Invito alla lettura: “L’uomo a una dimensione” di Herbert Marcuse

 

di Michele Blanco*

Quest’anno è il 60esimo della pubblicazione de “L’uomo a una dimensione” di Herbert Marcuse. Oggi sarebbe opportuno che lo si leggesse perché in tutti questi anni abbiamo potuto constatare la conferma di  gran parte delle tesi illuminanti dell’autore. 

Marcuse, in modo oggettivamente profetico, affermava che la “società industriale avanzata” ha creato, e continua a farlo costantemente, falsi bisogni, che hanno integrato gli individui nel sistema esistente di produzione e consumo attraverso i mass media, la pubblicità, la gestione industriale e le modalità di pensiero contemporanee.

Ciò si traduce in un universo “unidimensionale” di pensiero e comportamento, in cui l’attitudine e l’abilità per il pensiero critico e il comportamento di opposizione si allontanano constantemente (oggi tutto ciò lo chiamiamo mainstream). Contro questo clima prevalente, oggi assolutamente prevalente e totalizzante, Marcuse promuove il “grande rifiuto” (descritto a lungo nel libro) come l’unica opposizione adeguata ai metodi onnicomprensivi e totalizzanti di controllo. 

Gran parte del libro è una difesa del “pensiero negativo”, inteso come possibilità di dissenso e difesa delle forme di vita alternative, come forza dirompente contro il falso positivismo prevalente. Marcuse critica fortemente la maggiore caratteristica della società contemporanea: il consumismo e la moderna “società industriale”, allora lo era oggi un po meno diremmo del terziario, che sostiene sia, indiscutibilmente, una forma subdola di controllo sociale. 

Marcuse sostiene che mentre il sistema in cui viviamo insiste a definirsi e pretende di essere democratico, in realtà è totalitario. Una onnipresente, nascosta alla vista della stragrande maggioranza delle persone, forma di razionalità tecnologica si è imposta e manipola ogni aspetto della cultura e della vita pubblica e privata; essa è diventata totalmente egemonica. 

La nostra identificazione con questa ideologia egemonica della moderna società industriale, o post industriale, questa ideologia non rappresenta una forma di “falsa coscienza”, ma piuttosto è riuscita a imporsi fino a diventare la  realtà, almeno come tale viene percepita da quasi tutti. 

Sono su un argomento Marcuse non ha completamente fotografato le previsioni, il fatto è che lui riteneva e pensava al realizzarsi di una dittatura dolce del pensiero, dittatura ideologica, ossia che il consenso al pensiero dominante, maistream, non sarebbe stato ottenuto con la violenza e la forza; invece la attualissima moderna contemporanea società post industriale occidentale non tollera assolutamente la critica e il dissenso, democratico, e lo sopprime, o lo rende ininfluente, in tutti i modi. Basti pensare alla stampa e alle televisioni a tutti i mass media favorevoli alle guerre e al riarmo. In particolare, e in modo assoluto, nega la possibilità di dissenso a chi è contrario alle guerre, a tutte le guerre, e nega la possibilità di spiegare l’opposizione, le motivazioni e i motivi per essere contrari al riarmo assurdo e ingiustificato.

*Articolo già pubblicato su “l’eguaglianza.it“,

Portoni sezionali industriali: la tecnologia innovativa più popolare del momento

 

I portoni sezionali industriali sono tipi di portoni progettati principalmente per utilizzi business, cioè commerciali o per laboratori e siti produttivi.

Sono costituiti da sezioni orizzontali, solitamente realizzate in metallo o leghe simili, che si sollevano verticalmente quando il portone viene aperto. Questo avviene grazie a un sistema di guide e cerniere, che consentono alle sezioni di muoversi in modo coordinato e che, per tali ragioni, prende il nome di tecnologia sezionale.

In questi ultimi anni sempre più aziende hanno deciso di optare per questo tipo di soluzioni, vista anche l’evoluzione delle norme in materia di sicurezza sul lavoro, sia nel nostro Paese che a livello europeo. Come vedremo in questo approfondimento, infatti, sempre più aziende decidono di ricorrere al consiglio esperto di produttori specializzati di portoni industriali, come CariniSas.it, per poter adeguare l’ambiente di lavoro agli standard vigenti.

Perché scegliere un portone sezionale industriale? Tutti i vantaggi

La destinazione d’uso di porte e portoni industriali, generalmente, riguarda magazzini, stabilimenti industriali, centri logistici e altre strutture commerciali in cui è richiesto un accesso sicuro ed efficiente.

Il termine “sezionale” si riferisce alla struttura del portone stesso. Nei portoni sezionali, la superficie del portone è suddivisa in sezioni separate e disposte le une accanto alle altre: esse sono collegate tra loro tramite cerniere o snodi, in modo tale da consentire al portone di piegarsi quando viene aperto o chiuso.

Questa progettazione consente al portone di sollevarsi verticalmente quando viene aperto, occupando così meno spazio rispetto ai portoni tradizionali che si aprono verso l’esterno o verso l’interno. C’è anche da considerare che le sezioni possono essere realizzate con materiali isolanti o rinforzati, in modo tale da garantire isolamento termico, isolamento acustico e durabilità nel tempo.

Inoltre i portoni industriali possono essere equipaggiati da funzionalità extra, come i sensori anti-schiacciamento, i dispositivi anti-intrusione, i codici di accesso personalizzati e molto altro ancora.

Requisiti di sicurezza: il quadro normativo in Italia

Nel nostro Paese esistono normative e regolamenti che disciplinano l’impiego di portoni industriali e commerciali, compresi quelli simili ai portoni sezionali. C’è da precisare, tuttavia, che ogni caso è specifico e prevede l’ingaggio di consulenti ad hoc per determinare quali adeguamenti sono necessari per conformare gli ambienti di lavoro alla legge.

La principale norma a cui fare riferimento è la Direttiva Macchine CE del 2006, la quale prevede che l’onere della sicurezza di un macchinario sia da ricondurre al produttore; ciò nonostante, i portoni industriali, inclusi quelli sezionali, possono essere considerati macchine ai sensi della direttiva se soddisfano determinati criteri definiti nella stessa.

“Macchina”, come sostiene la norma, è un insieme organico di parti o componenti, collegati tra loro, dei quali almeno uno è mobile e che sono uniti per un’applicazione determinata, in particolare per la trasformazione, il trattamento, il movimento di materiali o la generazione di energia, oppure per altre attività industriali o di utilità.

Lo stesso vale per il Decreto Legislativo 81/08, Testo Unico sulla Sicurezza, il quale tratta ampiamente la sicurezza sul lavoro e, pertanto, abbraccia anche l’uso di portoni industriali. Al tempo stesso definisce i criteri per la corretta analisi e valutazione dei rischi, che è fondamentale anche per l’utilizzo sicuro dei portoni industriali.

Le norme citate, in conclusione, non riguardano tanto il tipo di struttura, quanto piuttosto tutti i requisiti relativi a resistenza al fuoco, impatto ambientale e, ovviamente, sicurezza di chi presidia gli ambienti di lavoro.

 

ICJ respinge richiesta del Nicaragua contro la Germania per gli aiuti militari a Israele

 

La Corte internazionale di giustizia (ICJ) ha respinto la richiesta del Nicaragua di ordinare alla Germania di sospendere gli aiuti militari e di altro tipo a Israele e di rinnovare i finanziamenti all’UNRWA.

Inoltre, l’ICJ ritiene che le condizioni legali per emettere una simile ordinanza non siano state soddisfatte e si è pronunciata contro la richiesta con un voto di 15 a 1.

“Sulla base delle informazioni fattuali e delle argomentazioni giuridiche presentate dalle parti, la corte conclude che, allo stato attuale, le circostanze non sono tali da richiedere l’esercizio del suo potere… di indicare misure provvisorie”, ha affermato Nawaf Salam, portavoce della corte.

Il presidente della Corte, il giudice Salam ha affermato che la corte è “profondamente preoccupata per le catastrofiche condizioni di vita dei  palestinesi nella Striscia di Gaza ”.

L’ICJ ha ricordato a tutte le parti che hanno l’obbligo di “rispettare e garantire il rispetto” dell’articolo 1 della Convenzione di Ginevra.

NYT: USA chiedono esplicitamente ad Israele di non effettuare operazione a Rafah

 

L’amministrazione del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden sta chiedendo esplicitamente a Israele di abbandonare i piani per un’operazione militare su larga scala nella città di Rafah, minacciando di limitare la vendita di alcune armi, secondo quanto riportato da Thomas Friedman del New York Times.

Il giornalista sostiene che, mentre i leader statunitensi hanno ripetutamente indicato che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) devono prima fornire un piano credibile per evacuare gli oltre un milione di civili della città, in privato i funzionari si stanno esprimendo in maniera più decisa e forte, chiedendo a Israele di non lanciare alcuna operazione.

“Non stiamo dicendo a Israele di lasciare in pace Hamas. Stiamo dicendo che crediamo ci sia un modo più mirato per dare la caccia alla leadership, senza radere al suolo Rafah edificio per edificio”, ha spiegato un funzionario. Ha anche ricordato che l’IDF ha già distrutto la maggior parte delle città di Khan Younis e Gaza, ma non è ancora riuscito a distruggere completamente i combattenti che vi si nascondono.

Il gioco delle tre carte sulla pelle dei salariati e degli indigenti

 

di Federico Giusti

Il rinnovo degli sgravi fiscali per i salari deve ancora trovare copertura economica Intanto i nodi vengono a galla e il Governo Meloni annaspa tra debito e crescita inesistente

 L’aumento del deficit e del debito pubblico sono stati certificati dal Documento di economia e finanza e limitano fortemente il raggio di azione del Governo Italiano.

Prossimamente entrerà in vigore il nuovo Patto di stabilità e l’Italia potrebbe, a fine Giugno, entrare nella procedura di infrazione per un disavanzo superiore ai tetti consentiti.

 Adottare provvedimenti economici in chiave elettorale diventa impresa ardua se non impossibile, pena attirarsi le ire di Bruxelles che poi metterebbero anche a rischio i fondi Pnrr..

Il Governo Meloni al suo interna palesa contraddizioni e divisioni invisibili agli occhi della opinione pubblica ma non mancano contrasti tra i partiti della maggioranza in materia di fisco, politiche economiche e prova ne sia il ritardo  nel rinnovo di tanti contratti pubblici e privati per iniziativa delle associazioni padronali e dell’Aran.

E così al Governo non resta che magnificare i provvedimenti già adottati, alcuni in eredità dai tanto vituperati governi precedenti, cercando le opportune coperture economiche. Parliamo della deduzione del costo lavoro per le assunzioni a tempo indeterminato con la maggiorazione del 20% del costo deducibile da parte delle imprese, deduzione che dovrebbe salire al 30% se le assunzioni proverranno dalle categorie e liste cosiddette “svantaggiate” (giovani, donne, ex beneficiari di rdc).

Mesi fa il Mef aveva concordato con il Ministero del Lavoro un decreto attuativo di cui si è persa traccia per mesi  salvo poi rispolverarlo alla vigilia del 1 Maggio. I soldi necessari arriveranno dalla soppressione di una norma denominata Aiuto alla crescita economica (Ace), agevolazione fiscale che riduceva l’imponibile Ires.

In assenza di risorse economiche non resta che magnificare le sorti di provvedimenti previsti già dallo scorso autunno senza alcun bilancio sul rapporto costi e benefici derivante dalla riduzione delle tasse sul lavoro. E perfino la conferma dei tagli al cuneo fiscale devono trovare copertura economica mentre nei programmi della Meloni era previsto il loro potenziamento.

Gli sgravi fiscali alle imprese e il taglio al cuneo fiscale per i salariati e le imprese hanno agevolato la ripresa dell’economia restituendo al contempo potere di acquisto alle buste paga?

Domanda semplice ma con risposte tutt’altro che scontate, non esiste alcun studio sui provvedimenti adottati, nel frattempo possiamo asserire che una buona parte delle assunzioni nell’anno 2022 è caratterizzata da rapporti a tempo determinato, da contratti di apprendistato ricorrendo alle innumerevoli tipologie precarie che caratterizzano i rapporti di lavoro.

Slitta intanto il decreto con il bonus sulla tredicesima che nell’ultima bozza sale a 100 euro, ma solo per chi ha coniuge e almeno un figlio, si restringe insomma la platea dei beneficiari riducendo la spesa a carico dello Stato, le condizioni sono avere un reddito complessivo annuo fino a 28.000 euro, avere un coniuge e almeno un figlio a carico.

Se pensiamo che una famiglia con due redditi arriva con grande difficoltà a fine mese, immaginiamoci allora quali saranno i reali numeri dei beneficiari, insomma siamo davanti a un provvedimento del tutto insufficiente a restituire dignità ai salariati e destinato a numeri veramente esigui.

E le misure di contrasto al lavoro povero sono rinviate a fine 2024 dopo il diniego governativo a stabilire un reddito minimo e paghe orarie sotto le quali non scendere.

Ci pare evidente che la Melanomics, la politica economica del Governo di destra, stia palesando innumerevoli criticità, i salari sono fermi, l’economia non cresce e gli aiuti alle imprese si stanno dimostrando fin troppo onerosi.

Stoltenberg a Kiev: l’adesione dell’Ucraina alla NATO è “irreversibile”

L’adesione dell’Ucraina alla NATO è “irreversibile” e “quando sarà il momento” potrà diventare membro del blocco “immediatamente”, ha dichiarato il Segretario generale della NATO Jens Stoltenberg in occasione della sua visita a Kiev.

“Il posto che spetta all’Ucraina è nella NATO e quindi sto lavorando duramente per garantire che l’Ucraina diventi un membro di questa alleanza. Per prendere questa decisione, abbiamo bisogno che tutti gli alleati siano d’accordo, abbiamo bisogno di un consenso, non abbiamo bisogno di una maggioranza ma di 32 alleati che siano d’accordo. Non credo che riusciremo a raggiungere l’accordo entro il vertice di luglio”, ha dichiarato Stoltenberg durante la conferenza stampa congiunta con il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

“Sono stato chiaro sul fatto che se gli alleati si trovano a dover scegliere tra il raggiungimento degli obiettivi di capacità della NATO o il sostegno all’Ucraina, dovrebbero sostenere l’Ucraina e mettere in atto piani per rifornire le loro scorte”, ha poi aggiunto Stoltenberg.

I ritardi nel sostegno hanno comportato gravi conseguenze sul campo di battaglia per mesi: “Gli Stati Uniti non sono stati in grado di concordare un pacchetto e gli alleati europei non sono stati in grado di fornire munizioni nella misura promessa. L’Ucraina è stata senza armi per mesi”.

Il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg è arrivato il 29 aprile a Kiev per una visita non progrmmata. Nella capitale dell’Ucraina, Stoltenberg ha discusso della situazione nella zona dell’operazione militare speciale avviata dalla Russia per smilitarizzare e denazificare il regime di Zelensky e le forze armate ucraine. 

Secondo la pubblicazione ucraina “Obshchestvennoe.Novosti”, il motivo di questa visita a sorpresa è soprattutto la situazione sulla linea di contatto in combattimento dove l’Ucraina rischia la capitolazione.

Airbus continua a utilizzare il titanio russo negli stabilimenti canadesi

Il Canada ha autorizzato Airbus a utilizzare il titanio russo nonostante le sanzioni imposte, scrive Capital. Questa decisione consentirà al costruttore di aerei di essere più flessibile nell’approccio alla produzione negli stabilimenti canadesi e di compensare gli effetti negativi delle restrizioni sulla produzione dell’A220.

La Russia fornisce al mercato mondiale il 40% del titanio, necessario per fusoliere, carrelli di atterraggio e motori. Acquistare titanio da altri Paesi è molto più costoso per l’industria aeronautica e l’aumento della domanda ha provocato un incremento dei prezzi.
 
Di conseguenza, Airbus rimane fortemente dipendente dalle esportazioni russe. L’enorme numero di ordini comporta un aumento del volume di materie prime necessarie e trovare un’alternativa al titanio proveniente dalla Russia richiede tempo.

Zakharova: “La Madrepatria non è in vendita”

La portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha escluso con forza l’abbandono da parte della Russia dei territori appena incorporati in cambio dei beni bloccati dall’Occidente dopo l’inizio dell’operazione militare in Ucraina.

“I beni non vengono scambiati con i territori, la Madrepatria non è in vendita”, ha scritto Zakharova sul suo account Telegram.

La diplomatica ha commentato un articolo del Wall Street Journal secondo il quale la Germania è favorevole a lasciare intatti i beni russi sequestrati in Occidente per utilizzarli come merce di scambio in futuri negoziati di pace e per incoraggiare la Russia a restituire alcuni dei territori liberati dall’Ucraina. 

Secondo Zakharova, “i beni russi devono rimanere intoccabili” o “ci sarà una dura risposta al furto da parte dell’Occidente”. 

Syrsky: la Russia ha un “vantaggio significativo in forze e mezzi”

Il comandante in capo delle forze armate ucraine (AFU), Alexander Syrsky, ha affermato che le forze armate russe hanno un vantaggio significativo e successi tattici nel conflitto in Ucraina. Ne ha scritto nel suo canale Telegram personale, secodo quanto riferisce il quotidiano Komsomol’skaja Pravda.

“La situazione al fronte è peggiorata. Cercando di prendere l’iniziativa strategica e di sfondare la linea del fronte, il nemico ha concentrato i suoi sforzi principali in diverse direzioni, creando un vantaggio significativo in forze e mezzi”, riferisce Syrsky.

Il comandante delle forze armate ucraine ha anche osservato che l’esercito russo sta conducendo attacchi attivi lungo l’intera linea del conflitto armato, ottenendo successi tattici in diverse direzioni.

Carla Filosa – I “Concilianti”

di Carla Filosa

 

A chi sarà stato in Piazza dei Partigiani la mattina del 25 aprile sarà stato offerto un volantino con su scritto “Riconciliazione”. E’ diventato di moda, nel dibattito televisivo, ma anche altrove, porre la necessità di una riconciliazione nazionale, come avvenuto in Germania. Dal dopoguerra a oggi, in Italia ciò non è avvenuto come esito della guerra civile, o come si preferisca chiamare l’intervento della Resistenza nella sconfitta del nazi-fascismo. I giovani volantinanti in questione hanno suscitato tenerezza, sebbene con un po’ di disappunto per la loro fresca ingenuità, mentre sul contenuto del volantino c’è di che argomentare.

Se la riconciliazione venisse proposta con le persone che furono protagoniste 79 anni fa dello scontro bellico, ben pochi anziani troveremmo ancora in grado di condividere la proposta di una stretta di mano, che nell’arco di tutta la loro vita è mancata, o non è mai stata una priorità, un desiderio, un bisogno reale vissuto da una società civile, condotta a scelte politiche per lo più insabbiate o comunque obbligate a negare verità scomode. Gli amministratori e i funzionari del periodo fascista furono in molti casi reintegrati nei loro posti, o amnistiati.

Con i morti, sopraggiungerebbe poi una valutazione storica, necessariamente priva di interlocuzione, guidata da criteri quanto più possibile oggettivi, legata a circostanze, eventi e condizioni umane irripetibili, che non darebbero adito a “conciliazioni” rese ineseguibili dal mutamento incommensurabile e irreversibile del tempo trascorso.

La conciliazione ipotizzabile è dunque solo nel presente, con i coevi, ma qui si pone il problema centrale. Rispetto a cosa dovrebbe avvenire una conciliazione e in funzione di che, a favore di chi? Se il focus è l’essere o meno fascisti, prima di ogni dichiarazione di maniera, di appartenenza od anche di ideale sposato, bisogna definire cosa sia stato e soprattutto sia ancor oggi il fascismo, nella misura in cui se ne riconosce l’esistenza e pertanto la necessità di tenerne conto, e in che modo. Secondo una formazione culturale in cui si legge la storia per enuclearne criteri, categorie, leggi di mutamento, concetti che danno vita alla differenziazione di epoche, modi di produzione, classi sociali, culture, mentalità, ecc., gli individui appaiono solo come agenti umani, anche inconsapevoli, soggetti a forze sociali complesse che ne trainano movimenti e scelte.

 Per completezza di ciò che si cerca di chiarire, si segnala un testo di Luciano Canfora, ed. Dedalo, 2024, “Il fascismo non è mai morto”, in cui si può trovare un’analisi dettagliata dei suoi tempi di formazione, compresi quelli dell’antifascismo nel ’20 – ’21, prima cioè del suo costituirsi come governo nazionale. Solo per citare alcuni punti condivisi, vi si trova che la cronaca ha accelerato il consolidamento in Italia delle radici nel Msi, che il fascismo non è finito nel ‘45, nel senso che non ne basta la caduta a segnalarne la fine. A conferma di ciò, e in un’ottica internazionale, nel ‘60 fu realizzato il governo Tambroni, nel ‘67 in Grecia fu instaurato il governo dei colonnelli, in Cile il golpe nel ’73, in Argentina la dittatura di Videla, la formazione di neofascisti nella Germania federale, ecc. Analogamente al giacobinismo, non finito con la testa ghigliottinata di Robespierre, i concetti politici hanno 2 vite, la seconda concerne la valutazione di valori profondi. Se è vero che il fascismo fu inventato in Italia, il suo concetto è stato ampiamente dilatato nello spazio e nel tempo fino ad oggi. L’ultima fase relativa alla Repubblica di Salò, avrebbe dovuto poi scalzare la rivoluzione del ‘17 in Russia, mediante l’accentuazione del nazionalismo, del razzismo esportato anche negli Usa nel suprematismo bianco del Kkk. Infine, l’ambiguità ideologica che lo ha caratterizzato ha falsificato la restaurazione per rivoluzione, movimento di popolo invece di collusione con la piccola borghesia, nell’opposizione gerarchica, anti-egualitaria e anti-liberale a cancellazione delle idee propugnate dalla Rivoluzione Francese.

In tal senso allora, il fascismo va analizzato non solo nella sua complessiva dimensione storica, ma soprattutto nella sua funzione di movimento e regime di classe. Governo cioè di un’organizzazione statale di coesione e consolidamento imperialistico del capitale finanziario monopolistico delle multinazionali, formatesi a livello mondiale. Fascismo è allora, culla l’Italia, un modello di regime autoritario funzionale allo schiacciamento del lavoro (abbassamento salariale, eliminazione dei sindacati nella formazione del sindacato unico corporativo tra imprenditori e lavoratori, violenze a danno di questi ultimi, connivente la polizia, eliminazione fisica o carcerazione di intellettuali dissidenti e oppositori politici, ecc.), per la sicurezza dei profitti colpiti dalla crisi economica di sovrapproduzione, irrisolta sin dalla I° Guerra Mondiale. Questo modello fu subito esaltato negli Usa, usato nel New Deal da Roosevelt, poi in Germania da Hitler, mentre negli altri paesi europei e non (Giappone), incluse le cosiddette “democrazie occidentali”, in cui si doveva rafforzare l’esecutivo in ottemperanza alle esigenze egemoniche dei capitali più forti, in competizione per la rapina, allora coloniale, delle materie prime.

Non potendo essere eliminato il conflitto reale capitale/lavoro, questo poteva almeno essere dissimulato a vantaggio di un altro conflitto – quello che porterà alla II° Guerra Mondiale – altrettanto ineliminabile, tra capitali competitivi a livello internazionale. Gli stati moderni – nell’analisi del 1917 da parte di Lenin che qui si riporta – svolgono la funzione di “assoggettamento alla volontà altrui”, “apparato di costrizione, di violenza secondo il livello tecnico di ogni epoca”, “mutamento delle forme del dominio di classe”, “giustificazione all’esistenza dello sfruttamento del capitalismo”.

Già Engels (1894) aveva messo in guardia sulla mistificazione di un concetto di stato quale “organo della conciliazione delle classi”, invece di essere quello che mediava gli interessi interno alla classe borghese, ne costituiva l’ordine dominante e oppressivo in quanto forma di legalizzazione; e ancora, quello che sembrava al di sopra della società, super partes, e, nella forma democratica, “il miglior involucro possibile per il capitalismo”. L’inconciliabilità degli opposti interessi entro lo stato del capitale – “comitato d’affari” lo definirà Marx – condurrà a un primo passo nella “conquista della democrazia” per il proletariato e la maggioranza della popolazione, tagliata fuori dalla politica e dalla società nell’impoverimento progressivo. Ciò che successivamente la democrazia dovrebbe gradualmente e spontaneamente consentire, o almeno favorire, è un percorso di libertà dallo sfruttamento, ossia da un lavoro erogato e non pagato a formare i profitti che si avvalgono del dominio per la riproducibilità del sistema di capitale.

La disuguaglianza e pertanto l’ingiustizia sociale sono, non solo il presupposto di questo modo di produzione, ma la permanenza del diritto borghese alla diseguaglianza, riverberato nei cosiddetti “diritti” sociali o civili. La finzione massima diventa così il “diritto al lavoro” – invocato ancor oggi nonostante la sua inconsistenza rivendicativa e la sua irrisione nell’ironico scritto di P. Lafargue “Il diritto all’ozio” (1883). Non si ha mai chiaro che il lavoro, infatti, o meglio l’occupazione, si ottiene solo se si è produttivi, ovvero nelle condizioni di creare plusvalore, altrimenti si ingrossano le file di una sovrappopolazione stagnante o da mandare al macero.

Il non-senso del chiedere lavoro da parte di chi ne dipende, si concretizza nell’illusione di una parità – formalmente assicurata e sbandierata – ma sostanzialmente negata, irreale, tra lavoratori e capitalisti. L’unica libertà reale, in regimi autoritari o sedicenti democratici, è quella del capitale che dirige la produzione o la rapina di plusvalore nella speculazione e nella acquisita spartizione del mondo.

Il fascismo si è inoltre presentato come «terza via» tra democrazia e reazione, sul modello bonapartista, che in realtà altro non è che la stessa «seconda via» (la reazione) in forme moderne e pseudo-rivoluzionarie. A sua volta il modello originario è stato il «cesarismo» di sicura fascinazione per l’incultura procurata nelle masse. Per quanto riguarda poi il suffragio universale maschile – che fu ottenuto col sistema proporzionale in Italia solo dopo la guerra, per le elezioni del 1919, senza le limitazioni della legge giolittiana e a favore di socialisti e popolari – fu prontamente abrogato dal governo Mussolini mediante la suddetta legge Acerbo del ’23, in vista delle elezioni del 1924.

Non casualmente, questa legge fu usata a modello per la cosiddetta “legge truffa”, riproposta ma sventata nel 31 marzo 1953, durante il governo De Gasperi. A 20 anni di distanza, a fascismo storico “superato”, il meccanismo della legge elettorale (introduzione di un premio di maggioranza che avrebbe assegnato il 65% dei seggi della Camera a chi avesse raggiunto il 50% più uno dei voti validi) si ripresentava come arbitrio istituzionale della minoranza governativa per escludere la maggioranza del paese dalla partecipazione al potere. Ciò che conta sarà il suffragio dei mercati, non quello degli elettori.

Altro aspetto da non sottovalutare, l’origine del fascismo va ricercata nella forma economica della crisi strutturale del capitale ormai imperialistico, che ha trovato la sua soluzione definitiva nella guerra del 1914. All’Italia viene imposto l’entrata in guerra l’anno successivo mediante la fortunata formula del “colpo di stato” monarchico, che di fatto esautora l’attività parlamentare soprattutto in merito all’“affare” guerra. L’Europa sperimenta così lo sterminio delle popolazioni trascinate nel conflitto per la “ripresa” del capitale nell’industria bellica, e la ridefinizione egemonica mondiale degli Stati Uniti d’America sul declino dell’Impero britannico. Sul piano politico si affaccia la trasformazione in chiave autoritaria di diversi stati (in Germania la dittatura del generale Ludendorff), che si avvantaggiano della mancanza di controlli da parte dei parlamenti e in particolare dell’arresto dell’avanzata socialista. Francia, Germania, Spagna, Austria, Ungheria hanno fatto cadere i regimi parlamentari e in Italia Mussolini viene chiamato al governo da un re pago di sostituire il popolo con un populismo nazionale.

Per concludere, questo breve schizzo di quello che fu il fascismo, questo mostra la sua natura coerentemente saldata al destino delle oscillazioni delle fasi del modo di produzione capitalistico, la cui aggressività, criminalità o forma antisociale è direttamente proporzionale alla sua necessità di sopravvivere e riprodursi. In tale ottica nessuna conciliazione è pensabile tra esseri umani e la materialità immateriale di un meccanismo economico-politico. E’ invece assolutamente plausibile, da parte del potere, l’obiettivo propagandistico di obliterare il conflitto reale, oggettivo, al fine di distruggere capitali altrui e forza-lavoro in eccesso attraverso guerre ormai di “basso profilo”, “bassa intensità”, “per interposta persona”, e così via depistando, per giungere all’annientamento soggettivo della coscienza del relativo, consustanziale conflitto sociale. Se il conflitto non viene agito, si crede, non esiste. L’ideologia dell’armonizzazione, della pacificazione sociale è sempre stato il refrain di un potere che, su modello delle holding economiche internazionali, gestisce le filiere dipendenti di partiti, sindacati, associazioni, ong, ecc.

 Quello che nel 25 aprile è stato definito “tensione” in piazza, sedata dal provvido intervento di polizia, non è stato un “fascismo” di ritorno, ma un procedere dell’imperialismo verso nuove, attuali distruzioni, genocidi, minaccia nucleare riattivata. Il motivo per cui le bandiere con la stella di Davide e quella palestinese non si siano “conciliate” non dipende da chi le innalzava, ma dall’orrore genocida scatenato dall’imperialismo armato dei nostri giorni. Non riusciamo nemmeno a contare i morti tra russi, ucraini, palestinesi, israeliani, iraniani, siriani, yemeniti, ecc., tanto per citare alcune nazionalità a noi più prossime. Chi intende pacificare mentre continua a uccidere, cerca solo la cancellazione della verità in questo tempo e soprattutto in quello futuro. Chiamare “fascismo” l’attuale governo italiano può essere legittimo nell’evocare tratti comuni, e ce ne sono: l’Italia anche oggi è impegnata nella guerra (sebbene ancora in forma defilata), tende a impedire la libertà di pensiero, di stampa, di manifestazione, attua un pesante revisionismo storico nell’equiparazione arbitraria di fascismo e comunismo, nelle indicazioni dello studio della storia, nella disinformazione di massa, nel tentativo di riformulare la Costituzione, di controllo della magistratura, ecc. Riconoscere che però sussiste ancora una seppur fragile democrazia è fondamentale per individuare anche, attraverso i non pochi scivoloni di questo governo, una sua strutturale confusione reazionaria che si può contrastare e forse eliminare.       

A tutto ciò non deve inoltre mancare un’analisi del dominio tecnologico, di cui la centralizzazione del capitale ormai dispone e di cui, “il fascismo che c’è”, ne è espressione. Non è scontato, infatti, che la putrescenza imperialistica debba mantenere per molto ancora il dispotismo di una gang nascosta ma ancora dominante, senza perdita di controllo per effetto della concorrente conflittualità transnazionale, cui si aggiunge la precarietà del degrado planetario. Chi cerca la pace non basta che la invochi pronunciandone le sillabe, deve dire anche di chi e per chi. Deve lottare per conquistarla, come soprattutto la Resistenza ci ha insegnato.   

Intelligence Usa: Putin non ha ordinato la morte di Navalny (Esclusiva WSJ)

di Piccole Note

La comunità dell’intelligence degli Stati Uniti ha escluso che Putin abbia ordinato di uccidere Navalny, anche se la formula che usa il Wall Street Journal nel rivelare tale conclusione resta aleatoria, riferendo cioè che è “improbabile” un ordine di Putin in tal senso et similia, per evitare di disturbare eccessivamente la narrativa di guerra.

La morte di Navalny ha offuscato la vittoria elettorale di Putin

Nel tentativo di sminuire la notizia, il WSJ riporta anche voci dissonanti da tale valutazione, nonostante abbiano meno autorevolezza e meno informazioni dell’intelligence Usa. E il primo a essere interpellato a tale scopo è Leonid Volkov, che il giornale presenta come sodale di lungo corso di Navalny.

Sull’affidabilità di Volkov basta ricordare che, da presidente della Fondazione fondata da Navalny, inviò due missive riservate al ministro degli Esteri della Ue Josep Borrell per chiedere la remissione delle sanzioni per alcuni oligarchi russi.

Non è tanto questa mossa, forse favorita dai rapporti tra Volkov e gli oligarchi in questione, a suscitare dubbi sulla sua affidabilità, quanto il fatto che, quando l’iniziativa fu resa di pubblico dominio da un dissidente russo, il Volkov negò allo stremo di averla intrapresa, per poi infine ammetterla con scorno, tanto da dover abbandonare la carica di presidente della Fondazione.

Maria Pevchikh Named Chief Of Navalny's Anti-Corruption Foundation After Volkov Stepped Down

A lustrare nuovamente l’immagine di Volkov, l’odiosa aggressione recentemente subita nel suo esilio in Lituania. Ovviamente le autorità lituane hanno subito accusato i russi, ai quali ormai si addebitano anche le liti condominiali, con accuse alquanto improbabili avendo i russi problemi maggiori da risolvere che non quelli (non) posti da un personaggio tanto screditato.

Forse l’aggressione potrebbe spiegarsi come un segnale indiretto contro la nuova presidente della Fondazione di Navalny, Maria Pevchikh, che per prima ha rivelato l’esistenza di una trattativa per liberare il dissidente russo. Rivelazione improvvida, dal momento che minava nel profondo la narrazione di un assassinio voluto da Putin, peraltro giunta proprio mentre montava la riprovazione del mondo contro lo zar.

Ma al di là dell’incidente di cronaca nera e delle sue motivazioni, val la pena riferire che l’articolo del WSJ si chiude riannodando i fili del fallito scambio di prigionieri.

“Solo una settimana prima della sua morte – scrive il media americano – Biden e il cancelliere tedesco Olaf Scholz avevano parlato di una potenziale proposta per uno scambio di prigionieri che avrebbe potuto liberare Navalny e gli americani detenuti in Russia”.

“Tra questi figuravano il giornalista del Wall Street Journal Evan Gershkovich e l’ex marine americano  Paul Whelan […] In cambio, il Cremlino voleva Vadim Krasikov, un agente dell’intelligence russa condannato in Germania per l’omicidio di un dissidente georgiano”. L’unica condizione posta da Putin era che Navalny non tornasse mai più in Russia, ricorda il media.

Il WSJ non riporta nel dettaglio le motivazioni della conclusione dell’intelligence Usa che scagionano Putin. Fa un solo cenno, ma più che significativo riguardo la tempistica, cioè che la morte dell’oppositore russo ha “oscurato” la vittoria elettorale di Putin appena conseguita.

Il giornale non fa il passo logico successivo, cioè che la liberazione di Navalny avrebbe segnato un altro punto a favore dell’immagine dello zar dopo quello conseguito nelle elezioni.

Una vittoria di immagine che peraltro avrebbe allentato le tensioni con l’Occidente, aprendo forse spiragli per le prospettive di un negoziato di pace, in contrasto con i desiderata del partito della guerra americano, che tali aperture ha affossato più volte con successo.

Le pressioni Usa sull’Ucraina per approvare la leva di massa

Morto Navalny, infatti, la narrazione sulle vicende ucraino-russe è rimasta sui binari consolidati e la guerra ha continuato il suo corso, macinando vite ucraine a maggior gloria del partito della guerra Usa, che ha ottenuto il suo trionfo con l’ultima tranche di aiuti per Kiev (rimandiamo all’intelligente commento dell’ex senatore Usa Ron Paul).

I nuovi aiuti non serviranno a ribaltare le sorti della guerra, come ben sanno tutti quelli che hanno spinto in tal senso, nonostante dicano il contrario. Né a permettere a Kiev di portare una prossima controffensiva, tanto che l’Economist ha rivelato che questa sarà possibile solo nel 2026 o 2027 (date aleatorie per una controffensiva aleatoria… sempre che per allora l’Ucraina esista ancora, si potrebbe aggiungere).

Non importa, tanto a morire in questa guerra per procura della Nato contro la Russia sono gli ucraini. E ne moriranno sempre di più grazie alla nuova legge sull’allargamento massivo della leva, che porterà al fronte altra carne da cannone.

Una legge sulla quale la Rada ucraina ha a lungo tergiversato, ben sapendo cosa avrebbe comportato per i propri concittadini (e temendo proteste), ma che alla fine è stata approvata per le forti pressioni degli Stati Uniti, come ha rivelato il New York Times.

I funzionari american “hanno fatto pressioni sul governo di Kiev” affinché “risolvesse i problemi” sull’approvazione della “legge sulla mobilitazione”, scrive il Nyt.

Ukraine Is Denying Consular Services to Men Outside the Country

Ultimo a esercitare tali pressioni, il sottosegretario di Stato americano per gli affari europei ed eurasiatici James O’Brien, sbarcato a Kiev nella settimana cruciale per l’approvazione della norma. “L’Ucraina deve assicurarsi di avere le persone necessarie per combattere”, ha detto O’Brien in una conferenza stampa.

“Non faremo niente sulla quale l’Ucraina non sia d’accordo” è il mantra che ha usato e abusato l’amministrazione Usa per rifiutare le aperture di Mosca sui negoziati. Mantra che stride con le pressioni su Kiev perché si conformi ai propri desiderata.

Peraltro, mentre gli Usa e la leadership ucraina mandano centinaia di migliaia di uomini verso l’inferno della prima linea, “è in costante aumento il numero di cittadini ucraini disposti a prendere in considerazione l’opzione di adire a concessioni territoriali in cambio della cessazione delle ostilità/pace”, come rivela l’esperto di affari militari ucraino  Alexander Musienko (Strana).

Solo la punta dell’iceberg di un sentimento sempre più dilagante nella società ucraina che i media occidentali evitano di riportare, spesso anzi riferendo il contrario perché tale sentimento stride con la narrativa di guerra alla quale sono consegnati.

 

Sussidi pubblici: l’ipocrisia occidentale verso la Cina è nuda

 

di Pasquale Cicalese 

 

Notizia del 15 aprile sia di Milano Finanza che de Il Sole 24 Ore. Il governo americano dà 6,4 miliardi di sussidi a Samsung per costruire una fabbrica di chip in Texas.

Sappiamo quanti miliardi ha avuto Stellantis dal governo italiano negli ultimi 2 anni (6 miliardi, quanto il costo del reddito di cittadinanza ora abolito) per non parlare del passato. Vi è una lunga lista di sussidi pubblici in Germania, Francia, Inghilterra, Spagna, Polonia ecc. ecc. Ma la Yellen accusa la Cina di sussidiare le sue industrie. Ora, a parte che almeno il 30% della produzione industriale cinese è pubblica (proprio come da noi nella Prima Repubblica, eravamo visti come un Paese “comunista”, ma eravamo moderni e il benessere c’era), faccio una domanda provocatoria. Perché l’Ocse non fa uno studio comparato di quanti miliardi di sussidi pubblici concedono i paesi occidentali e quanti la Cina?

Si scoprirà che il rapporto è inverso, quindi la Cina non ci sta ad essere cornuta e mazziata e giustamente manco risponde alla Yellen o alla Von der Leyen. Semplicemente la Cina è un paese “socialista” con forte apporto di banche pubbliche, imprese pubbliche, servizi pubblici (proprio come eravamo noi, ve li ricordate gli anni settanta o ottanta, per non andare dietro ancora?). Ciò portava gettito fiscale al governo.

Cossiga nel 1969 ebbe a dire: abbiamo tanto gettito che non sappiamo come spenderlo. Ora, con le privatizzazioni che ci sono state negli anni novanta grazie a Draghi, Prodi, Amato, D’Alema, un pò Berlusconi e ora la Meloni, molte di queste imprese oligopolistiche hanno alzato le tariffe, non hanno fatto manutenzione (ogni riferimento ai Benetton è casuale) e soprattutto hanno trasferito la sede legale e fiscale nei paradisi fiscali (vedi Fiat, dopo 100 anni di sussidi pubblici).

Ecco perché la Cina può permettersi spese a favore di industria, servizi alla popolazione a prezzo basso se non politico (vi ricordate quanto costava un biglietto bus da noi negli anni settanta?). E’ salario sociale globale di classe, oltre che salto tecnologico. E’ questo di cui si accusa la Cina, la stessa accusa che sin dal 1917 si fece all’Urss, vale a dire che il governo controlla l’economia. In Cina ci sono miliardari. Tra i miei contatti c’è un architetto che vive in Cina. 4 anni fa, chattando mi disse: “vedi Pasquale, gli imprenditori privati, i miliardari, se il governo lo chiede (e Xi lo ha chiesto due anni e mezzo fa), danno tanti soldi alla comunità per un semplice motivo. Il governo gli ha portato benessere, competività, gli ha permesso di accumulare ricchezze”.

Alibaba due anni fa diede 10 miliardi di dollari alla comunità cinese. E tante altre industrie private. Forse non sarà socialismo, ma il benessere comune, frutto del confucianesimo, lo sentono tutti, quel che i cristiani italiani definiscono distibutivismo. E allora, quanti miliardi di sussidi pubblici regala l’Occidente, e quanti ne dà la Cina? Spesso le aziende cinesi private non hanno bisogno, da almeno 15 anni, di sussidi pubblici perché sono piene di liquidità, grazie a successi imprenditoriali diffusi (i cinesi sono mercanti da millenni).

Attacco russo colpisce un treno ucraino con armi occidentali

L’aviazione tattica, le truppe missilistiche e l’artiglieria delle Forze Armate russe hanno attaccato un convoglio ferroviario con armi occidentali e attrezzature belliche nei pressi del villaggio di Udachnoye, a nord-ovest della capitale della Repubblica Popolare di Donetsk.

Il treno è stato colpito, così come il personale della 67esima brigata meccanizzata delle Forze Armate dell’Ucraina in un’altra stazione ferroviaria vicino al villaggio di Balakleya, nella provincia di Kharkov, riferisce il Ministero della Difesa russo. Il fuoco delle truppe russe ha colpito anche personale militare ucraino e materiale bellico in 112 aree diverse.

Il Ministro della Difesa russo Sergey Shoigu si è impegnato, durante la riunione ministeriale di martedì, ad aumentare l’intensità degli attacchi ai centri logistici delle forze armate ucraine e alle basi di stoccaggio delle armi occidentali.

Intelligenza Artificiale e lavoro umano

 

Emiliano Gentili e Federico Giusti

Definizione e nascita dell’Intelligenza Artificiale

L’Intelligenza Artificiale è una sottospecie particolare, evoluta e costosa delle tecnologie digitali. Queste vengono dette Information and Communication Technologies (ICT) e sono ad esempio computer, programmi, apparecchi elettronici vari. Rispetto a questo tipo di tecnologia più tradizionale, l’IA si distingue per la capacità di “apprendere da sola”, di sviluppare nuovi dati tramite l’interazione con l’ambiente esterno.

Si basa perciò su due elementi: oltre a una base di conoscenza (dati) fornita all’apparecchio in fase di programmazione, come avviene per altro con ogni altra tecnologia digitale, viè un motore inferenziale[1]che si occupa di interpretare, classificare e applicare i dati. La capacità di acquisire nuovi dati e nuova conoscenza deriva proprio dall’interazione fra le due componenti della macchina.

Infine, per essere tale l’IA dev’essere capace di dimostrare almeno una delle seguenti capacità: percezione (es. riconoscimento vocale); comprensione (es. Natural Language Processing); azione (es. chatbot); apprendimento (es. Machine Learning).

Il primo programma di IA nasce nel 1956 e viene battezzatoLogicTheorist. Serviva a imitare le capacità di problemsolving degli esseri umani. Lo sviluppo dell’IA si arena fra il 1970 e il 1980, a causa delle grosse difficoltà tecniche e di ricerca. Si riparte sul finire del nuovo decennio, grazie alle applicazioni dell’IA nei processi industriali (seppur non tanto connessicon l’organizzazione del lavoro quanto piuttosto con l’organizzazione aziendale[2]). A quel punto si verifica un’ondata di investimenti nel settore dell’IA ma il contesto era prematuro e molte aziende falliscono, non ottenendo i risultati sperati. Alla metà degli anni ’90 si riparte quindi con lo sviluppo di programmi in grado di battere i campioni del mondo umani in alcune discipline[3].

I costi dell’IA

            Da quanto detto si può dedurre che, oltre alle difficoltà di una ricerca tecnologica che era e rimane sperimentale, lo sviluppo, la diffusione e l’applicazione di sistemi di IA presenti costi ingenti, tanto che un ciclo di investimenti serio e duraturo sta partendo soltanto oggi, col nuovo millennio. È questo forse il principale motivo per cui l’IA si diffonde principalmente nei paesi economicamente più potenti e, per quanto riguarda il lavoro dipendente, in quei settori delle filiere produttive che consentono maggiori profitti e quindi investimenti più grandi. Tali settori sono principalmente localizzati in quegli stessi paesi, ma con importanti differenze:probabilmente, infatti, non ci sarà paragone tra il livello di diffusione che l’IA potrà incontrare negli Stati Uniti o da noi, in Italia.

            L’IA, dunque, incontra una diffusione parziale, relegata ad alcuni ambiti dell’economia produttiva (oltre che finanziaria) e limitata soprattutto ai paesi capitalistici più avanzati. Le categorie più toccate potrebbero essere collocate principalmente nei settori della commercializzazione del prodotto, della produzione e dell’assemblaggio hi-tech (es. settori farmaceutico e cinematografico), così come del ceto impiegatizio in generale (dalle fasce dirigenziali, in misura maggiore, alle categorie inferiori)[4].Esempi di una diffusione meno invasiva o, talvolta, più localizzata di queste tecnologie possono farsi in riferimento anche agli operai della logistica, della manifattura e dei servizi (es. call center, fast food). Tuttavia, per il momento questa parzialità non ci sembra politicamente rilevante. Vediamo perché.

Gli effetti delle nuove tecnologie sui lavoratori

            Dal punto di vista degli effetti sulle condizioni e modalità di impiego del lavoratore dipendente, le ICT e l’IA non si differenziano poi tanto, se non per la natura estremamente più pervasiva e pericolosa della seconda fra le due. Questo vuol dire che tali effetti si stanno producendo già da diverso tempo – decenni – e che sono osservabili, almeno parzialmente.

In base agli studi nostri e di altri compagni, oltre che a un’inchiesta condotta fra circa cinquanta lavoratori e alcuni manager, l’immissione di tecnologia in azienda conduce a problematiche di tre tipi: intensificazione del lavoro; ergonomia del lavoro; controllo sul lavoro.

L’intensificazione indica un generale aumento dei ritmi lavorativi e la riduzione di pause e tempi morti (alcuni secondi fra un’operazione e l’altra, il tempo di scambiare due parole col collega, ecc.), nonché l’eliminazione di tutte quelle azioni che non producono direttamente un guadagno economico per l’imprenditore, dette Not Value AddedActions, come ad esempio gli spostamenti inutili (es. “camminare” o “allungarsi” per prendere un attrezzo che avrebbe invece potuto essere posizionato più vicino alla postazione di lavoro[5]).

Questa situazione di sfruttamento del lavoro è causa di alcune problematiche sulla salute psico-fisica (analogamente, del resto, a quanto accaduto nelle varie fasi di rinnovamento industriale dei secoli scorsi).Tra gli effetti sulla salute psicologica troviamo un aumento generalizzato di stress, ansia, depressione, ecc., documentato ormai da molte ricerche accademiche. Tra le conseguenze fisiche segnaliamo l’aumento degli infortuni da usura prolungata nel tempo, in luogo di quelli da trauma; nello specifico crescono i problemi agli arti superiori e, secondariamente, a schiena e gambe. La riduzione dei tempi morti e l’adozione di posture di lavoro sempre più fisse e immobili giocano un grande ruolo in questa dinamica, ma anche l’aumento dei ritmi in sé pone il lavoratore nella condizione di rinunciare spontaneamente a quelle posture ergonomiche spesso insegnate nei corsi di formazione che seguonol’assunzione, specie quando la persona è stanca per la giornata di lavoro.

Dal punto di vista del controllo, le nuove tecnologie favoriscono il monitoraggio dei comportamenti e delle performance del lavoratore, permettendo quindi di rendere economicamente più efficace l’impiego di un dipendente, mettendo “l’uomo giusto alla mansione giusta” e obbligandolo all’osservanza di una disciplina più rigorosa[6].

            Per completezza citiamo poi un’ultima applicazione dell’IA che può rafforzare tutte le problematiche appena citate: quella relativa al supplychain management, ossia alla sincronizzazione, standardizzazione e snellimento non delle singole operazioni di lavoro quanto, stavolta, dei singoli passaggi produttivi che la merce percorre fino a diventare un prodotto finito.

Esempi di tecnologie IA e ICT a confronto

            Esempi di tecnologie tradizionali sono tutti quelli connessi al processo di informatizzazione della produzione industriale, avvenuto grossomodo a partire dagli anni ’80. Computer ed e-mailrendevano i ritmi delle comunicazioni tra colleghi più serrati, permettevano tempi di circolazione dei documenti molto ridotti e riducevano il tempo necessario per eseguire i calcoli, portando i lavoratori a incrementi di ritmi. Nella manifattura, quest’aumentata capacità di calcolo a disposizione del capitalista ha fatto sì che si potesse calcolare il tempo necessario ad aprire o chiudere una mano, allungare un braccio, alzare lo sguardo… in modo da calcolare il tempo totale di tutti i movimenti di lavoro necessari e ideali (con una precisione del decimillesimo di secondo) e costringere i dipendenti ad aderire a quei ritmi. Oggi è possibile simulare al computer l’esecuzione dei movimenti e ottimizzare la simulazione applicando programmi di IA che calcolino le maniere per eliminare ogni spreco di risorsa o di tempo, ogni errore, ogni inefficienza.

Un esempio di tale tecnologia è costituito dal famoso OverallEquipmentEffectiveness (un misuratore dell’efficacia complessiva dell’impianto). I calcolatori informatici alle casse dei fast-food consentono già da tempo di ottimizzare le operazioni di fila e ridurre la manodopera necessaria, ma i sistemi di IA in grado di monitorare ogni operazione svolta dal singolo e di calcolare qual è il lavoratore con maggiori capacità socio-relazionali, in grado di far comprare di più i clienti, quello più bravo a stare in “linea di montaggio” durante la preparazione del pasto, e via dicendo, spingono i livelli di ottimizzazione delle operazioni (e quindi di aumento dei ritmi di lavoro) alle stelle. Un’azienda che produce software in grado di misurare i livelli di produttività giornalieri del singolo è la multinazionale europea Systeme, Anwendungen, Produkte in derDatenverarbeitung (SAP). Per quanto concerne il controllo, se le telecamere ampliavano le capacità di sorveglianza e controllo dell’imprenditore già all’epoca delle tecnologie ICT, oggi con l’uso combinato di GPS e IA si può fare di più: Digital SafetyAdvice, ad esempio, è uno strumento wearable con GPS che monitora se il lavoratore esce dall’area consentita, si toglie il casco o adotta altri comportamenti anomali. L’utilizzo di questo strumento difficilmente sarà circoscritto e disciplinato a livello contrattuale, determinando con ciò, più che un supporto alla sicurezza, uno strumento di controllo.

            Facciamo solo alcuni esempi: le applicazioni di IA attualmente in uso presso i posti di lavoro di categoria inferiore sono decine o centinaia e sono, probabilmente, già abbastanza diffuse. Spesso, tuttavia, operano in modo silenzioso, dietro le quinte, per potenziare sistemi ICT già in uso e che, pure, spesso i lavoratori (e i sindacati) conoscono poco. In particolare è piuttosto comune la cosiddetta “gestione algoritmica delle operazioni”, ossia l’organizzazione del lavoro in azienda sulla base di algoritmi che mutano e si adattano in base alle circostanze di contesto (IA). «La gestione algoritmica e? una caratteristica distintiva delle piattaforme di lavoro digitali, ma e? anche pervasiva nelle industrie offline, come i settori dei magazzini e della logistica»[7];«L’implementazione di sistemi di gestione algoritmici, in particolare, e? stata associata a un aumento dello stress, dell’esautoramento, della discriminazione, dell’insicurezza e dell’insoddisfazione dei lavoratori (Kellogg et al., 2020; Rosenblat&Stark, 2015)».

Mettiamo in guardia, dunque, dal sottovalutare l’impatto dell’IA sui sistemi produttivi, e allo stesso tempo non crediamo che sia sufficiente dettare un sistema di regole nei contratti nazionali se poi non si ha un reale potere di contrattazione all’interno dell’azienda. Se il grosso “ha ancora da venire” e gli sviluppi futuri potrebbero essere tutt’oggiimmaginabili solo in parte, dal punto di vista politico ICT e IA costituiscono già, attualmente, una “combinazione tecnologica” in grado di aumentare la produttività delle figure di livello inferiore in maniera trasversale a settori economici e categorie lavorative. I software che organizzano rotte per i corrieri in maniera da evitare che stiano fermi o tornino a casa prima del tempo, le applicazioni che impongono una chiamata dopo l’altra al lavoratore del call-center e registrano anche solo pochi secondi di inattività davanti allo schermo, i dispositivi vocali che dicono al magazziniere cosa fare e non lo fanno respirare, e via dicendo… Gli esempi che abbiamo incontrato sono questi e veramente molti altri. È bene diffidare, dunque, da un’interpretazione dell’evoluzione tecnologica in azienda troppo dipendente dai criteri capitalistici: ICT e IA sono due sviluppi tecnologici distinti, corrispondenti a cicli d’investimento diversi nel settore hi-tech, ma dal punto di vista del lavoro dipendente, e quindi dal punto di vista sindacale, costituiscono un continuum.

Frammentazione e nuova unità della classe lavoratrice

            In un momento storico in cui la classe lavoratrice non è in grado di elaborare e rappresentare le proprie necessità, per individuare ciò che accomuna le figure più disparate, i contratti più diversi, appalti e sub-appalti, ecc. è necessario osservare dove il nemico di classe indirizzi i suoi attacchi. In questa fase nei paesi di vecchia industrializzazione, come quelli europei, sembra essere relativamente più importante recuperare margini di competitività (sugli avversari “geopolitici”) aumentando la produttività. Laddove gli investimenti tecnologici per realizzare tali incrementi risultino troppo onerosi si può comunque procedere sfruttando eventuali spazi di deregolamentazione normativa del lavoro (es. lavoro nero o grigio, operazioni lavorative non pagate, ecc.) e, in generale, la precarietà contrattuale o le delocalizzazioni.

La situazione di attacco sopra descritta, tuttavia, è comune a gran parte dei lavoratori e delle lavoratrici: l’azienda aumenta la produttività, mentre il lavoratore lavora a ritmi più alti e perde in salute, libertà e autonomia, pur tuttavia senza guadagnare un solo centesimo in più. Eppure i profitti degli imprenditori aumentano e i lavoratori sentono il sacrificio.

Forse, allora, si potrebbe valutare la parola d’ordine di un’indennità di intensificazione del lavoro, indipendentemente dalla figura lavorativa e dall’inquadramento contrattuale. Più che sotto forma di pause o di un nuovo abbassamento dei ritmi, per i settori operai le priorità oggi sono i soldi e il tempo libero: qualunque sindacalista lo sa. Si potrebbe allora provare a rivendicare modifichedell’istituto del premio di produttività, rivendicando che venga maggiormente centrato sugli aumenti produttivi dovuti alle implementazioni dell’organizzazione aziendale (all’interno delle quali rientrano le nuove tecnologie), oltre che sugli sforzi individuali del singolo.

Su questo punto vogliamo essere molto chiari: non proponiamo di accettare lo sfruttamento intensivo e tecnologico scambiandolo con pseudo-incentivi economici. Non saremo certo noi a pensare a qualche indennità contrattuale per addolcire la pillola, né pensiamo che sia sufficiente dettare alcune regole di partenza all’algoritmo o al processo tecnologico: non è certo questa la soluzione, così come la risposta non potrà essere quella del classico luddismo di secoli or sono. Tuttavia, ragionare su possibili rivendicazioni generali che raccolgano le contraddizioni trasversali ai settori lavorativi è, crediamo, un obiettivo politico.

Il contesto normativo

«Ad oggi, gran parte del dibattito sulla regolamentazione dell’IA ha ignorato i suoi possibili effetti sulle condizioni di lavoro (Moore 2023). Laddove si e? discusso, l’attenzione si e? concentrata soprattutto sugli standard volontari di etica dell’IA, ignorando le diseguali relazioni di potere insite nei rapporti di lavoro (Cole et al. 2022)»[8].

L’Artificial Intelligence Act, approvato il mese scorso dal Parlamento Europeo, in questo non fa eccezione: ignorando quasi totalmente il tema dell’utilizzo dell’IA nel mondo del lavoro,stabilisce solamente alcune fasce di rischio con cui categorizzare le varie tecnologie. Inoltre la normativa potrebbe svilupparsi nel senso di definire “rischiosi” più alcuni specifici utilizzi di queste tecnologie, che queste stesse di per sé[9]. Ciò crea la possibilità teorica di uno spazio politico per la contrattazione delle modalità d’impiego delle tecnologie in azienda, qualora i lavoratori e le vertenze sindacali dovessero un giorno orientarsi anche in questa direzione. Del resto,

molti studi sostengono l’idea che i risultati del benessere derivanti dall’uso della tecnologia non sono predeterminati, ma altamente dipendenti dal contesto (Rohenkohl& Clarke, 2023) e sensibili a fattori quali il supporto organizzativo percepito, la cultura manageriale e l’ambiente sociale e politico (Brio?ne, 2017; Lee et al., 2021). In particolare, i benefici sociali e materiali della tecnologia sul lavoro (…)sonospesso legati agli approcci organizzativi istituzionali e strutturali alla progettazione, allo sviluppo e all’impiego di queste risorse piuttosto che alla natura della tecnologia stessa (Gilbert et al., 2022; Hayton, 2023; Soffia et al., 2023). Gmyrek et al. (2023) sottolineano inoltre che gli impatti sociali piu? ampi dell’adozione tecnologica dipendono dalla sua governance, evidenziando l’importanza dell’impegno dei lavoratori, dello sviluppo delle competenze e delle tutele sociali come considerazioni istituzionali essenziali. Ad esempio, Hayton (2023) osserva che gli impatti storici dell’informatizzazione e di altre tecnologie sulla qualita? della vita lavorativa sono stati determinati dalle filosofie manageriali, dall’eredita? delle relazioni industriali dell’organizzazione e dagli investimenti nella formazione che sostiene l’adattamento della forza lavoro.

Nella stessa ottica, Berg et al. (2023) identificano il ruolo dei sindacati come un cruciale fattore tampone tra la robotizzazione e la qualita? del lavoro[10][grassetti nostri].

Sarebbe utile riflettere anche su come si potrebbero rivoluzionare gli orari, i ritmi e i tempi di lavoro, nonché la nostra stessa retribuzione, con l’avvento delle nuove tecnologie. Il problema è quindi ben altro, ossia che il soggettoche governa i processi innovativi e tecnologici è indirizzato al raggiungimento di obiettivi diametralmente opposti a quelli delle classi subalterne.

Fornire nuove rappresentazioni ai lavoratori

Al di là delle occasioni di lotta, pensiamo che dal punto di vista dell’educazione sindacale dei lavoratori sia utile fornire nuove rappresentazioni che trasmettano una visione il più possibile unitaria per le varie categorie che compongono il lavoro dipendente, sia per quanto riguarda gli attacchi portati avanti con le nuove politiche sul lavoro che per l’identificazione di problematiche e sofferenze trasversali, comuni, che possano così andare ad arricchire il concetto generale di una rinnovata identità lavoratrice.Altrimenti, in assenza di una rappresentazione adeguata e condivisa la gran parte delle persone continuerà ad addossarsi la colpa di ogni fallimento o malessere, associandoli alla propria vita privata nel trasporto di un diffuso senso di rassegnazione esistenziale.

[1]In campo informatico viene definito “motore inferenziale” un algoritmo chiamato a simulare le modalità con le quali la mente umana poi trae conclusioni logiche attraverso il ragionamento.

[2]Nasce R1/XCON (1978), programma per la gestione degli ordini di fornitura.

[3] Come ad esempio gli scacchi (nel 1997 l’IA batte il campione del mondo Garry Kasparov).

[4]L’IA si diffonde molto anche nella finanza, ma non ne tratteremo.

[5] La permanenza del lavoratore in una postazione fissa è stata associata «a un rischio maggiore di problemi di salute fisica come il diabete, le malattie cardiovascolari, i disturbi muscoloscheletrici e l’obesita? (Horton et al., 2018; Owen et al., 2011; Waters et al., 2016)».In “M. Soffia – R. Leiva-Granados – X. Zhou – J. Skordis, Does technology use impact UK workers’ quality of life? A report on worker wellbeing, The Pissaridies Review, Febbraio 2024, p. 10”.

[6]In questi anni il controllo è stato rafforzato, per fare degli esempi, attraverso l’utilizzo degli algoritmi nella logistica, tra i riders e i drivers, nelle aziende commerciali e della distribuzione… senza dimenticare la nuova metrica del lavoro impostafin dalla fine degli anni Ottanta, dopo la nascita del modello Toyota, nei cantieri navali e nelle aziende meccaniche.

[7]P. Gmyrek – J. Berg – D. Bescond, Generative AI and jobs: A global analysis of potential effects on job quantity and quality, International Labour Organization, Agosto 2023, p. 43.

[8]Ibidem.

[9] Per un approfondimento si veda: https://cub.it/artificial-intelligence-act-approvato-il-13-marzo-2024/.

[10]M. Soffia – R. Leiva-Granados – X. Zhou – J. Skordis, Does technology use impact UK workers’ quality of life? A report on worker wellbeing, The Pissaridies Review, Febbraio 2024, p. 12.

Politico – Xi avverte Blinken: basta doppiezza

Washington dovrebbe smettere di “dire una cosa e farne un’altra” e di trattare Pechino come un nemico. Il leader cinese Xi Jinping ha lanciato questo appello durante un incontro con il Segretario di Stato americano Anthony Blinken, come riporta Politico.

“I nostri Paesi… devono essere fedeli alle loro parole. Dovremmo aiutarci a vicenda a prosperare, non a farci del male”, ha detto il capo del PCC, che Joe Biden ha ripetutamente definito ‘dittatore’. Allo stesso tempo, il leader cinese ha osservato che ci sono molte questioni tra Cina e Stati Uniti che devono essere risolte.
 
Pechino è irritata dai tentativi di Washington di rafforzare l’alleanza con il Giappone e le Filippine, di fornire sostegno militare a Taiwan e di limitare l’accesso del Celeste Impero alle tecnologie avanzate dei semiconduttori. Nonostante le crescenti polemiche, Blinken ha assicurato alla Cina che gli Stati Uniti si impegnano a sviluppare le relazioni “a beneficio di entrambe le nazioni”, osserva Politico.  

XIII Vertice ALBA-TCP: per un’alternativa al neoliberismo

Nell’ambito del XXIII Vertice ALBA-TCP, il Presidente Nicolás Maduro ha invitato i suoi omologhi, i leader regionali a procedere nel rafforzamento della Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi con l’attuazione di 7 linee d’azione per l’Agenda ALBA 2030.

“Spero che un giorno possiamo avere la forza, la capacità, la volontà, l’indipendenza politica per passare da una potente Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi a una Confederazione di popoli, di Stati, di governi dell’America Latina e dei Caraibi. Una nuova CELAC che includa Porto Rico come nuovo Stato libero, sovrano e indipendente”.

Il leader venezuelano ha aggiunto che “non è attraverso un intervento militare o di polizia che la democrazia, la libertà, la pace e la ripresa sociale arriveranno ad Haiti”, proponendo la costruzione di un modello di fratelli e sorelle dell’ALBA per accompagnare e sostenere Haiti nel salvataggio della sua democrazia.

D’altra parte, ha aggiunto che l’alleanza ALBA ha dimostrato “una grande capacità di essere al centro della verità” e a favore del diritto dei popoli allo sviluppo, alla pace, alla sovranità e alla vita. “L’ALBA è diventata una grande alleanza per la vita”, ha detto a proposito di queste 7 linee.

Questo sono le 7 linee d’azione: 

1) Creazione di un’agenzia di cooperazione e sviluppo ALBA-TCP.

2) Studiare e approvare il piano di rilancio di Petrocaribe.

3) Approvazione del Piano alimentare ALBA.

4) Firmare e adottare definitivamente il Trattato di Commercio dei Popoli.

5) Promuovere un programma speciale di sviluppo scientifico, culturale, comunicativo e accademico condiviso.

6) Rilanciare il piano ALBA Salud.

7) Creazione di un’agenzia ALBA per la mitigazione degli impatti del cambiamento climatico.

Alternativa al neoliberismo

“L’ALBA, nata come alternativa al neoliberismo, è diventata una grande alleanza per la vita del nostro popolo”, ha dichiarato il presidente venezuelano Nicolás Maduro. 

Il Vertice di Caracas si è basato sul consenso raggiunto durante l’Incontro per un’Alternativa Sociale Mondiale, organizzato dall’ALBA-TCP la scorsa settimana, in cui le organizzazioni sociali hanno discusso i problemi comuni ai Paesi del continente.

Inoltre, è stato raggiunto il consenso sull’Agenda strategica 2030 illustrata in precedenza. 

Nel corso del 23° Vertice dei Capi di Stato e di Governo dell’ALBA-TCP sono stati approvati tre documenti concettuali, dottrinali e di azione, noti come la Dichiarazione di Caracas, l’Agenda programmatica per il cammino verso il 2030 e la difesa della causa palestinese.

Infine, per quanto riguarda la solidarietà con il popolo palestinese, è stato deciso di invitare il Paese arabo al prossimo vertice previsto per il 2026 ed è stato approvato un documento in cui i capi di Stato e di governo chiedono una “soluzione globale, giusta e duratura al conflitto israelo-palestinese attraverso il dialogo basato sulla creazione di due Stati che permettano alla Palestina di esercitare il suo diritto all’autodeterminazione come Stato indipendente e sovrano con Gerusalemme Est come capitale all’interno dei confini precedenti al 1967 e che garantisca il diritto al ritorno dei rifugiati”, ha affermato Maduro. 

L’ALBA e la regione sudamericana

Il Presidente Díaz-Canel ha descritto l’ALBA-TCP come “l’alleanza miracolosa che ha reso realtà progetti e imprese apparentemente impossibili da cui hanno tratto beneficio i cittadini nella sfera sociale”. 

Dalla sua fondazione, l’organizzazione ha ottenuto che 5,5 milioni di persone abbiano recuperato la vista grazie a Misión Milagro; che a circa 5 milioni di persone sia stato insegnato a leggere e scrivere e che siano stati impiegati più di 22.000 medici comunitari.

In termini di importanza, i Paesi membri dell’ALBA-TCP hanno una popolazione complessiva di oltre 63 milioni di persone e una superficie di 2,23 milioni di chilometri quadrati. 

Inoltre, l’alleanza ha preso posizione sulla violenza in Medio Oriente, contro il capo del Comando Sud degli Stati Uniti e sull’interventismo ad Haiti, tra le altre cose.

Per il capo di Stato cubano, l’organizzazione è riuscita a dare una risposta alla regione che è stata negata per secoli. “È l’alleanza che ci permette di affrontare insieme le sfide e le minacce”, ha sottolineato.

Come funziona l’ALBA?

Secondo il suo atto di funzionamento, l’ALBA-TCP “è strutturata su tre Consigli ministeriali: politico, economico e sociale, e su un Consiglio dei movimenti sociali. La struttura di base è permanente nel tempo, mentre le strutture specifiche saranno flessibili in base alla realtà che vogliamo cambiare”.

In questo senso, c’è la figura dei comitati, che servono come forma organizzativa di base per affrontare “questioni con più tempo per lo sviluppo e gruppi di lavoro per affrontare questioni a breve termine, la cui formazione termina con l’adempimento del compito”.

Il vertice dei capi di Stato e di governo si tiene ogni due anni, mentre i diversi comitati si riuniscono periodicamente per avanzare nelle linee di lavoro stabilite e affrontare questioni a breve termine, la cui formazione termina con la realizzazione degli obiettivi.

Primo Ministro Dominica: “Il mondo ha bisogno di uomini come Maduro”

Il Primo Ministro del Commonwealth della Dominica, Roosevelt Skerrit, ha affermato che la regione e il mondo hanno bisogno di voci coraggiose come quella del presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolás Maduro.

La dichiarazione fatta nella sessione plenaria del XXIII Vertice dell’Alleanza Bolivariana per i Popoli di Nuestra America – Trattato sul Commercio dei Popoli (ALBA-TCP), a Caracas, mette in evidenza l’azione del Capodi Stato venezuelano.

“Dal mio punto di vista, il mondo ha bisogno di uomini come Nicolás Maduro in questa posizione, in questo incarico, la regione ha bisogno delle voci coraggiose e delle azioni coraggiose di qualcuno come Nicolás Maduro, affinché continui a guidare questo Paese, il Venezuela”, ha affermato il Primo Ministro.

Allo stesso modo, ha riconosciuto il presidente Maduro come un uomo “fedele alla Rivoluzione Bolivariana”, che permetterà al popolo venezuelano di continuare ad avanzare nella lotta per la piena sovranità.

Per questo ha espresso solidarietà e sostegno alla leadership del presidente Maduro al popolo venezuelano.

Quindi ha dichiarato: “Ho detto al presidente Maduro che apprezzo molto il signor presidente e lo ringrazio per il modo in cui ha guidato questa nazione, ha fatto un lavoro straordinario nell’unire il popolo venezuelano, per superare questi momenti difficili”.

Il leader del Commonwealth della Dominica ha messo in guardia contro le azioni destabilizzanti degli attori dell’opposizione venezuelana sostenuti da “influenza esterna” per destabilizzare le elezioni presidenziali del 28 luglio.

“Come possiamo accettarlo? Come cittadino di questo mondo, questa non è una questione ideologica, è una questione di principio, di giustizia, di equità. Il mondo deve continuare a sostenere e difendere il popolo venezuelano”.

 
 
 
 
 
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Il Primo Ministro del Commonwealth della Dominica, nel suo discorso, ha ricordato l’eredità dei leader rivoluzionari, il Comandante Hugo Rafael Chávez Frías e il Comandante Fidel Castro, come pionieri sotto molti aspetti dello sviluppo di questo nuovo mondo.

In questo senso, ha espresso che grazie a questi leader “è stato creato un ponte tra l’America Latina e i Caraibi”, che ha permesso di connettersi con il resto del mondo “e per questo rendiamo omaggio e omaggio al Presidente Fidel Castro e il presidente Hugo Chávez”.

Riguardo alla solidità e alla forza del blocco regionale, ha sottolineato la solidarietà e la complementarità consolidate tra i paesi fratelli dell’America Latina e dei Caraibi, attraverso l’ALBA-TCP.

“Non esiste organizzazione al mondo che, in così poco tempo, sia riuscita a fare così tanto, per così tante persone e per così tanti paesi, quanto ha fatto l’ALBA-TCP. Non ci sconfiggeranno, non sconfiggeranno la nostra solidarietà o la nostra sovranità come nazioni”, ha sottolineato.

Nelle sue conclusioni ha denunciato il blocco contro Cuba, che ha colpito milioni di vite, e ha invitato a rafforzare la determinazione del meccanismo regionale e ad essere sempre più solidali tra i popoli fratelli.

Maduro: “L’ALBA tra i fondatori del nuovo mondo multipolare”

I paesi dell’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (ALBA) sono a favore di un nuovo mondo multipolare, di cui fanno parte, ha dichiarato il presidente venezuelano Nicolas Maduro.

“Oggi si stanno verificando grandi cambiamenti nella geopolitica, <…> sta emergendo un nuovo ordine internazionale e l’ALBA è già legata al nuovo mondo”, ha dichiarato il presidente venezuelano all’emittente VTV in apertura del 23° vertice dell’ALBA a Caracas.

“L’ALBA può essere tra i fondatori di un nuovo mondo, un nuovo ordine internazionale multipolare”, ha sottolineato.

Ha osservato che i BRICS “sono un grande polo del mondo multipolare emergente”. “Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e altri Paesi stanno consolidando il BRICS”, che rappresenta quasi il 40% del PIL globale.

Newsweek – L’Ucraina rischia di perdere roccaforti cruciali prima degli aiuti

L’Ucraina e i suoi alleati hanno da tempo avvertito l’urgenza di ulteriori aiuti statunitensi per continuare gli sforzi militari delle forze armate ucraine. Ma dopo l’approvazione da parte della Camera dei Rappresentanti di un disegno di legge da 61 miliardi di dollari per gli aiuti all’Ucraina, una nuova e altrettanto importante domanda è se le nuove armi e munizioni arriveranno abbastanza rapidamente per cercare di fermare l’avanzata delle forze russe, scrive Newsweek.

Come si legge nella pubblicazione, le forze russe stanno avanzando gradualmente da quando hanno preso il controllo di Avdeevka il 17 febbraio e si stanno avvicinando a Chasov Yar, della quale Kiev ha avvertito che la Russia vuole prendere il controllo entro il Giorno della Vittoria, il 9 maggio. Questa settimana sono stati riportati altri successi da parte delle forze russe, e in questo contesto gli esperti avvertono che le forze armate ucraine potrebbero essere costrette a “ritirarsi in un territorio più difendibile” nelle prossime settimane.
 
“L’Ucraina, anche se dotata di un pacchetto di aiuti statunitensi da 61 miliardi di dollari, manca ancora di molti dei prerequisiti necessari, tra cui personale addestrato e motivato a riprendere il territorio”, ha dichiarato Viktor Kovalenko, analista e veterano di guerra ucraino. Secondo la sua opinione, senza la mobilitazione e l’addestramento di un maggior numero di soldati, l’AFU “rischia di sprecare questo pacchetto di aiuti statunitensi”.

Alastair Crooke – Il sionismo si autodistruggerà?

di Alastair Crooke – Strategic Culture

(Questo articolo è la base di un discorso che sarà tenuto al 25° Yasin (aprile) International Academic Event on Economic and Social Development, HSE University, Mosca, aprile 2024)

Nell’estate successiva alla guerra (fallita) di Israele contro Hizbullah del 2006, Dick Cheney sedeva nel suo ufficio lamentandosi ad alta voce della continua forza di Hizbullah e, peggio ancora, del fatto che gli sembrava che l’Iran fosse stato il principale beneficiario della guerra in Iraq degli Stati Uniti del 2003.

L’ospite di Cheney – l’allora capo dell’intelligence saudita, il principe Bandar – concordò vigorosamente (come raccontato da John Hannah, che partecipò all’incontro) e, tra la sorpresa generale, il principe Bandar proclamò che l’Iran poteva ancora essere ridimensionato: la Siria era l’anello “debole” tra l’Iran e Hizbullah che poteva essere fatto crollare attraverso un’insurrezione islamista, propose Bandar. Lo scetticismo iniziale di Cheney si trasformò in euforia quando Bandar disse che il coinvolgimento degli Stati Uniti non sarebbe stato necessario: lui, il principe Bandar, avrebbe orchestrato e gestito il progetto. “Lasciate fare a me”, disse.

Bandar ha dichiarato separatamente a John Hannah: “Il Re sa che, a parte il collasso della Repubblica Islamica stessa, nulla indebolirebbe l’Iran più della perdita della Siria”.

È iniziata così una nuova fase di logoramento dell’Iran. L’equilibrio regionale del potere sarebbe stato spostato in modo decisivo verso l’Islam sunnita e le monarchie della regione.

Il vecchio equilibrio dell’epoca dello Scià, in cui la Persia godeva del primato regionale, doveva finire: definitivamente, speravano gli Stati Uniti, Israele e il re saudita.

L’Iran – già gravemente ferito dalla guerra “imposta” Iran-Iraq – decise di non essere mai più così vulnerabile. L’Iran mirava a trovare un percorso di deterrenza strategica nel contesto di una regione dominata dallo schiacciante dominio aereo dei suoi avversari.

Ciò che è avvenuto questo sabato 14 aprile – circa 18 anni dopo – è quindi di estrema importanza.

Nonostante il clamore e la distrazione che hanno seguito l’attacco iraniano, Israele e gli Stati Uniti sanno la verità: i missili iraniani sono riusciti a penetrare direttamente nelle due basi aeree e nei siti più sensibili e altamente difesi di Israele. Dietro la retorica occidentale si nascondono lo shock e la paura di Israele. Le loro basi non sono più “intoccabili”.

Israele sa anche – ma non può ammettere – che il cosiddetto “assalto” non era un assalto, ma un messaggio iraniano per affermare la nuova equazione strategica: qualsiasi attacco israeliano all’Iran o al suo personale comporterà una punizione da parte dell’Iran nei confronti di Israele.

Questo atto di stabilire la nuova “equazione di bilanciamento del potere” unisce i diversi fronti contro la “connivenza degli Stati Uniti con le azioni israeliane in Medio Oriente, che sono al centro della politica di Washington – e per molti versi la causa principale di nuove tragedie” – secondo le parole del Ministro degli Esteri russo, Sergey Ryabkov.

L’equazione rappresenta un “fronte” chiave – insieme alla guerra della Russia contro la NATO in Ucraina – per convincere l’Occidente che il suo mito eccezionalista e redentore si è rivelato una presunzione fatale, che deve essere scartato e che è necessario un profondo cambiamento culturale in Occidente.

Le radici di questo conflitto culturale più ampio sono profonde, ma alla fine sono state rese esplicite.

Il gioco della “carta” sunnita da parte del principe Bandar dopo il 2006 è stato un flop (in gran parte grazie all’intervento della Russia in Siria). E l’Iran è rientrato dal freddo ed è saldamente ancorato nella posizione di potenza regionale primaria. È il partner strategico di Russia e Cina. E oggi gli Stati del Golfo hanno spostato l’attenzione sul denaro, sugli “affari” e sulla tecnologia, piuttosto che sulla giurisprudenza salafita.

La Siria, allora presa di mira dall’Occidente e ostracizzata, non solo è sopravvissuta a tutto ciò che l’Occidente poteva “lanciarle contro”, ma è stata abbracciata calorosamente dalla Lega Araba e riabilitata. E la Siria ora sta lentamente ritrovando la strada per essere di nuovo se stessa.

Eppure, anche durante la crisi siriana, si stavano verificando dinamiche impreviste nel gioco tra identità islamista e identità secolare socialista araba da parte del principe Bandar:

Nel 2012 scrivevo:

“Negli ultimi anni abbiamo sentito gli israeliani enfatizzare la loro richiesta di riconoscimento di uno Stato nazionale specificamente ebraico, piuttosto che di uno Stato israeliano, di per sé”;

– uno Stato che avrebbe sancito i diritti eccezionali degli ebrei in campo politico, giuridico e militare.

A quel tempo… le nazioni musulmane cercavano di “disfare” gli ultimi resti dell’era coloniale. Vedremo la lotta incarnarsi sempre più come una lotta primordiale tra simboli religiosi ebraici e islamici – tra al-Aqsa e il Monte del Tempio?”.

Per essere chiari, ciò che era evidente già allora – nel 2012 – era “che sia Israele che il territorio circostante stanno marciando al passo con un linguaggio che li porta lontano dai concetti di fondo, in gran parte secolari, con cui questo conflitto è stato tradizionalmente concettualizzato. Quale sarebbe la conseguenza – visto che il conflitto, per sua stessa logica, diventa uno scontro tra poli religiosi?”.

Se dodici anni fa i protagonisti si stavano esplicitamente allontanando dai concetti secolari di base con cui l’Occidente aveva concettualizzato il conflitto, noi, al contrario, stiamo ancora cercando di comprendere il conflitto israelo-palestinese attraverso la lente di concetti secolari e razionalisti – anche se Israele è evidentemente preso da una frenesia sempre più apocalittica.

E per estensione, siamo bloccati nel tentativo di affrontare il conflitto attraverso i nostri abituali strumenti politici utilitaristici e razionalisti. E ci chiediamo perché non funziona. Non funziona perché tutte le parti hanno superato il razionalismo meccanico e si sono spostate su un piano diverso.

Il conflitto diventa escatologico

L’elezione dell’anno scorso in Israele ha segnato un cambiamento rivoluzionario: i Mizrahim sono entrati nell’ufficio del Primo Ministro. Questi ebrei provenienti dalla sfera araba e nordafricana – ora forse la maggioranza – e, con i loro alleati politici di destra, hanno abbracciato un’agenda radicale: completare la fondazione di Israele sulla Terra d’Israele (cioè senza uno Stato palestinese); costruire il Terzo Tempio (al posto dell’Al-Aqsa); e istituire la legge Halachica (al posto della legge secolare).

Niente di tutto ciò può essere definito ‘secolare’ o liberale. Era inteso come il rovesciamento rivoluzionario dell’élite Ashkenazi. È stato Begin a legare i Mizrahi prima all’Irgun e poi al Likud. I Mizrahim al potere ora hanno una visione di sé come i veri rappresentanti dell’ebraismo, con l’Antico Testamento come loro modello. E guardano con disprezzo ai liberali Ashkenazi europei.

Se pensiamo di poter mettere da parte miti e precetti biblici nel nostro tempo secolare – dove gran parte del pensiero occidentale contemporaneo fa un punto di ignorare tali dimensioni, considerandole confuse o irrilevanti – ci sbagliamo.

Come scrive un commentatore:

“Ad ogni svolta, le figure politiche in Israele ora inzuppano le loro proclamazioni in riferimenti biblici e allegorie. Il principale dei quali [è] Netanyahu … Dovete ricordare cosa ha fatto Amalek a voi, dice la nostra Santa Bibbia, e noi ricordiamo – e stiamo combattendo…“Qui [Netanyahu] non solo invoca la profezia di Isaia, ma inquadra il conflitto come quello della “luce” contro “oscurità” e del bene contro il male, dipingendo i palestinesi come i Figli dell’Oscurità da sconfiggere dai Prescelti: Il Signore ordinò al re Saul di distruggere il nemico e tutto il suo popolo: “Ora vai e sconfiggi Amalek e distruggi tutto ciò che ha; non avere pietà; ma metti a morte sia marito che moglie; dal giovane al neonato; dal bue alla pecora; dal cammello all’asino” (15:3)”.

Potremmo definire ciò ‘escatologia calda’ – una modalità che sta dilagando tra i giovani quadri militari israeliani, al punto che l’alto comando israeliano sta perdendo il controllo sul campo (mancando di una classe intermedia di sottufficiali).

D’altro canto –

La rivolta lanciata da Gaza non è definita “Inondazione di Al-Aqsa” a caso. Al-Aqsa è sia un simbolo di una storica civiltà islamica, sia la difesa contro la costruzione del Terzo Tempio, per la quale sono in corso preparativi. Il punto qui è che Al-Aqsa rappresenta l’Islam in generale — né sciita, né sunnita, né un Islam ideologico.

Poi, ad un altro livello, abbiamo, per così dire, un’“escatologia disinteressata”: quando Yahyah Sinwar parla di ‘Vittoria o Martirio’ per il suo popolo a Gaza; quando Hezbollah parla di sacrificio; e quando il Supremo Leader iraniano parla di Hussain bin Ali (il nipote del Profeta) e di circa 70 compagni nel 680 d.C., che si trovarono di fronte a una massiccia armata in nome della Giustizia, questi sentimenti sono semplicemente al di là della comprensione utilitaristica occidentale.

Non possiamo facilmente razionalizzare l’ultimo “modo di essere” nei modi di pensare occidentali. Tuttavia, come osserva Hubert Védrine, ex Ministro degli Esteri francese – sebbene nominalmente secolare – l’Occidente è comunque “consumato dallo spirito del proselitismo”. Quello di San Paolo “andate ed evangelizzate tutte le nazioni” è diventato “andate e diffondete i diritti umani in tutto il mondo”… E questo proselitismo è profondamente radicato nel DNA occidentale: “Anche i meno religiosi, totalmente atei, lo hanno ancora in mente, [anche se] non sanno da dove provenga”.

Potremmo definire questo come un’escatologia secolare, per così dire. Certamente ha delle conseguenze.

Una rivoluzione militare: siamo pronti adesso

L’Iran, nonostante il logorio dell’Occidente, ha perseguito la sua astuta strategia di “pazienza strategica”, tenendo i conflitti lontani dai suoi confini. Una strategia che ha puntato molto sulla diplomazia e sul commercio; e sul soft power per impegnarsi positivamente con i vicini e i lontani.

Dietro questa facciata quietista, tuttavia, si nascondeva l’evoluzione verso la “deterrenza attiva”, che richiedeva una lunga preparazione militare e il mantenimento di alleati.

La nostra comprensione del mondo è diventata antiquata

Solo occasionalmente, molto occasionalmente, una rivoluzione militare può rovesciare il paradigma strategico prevalente. Questa è stata l’intuizione chiave di Qasem Suleimani. Questo è ciò che implica la “deterrenza attiva”. Il passaggio a una strategia in grado di rovesciare i paradigmi prevalenti.

Sia Israele che gli Stati Uniti hanno eserciti convenzionalmente molto più potenti dei loro avversari, composti per lo più da piccoli ribelli o rivoluzionari non statali. Questi ultimi sono trattati più come ammutinati nel quadro coloniale tradizionalista, e per i quali un soffio di potenza di fuoco è generalmente considerato sufficiente.

L’Occidente, tuttavia, non ha assimilato completamente le rivoluzioni militari in corso. Si è verificato uno spostamento radicale dell’equilibrio di potere tra l’improvvisazione a bassa tecnologia e le costose piattaforme di armi complesse (e meno robuste).

Gli ingredienti aggiuntivi

Cosa rende veramente trasformativo il nuovo approccio militare dell’Iran sono stati due fattori aggiuntivi: uno è stata l’apparizione di un eccezionale stratega militare (ora assassinato); e in secondo luogo, la sua capacità di mescolare e applicare queste nuove tecniche in una matrice completamente nuova. La fusione di questi due fattori – insieme ai droni a bassa tecnologia e ai missili da crociera – ha completato la rivoluzione.

La filosofia che guida questa strategia militare è chiara: l’Occidente è eccessivamente investito nel dominio aereo e nella sua potenza di fuoco massiccia. Priorizza gli attacchi di ‘shock and awe’, ma si esaurisce rapidamente. Questo raramente può essere mantenuto a lungo. L’obiettivo della Resistenza è esaurire il nemico.

Il secondo principio chiave che guida questo nuovo approccio militare riguarda la calibrazione attenta dell’intensità del conflitto, aumentando e riducendo le fiamme come appropriato; e, allo stesso tempo, mantenendo il controllo dell’escalation dominante nelle mani della Resistenza.

In Libano, nel 2006, Hezbollah rimase profondamente sottoterra mentre l’assalto aereo israeliano infuriava sopra di loro. I danni superficiali furono enormi, ma le loro forze non furono colpite ed emersero solo successivamente dai tunnel profondi. Poi arrivarono i 33 giorni di lanci di missili da parte di Hezbollah, fino a quando Israele decise di fermarsi.

Quindi, c’è un punto strategico in una risposta militare israeliana all’Iran?

Gli israeliani credono fermamente che senza deterrenza – senza che il mondo abbia paura di loro – non potrebbero sopravvivere. Il 7 ottobre ha acceso questa paura esistenziale in tutta la società israeliana. La presenza stessa di Hezbollah la esacerba – e ora l’Iran ha lanciato missili direttamente su Israele.

L’apertura del fronte iraniano, in un certo senso, potrebbe inizialmente aver beneficiato Netanyahu: la sconfitta delle IDF nella guerra di Gaza; l’impasse sul rilascio degli ostaggi; il continuo spostamento degli israeliani dal nord; e persino l’omicidio degli operatori di World Kitchen – tutto è temporaneamente dimenticato. L’Occidente si è nuovamente schierato al fianco di Israele – e di Netanyahu. Gli Stati arabi stanno di nuovo cooperando. E l’attenzione si è spostata da Gaza all’Iran.

Finora, tutto bene (dal punto di vista di Netanyahu, senza dubbio). Netanyahu sta cercando di trascinare gli Stati Uniti in una guerra con Israele contro l’Iran da due decenni (sebbene con successivi presidenti USA declinando la pericolosa prospettiva).

Ma per ridimensionare l’Iran servirebbe l’assistenza militare degli Stati Uniti.

Netanyahu percepisce la debolezza di Biden e ha gli strumenti e la conoscenza per manipolare la politica statunitense: infatti, agendo in questo modo, Netanyahu potrebbe costringere Biden a continuare ad armare Israele e persino ad abbracciare l’espansione della guerra ad Hezbollah in Libano.

Conclusione

La strategia di Israele degli ultimi decenni continuerà con la speranza di ottenere una “de-radicalizzazione” chimerica dei palestinesi che renda “Israele sicuro”.

Un ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti sostiene che Israele non può avere la pace senza questa “de-radicalizzazione trasformativa”. “Se lo facciamo bene”, insiste Ron Dermer, “renderà Israele più forte – e anche gli Stati Uniti”. È in questo contesto che va compresa l’insistenza del Gabinetto di Guerra sulla rappresaglia contro l’Iran.

Le argomentazioni razionali che sostengono la moderazione vengono lette come un invito alla sconfitta.

Tutto questo per dire che gli israeliani sono psicologicamente molto lontani dal poter riconsiderare il contenuto del progetto sionista dei diritti speciali degli ebrei. Per ora si trovano su una strada completamente diversa, affidandosi a una lettura biblica che molti israeliani sono arrivati a considerare come ingiunzioni obbligatorie della legge halachica.

Hubert Védrine ci pone una domanda supplementare: “Possiamo immaginare un Occidente che riesca a preservare le società che ha generato – e che tuttavia ‘non faccia proselitismo, non sia interventista?’. In altre parole, un Occidente che sappia accettare l’alterità, che sappia vivere con gli altri – e accettarli per quello che sono”.

Secondo Védrine questo “non è un problema di macchine diplomatiche: è una questione di profondo esame di coscienza, un profondo cambiamento culturale che deve avvenire nella società occidentale”.

È probabile che non si possa evitare una “prova di forza” tra Israele e i fronti di resistenza schierati contro di lui.

Il dado è stato deliberatamente lanciato in questo modo.

Netanyahu sta giocando molto sul futuro di Israele e degli Stati Uniti. E potrebbe perdere.

Se ci sarà una guerra regionale e Israele subirà una sconfitta, cosa succederà?

Quando la stanchezza (e la sconfitta) si farà finalmente sentire, e le parti “scartabelleranno nel cassetto” per trovare nuove soluzioni alle loro angosce strategiche, la soluzione veramente trasformativa sarebbe che un leader israeliano pensasse all’“impensabile”: pensare a un unico Stato tra il fiume e il mare.

E che Israele – assaggiando le erbe amare delle “cose andate in pezzi” – parli direttamente con l’Iran.

(Traduzione de l’AntiDiplomatico)