di RT “Donbass. Ieri oggi e domani”.

Il documentario è completamente tradotto e doppiato in italiano. 

La regista, la bravissima, Tatyana Borsch, collegata online per interagire direttamente col pubblico in sala e rispondere esaurientemente a tutte le domande, racconta, attraverso testimonianze e documenti, la vera origine del conflitto in Ucraina, dal 2014, soffermandosi sulle testimonianze dei sopravvissuti alla strage di Odessa, sui racconti dei civili, sulle sofferte narrazioni di giornalisti di tutto il mondo ed ex militari, che hanno deciso di raccontare la verità e aiutare i popoli dell DPR e del LPR.

Il documentario dà voce anche alla narrazione occidentale, è crudo e imparziale, ed è proprio questo taglio documentale e non propagandistico che evidenzia le vere ragioni che hanno portato la Federazione Russa ad intervenire militarmente. Per la prima volta conosciamo le indagini di giornalisti indipendenti e le testimonianze dei sopravvissuti ai crimini compiuti dai battaglioni nazionalisti ucraini.

Fosse comuni con civili dalle teste tagliate, torture e stupri di donne e bambini, piccoli orfani che non sanno cosa voglia dire pace.

Una realtà di vita quotidiana che stravolge totalmente la narrazione imposta nell’occidente che continua a voler mandare armi e addirittura soldati.

“Ma francesi, canadesi, statunitensi, polacchi e anche italiani sono già qui, fin dall’inizio” specifica amaramente la regista.

E mostra fattivamente come in prima linea a morire siano giovanissimi ucraini, le cui madri sanno che sono solo in campi di addestramento o le cui famiglie non hanno i soldi per salvarli e farli uscire dal Paese.

Dietro vengono i battaglioni nazisti, con i vessilli ben in vista e senza libri di Kant…

Il documentario ripercorre la storia del Donbass dalle manifestazioni di piazza contro il colpo di stato di Maidan fino ai pochi mesi precedenti al riconoscimento, da parte russa, delle due Repubbliche Autonome di Lugansk e Donetsk.

Nella presentazione del documentario è stata inserita anche una testimonianza recentissima di Vasily Prozorov, (ex tenente colonnello membro del Servizio di Sicurezza dell’Ucraina (SBU) a partire dal 1999), dal Crocus City Hall di Mosca, luogo del terribile attentato, che non ha dubbi sui veri mandanti dell’atto terroristico.

Sala strapiena, prima assoluta in Italia riuscitissima del documentario, nonostante atti di intimidazione verso il pubblico che voglio denunciare.

 

Quando mi sono recata al teatro Flavio per guardare il documentario, in pieno centro a Roma, insieme ad altri amici, mi sono ritrovata stretta tra due ali, in un passaggio obbligato: da una parte uno schieramento di forze dell’ordine e dall’altra un manipolo di persone con bandiere ucraine e megafono che urlavano e sputavano contro il pubblico che si recava in sala. “Assassini, vergognatevi, andate a combattere in Russia” e altri gentili epiteti, da parte di persone ospitate in Italia che, in teoria, dovrebbero essere precettati nell’esercito ucraino.

Buon per loro, se sono riusciti a sfangarsela.

Ma perché cercare di ostacolare in tutti i modi la proiezione di un documentario?

Qual è la paura?

Non bastava la censura cui sistematicamente viene sottoposto il fulm Il Testimone in Italia? https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_testimone_il_film_russo_che_in_italia_non_deve_essere_visto/39130_52227/

Adesso pure i corridoi dell’umiliazione e dell’intimidazione dobbiamo tollerare, per poter assistere ad un documentario e cercare di formarci una nostra opinione indipendente dalla propaganda filonato?

Appena messa al corrente, ieri sera stessa, Anna Soroka, consigliere del Presidente della Repubblica popolare di Lugansk, ha dichiarato al canale Donbass Italia del giornalista Vincenzo Lorusso, anch’egli come sempre in collegamento video:

“Nonostante gli sforzi dei complici dei neonazisti ucraini, a Roma (Italia) è iniziata la prima proiezione del film documentario di RT “Donbass”. Ieri oggi Domani”. Testimoni oculari riferiscono che l’auditorium è pieno. Il mondo intero deve conoscere la verità sulla vera essenza disumana dell’Ucraina moderna!”

 

La fine del Franco CFA: il declino dell’imperialismo francese e la “scheggia impazzita” Macron

 

di Domenico Moro 

 

Recentemente Macron, il presidente francese, ha dichiarato “Non escludo l’invio delle truppe in Ucraina, la Russia non può e non deve vincere”. Si tratta di una affermazione molto grave che, se messa in pratica, porterebbe all’allargamento della guerra in Europa. Per questa ragione, gli altri Paesi della Ue, a partire dalla Germania e dall’Italia, si sono affrettati a escludere l’intervento di truppe europee nel conflitto tra Ucraina e Russia. L’affermazione di Macron può apparire contraddittoria, anche perché nel 2022 la Francia aveva cercato di venire incontro alle ragioni della Russia, sostenendo la necessità di non umiliarla se e quando si fosse arrivati a un trattato di pace. Quali sono le ragioni che hanno portato Macron a cambiare atteggiamento e alle recenti dichiarazioni? La ragione principale è probabilmente da rintracciare nella crisi dell’imperialismo francese. In particolare, la dichiarazione di Macron è una risposta alla crescente presenza della Russia nell’area di influenza francese nelle sue ex colonie dell’Africa occidentale e equatoriale.

Per comprendere quello che sta accadendo è utile rifarsi a una categoria dell’economia e della politica, quella di imperialismo. La Francia, infatti, può essere definita, come gli Usa e più degli altri principali paesi avanzati dell’Europa occidentale, un Paese imperialista. La Francia è un paese avanzato che fa parte del centro dell’economia-mondo e che sfrutta i paesi periferici, in particolare quelli dell’Africa da cui drena ricchezze verso la propria economia. A differenza degli altri Paesi della Ue, la Francia è una grande potenza che, oltre a poter drenare ricchezza attraverso lo sfruttamento dell’Africa, ha due vantaggi: dispone di armi nucleari e ha un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu dove esercita il potere di veto.

La Francia è, però, una potenza e un imperialismo in crisi. I fattori che evidenziano questa crisi sono, oltre alla perdita di posizioni in Africa, la forte conflittualità sociale rappresentata dai movimenti contestativi che sono sorti negli ultimi anni in Francia, come i gilet gialli e gli imponenti scioperi contro la riforma delle pensioni. Inoltre, la Francia è minata da una forte crescita del deficit e del debito pubblico. In particolare, la Francia è tra i Paesi europei con un alto debito che si trovano schiacciati dal Patto di stabilità. Non caso, recentemente si è fatta capofila dei Paesi dell’Europa mediterranea, i quali reclamano che la spesa militare venga scorporata dal calcolo del deficit e sia finanziata con debito europeo, cioè con l’emissione di bond europei. Da ultimo, ma non per importanza, la Francia negli ultimi decenni si è caratterizzata per una forte deindustrializzazione, che ha indebolito la sua economia.

Ma torniamo alla categoria di imperialismo. L’imperialismo è una fase storica del capitalismo e si caratterizza per cinque condizioni: la forte concentrazione della produzione e del capitale, la fusione del capitale bancario con quello industriale, la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto all’esportazione di merci, il sorgere di associazioni internazionali di capitalisti che si ripartiscono il mondo e infine la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze imperialistiche[i]. La Francia presenta al massimo grado queste caratteristiche. In particolare, ha settori economici molto concentrati in poche imprese giganti, che figurano tra le principali multinazionali europee, come Total, LVMH, Sanofi, Airbus, ecc.

Soprattutto l’economia francese è caratterizzata dalla prevalenza dell’esportazione di capitali rispetto all’esportazione di merci. Negli ultimi anni è cresciuto il disavanzo commerciale, che è passato dagli 83 miliardi del 2019 ai 200 miliardi di dollari del 2022[ii]. Quindi, la Francia importa molto più di quanto esporta in termini di beni, anche se può contare su un surplus nell’interscambio di servizi, che tuttavia non è in grado di compensare il disavanzo commerciale di beni. Invece, per quanto riguarda l’importazione e l’esportazione di capitali, la situazione è completamente capovolta. A questo proposito, dobbiamo fare riferimento ad uno specifico indicatore statistico: gli investimenti diretti all’estero (Ide), che rappresentano sia gli investimenti sotto forma di acquisizione di imprese estere sia quelli green field, cioè nella forma di stabilimenti costruiti ex novo all’estero. Lo stock di Ide in uscita dalla Francia nel 2022 era di 1.525 miliardi, pari al 53,53% del Pil, mentre lo stock degli Ide in entrata era di 896,7 miliardi pari al 32,22% del Pil[iii]. La percentuale di Ide in uscita sul Pil della Francia è la maggiore tra le grandi economie della Ue.

Quindi, la Francia è esportatrice netta di capitali. Viceversa, come abbiamo visto, per quanto riguarda l’interscambio di beni presenta un considerevole deficit. Ciò significa che la Francia consuma molto più di quanto produce. Il punto è che, se può fare questo, lo può fare solamente grazie alla ricchezza che drena dai Paesi periferici, in particolare dalle sue ex colonie africane. Lo strumento principale che permette questo drenaggio di ricchezza è il franco CFA.

Il franco CFA fu creato nel 1945 in seguito agli accordi di Bretton Woods con l’intenzione di legare finanziariamente le colonie africane alla Francia. L’acronimo CFA stava per Colonie francesi d’Africa. Dopo la decolonizzazione e l’indipendenza delle colonie francesi il franco CFA venne mantenuto, pur mutando il significato dell’acronimo che divenne Cooperazione finanziaria in Africa. Oggi, Il franco CFA è adottato da 14 Paesi africani suddivisi in due realtà economiche distinte, la Uemoa (Unione economica e monetaria dell’Africa Occidentale) e la Cemac (Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale).

Quali sono le caratteristiche del franco CFA e come contribuisce a subordinare i Paesi africani alla Francia? Innanzi tutto il franco CFA, originariamente ancorato al franco, è ora ancorato all’euro da una parità stabilita dalla Francia mentre la sua convertibilità è stabilita dalle autorità monetarie francesi. Inoltre, i Paesi che adottano il franco CFA devono depositare presso il Tesoro francese la metà delle loro riserve valutarie e la Francia può intervenire nella definizione della politica monetaria della zona valutaria africana. Tra le varie conseguenze dell’ancoraggio del franco FCA all’euro c’è anche l’obbligo per i paesi che ne fanno parte di adottare le regole del Patto di stabilità europeo, in particolare il limite del 3% al deficit statale, che rappresenta un impedimento all’attuazione di quelle politiche espansive della spesa pubblica che potrebbero favorire lo sviluppo di Paesi arretrati.

Il franco CFA impedisce il cambiamento strutturale dell’economia dei Paesi che lo adottano. Ciò significa che non consente lo spostamento di risorse da settori a bassa produttività (come l’agricoltura) a settori ad alta produttività (come l’industria), mantenendo così statica e arretrata l’economia dei Paesi aderenti. Viceversa, il franco CFA permette alla Francia di perseguire i propri interessi economici, consentendo alle imprese francesi un accesso facilitato al mercato africano e alle enormi risorse naturali di quei Paesi. In particolare, vengono facilitate le multinazionali francesi che operano nel campo estrattivo e nel petrolio, come la Total, le quali beneficiano di tassi di cambio vantaggiosi.

Tuttavia il sistema basato sul franco CFA sta andando in pezzi, come scrive Alessandra Colarizi: “La Françafrique, il sistema di relazioni privilegiate intessuto da Parigi nel continente attraverso il franco CFA, garantito dal Tesoro francese, la firma di accordi militari, e la francofonia, sta attraversando una crisi esistenziale senza precedenti. Il sintomo più evidente è rintracciabile nell’accordo raggiunto dai Paesi dell’Africa occidentale il 21 dicembre 2019 per l’acquisizione di una moneta propria che permetterà (pare nel 2027) di abbandonare il franco CFA. La nuova valuta, l’ECO, potrebbe essere ancorata allo yuan cinese per evitare oscillazioni pericolose per i mercati. E c’è chi già parla di un passaggio dalla tutela francese alla tutela cinese.”[iv]

Oltre che del franco CFA, la presa imperialistica francese sull’Africa si è avvalsa anche dello strumento militare. Le truppe francesi sono intervenute in modo ricorrente dal 2002 ad oggi in Costa d’Avorio, dove nel 2011 hanno effettuato un vero colpo di stato, arrestando il presidente Laurent Gbagbo, colpevole di non essere troppo disponibile a cedere il controllo dei giacimenti di petrolio alla Total, e sostituendolo con Alassane Quattara, che, da ex alto dirigente del Fondo monetario internazionale, gode della fiducia della Francia e delle altre potenze occidentali, tra le quali c’è anche l’Italia. Di recente il presidente Mattarella, durante il viaggio che lo ha portato in diversi Paesi dell’Africa Occidentale, ha incontrato Quattara, per discutere del rafforzamento della presenza italiana nel Paese africano. Del resto, l’Eni ha scoperto e sta sfruttando a Baleine il più grande giacimento di gas e petrolio della Costa d’Avorio. La Francia, inoltre, è intervenuta militarmente dal 2013 in Mali, Burkina Faso, Ciad e Niger prima con l’operazione Serval e poi con l’operazione Barkhane. La Francia ha impedito che le questioni interne al Mali venissero risolte con il solo ausilio di forze militari africane, come era previsto dall’Onu. Evidentemente lo Stato francese non poteva permettere che Paesi ricchissimi di risorse minerarie fuoriuscissero dal controllo di politici locali legati alla Francia e alle sue multinazionali. Di recente, però, anche il controllo sul piano militare sta venendo meno. Le truppe francesi sono state espulse prima da Burkina Faso e Mali e poi, a fine 2023, dal Niger.

A sostituire la Francia, sul piano economico e militare è la Russia, come abbiamo accennato sopra, che sta rafforzando la sua presenza nell’Africa occidentale e centrale. Recentemente Putin ha concordato con la Repubblica del Congo un potenziamento della collaborazione economica e politica, e ha stabilito accordi con il Mali, con il quale ha siglato una partnership sull’industria del litio, e con il Niger, con il quale si sono rafforzati i legami su antiterrorismo, agricoltura, settore minerario ed energia.

L’imperialismo francese, come quello statunitense, è in netta difficoltà perché, grazie alla sponda offerta dai Paesi del Brics, in particolare da Cina e Russia, i paesi periferici sono entrati in una nuova fase storica, quella della decolonizzazione reale. Le economie periferiche, come quelle dell’Africa, dopo la metà del XX secolo si erano liberate dal colonialismo europeo ma solo formalmente, rimanendo legate ai Paesi colonizzatori, come la Francia. Ora siamo ad una svolta, rappresentata dalla decolonizzazione reale, ossia dalla liberazione dalla dipendenza economica e militare. Non sembra, però, che l’imperialismo occidentale voglia accettare di buon grado questa nuova situazione. Togliatti, a proposito dell’imperialismo fascista, sosteneva che l’imperialismo debole o in crisi è il più pericoloso, perché nel tentativo di affermarsi o invertire la tendenza al declino può far ricorso alla guerra. Così è accaduto nella Prima e nella Seconda guerra mondiale. A quel tempo la guerra scoppiata in Europa fu una resa dei conti relativa alla partita della spartizione delle colonie. Anche oggi la guerra in Europa rappresenta non solo lo scontro tra i due Paesi, Russia e Ucraina, ma anche il terreno sul quale l’imperialismo occidentale cerca di arrestare il proprio declino e mantenere la sua presa sulle aree periferiche e dipendenti dell’economia mondiale.

 

 

 

 

[i] Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in “Opere Scelte”, Editori Riuniti Roma 1965, pagg. 638-639.

[ii] Unctad, database, Merchandise: trade balance, annual.

[iii] Oecd, data, FDI stock.

[iv] Alessandra Colarizi, Africa rossa. Il modello cinese e il continente del futuro, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2022, pag. 81.

Il vero motivo per cui Yellen è tornata a Pechino

 

di Giuseppe Masala per l’AntiDiplomatico 

 

E’ certamente corretto sostenere che le motivazioni che stanno spingendo Washington a mettere sotto assedio Pechino sono di natura economica. Paradossalmente questa tesi è stata infatti espressa indirettamente dalla stessa Segretario al Tesoro Yellen, in una intervista della settimana scorsa che non ha avuto la risonanza che avrebbe meritato nonostante anticipasse i temi che la stessa Yellen sta trattando con l’élite politica cinese nel suo viaggio diplomatico in corso in questi giorni.

Di importanza capitale per comprendere la situazione a cui siamo di fronte è questo passaggio dell’intervista: «In particolare, sono preoccupata per le ricadute globali derivanti dall’eccesso di capacità che stiamo vedendo in Cina. In passato, in settori come l’acciaio e l’alluminio, il sostegno del governo cinese ha portato a sostanziali investimenti eccessivi e a un eccesso di capacità che le aziende cinesi cercavano di esportare all’estero a prezzi bassi. Ciò ha mantenuto la produzione e l’occupazione in Cina, ma ha costretto l’industria nel resto del mondo a contrarsi. Ora assistiamo allo sviluppo di capacità in eccesso in “nuovi” settori come quello solare, dei veicoli elettrici e delle batterie agli ioni di litio».

L’economista ha poi concluso in maniera sibillina: «L’eccesso di capacità produttiva della Cina distorce i prezzi globali e i modelli di produzione e danneggia le imprese e i lavoratori americani, così come le imprese e i lavoratori di tutto il mondo».

Tradotto in linguaggio semplice, la Yellen sta dicendo che il sistema produttivo USA non riesce a reggere la concorrenza cinese e che ciò danneggia enormemente le imprese ed i lavoratori americani. Chiaro che problemi del genere vanno affrontati e risolti rapidamente, anche perché Washington non ha più tempo da perdere. Il surplus commerciale della Cina nei primi due mesi di quest’anno è ripreso a crescere ed è stato il più grande della storia: + 125 miliardi di dollari. Contemporaneamente il Deficit Commerciale USA a Gennaio di quest’anno è stato pari a – 90,5 miliardi di dollari e a Febbraio pari a – 91,8 miliardi di dollari.

Cifre impietose che danno plasticamente l’idea di quale sia la situazione economica americana in relazione alla competitività del suo sistema produttivo rispetto a quello cinese. Se poi si vuole guardare a dati più di lungo periodo, basta andare a vedere quale sia la posizione finanziaria netta cinese e a quanto ammonti invece il debito estero americano, ormai riprecipitato alla siderale cifra di quasi 19800 miliardi di dollari, per comprendere come il divario di competitività tra USA e Cina sia enormemente a vantaggio del Celeste Impero.

La situazione USA non appare più sostenibile anche in considerazione del fatto che è in corso una emorragia di capitali esteri che compensavano lo squilibrio derivante dalla scarsa competitività del sistema produttivo che, a sua volta, provoca, appunto, il profondo rosso nei conti con l’estero. Da qui spiegate anche le crisi bancarie a stelle e strisce sempre più frequenti, essendo il sistema finanziario da sempre il più esposto a

fughe di capitali verso l’estero che aprono squarci nei bilanci degli istituti di credito.

Una situazione questa che – dal punto di vista americano – va velocemente risolta “o con le buone” grazie a trattative diplomatiche o “con le cattive” come hanno fatto in Europa facendo scoppiare un conflitto che ha fatto perdere irrimediabilmente la competitività del sistema produttivo europeo rispetto al resto del mondo.

Probabilmente il viaggio della Yellen nel Celeste Impero iniziato sabato è l’ultimo tentativo di risolvere diplomaticamente il problema. Si capisce questo dalla schiettezza quasi sfrontata con la quale il Segretario al Tesoro di Washington ha esposto i temi del contendere. Altrettanto stupefacente è stato constatare, nei resoconti di stampa, la sfrontatezza con la quale i cinesi – solitamente obliqui nelle posizioni espresse – hanno risposto alla controparte statunitense durante il vertice con il vicepremier He Lifeng che peraltro presiede anche la commissione per gli affari economici e commerciali Cina-Stati Uniti. I cinesi infatti hanno respinto la tesi secondo la quale esisterebbe una sovraccapacità produttiva da parte loro ed anzi hanno espresso gravi preoccupazioni per i provvedimenti che gli USA stanno ponendo in essere per tentare di tarpare le ali allo sviluppo cinese. Ricordiamo per esempio il provvedimento del Congresso degli Stati Uniti che vorrebbe imporre la vendita del social network cinese Tik Tok che ha ottenuto un successo enorme tra i giovani, oppure ricordiamo il divieto imposto dall’amministrazione Biden a tutte le aziende occidentali (soprattutto americane, giapponesi e olandesi) di vendita alla Cina di apparecchiature DUV per la produzione di microchip.

Ad aver rincarato la dose, se mai ce ne fosse stato bisogno, è stato l’ambasciatore cinese a Washington Xie Feng che in una intervista concessa a Newsweek ha contestato l’esistenza di una sovraccapacità produttiva da parte di Pechino e, anzi, ha sostenuto la tesi che: “A livello globale, la capacità industriale di alta qualità e le forze produttive che la spingono non sono eccessive, ma anzi insufficienti” concludendo poi che anche la competitività cinese nel nuovo settore delle automobili elettriche non è dovuto a sussidi statali e pratiche scorrette ma, in sostanza, a una miglior capacità di innovazione rispetto agli USA.

Non pare azzardato dire che sul tema dirimente degli squilibri commerciali tra Cina e USA siamo al muro contro muro, dove nessuno dei due contendenti sembra disponibile a fare un passo indietro. Medesima situazione la si riscontra sull’altro punto dolens discusso durante il vertice, ovvero il sostegno cinese alla Russia impegnata nella guerra in Ucraina. A darne conto è stata l’agenzia Reuters che ha riferito il fatto che la Yellen ha sostanzialmente minacciato “conseguenze” qualora il sostegno di Pechino a Mosca non si interrompa. I cinesi avrebbero risposto che la politica di Pechino prevede il supporto a Mosca e che questo argomento non è materia di discussione bilaterale tra Cina e USA.

In definitiva il viaggio diplomatico della Yellen in Cina si è rivelato un assoluto buco nell’acqua sui temi più scottanti. Un fatto questo che non può non essere che foriero di gravissime conseguenze che, molto probabilmente, riproporranno nei prossimi anni le stesse dinamiche viste in Europa a partire dal 2022, a partire dalle rivendicazioni territoriali da parte dei paesi vassalli degli USA (pensiamo a Taiwan, alle Filippine e al Giappone) con probabile scoppio di guerre locali e la conseguente imposizione di sanzioni alla Cina che avranno l’effetto di distruggere la competitività dei paesi filo-americani coinvolti e che, dall’altro lato, disaccoppieranno definitivamente l’economia cinese da quella occidentale.

Ovviamente un simile sbocco, sebbene molto probabile, va visto come pericolosissimo, sia per l’enorme potenza industriale e militare della Cina sia perché gli USA ormai sono economicamente all’ultima spiaggia e dunque pronti anche a soluzioni molto costose per l’intero mondo.