L’UE è una URSS che ce l’ha fatta (finora…)

Detesto Facebook quasi quanto l’ipocrisia.

Ogni tanto sospetto che dovrei vincere queste mie avversioni se volessi aspirare al ruolo di autentico politico di territorio. Lo scopo del gioco, mi sembra ormai evidente, non è infatti tanto quello di essere presenti, quanto quello di dimostrare con l’aiuto del signor Pan di Zucchero che si è stati presenti: un bel selfie sorridenti, un post punteggiato di “Bene!”, “Avanti!”, “Andiamo a vincere!”, e l’omo campa… Non suonino a critica queste parole, perché non lo sono: bisogna fare il pane con la farina che si ha, in chiesa coi santi e in taverna coi ghiottoni, ecc. Se questo è quello che il general public percepisce come presenza politica, in quel beauty contest keynesiano cui l’attività politica si è ridotta (ricordate? “It is not a case of choosing those which, to the best of one’s judgment, are really the prettiest, nor even those which average opinion genuinely thinks the prettiest. We have reached the third degree where we devote our intelligences to anticipating what average opinion expects the average opinion to be.“), se lo scopo del gioco non è tanto essere presenti (cui bono, visto che gli stessi elettori che ci chiedono mirabilia sono quelli che ci hanno condannato all’irrilevanza?), se lo scopo è mostrare che si è stati presenti, sottrarsi a quest’ultima bisogna alla fine danneggerebbe la squadra, che viene giudicata non per quello che fa o non fa, ma per quello che la gente si aspetta che debba fare (e quindi “Bene!”, ecc.).

Va poi detto che “l’onorevole non mi risponde al telefono!” è un genere letterario: per quanto tu possa essere presente e assiduo, il vittimismo grillino, fatto per metà di una radicale incomprensione del lavoro parlamentare, e per l’altra metà dell’irriducibile convinzione di essere il perno del cosmo, è una costante biometrica (non mi spingo fino all’antropometrica) ineliminabile! Ma come ogni cosa per cui non c’è soluzione, anche questo è un non problema.

So far, so good

D’altra parte, questo blog è nato per lasciare una traccia nei cuori delle persone, non nelle loro bacheche.

Non ve lo dico per sancire la mia definitiva rinuncia a lasciare una traccia nei vostri cervelli (non mi arrendo)! Volevo invece sottolineare che ci sono circostanze, momenti, incontri, che mi sembrerebbe di prostituire se mi compiegassi a darne il resoconto standard del bravo politico presente nel (le bacheche del) territorio. Di quei momenti posso riferire solo qui, in questo non luogo, un luogo cui l’inesistenza e l’irrilevanza conferiscono un’intimità particolare, quella che mi ha consentito di condividere con voi in passato tanti momenti della mia vita familiare e professionale, e a voi di condividere con me e tutti noi momenti della vostra. La chiamiamo umanità, anche se, visto che in un processo di tempo homo si è identificato con vir, possiamo presumere che “umanità” sia diventata una parola di odio, una parola di-vi-si-va, ed è comunque una facoltà cui  in molti hanno abdicato, forse perché sordamente consapevoli del non potersela permettere.

Volevo oggi riferirvi brevemente di uno di questi incontri.

Qualche giorno fa dovevo recarmi a Lama dei Peligni.

Non pensate a Toledo: la “lama” dei Peligni non era quella impugnata dai Peligni, non è quella di una spada, ma quella della Murgia (quella vera), e i Peligni forse nemmeno c’erano arrivati, scollinando dal valico della Forchetta, a Lama, perché la Valle Peligna in realtà è dall’altra parte della Maiella, come voi ben sapete, e il territorio di Lama pare fosse occupato dai Sanniti, in particolare dai Carricini, quelli di Juvanum, che sarebbe questo:

Insomma: il nome di questo bel paese di un migliaio di abitanti contiene un doppio equivoco, il che non toglie che ci si viva bene, almeno dal Neolitico, e che, anche se magari non ne avete mai sentito parlare, esso sia legato a cose di cui potreste aver sentito parlare, come questa, già teatro di una brutta storia, che oggi sarebbe considerata bruttissima (e andrebbe censurata) perché scritta da un fasheesta.

E io che ci andavo a fare?

Mentre in macchina scendevo dalle propaggini della Montagna d’Ugni, aggiravo Palombaro, mi intrufolavo dietro lo stabilimento del noto pastificio (immediatamente intercettato da una security più efficiente di quella del #goofy), risalivo da Civitella Messer Raimondo (questo Raimondo qui, che una traccia nella storia l’ha lasciata, al tempo della contesta fra aragonesi e angioini), in effetti la stessa domanda tormentava anche me! Preciso: sapevo di andare a sostenere due amici, due candidati alle elezioni regionali, ero anche curioso di sostare in un Paese dal quale ero passato forse solo una volta, salendo da Fossacesia a Pescocostanzo (due bei posti, ma non ditelo troppo in giro, che sul turismo non la penso come la Hollberg ma molto peggio, anche perché io so di cosa parlo), questo lo sapevo.

Ma non sapevo che cosa avrei detto, né che cosa avrei dovuto dire.

Sì, i nostri candidati de quo sono due eccellenti persone e si sono date da fare in consiglio regionale, portando risultati, e naturalmente lo avrei ribadito con convinzione. Peccato che questo fatto, pur non essendo scontato, lo sembra. Vale qui il:

Teorema di Bagnai sulla neutralità elettorale dell’emendamento.

Ipotesi: sia data una Repubblica parlamentare.

Tesi: nessun emendamento per quanto rilevante ha mai spostato né mai sposterà un voto.

Dimostrazione: quando le cose vanno bene, il cittadino pensa che ciò gli sia dovuto, e ha perfettamente ragione di pensarlo! 

…che è poi il motivo per cui devo nascondere, con grande sforzo, un sorriso di infastidita accondiscendenza quando vedo laggente sbattersi ultra vires per far approvare una cosa del cui merito, se ha un senso, sarà il Governo ad appropriarsi (vedi il caso della mia proposta di legge sul contante o di quella di Claudio sui vandali o dell’emendamento di Molinari sull’IRPEF agricola), mentre i diretti interessati si limiteranno a dire che non va bene e che volevano di più (vedi il caso dell’emendamento sulle multe ai vaccinati). Questo teorema di neutralità mina alla radice una delle retoriche che furono alla base dell’adesione al governo Draghi, e in generale di ogni scelta “governista”: “laggente ci votano perché noi amministriamo bene, quindi andiamo al Governo e #facciamocose, che la gente ce ne sarà riconoscente!”

Sì, è vero che, per come ho imparato a conoscerli, i nostri amministratori esprimono una buona cultura amministrativa, sanno attrarre e utilizzare fondi (i famosi fondi italiani erroneamente detti “europei”, perché di europeo in quei fondi c’è solo l’uso assurdo che se ne fa, come sottolineato qui), è tutto vero, è tutto giusto.

Ma è il mondo a essere ingiusto e irriconoscente!

Purtroppo non funziona così, perché la normalità ha due difetti insanabili: mentre assicurarla richiede uno sforzo titanico, essa stessa resta impercettibile. Chi si accorge delle cose normali? Chi si chiede quanto lavoro ci sia dietro? Chi si predispone a ringraziare per questo sforzo? Nessuno. Ne consegue che in un Paese in cui le cose stanno andando così:

(come ci siamo detti a fine anno), e in cui quindi la maggioranza soffre, se pure talora inconsapevolmente, quello che devi dare non è un emendamento, o un fondo “europeo” con annessa pecetta propagandistica da apporre sull’uscio, ma un’alternativa.

Queste riflessioni rispondevano anche a un’altra domanda: mi sarei dovuto addentrare nei problemi del paese, raccogliendo aneddoti dai miei militanti, o da qualcuno dei tanti amici sindaci circonvicini che frequento (poco più sopra ci passo le vacanze, ed è sempre una buona idea essere amici dei sindaci di posti meravigliosi), e magari prepararmi un discorzetto su cose che chi mi ascoltava comunque conosceva meglio di me? Forse anche no, non era il mio ruolo, ma eventualmente quello dei candidati, e forse non era nemmeno quello di cui chi avrei incontrato avrebbe avuto bisogno, quand’anche non sapesse e non fosse possibile illustrargli che il suo destino era di finire in C e non in D…

Questa, e altre cose, rimuginavo mentre parcheggiavo e entravo nella sala del consiglio comunale, che ospitava l’incontro. L’atmosfera era piacevolmente accogliente, quasi natalizia. In poche decine di uomini di ogni età, che riempivano l’ambiente raccolto, si trovavano il bambinello, un angelico lattante biondo non (ancora) interessato alla politica, ma già capace di stare in società, la Madonna sotto forma di connessa giovane madre, e i pastori, uomini dai volti incisi come le valli della montagna madre che guardano verso il mare, molti più anziani di me. Quasi tutti ignoti, tranne un mio ex studente (ce n’è sempre uno: in dodici anni di insegnamento si semina più di quanto si possa immaginare), gratificato a suo tempo da due 29 (non ricordavo di essere così bastardo…), e un paio di nostri amministratori e militanti. Entravo in quella sala con una certa rispettosa circospezione: ero arrivato tardi di pochi minuti, avevano già cominciato a parlare (in Abruzzo non so mai su quale fuso regolarmi, se su UTC+0 o UTC+1: quella era la sera di UTC+1…), non volevo distrarre i colleghi che stavano parlando, e non volevo nemmeno fargli fare brutta figura. Ero anche un po’ overdressed, perché venivo dritto dall’inaugurazione dell’anno giudiziario, dove non sarebbe stato il caso di presentarsi underdressed (anche se, per dirla tutta qui dove nessuno la legge, secondo me in Italia questo me lo sono letto solo io, ma capisco che molti possano trovare Saint Simon o Proust delle letture inutili, e alla fine questo è il meno rispetto al fatto che molti mi credono ancora in Senato…), e non avrei mai voluto che quel mio essere incravattato in un completo a tre pezzi potesse essere letto come il tentativo di rimarcare un rango o di frapporre un diaframma.

In quattordici anni di esposizione in contesti pubblici ho sempre parlato a braccio, non mi sono mai scritto un discorso, ma spesso l’ho trovato scritto sulle pareti delle aule che mi hanno accolto. Ed è andata così anche questa volta. Di fronte a me, accanto alla porta d’ingresso, campeggiava ben visibile una lapide dedicata alla memoria dei patrioti della Brigata Maiella, una storia che per qualche strano motivo, come ho detto a Pietransieri nel commemorare questi morti, resta un po’ nascosta nel panorama culturale degli italiani, come l’Abruzzo resta nascosto nella loro geografia mentale.

E così, quando mi hanno dato la parola, ho detto ai miei rappresentati, perché comunque in Parlamento sono io a rappresentarli, quello che mi frullava per la testa. Ho detto loro che immaginavo il legittimo orgoglio del sindaco comunista che il 25 aprile del 1989 affiggeva una lapide per ricordare il sacrificio di quei patrioti, e anche, possiamo dircelo, per appropriarsene politicamente, senza sapere che 198 giorni dopo quel gesto nobile, per quanto certamente venato da una scusabile scorrettezza, un altro manufatto sarebbe crollato, lasciando “lu sindache” orfano della sua casa politica, e avviando quel processo storico che avrebbe portato la sinistra a cercare protezione in un altro referente esterno: in assenza di ideologia e finanziamenti dell’Unione Sovietica, la sinistra, per governare a dispetto degli elettori, si sarebbe posizionata sotto l’ombrello dell’Unione Europea.

“Perché alla fine”, dicevo ai miei rappresentati, “l’Unione Europea è un’Unione Sovietica che ce l’ha fatta. Ma voi, dicevo ai più anziani, voi vi potete immaginare un Breznev venire a dirci che dal 2035 dobbiamo passare tutti all’auto elettrica, e il distretto industriale di Atessa si fotta? Vi potete immaginare un Andropov dirci che dobbiamo sostituire la farina di solina con quella di grillo, e gli arrosticini con la carne coltivata? Potete concepire un Černenko che ci impedisca di vendere una casa a meno che prima non ci spendiamo un pozzo di soldi in prodotti cinesi per renderla “verde”?”

“No”, proseguivo, “una cosa simile era al di fuori di quanto fosse lecito concepire anche nel peggiore degli scenari, quello in cui i cosacchi avessero abbeverato i propri cavalli alle fontane di Piazza San Pietro. Ma dove non sono arrivati i gerarchi russi, sono arrivati i tecnocrati europei. E come ci sono riusciti? Facendoci abbassare la guardia. Perché al tempo dei due blocchi era chiaro che il mondo era diviso in due, che potevi stare di qua o di là, il riferimento ideologico “di là” era la difesa del lavoro (sull’efficacia di questa difesa si può discutere), il riferimento ideologico “di qua” era la difesa del mercato (tradotto in pratica come socialismo dei ricchi, quello che socializza solo le perdite), ma insomma si capiva che una tensione esisteva, che niente era dovuto, che bisognava impegnarsi e lottare, e per organizzare e indirizzare questa lotta c’erano i partiti. Poi ci hanno detto che era tuttapposct, e non dovevamo preoccuparci: la nostra libertà era al sicuro perché aveva vinto la democrazia, cioè noi. Ma il mondo è ancora diviso in due, e per capire chi è l’avversario dobbiamo guardare chi attenta alla nostra libertà: l’Unione Europea. Tanti lo hanno capito e tanti lo stanno capendo, per cui, se quello che vi ho detto vi suona sensato, sostenete il partito di chi vi ha portato a questa riflessione. La lotta per avere più libertà, oggi, è la lotta per avere meno Europa. E quella lapide ci racconta che anche ieri non è che le cose stessero in modo molto diverso.”

Contrariamente a quanto potessi aspettarmi, a conferma del fatto che chi parla col cuore parla al cuore, il discorso, non particolarmente più lungo di così, pareva convincesse i presenti. Mi sono poi fermato a parlare con loro, entrando nella granularità dei dissidi e delle bizze che sarebbe tanto meglio poter comporre e sedare. La vita è fatta anche di questo. Che però ora, in questo meraviglioso mondo pacificato e unipolare, stiamo subendo livelli di condizionamento esterno semplicemente inimmaginabili al tempo del conflittuale mondo bipolare, questo lo avevano capito tutti, forse perché, prima che mi materializzassi nel mio completo a tre pezzi, lì non ci aveva pensato nessuno.

E ora, dopo aver condiviso con voi queste scene dalla vita di provincia, queste memorie del mio collegio analogico, con voi che siete il mio collegio digitale, vi saluto e torno a occuparmi di griglie: griglie di emendamenti, griglie di pareri, griglie di audizioni, griglie di nomine. Non è robba che sse magna: è un noioso lavoro, e qualcuno deve pur farlo.

(…ricordatevi quello che ci disse Jacques Sapir: fino al giorno prima tutti erano convinti che il sistema non funzionasse, e tutti erano convinti che sarebbe durato per sempre…) 

(…amo la Hollberg, anche se finora non ho avuto il tempo di scriverglielo. Perché purtroppo le cose stanno come dice lei. Le strade dove camminavo da bambino, per mano ai miei genitori, emanano oggi il lezzo dell’etnico e del fashion – sapete quando si passa per il duty free in aeroporto? L’odore delle botteghe, dei rosticceri, dei droghieri, l’incenso delle chiese, la resina dei cipressi, tutto è annichilito dal rullo compressore delle economie di scala, dei franchising, dei grandi numeri. Amo il mio collegio perché conserva delle sacche tenaci di autenticità: e qualsiasi autenticità, qualsiasi radice, anche se formalmente non tua, è meglio della fintaggine. Del resto, anche in centro a Roma, città che non ho mai sentito veramente mia nonostante ne abbia tanto amato la cultura nelle sue varie stratificazioni, ormai soffro per quella presenza opprimente. Forse l’Abruzzo è protetto dall’essere terra di passaggio. Guardate la Puglia, luogo di arrivo un tempo delle pecore – a Foggia – e oggi dei turisti – in Salento. Tutto bellissimo: la Natura e l’Arte. Ma quando cominci a voler piacere a qualcuno di diverso da te, e che in fondo non conosci, ti addentri in un territorio impervio e ostile dove sei destinato a subire molte perdite, prima fra tutte quella dell’autenticità. Forse ne soffri solo tu, perché per definizione chi proviene da un altro humus non è in grado di percepire il danno fatto. Certi processi vanno gestiti prima che il danno sia fatto. Dopo è inutile parlare di filiere corte e di presidi slow food…)

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“L’UE è una URSS che ce l’ha fatta (finora…)” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.