L’università dia il diritto totale di parola a tutti

Davvero c’è un’emergenza nell’università italiana? Se c’è, è nella mancanza di un sostanziale diritto allo studio in termini di alloggi e servizi. È nella minaccia mortale che l’autonomia differenziata rappresenta per la libertà dell’università sancita dalla Costituzione. È nella costante intromissione di una politica che interviene sulle idee e sulle parole dei docenti chiedendo dimissioni, o censure. È nell’interferenza inaudita di ambasciate di Stati esteri che contattano direttamente i rettori con richieste e moniti.
È nella crescita abnorme delle università telematiche, macchine di profitto capaci di assicurarsi l’indulgenza della politica verso l’applicazione di controlli e valutazioni ai quali sono invece sottoposti gli atenei pubblici: con la conseguenza che Pegaso sta superando la Sapienza per iscritti, diventando il primo ateneo d’Europa, in un ben triste primato italiano.

Non vedo, invece, alcuna emergenza nelle manifestazioni per Gaza che in queste settimane attraversano le nostre comunità accademiche. Le studentesse e gli studenti dicono, anzi gridano, cose che si possono condividere o meno. Io, per esempio, non condivido affatto la richiesta di boicottare le università israeliane, come non condivisi (e non applicai) quella governativa di fare altrettanto con le università russe. Ma non perché abbia alcuna simpatia per i governi di Netanyahu e di Putin: al contrario, perché le università di quei Paesi sono fra i pochi luoghi in cui si coltiva un vitale dissenso. Condivido, invece, la richiesta di ‘smilitarizzare’ le università italiane. In conferenza dei rettori votai contro la collaborazione con MedOr (la fondazione di Leonardo presieduta da Marco Minniti), e credo che nessun rettore dovrebbe sedere nel suo consiglio scientifico. Nell’aula magna della mia università abbiamo scritto una frase di Virginia Woolf: “E poi, cosa si dovrà insegnare nell’università nuova? Certo non l’arte di dominare sugli altri… di uccidere… ma l’arte dei rapporti umani, l’arte di comprendere la vita e la mente degli altri”. E il nostro Codice Etico dice che “nessuna ricerca di chi lavora e studia all’Università e nessun posto di insegnamento possono essere finanziati da imprese o fondazioni legate alla produzione e vendita di armi”.

Ma il punto non è essere d’accordo o meno con ciò che dicono le studentesse e gli studenti: è permettere loro di dirlo. I governi delle università devono avere l’intelligenza di costruire più spazi di libertà, in modo che a nessuno (con l’eccezione, imposta dalla Costituzione, di chi si professi fascista) venga negato il diritto di parlare, ma anzi tutti possano farlo: esemplare, in questo senso, il Senato accademico aperto voluto dal rettore di Pisa Riccardo Zucchi, che in otto ore ha dato tribuna e ascolto alle più diverse opinioni su Gaza e Israele. Quando le studentesse e gli studenti provano (sbagliando) a togliere la parola a personaggi mediatici invitati nelle università (secondo una prassi sulla quale dovremmo interrogarci), come si fa a non vedere che una generazione senza voce sta contestando chi, invece, può parlare ovunque? Perché è in fondo questo che chiedono: poter parlare, essere ascoltati. Dovremmo preoccuparci se non lo facessero, di fronte all’enormità del massacro di Gaza e alle complicità ipocrite dell’Occidente. Semmai, dovremmo interrogarci sui limiti della capacità di argomentare che vengono dolorosamente a galla in questa ondata di proteste: ma qui siamo noi professori a doverci battere il petto, per aver supinamente accettato un modello universitario assai più dedito a formare un disciplinato ‘capitale umano’, che non ad alimentare un solido e attrezzato pensiero critico.

Le università devono rimanere luoghi in cui si garantisce a tutti e a tutte la massima libertà di parola. E bisogna resistere al rischio (o al disegno) per cui la creazione a tavolino di una emergenza sia pretesto e legittimazione di qualunque forma di irregimentazione poliziesca, o di controllo politico. Perché è dall’alto, e non già dal basso, che sono sempre arrivate, in ogni Paese, le vere e più concrete minacce alla libertà delle università: la quale è uno dei termometri più sensibili della libertà tutta di un Paese.

Di fronte alla repressione giudiziaria delle proteste studentesche della metà degli anni Sessanta, quell’uomo misurato e mite che era Alessandro Galante Garrone scrisse: “Cerchiamo un po’ tutti di non inaridire, alla fonte, la sincerità dei nostri giovani, di rispettarne la dignità, di non indurli a una opportunistica cautela, di cui hanno già fin troppi esempi intorno a sé. Lasciamoli dire, senza veli, quello che pensano. Le manette, le museruole, le vessazioni grandi o piccole (come un tempo i biglietti della confessione) non possono che fare del male”. Parole sagge: ancora oggi perfetto manifesto di una università veramente libera.

(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano)

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“L’università dia il diritto totale di parola a tutti” è stato scritto da Tomaso Montanari e pubblicato su ROARS.

Il vecchio col bastone

di Giorgio Mascitelli

In occasione del centenario della nascita dello scrittore, la Fondazione Arnaldo Pomodoro pubblica un inedito di Francesco Leonetti (Il vecchio col bastone, a cura di Marco Rustioni, Milano, 2024, euro 10). Il volume è aperto da un’introduzione del curatore, si chiude con una postfazione dell’antropologa Aurora Donzelli, nipote di Leonetti, e riporta una copia fotostatica del quaderno originale da cui è stato tratto l’inedito. Il testo è un racconto incompleto suddiviso in tre paragrafi del quale abbiamo un io narrante di età avanzata, che dovrebbe rispondere al nome di Franco Bissone, il quale si rivolge a un amico coetaneo di nome Leonetti per interpretare la realtà in cui viviamo e quest’ultimo gli fa dono di alcune poesie dedicate a Eleonora Fiorani, che effettivamente  seguono e si inseriscono nella terza sezione del testo.

Tema principale della scrittura è lo stretto legame tra lo sfacelo del corpo e quello della società o piuttosto del mondo, con le movenze stilistiche tipiche dell’idioletto leonettiano, nel quale una sintassi ipotattica che descrive il quotidiano straniandolo viene illuminata da improvvise formule di rigorosa definizione o, addirittura, autopercezione teorica. Del resto questa stretta connessione tra dato biografico e riflessione teorica generale è una delle cifre anche delle opere più importanti di narrativa e poesia. Qui è evidente il tema ecologico: la sconfitta del progetto rivoluzionario della modernità non è semplicemente la sconfitta di un modello società, ma della specie stessa (“rendiamoci conto di tutti gli aspetti allegri, vitali, solo suoi ( del mondo), pur se siamo falliti come specie: si va in auto, non coi piedi;” p.37). Analogamente nelle poesie domina il rimpianto per l’albero (“Perché non sono un albero nel bosco?”, p.39) e l’orrore per la città, ma anche tale contrapposizione è sempre declinata leonettianamente con rigore materialistico, senza nessuna indulgenza all’idillio.

Marco Rustioni colloca il testo in questione, con argomenti inoppugnabili, nel 2007 circa quindi durante l’ultima fase della vita dell’artista che è mancato nel 2017 e ne riscontra affinità con la produzione di poco anteriore, in particolare “l’invariante del sogno” volta a “stabilire un contatto con la dimensione storico-sociale” e “la natura miscellanea ed enciclopedica della narrazione, che appare destinata più a una funzione paradigmatica che finzionale”. Di grande interesse anche le considerazioni che Aurora Donzelli rivolge alla scelta di riprodurre fotostaticamente i quaderni di Leonetti, che diventano una riproduzione almeno parziale del “ritmo del suo pensiero”, e in qualche modo ci impongono una riflessione di fronte allo scarto tra materialità dell’atto scrittorio e sua normalizzazione tipografica, divenuta seconda natura.

Più in generale questo volume ha il merito di riproporre alla nostra attenzione la figura di uno dei più interessanti e radicali interpreti del secondo Novecento, che ha rappresentato un modo di intendere la funzione intellettuale e letteraria come pungolo al dibattito culturale e alle critica sociale e politica; del resto quando la critica parla di Leonetti come l’uomo delle riviste (da Officina negli anni Cinquanta fino a Campo negli anni Novanta), allude con altre parole alla realizzazione tramite la sua lunga esperienza di redattore di riviste di questa prassi, che diventa parte concreta della sua opera letteraria. Il fatto che oggi una tale traiettoria di vita e di opere, se paragonata alle prescrizioni standard odierne per l’attività letteraria, possa sembrare esotica, è una misura eloquente della provincializzazione della nostra cultura.

 

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“Il vecchio col bastone” è stato scritto da Giorgio Mascitelli e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Tre teste

di Max Mauro

Come si fa a tagliare una testa?

Vorrei porgli questa domanda, ma dubito avrebbe una risposta da darmi. No, una risposta probabilmente l’avrebbe, ma sarebbe un’invenzione, un crudele gioco di immaginazione. Lui non ha mai tagliato una testa, ne sono sicuro. Come potrei essere seduto al tavolo con un tagliatore di teste? Così voglio credere, ma chi può assicurarmi del contrario?

La sua è una storia inventata, almeno in parte, come tutte quelle che raccolgo. Anche la mia lo è, ne sono cosciente. Tutti raccontiamo qualcosa che non ci appartiene, ricordi di altri, parenti, amici o perfetti sconosciuti incontrati sul tram o scoperti nei libri. Ricordi così limpidi e intensi da offuscare i nostri. Raccogliamo emozioni con un setaccio bucherellato e le attacchiamo malamente una all’altra come pezzi di plastilina rinsecchiti illudendoci di farne dei ricordi personali. Qual è la parte inventata e qual è quella vera?

Però la testa tagliata.

Non posso fare a meno di pensare a quelle tre teste allineate sul terrazzo del carcere a pochi metri di distanza da dove si trovava la mia, di testa, con annesso il corpo, appena alcuni giorni prima. Tre teste. Sono allineate in bella vista come fossero torte a un concorso di cucina. Tre terrificanti torte tonde.

Il viso, gli occhi, la bocca, non c’è bisogno di altro. Il resto è accessorio. E’ sparso sul terrazzo, un carnaio alla rinfusa. Due braccia, o spezzoni di braccia. Una scarpa. Una scarpa da trekking alta, di piede destro, come se ne vedono tante sui marciapiedi di Caracas, di gente frettolosa e distante. La scarpa è macchiata di sangue e contiene un piede attaccato a un pezzo di tibia. Accanto alla scarpa col piede dentro c’è un corpo, un corpo morto, ovviamente, quasi intero. Quasi. La testa è altrove. E sangue ovunque. Ma non attorno alle teste. Quelle no. Sono esposte in un angolo. Ripulite.

Gli occhi di tutte e tre le teste sono semichiusi. In una, la prima a destra, un viso tozzo, tondo e carnoso con capelli radi e ciglia folte, mi pare di scorgere uno sguardo di rassegnazione. E’ solo un’impressione. Che sguardo è possibile in una testa mozzata? Cosa avranno visto gli occhi in quell’attimo che hanno smesso di vedere? Forse hanno visto il vuoto, magari un soffitto, perché chi ha tagliato la testa agiva da dietro e voleva evitare di essere visto, come in quel quadro di Caravaggio, non quello con la testa del pittore, un altro, memoria aiutami tu.

E’ stato un machete vero o un coltellaccio ottenuto dalle gambe del letto di ferro affilato sul muro? Probabilmente le teste sono state tagliate dopo che gli uomini erano stati uccisi. Chi le ha allineate per fotografarle sapeva che qualcuno, un me qualsiasi, un me sconvolto, vedendo la foto ne sarebbe stato turbato al punto da non poter pensare ad altro e si sarebbe fatto molte domande.

Come si fa a tagliare una testa? Non come avviene il taglio, un atto di banale macelleria di cui non sono completamente ignaro, colmo dei ricordi di polli, tacchini e maiali visti uccidere a casa dei nonni durante la mia lontana infanzia. No, mi chiedo, perché avviene il taglio? Cosa spinge qualcuno a tagliare una testa, e ad esporla alla macchina fotografica, invece di accontentarsi della semplice, banale, uccisione di un essere umano?

La testa a sinistra è quella di un ragazzo, un giovane uomo coi capelli rasati e i tratti meticci. Ha un taglio profondo sulla fronte, poco sotto l’attaccatura dei capelli. Il taglio sembra di plastica perché è intonso come un marchio disegnato. Dove è finito il sangue? Comincio a ragionare come se tutto questo fosse normale e una testa mozzata potesse essere analizzata come si fa con un’immagine tratta da un film. O un’opera d’arte.

Il taglio mi ricorda un quadro. Di chi era? La mia memoria è fratta. Lucio Fontana, ecco, era lui. Il taglio di Lucio Fontana visto al museo di arte contemporanea, proprio quello di Caracas, questa mia città transeunte. Ecco cosa mi ricorda il taglio sulla fronte di quel ragazzo, anzi della sua testa. Un taglio chiaro, preciso, pulito. Ma quelli di Fontana erano tagli fatti sulla tela di quadri destinati a un museo o una galleria d’arte, e chi li osserva oggi si chiede cosa vogliono dire, perché li avrà fatti. Questo taglio è fatto sulla carne, su di un corpo spezzato, svuotato, spento. Eppure le domande per me sono le stesse. Cosa vorrà dire, perché l’hanno fatto.

Le tre teste ora, nella foto, sono solo un ornamento sulla terrazza che fa da tetto al carcere. Anche se non si trovano più lì e sono state portate altrove, la foto le rende parte integrante di quello spazio. Dopo quella foto non c’è più una terrazza senza teste. Non esiste più quel luogo che io ho visitato in incognito, ignaro di quello che vi sarebbe accaduto poco dopo, quando la rivolta sarebbe scoppiata.

“Copia queste foto nel tuo computer e poi ridammi la pendrive, è l’unica che ho”. Così mi disse il mio interlocutore al nostro primo incontro. E ora lo rivedo per restituirgli la pendrive. Mi sembra coli sangue, la pendrive. Le mie mani sono sporche, sporche di sangue. Mi sento stupido, ho paura di me stesso.

L. parla come se volesse aiutarmi, aiutarmi a capire in che luogo sono finito. Ha un modo nervoso di raccontare e raccontarsi. Io non so cosa vuole in cambio da me, credo sia solo bisogno di attenzione, la sua, o forse la ricerca di un contatto che potrebbe servirgli, prima o poi. Ho imparato dal prof K che in questa città senza contatti sei perduto. Io raccolgo storie e le scrivo, finché me lo permettono. I contatti sono importanti anche per me e L. è un contatto prezioso perché mi porta dentro alla storia che più di altre cerco di ca(r)pire, quella del senso del mio trovarmi in questo luogo, così diverso da ogni altro in cui ho messo piede prima.

L. ha poco più di quarant’anni, gran parte dei quali li ha trascorsi in Italia, dove ha dei lembi di famiglia con i quali fatica a mantenersi in contatto. Un fisico snello e solido, il viso affusolato, i tratti scavati abbrustoliti dal sole. Con la cravatta e un vestito adatto potrebbe reggere la parte del direttore di banca, una piccola filiale di un piccolo centro di provincia del centro-Italia. Da alcuni anni la sua vita è il carcere in Venezuela, da poco è stato inserito in un regime di semi-libertà che gli permette di lavorare fuori per alcune ore al giorno e di rientrare solo per dormire. Il carcere non è un luogo separato dalla vita reale. E’ un crocevia di contraddizioni dove il fuori e il dentro si confondono negli spazi vissuti e nelle storie individuali dei detenuti. La violenza del carcere è solo una versione lievemente amplificata di quella che anima e travolge le vite reali. E’ questo che mi tormenta. Cosa mi dicono le teste mozzate sulla mia scelta di vita? Ma è una la scelta, la mia?

“Le decapitazioni sono frequenti. Ogni rivolta in carcere, che poi rivolta magari non è ma semplice guerra tra bande per il controllo del carcere, può finire così. Le guardie non intervengono perché tutto avviene nel carcere interno, un territorio ‘auto-gestito’ dai detenuti, dalle bande. Le guardie lasciano che i detenuti si scannino, che ci sia un vincitore, perché un vincitore c’è sempre, ed è quello che rimane in vita. Quando tutto è finito, loro entrano e scattano le foto, prima che arrivino gli inquirenti. Alcune le scattano anche i vincitori e le conservano per far vedere chi comanda. Le guardie le scattano per aver qualcosa da mostrare ai colleghi che non erano in turno quel giorno, o solo per farsi grandi davanti alle donne. Vogliono far vedere che quello è veramente un carcere violento e che gli assassini sono dei veri assassini pronti a tutto e loro sono i guardiani di questo mattatoio”.

Allungo la schiena per stendere i muscoli contratti dal racconto e dalla memoria delle immagini viste sul computer alcune ore prima e fissate a lungo, troppo a lungo. Le sedie di plastica unta su cui siamo seduti da più di un’ora non sono fatte per conversazioni prolungate. Sono sedie da campeggio, come del resto i tavolini coperti malamente con una tovaglia gommata a quadretti, con macchie sparse qua e là. Il bar si chiama Inter ma non ha nulla di calcistico. Quando venne aperto probabilmente in questa zona vivevano degli immigrati italiani, ma negli anni si sono spostati altrove, in zone più “sicure” della citta, o sono rientrati in Italia. Qualcuno mi ha detto che i gestori del bar sono portoghesi, ma altri mi hanno detto di non credergli. Più d’uno mi ha detto di dubitare di tutto, sempre, è la regola per sopravvivere in questa città, ma non so se sono in grado, se sono all’altezza di questo compito. Sono nato innocente.

Dietro il banco della panetteria-bar si affollano varie giovani figure e mi paiono indistinguibili dalle migliaia che incrocio nelle strade. Se qualcosa di europeo, un’idea ingenua e balorda di alterità continentale, c’era in loro, è andato perso qualche decennio fa. Nulla è rimasto nei movimenti e negli sguardi di questi ragazzi che possa ricordarmi l’Europa.

Il tavolino è all’interno della sala ma la parete che dà sulla strada è una semplice saracinesca che è aperta. E’ sempre aperta, almeno fino alle cinque, cinque e mezza, quando il bar chiude, e con esso ogni attività nei dintorni. A quell’ora tutti spariscono rapidamente perché si avvicina il tramonto.

Sul tavolo, una birra, la mia, bevuta per metà e ormai calda, e una coca cola, quella di L.. “Non bevo alcolici durante il giorno, cerco di bere meno possibile”. Forse in lui c’è un passato di dipendenza.

“Io tra un po’ devo andare”, aggiunge tradendo una certa ansia. “Ho il rientro alle sette e prima devo passare a prendere una borsa da casa della mia donna”. Invece continuiamo a parlare e il racconto si ripete, come se ci fosse un bisogno catartico di liberarsi del vissuto e rincorrerlo a parole fosse l’unica soluzione.

Ha scontato tre anni e gliene restano altri sei, ma grazie ai contatti che ha creato fuori e dentro il carcere conta di averne abbuonati alcuni. Sogna l’estradizione in Italia, ma quella è più difficile da ottenere. Come lui, condannati per traffico di droga, ce ne sono a decine di italiani nel paese caraibico. E tutti hanno ottime ragioni per dirsi innocenti. Tutti viaggiavano per piacere o vacanza e si sono ritrovati, a loro insaputa, con qualche chilo di cocaina nella valigia.

Io credo a tutti, ho sempre creduto a tutti, fin da bambino. Il mondo adulto a cui appartengo mi vuole convincere a diffidare delle storie, soprattutto di quelle straordinarie. Eppure io non ce la faccio, continuo a credere alle persone. Chi sono io per dubitare delle loro vite? Io sono solo un umile raccoglitore di storie. Non sta a me giudicarle.

Ma le teste mozzate?

Mentre L. ripete per l’ennesima volta il racconto della sua vita io penso alle teste mozzate. Non sono invenzioni. Ho salvato le foto sul mio computer, che ora è sporco di sangue. Fisso chi me le ha date, quelle foto; la sua mano destra sfiora il bicchiere di coca cola quasi vuoto, il dito indice si avvicina al bordo, un movimento incosciente. E’ forse lo stesso dito che ha premuto il tasto della macchina fotografica sul tetto del carcere? Non oso chiederglielo. Una domanda di troppo. Fuori fa buio ed è meglio che mi avvii verso casa.

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“Tre teste” è stato scritto da davide orecchio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Acque alte

di Cristiano Dorigo

Il pezzo che segue è tratto da “Acque alte” (Meligrana Editore, 2024), di Cristiano Dorigo, per maggiori informazioni si veda la nota alla fine (NdR)

Come e quando ho imparato il prima e il dopo”
“Quando ero bambina mi divertivo tanto con mamma e papà, avevo una spensieratezza infinita, come tutti i bambini. Quello per me è il periodo dell’innocenza, delle corse nei campi, lungo l’argine del fiume, dello sguardo pieno di stupore dinnanzi alla natura: ero libera come un cucciolo d’animale, in sintonia con l’ambiente che mi circondava.
Questa era la mia vita finché stavo nei paraggi di casa, nella cittadina che mi pareva grande come un universo.
A volte mi capitava di accompagnare mamma giù al Sud dai suoi parenti. Mio padre, per una storia che non si è mai capita – so solo che riguardava una sorta di pegno con amici degli amici con i quali aveva un debito di qualche tipo – era andato a prendersela, l’aveva poi sposata pur non essendo più illibata, un’onta non rimediabile in quegli anni, in certo meridione rurale. Su al Nord invece, ci si poteva già chiudere un occhio su queste faccende d’altri tempi e latitudini, in cambio di lauta mancia al reverendo parroco.
Quelle incursioni, oltre ai viaggi interminabili mi piacevano, come fossero un momento tra parentesi fra due mondi così diversi. Li percorrevamo a volte in auto con papà, ma più spesso in treno, e mi rimaneva sempre impresso qualcosa, particolari a volte insignificanti: ricordo, ad esempio, la prima volta che vidi le vecchie andare in giro vestite tutte di nero, col caldo che faceva in paese, come condannate a un eterno lutto.
Solo le donne, gli uomini no.
Mia madre giù cambiava tono, umore, modo di esprimersi, come avesse introiettato un precetto che le imponeva di stare il più possibile in silenzio. Quando apriva bocca era per rispondere a una domanda, e lo faceva con quel dialetto faticoso, che quasi non capivo; ci ho messo diversi viaggi a digerirlo, ma non sono mai riuscita a parlarlo, se non qualche parolaccia, frequentando bambini e ragazzi, che poi sentivo ripetere a mia madre, una volta tornati a casa, esclamare ad alta voce quando si arrabbiava.
Al ritorno il viaggio sembrava più breve, come se andata e ritorno corrispondessero a salita e discesa; notavo in mia madre una certa frenesia di allontanarsi da quei luoghi, e al contempo mi sembrava che una malinconia sottile le velasse gli occhi, che cercava di nascondere al mio sguardo.
Tornate a casa con papà ricominciava a ridere, a usare il solito linguaggio sguaiato, a guardare quei film che a me all’inizio parevano strani, che facevano vedere anche a mia sorella e ai miei fratelli, tutti insieme, e che soltanto da grande sono riuscita a distinguerli da quelli normali.
E c’era anche lui, il figlio di mamma nato al sud, molto più grande di noi, lo stigma della vergogna.  Dopo quei film veniva sempre a trovarci, e a pretendere qualcosa che da bambina mi era sembrato normale benché fosse una scocciatura, una consuetudine noiosa come pettinarsi o farsi la doccia o prendere un ceffone dopo una marachella; a scuola mi ero confrontata con le compagne di classe e avevo capito che per le mie amiche non era normale, anzi, era proibito anche soltanto parlarne. Mentre io raccontavo, mi guardavano a occhi spalancati, chi con curiosità, chi con smorfie di sgomento, chi ancora con la mano davanti alla bocca a coprire spavento o ridarella, e io ancora non capivo, all’inizio: mi dicevo ma cosa ci sarà mai di strano? boh.
Mia madre rideva sempre, anche quando andavo a dirglielo: ah ah perché non è divertente Dalia? Ma dài, se proprio non ti piace, pensa che è solo un gioco, e che dopo lui se ne va e ti lascia stare. 
Mamma non capiva che a me non piaceva, anzi non sopportavo il prima di quel dopo, o se lo capiva, lo riteneva una tara ereditaria che tocca a ogni femmina, benché lei fosse riuscita, con ogni evidenza, a farseli andar bene entrambi: il prima e anche il dopo. .
E poi col tempo era diventata abitudine. E che sarà mai, mi dicevo: basta concentrarsi, convincersi che il dopo arriva sempre.
Ed è così che si fa con gli uomini, no? Se durante il prima si pensa che poi c’è il dopo, il gioco è fatto.
Ed è così che tanti uomini mi volevano un poco di bene ciascuno, e tanti poco, sommati, magari potevano diventare tanto; ho imparato così l’aritmetica, che pure mi confondeva: mettendo insieme tante cose, tante era più di poche.  
Tanto affetto formato da tanti piccoli poco affetti. Come nelle canzoni, nei film dove due si amavano tanto, solo in modo diverso, variabile: là era tutto in blocco, un amore grande; nel mio caso era una somma di piccoli amori.
Ma nessuno mi capiva e tutti pensavano male di me, mi giudicavano; e allora io andavo in confusione e facevo più guai – guai non per la considerazione che ne avevo io, ma per quelli che giudicavano: io mi ponevo sempre dopo con il pensiero, il quale veniva prima anticipato dall’azione.
Sapessi quanto mi è costato tutto questo: nessun uomo restava con me, le ragazze mi disprezzavano, dicevano che io la davo via a tutti.
Ma solo in questo modo mi sentivo viva.
Il resto del tempo era solo confusione.

Quando Dalia era arrivata in appartamento andava ancora a scuola, non aveva mai esperito un rapporto con un uomo adulto che non fosse come quelli che aveva raccontato.
Ma una volta capito che qui non serviva il prima e il dopo, che io non giudicavo, che rispondevo quando chiamava, che potevo ascoltare quasi tutto anche se certe volte mi faceva tremare di tenerezza e di rabbia, che potevo aiutarla a spingere la fatica durante quelle salite, siamo riusciti a fare un pezzo di strada insieme.
Prima da vicino vicino, poi un po’ più lontano.
Poi c’è stato il periodo intercorso tra la fine della scuola, i tirocini, le giornate di prova, i tentativi vari ed eventuali.
Quando finalmente è arrivato il lavoro vero, quello con uno stipendio, tutto è cambiato.
Allora era vero che lei e la normalità potevano stare insieme, o almeno provare a convivere per un po’.
Ancora tanti alti e bassi, rotonde, incroci, passaggi a livello; respira Dalia, prendi fiato.
Ok, si riparte.
Ci riprova, ce la mette tutta: anche per lei arriva un ragazzo che le offre una vita normale, mettono al mondo una bambina, tutto fila liscio.
Per un po’.
Poi ricomincia a fare quello che Dalia ha sempre fatto: scusa, scusa non lo farò più.
E si prova a ripartire.
Il tira e molla però ora non è più solo tra adulti, c’è una bambina, una suocera, incomprensioni, agiti, tradimenti, scontri, lotte.
Che fatica la vita.
Sempre in salita.
Chissà cosa ci sarà dietro quella curva a gomito.
C’è un prima, poi ci sarà un dopo.
Prima o dopo ci si rivede, Dalia.

 

NdR Questo pezzo è tratto da “Acque alte” edito nella collana “Priamo” di Meligrana Editore (2024), di Cristiano Dorigo, che si ispira alla sua lunga esperienza di operatore sociale a Venezia. Questa la presentazione nel risvolto dicopertina del libro:

Venezia è invasa dall’acqua alta. Le previsioni dicono che potrebbe durare ininterrottamente per giorni e notti. Il protagonista, chiuso in casa, isolato, decide che la clausura potrebbe essere l’occasione per scrivere il libro che troppo a lungo ha trascurato. Avrebbe voluto raccontare le storie delle ragazze incontrate durante la sua esperienza professionale di educatore, ma la chiusura forzata lo trasforma, anche, in un diario intimo dei giorni e delle notti trascorse nel suo piccolo appartamento. Il libro è formato da sette parti, suddivise a loro volta fra “giorno” e “notte”, che contengono ciascuna un racconto della giornata, un episodio delle “sue ragazze” – tutte chiamate con un nome di fiore per mantenerne l’anonimato –, e una notte in cui rievoca episodi della propria vita emotiva. I temi affrontati sono quelli del disagio sociale, della morte, dell’introspezione e elaborazione del lutto. E della possibilità di rinascere, ricominciare, per come si è, per come si può.

 

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“Acque alte” è stato scritto da giacomo sartori e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Fuori è un bel giorno di sole

di Roberto Addeo

con una introduzione di Antonio Spagnuolo

[Sul piano espressivo una frantumazione del reale, in cui si accumulano i simboli, le immagini, le folgorazioni, i germogli tratti dal subcosciente ed emergenti con una certa violenza, improvvisa e spesso affascinante. Il vissuto personale del poeta diventa il mormorio con voce pacata, morbida, suadente. “Annusa una disciplina” per comprendere tutto ciò che accade nella storia, qualcosa che attacca la corteccia nell’ansia di saziare il sogno, che civilmente si collega ad eventi imprevisti. Richiama alla ribalta personaggi che hanno lasciato un segno tra la cornice di un confronto o degli automatismi istintivi che riparano le crepe del conflitto. Roberto cuce e ricuce incandescenze adagiando il suo intimo sospiro allo sguardo dell’io teso verso il razionale, e governa le leggi del linguaggio con una maestria tutta personale, da scrittore avvezzo al colloquio, al confronto, all’immaginazione. A volte alla ricerca del motto filosofico, del dolciastro
imperscrutabile, dell’azzardo verso il dicibile, della rapacità memoriale, come un raffinato che vede la propria persona riflessa in uno specchio, che è verso la consunzione, come una campana lesionata che batte ancora i suoi colpi senza indugi.
Lavorare per la poesia è scavare nel patrimonio culturale, per cercare di aggregare sentimenti e fulminazioni, decantando emozioni e vincolandosi alle articolazioni linguistiche, nel tempo e nell’affanno. E la parola cerca di contenere il tutto, sufficiente a definire compiutamente la massa delle emozioni che un artista ha dentro. “oggi mi troveranno disponibile/ come il rasoio del barbiere/ sarà una cosa piacevole, altroché/ spalancherò le forze e ridurrò in granelle/ tutti i loro sottopancia/ stirpi di mezzi uomini che hanno fatto bingo/ il giorno in cui vennero al mondo/ mentre a me tocca la sorte del cane in chiesa/ il mio odio per loro è il lenzuolo di Laerto/ (Laerte o come si chiama)” Nella solitudine si insinua una luce solare che offre una euritmica musicalità dei nessi una combinazione che simboleggia il percorso di una via accidentata verso la ribellione per la sorte o le sorti che ci accompagnano. La rappresentazione del dolore, o dell’angoscia, anche se calati in una precisa realtà contingente, diventa molto efficace con la descrizione di scene esaltative, anche se sfiorando di sorpresa lo sfondo politico. Ad un tratto del libro la versificazione improvvisamente diviene quasi prosa, in pagine che hanno l’aspetto del racconto, introducendo avvenimenti o situazioni “nel breve tempo di uno specchietto acqueo” o per “una forza nell’imbastitura del ghiaccio”. Compare un certo De Girolamo senior che “faceva sul serio” tra magagne ed intrallazzi, realizzando una narrazione a saltelli nella quale si svincola una fusione di simbolo e mottetto. Non c’è confusione negli incarnati legata ai meri interessi di un elemento sociale, ma una consapevole identificazione del canto per esaltazione enfatica o retorica. “Anche se De Girolamo junior fu tra le grandi sorprese della mia vita,/ l’avevo sempre visto come uno di quelli che se la tirano e poi la sua voce/ in lega metallica credo per via dell’apparecchio non mi aiutava nella stima,/ e invece si dimostrò la personcina più attaccata e servizievole che ricordi,/ un’ora prima mi ero fermato sotto l’attaccapanni con la sorellina…” Descrizioni che accarezzano la semplicità tipica di tanta accortezza, che da concezionale si piega ad un brusco risveglio, rivelatore di un quotidiano tutto da scoprire. La fiducia accarezza quei momenti in cui traballa il senso di equilibrio, tale da esprimersi in pacate combustioni di accelerazione. Tutto ciò che in poesia è sospeso tra l’emozione e l’intesa di attualità, tra le compromissioni possibili del divenire e la sintesi di manifestazioni fenomenologiche, tra i moduli razionalizzati e la rappresentazione dello spirituale, si concentra con grande vigore nella disponibilità di dialogare con il lettore. Questi a sua volta ascolta e cerca di inseguire quelle emozioni che il verso riesce a suscitare. Snodo decisivo di questo linguaggio è, per Roberto Addeo, la capacità di modulare i limiti della chiarezza e l’eccezionalità delle variegate suggestioni, tra sezionamento sperimentale e autentica rilevanza di certezze da consolidare.

A.S.]

Testi scelti

può darsi che il peggio sia già caduto
il suo spirito ha gravato su così tante emersioni
specchiato in un cerchio d’acqua
mi disse che avrebbe ereditato il mondo reale
e con l’ombra delle braccia, coperto ogni sogno
che avremmo dissotterrato un cuore tra le ceneri della verità
e che il vuoto è un fermaglio dietro l’orlo degli occhi
per fissare a ogni palpebra la sua ciocca di pianto
quando le infezioni galleggiano sulla marea diurna
attirate dall’ossame della purezza
e i muri del silenzio crollano
cola da una spina, la dolcezza del mio sguardo
dalle stagioni di caccia, la sessualità del sangue
e nelle macchie di memoria, così piovo dal nulla
ho ingoiato tutto il fragore di una tragedia
e lo stesso stato d’animo che fa marcire questo Paese
faccio il bagno in una tomba calda e dopo
mi vestirò a lutto sotto mentite spoglie
l’occhio puntato agli stormi in lega metallica
che fanno da guida a ciascun petalo buio
– poi mirerò la mia ombra di stella mai sorta
so unificare gli spasimi tra i denti
e annodare piccioli di speranza con la lingua
non sono nato dagli stessi drappi
avvelenato dalle loro canzonette
mi dimeno come un selvaggio ferito
in cerimoniali di suppurazione
la voce sepolta nella fanghiglia, leso
da tanta comicità
tutte le regge guardinghe intorno
e tavole botaniche a biasimarmi
analizzo vecchie pellicole incatenato al sofà
mentre sgranocchio detriti d’infinito
fasciato dalla stessa caligine che ingrossa le velature
del mio percorso ciondolante sull’abisso
fino alla resa dei conti
più dolce di un tormento
meno dura della coscienza
nel bene dei defunti, tra le menzioni perdute
porterò in pugno una fiaccola e un piede di porco
una causa comune
e sottobraccio, la mia coda di lacrime
imparando che ogni passo
è calpestare un sogno altrui
e che le fronde sui tralci sapevano dirmi perché
le aspirazioni vengono giù così trasparenti
ebbro di carenze
abbraccio gli altri fra i bordi di questa lesione
nei reclusori illuminati da feste
e rituali in cui non sarò mai benvenuto
colmerò bocche di fascino agli schiavi più remissivi
berrò pioggia gialla da mani bucate
preda dei sobborghi non ancora smossi
e l’inganno originale
parlerà di me alla frescura di un desiderio mai patito
alle corolle di prestanze sciolte
alle luci oltre la catena dei tetti
canterà le mie ossa
alle parole rinvenute sotto un manto di foglie

* * *

la diceria che più circolava in città
era quella di una mia presunta relazione
con una girovaga di nome Antonellina
consacrata alle spade e nelle notti di magra
massaggiatrice per addetti ai servizi di pulizia
impiegai una cosa come tre secondi
per risalire alla foce delle maldicenze
vale a dire uno sconosciuto dagli occhi bellissimi
che possedeva un fabbricato in riva al Trasimeno
il padre insegnante in diciassette corsi a ciclo unico
e che prima d’incontrarmi aveva avuto occhi bellissimi
nei giorni seguenti m’incaponii nella scrittura isterica
di un tomo da trecento e passa cartelle a duplice spazio
che una sera finì per sfuggirmi dalle dita
l’ho ritrovato un anno e mezzo fa tra i medicinali di Antonellina
e dopo averle chiesto cosa ne avesse fatto
capii che la sua calma non doveva essere solo il prodotto
della combustione di quei momenti, ma anche la fiducia
di persuadermi a non fare più cose del genere

* * *

benedici il sangue
che non hai perso.
bacia la bocca
che non ti risponde.
hai dato poco.
avuto meno.
traccia un lampo
sulla parete
che la tua vista
possa seguire
e chiamarlo subito
destino.
non hai amici
ma conosci un dolore.
non dare consigli
ma fa’ che le tue orme
brillino
come stelle polari.
benedici ogni lacrima
venuta giù
per dissetare
la tua natura
e offrire al tuo viso
la carezza
delle nubi.
benedici gli sguardi
che ti hanno scusato

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“Fuori è un bel giorno di sole” è stato scritto da daniele ventre e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Soldi soldi soldi

di Romano A. Fiocchi

Andrea De Alberti, La rimozione del conflitto, Industria & Letteratura, 2024.

A Pavia c’è una libreria speciale. Si chiama Il Delfino. Speciale perché è diventata il punto di ritrovo – oltre che dei lettori, come è logico che sia – di poeti, romanzieri, novellisti, giallisti. Non è una magia, è il risultato dell’impegno trentennale di tre librai (Andrea Grisi, Guido Affini, Andrea Bordone) che sono riusciti a creare una comunità di ‘amici dei libri’. Accanto agli scaffali, mescolati tra i frequentatori abituali, trovi a chiacchierare poeti come Andrea De Alberti e Dario Bertini, narratori come Piersandro Pallavicini e Giorgio Scianna, giallisti come Alessandro Reali, autori eclettici come Walter Vai e Davide Ferrari (tra l’altro attore e regista). Trovavi, prima della sua recente e prematura scomparsa, appena cinquantasettenne, anche la bravissima scrittrice italo-somala Kaha Mohamed Aden.

È dunque in questo ‘habitat librario’ che Andrea De Alberti ha presentato, il 17 febbraio scorso, la sua ultima raccolta di liriche La rimozione del conflitto. Diciamolo subito: la rimozione psicologica e il conflitto sociale con i soldi. Si tratta di un libretto di trenta composizioni, suddiviso in cinque parti, a loro volta costituite da un numero variabile di liriche. Tecnicamente si sviluppa come un poema sinfonico con motivi che si rincorrono, ossia con immagini che affiorano e riaffiorano a distanza di pagine, che passano da una lirica all’altra, il tutto ‘narrato’ per lo più in terza persona senza esplicitare il nome del soggetto. Ed è incredibile come De Alberti riesca ad amalgamare ironia e visione poetica, concetti filosofici e semplicità lessicali. Il suo è un linguaggio che si affina sempre di più da una pubblicazione all’altra, a cominciare dalle prime raccolte: Solo buone notizie, 2007, Basta che io non ci sia, 2010, Litalìa, 2011, sino al balzo di qualità delle sillogi Dall’interno della specie (Einaudi, 2017) e La cospirazione dei tarli. L’universo di Don Chisciotte (Interlinea, 2019).

Poema sinfonico, suggerivo, inteso quale intreccio di liriche di varie misure dove le parole si ripetono come motivi musicali, ogni volta modellati diversamente e sempre più vicini al perfezionamento dell’immagine. Ad esempio l’esergo «Avrei potuto fare di più nella vita / che portare persone su un carretto di legno» in una lirica successiva diventa «Un carretto di legno a volte ci svela / il nostro posto nel mondo». Oppure l’espressione «Il denaro è un incidente» ritorna più avanti come «Il denaro è un incidente di percorso che mina la speranza». O addirittura, ci sono versi che si ripetono inizialmente pari pari e poi evolvono in ramificazioni impreviste:

L’adolescenza è in parte economica e in parte emotiva,

ci ricordiamo l’odore dei soldi

e l’effettiva disuguaglianza tra un abbraccio e una mancia.

La profondità dell’abitare è perlustrata da un detective,

la trincea da una talpa.

Nella penultima lirica si ripropone in questo modo:

L’adolescenza è in parte economica e in parte emotiva,

ci ricordiamo l’odore dei soldi,

l’effettiva disuguaglianza tra un abbraccio e una mancia.

L’adolescenza rappresenta la profondità del nostro abitare,

la trincea, l’attaccamento alla danza mascherata;

Oppure ancora, procedendo sempre per allusioni, De Alberti incastra pezzi di associazioni di idee:

Ha paura a guidare,

odia le code delle mucche,

gli piacciono le facce delle banconote,

il muso del maiale.

Tutto ciò per dire della tecnica poetica. Che un verso semplifica così: «Probabilmente una di queste cose è collegata a un’altra». Non senza ironia: «Probabilmente».

De Alberti nomina Freud, Auden, sant’Agostino, Hegel, Céline, il «carissimo» Hölderlin, allude a Leopardi scrivendo «L’immaginazione poteva superare una siepe / o un esame di coscienza», evoca il verso di Montale «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» attraverso una citazione velata: «ciò che vogliamo ma non ciò che sarà». Citazioni colte, dunque, che fanno da contrasto al mondo semplice e primitivo della campagna e dell’osteria-trattoria dei nonni dove De Alberti ha trascorso l’infanzia: i pesci nei fossi, i grilli, le libellule, le lumache, la «castità disarmante» delle nuvole, le mucche, il maiale, la stalla, l’orto, la legnaia, il fienile, i campi, le marcite, le risaie con l’acqua verdastra. Un mondo dove «tutto era gratis». Ma anche citazioni ironiche, come «strofina una lampada con un calzino», perché sa che il genio non uscirà mai. Citazioni che, grazie a una scrittura stratificata, non devono essere necessariamente decodificate: la lettura di queste poesie è su più piani, come se fosse un misto di poesia colta e di cronaca da giornale.

Andrea De Alberti e Flavio Santi

Che conta, in fondo, è l’argomento che De Alberti vuole trattare: i soldi in quanto fenomeno sociale. I soldi in quanto componente inevitabile del carattere dell’Homo sapiens, perché è lo stesso che abitava le grotte e le decorava. I soldi nella visione di un poeta. De Alberti non giudica, tutt’al più fa dell’ironia sul conflitto soldi-individuo, soldi-società, soldi-potere. Lui stesso è consapevole di vivere un rapporto conflittuale con i soldi sin dall’infanzia («Usciva dal cassetto odore di caffè, minestrone e mille lire, tutto insieme»). Ma né li ama né li odia, cerca semplicemente di capirli esaminando ogni loro sfumatura: «I soldi fanno la bava», «I soldi invece attraversano la vita», «I soldi fanno l’infanzia luminosa», «la mancanza di soldi come un attacco di angina», «Tutto ha propriamente inizio / quando per la prima volta ci danno i soldi per le caramelle», «Con i soldi il nulla viene incessantemente / convertito in tutto, / per trasformare il bene nel niente che ci serve».

Il concetto dei soldi intensifica la sua presenza (anche con la formula «denaro») nella terzultima e nella penultima lirica: Il denaro trasfigura le cose e Da ragazzi pensiamo le cose in grande, che per certi aspetti, dal punto di vista tematico, rappresentano il fulcro della raccolta. Di seguito un frammento, tra i passi più suggestivi:

I matti non pensano mai al denaro

anche se lo trovano e lo raccolgono sul marciapiede;

il denaro in questi casi può essere un mozzicone

di sigaretta usata,

una cosa da riciclare;

è la cosa che nessuno vede perché evidente,

perché ci si deve inginocchiare per raccoglierla.

Le persone chiedono in ginocchio il denaro;

quando vediamo una persona

che s’inginocchia ci viene pietà.

La pietà è nemica del denaro

perché ci fa perdere l’obiettivo della nostra ricerca

facendoci guardare verso il basso la persona

che abbiamo davanti;

per avere denaro bisogna sempre guardare in alto,

ma in alto crescono i frutti dell’albero della cuccagna.

Le parole «soldi» e «denaro» si trasformano talvolta in «Banca» (spesso scritto con l’iniziale maiuscola), che ha un valore semantico non dissimile. Ma la banca di De Alberti è anche un luogo della mente, fantastico e mitologico: «La Banca era la nostra grotta di Altamira», «L’osteria era la Banca dell’infanzia».

C’è poi il motivo della scomparsa del padre, il suo ricovero al Policlinico, che alla fine ci riconduce al tema dei soldi: «La Banca gli fa interrogare il malato / controlla gli stati epilettici del denaro, / la distanza che separa un avvenimento / da un versamento». La figura paterna torna dopo una decina di pagine in una bellissima lirica:

Scrive di notte una lettera:

Caro papà,

forse ti sei perso il mio periodo migliore,

è cambiato tutto quel giorno in cui alla televisione,

per caso, passarono la finale dei duecento,

Mennea a Mosca nel 1980 e la voce del telecronista:

recupera recupera recupera recupera.

In questi anni per me tu sei stato

quel telecronista.

(La raccolta La rimozione del conflitto è uscita per i tipi di Industria & Letteratura, qui il sito Internet)

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“Soldi soldi soldi” è stato scritto da gianni biondillo e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

La follia dei numeri #2

di Antonio Sparzani

Un buon numero di “radici” poco matematiche

La follia dei numeri, frutto forse dei deliri o forse delle intelligenze dei matematici, non è certo tutta qui. Perché una volta che si è capito che esistono – sempre in quel senso speciale del verbo “esistere” – dei numeri decimali che hanno infinite cifre non nulle dopo la virgola, che però hanno la caratteristica che la parte dopo la virgola è formata, da un certo punto in poi, solo da gruppetti ripetitivi di cifre, cioè i numeri decimali periodici, la domanda che arriva ovvia è: ma se io scrivo un numero decimale che ha dopo la virgola infinite cifre senza alcun gruppetto che si ripeta, cosa ottengo? Intanto ho fatto male a dire “scrivo” perché nessuno al mondo è in grado di far ciò; diciamo invece “penso”? Peggio ancora, come faccio a pensare infinite cifre, neppure Zeus Olimpio ne sarebbe stato capace, e allora? Perché ci sembrava possibile pensare a un numero decimale infinito periodico? Perché sapevamo la regoletta per andare avanti, bastava continuare a ripetere lo stesso gruppetto di cifre. E allora anche qua: se conosco una regoletta che mi permette di andare avanti all’infinito perché mi spiega come calcolare in ogni punto la cifra successiva, allora posso dire di conoscere il numero almeno nello stesso senso in cui conoscevo quelli periodici. Certo, ma ci sono delle regolette così? Ebbene sì che ci sono, soprattutto una, una di quelle che avete imparato alle medie e che avete subito dimenticato: la famosa estrazione di radice quadrata √ . Come mai è saltata fuori quest’altra operazione di “radice quadrata”? Tutta colpa di Pitagora.

Dico subito che non intendo impelagarmi nella faccenda del teorema di Pitagora, sul quale fiumi d’inchiostro sono stati spesi, se qualcuno è interessato si legga ad esempio il bel libro di Paolo Zellini, Il teorema di Pitagora, Adelphi 2023 e si ascolti su youtube una sua bella lezione qui . Aggiungerò solo che la storia di questo teorema e di problemi simili, comprende antichi testi babilonesi, indiani (vedici), cinesi ed egiziani nel I° millennio prima di Cristo (Pitagora, che in greco ha l’accento sulla “o”, visse nel VI° secolo a.C.).
Forse l’enunciato del teorema non l’avete tutti dimenticato perché rimane impresso più facilmente, essendo legato ad una figura geometrica semplice: il triangolo rettangolo, ovvero che ha un angolo retto. Ricorderete che il suo lato più lungo (quello opposto all’angolo retto) viene chiamato ipotenusa e che gli altri due vengono detti cateti. Bene, il teorema dice che l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma delle aree dei due quadrati costruiti sui cateti, Se chiamiamo a e b le misure dei cateti (in una qualsiasi unità di misura di lunghezza) e c la misura dell’ipotenusa, il teorema assicura che a^2 + b^2 = c^2. E allora, se conosco le misure a e b dei cateti e voglio conoscere quanto misura l’ipotenusa, devo eseguire il quadrato di a e di b, facile, poi sommare i due quadrati, facile, e così ottengo c^2, ma poi? Facile? No certo. Devo trovare un numero il cui quadrato conosco. Cioè devo eseguire l’operazione inversa dell’elevamento al quadrato. Se il numero di partenza è un numero speciale, tipo 1, 4, 9, 64, e infiniti altri, allora è facile, come credo tutti vediate, ma se il numero da cui parto è 2? Per esempio se i due cateti misurano entrambi 1, la somma dei loro quadrati è 2 e non conosco alcun numero che abbia come quadrato 2; e allora si sarà trovata la famosa regoletta di cui dicevo, che permette di ottenere cosa? Permette di costruire, passo passo, un numero decimale il cui quadrato si avvicina sempre più a 2. Così come, quando volevo dividere 1 per 3 ottenevo 0,3333. . ., cioè dei numeri che, moltiplicati per 3 davano 0,9 , 0,99 , 0,999 , 0,9999 , che si avvicinavano a 1 ancorché senza mai raggiungerlo davvero.
Forse Aristotele avrebbe detto che questa è una conoscenza del numero non in atto ma in potenza? Non so, meglio chiedere a un esperto aristotelico.
Questo numero il cui quadrato è 2 si chiama la radice o, più precisamente, la radice quadrata di 2; e conosciamo la regoletta per calcolarlo, sì, per calcolare cosa esattamente? Per calcolare una fila – si dice una successione – di numeri i cui quadrati si avvicinano quanto si vuole a 2. Dunque anche qui: la nostra conoscenza della radice quadrata di 2 consiste esattamente in un modo per andarle vicino quanto si vuole. Cosa significa esattamente “quanto si vuole”? Significa che, se immaginate un numerino piccolo ad arbitrio, del tipo 0,0000001, chiamatelo ε come spesso si fa in matematica, allora se andate abbastanza avanti nel calcolo con la regoletta, arrivate certamente a un numero n il cui quadrato differisce da 2 per meno di ε. E così tutti quelli che vengono dopo n: si avvicinano finché si vuole. Si scrive bellamente √(2). E dico “bellamente” perché la nostra conoscenza è quella che avete capito: astrattamente la radice esiste perché noi decretiamo che siano numeri reali tutti i numeri che si possano scrivere anche con un numero infinito di cifre dopo la virgola, anche se nessuno lo può “vedere” o “pensare” tutto in una volta. E, qui viene un punto importante, questo numero certamente non è periodico, perché se fosse tale, allora ci sarebbe una frazione che lo rappresenta (la ricordata frazione generatrice) e si dimostra in due righe che la radice di due non può essere messo sotto forma di frazione (se qualcuno/a mi chiede la dimostrazione gliela metto in un commento). Dunque non è un numero razionale, e quindi lo chiamiamo irrazionale. Che sembra paradossale, ma il punto è che i numeri razionali si chiamano così, non perché ubbidiscono alla ragione, ma proprio perché possono essere messi sotto forma di frazione (ratio), e quindi per questo tutti gli altri devono esser chiamati irrazionali.
Dove siamo arrivati con la follia dei numeri: siamo arrivati a costruire una classe di numeri che sembra li contenga tutti, visto che possiamo scrivere un numero qualsiasi di cifre prima della virgola e una successione qualsiasi di cifre dopo la virgola, anche una qualsiasi successione infinita, cosa vogliamo di più folle ancora? Non si sa mai, vedremo.

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“La follia dei numeri #2” è stato scritto da antonio sparzani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Contratti trasformativi: una lettera aperta alla CRUI

Dal 2020 in Italia si sottoscrivono i cosiddetti contratti trasformativi, cioè contratti in cui transitoriamente le istituzioni sostengono la trasformazione delle riviste scientifiche da ibride ad accesso aperto, pagando sia per leggere che per pubblicare. Un report fatto molto di recente dal JISC (che contratta gli accordi trasformativi per il Regno Unito) ha mostrato, dati alla mano, che questa costosissima trasformazione è ben lungi dall’avvenire. 70 anni il tempo stimato perché gli editori possano trasformarsi. Il JISC ha ritenuto fondamentale fare una analisi delle politiche di finanziamento implementate soprattutto in relazione ai risultati attesi e ai fondi impegnati e alla sostenibilità nel lungo (anzi lunghissimo) periodo.

La Associazione italiana per la scienza aperta (AISA) si è posta gli stessi quesiti del JISC e li ha posti a CRUI CARE che gestisce la contrattazione per conto delle istituzioni italiane. La risposta a queste domande, urgente e ineludibile,  può aiutare le istituzioni a capire se la direzione presa con i contratti trasformativi sia l’unica possibile, se sia effettivamente sostenibile e fino a quando,  o se invece non si debbano cercare già da ora strade alternative o complementari. Ma servono i dati.

Riportiamo qui sotto il testo della lettera aperta a CRUI CARE

La CRUI, associazione privata dei rettori italiani, offre alle università un servizio non gratuito, noto come CRUI-CARE, per la negoziazione di contratti consortili con gli editori scientifici commerciali.

Dal 2020 CRUI-CARE ha cominciato a stipulare una serie di contratti in virtù dei quali gli editori sono pagati non solo per leggere, cioè per far accedere a banche dati ad accesso chiuso, ma anche per scrivere, cioè per pubblicare ad accesso aperto. Questi contratti sono detti trasformativi perché sono stati pensati non per istituzionalizzare la pratica, deprecata, del cosiddetto double dipping, bensì come mezzi di transizione per incoraggiare gli editori a trasformare le loro riviste in riviste interamente ad accesso aperto.

Secondo quanto registrato in ESAC, i contratti trasformativi con controparte italiana sono 17, di cui 13 sotto la responsabilità di CRUI-CARE. Sebbene sia difficile evincerlo dal suo sito, non aggiornato nel momento in cui scriviamo, alcuni contratti sono in corso di rinnovo  (Wiley, ACS) o scadono alla fine del 2024 (Emerald, IEEE, RSC, Springer e Kluwer).

Come mai, di spese così imponenti in termini di impegno del denaro amministrato da pubbliche istituzioni, esito di un “processo negoziale” che “si svolge alla luce del rispetto della normativa fissata in tema di contratti pubblici”, non esiste un rendiconto pubblico? Per dare un’idea delle cifre in gioco, l’ultimo contratto con Wiley ammonta a più di 36 milioni di euro, quello in corso con Springer a più di 45 milioni di euro, e quello rinegoziato lo scorso anno con Elsevier a più di 167 milioni di euro.

La Reference Guide to Transformative Agreements suggerisce che le istituzioni, prima di negoziare contratti trasformativi, raccolgano dati sia sulle pubblicazioni dei loro autori, sia sulle spese sostenute per pagare APC a editori che li richiedono come prezzo dell’accesso aperto. In base a quali informazioni CRUI-CARE ha concluso i suoi 13 contratti trasformativi? CRUI-CARE ha raccolto qualche dato in autonomia, o si è limitata a prestar fede a quelli forniti degli editori?

In Italia, la mancanza – o la segretezza – di questo ipotetico studio preliminare rende impossibile misurare l’efficacia degli interventi e la sostenibilità della spesa. Dopo 4 anni di accordi trasformativi non sappiamo come si siano articolati i costi nelle università pubbliche italiane e quali vantaggi o svantaggi abbiano prodotto. In particolare non sappiamo (i) quanto abbiamo pagato in questi quattro anni per i contratti trasformativi; (ii) quanto pagheremo nei prossimi anni; (iii) come i contratti trasformativi si distribuiscono fra le istituzioni italiane; (iv) quante di esse hanno aderito a ciascun contratto, se ne hanno tratto vantaggio e nel caso in che misura; (v) quanta letteratura scientifica prodotta in Italia rimane accessibile solo ad abbonamento; (vi) quanto la ricerca italiana ha contribuito all’open access a livello globale con articoli pubblicati in open access a pagamento.

Non abbiamo, in altri termini, dati la cui analisi permetta alle istituzioni di impostare linee di condotta non estemporanee per gli anni futuri, e a studenti e contribuenti di comprendere come e perché il loro denaro viene speso. Continueremo a firmarli, anche se chi – come Coalition S – registra, studia e pubblica i dati sta abbandonando l’idea di pagare per scrivere per orientarsi verso il Diamond Open Access?

Alcuni sostengono che i contratti trasformativi italiani siano giustificati perché in grado di indurre gli editori commerciali a passare all’accesso aperto. Senza i dati di cui sopra, non è però possibile valutare se lo fanno effettivamente, o se invece, come concluso in paesi come la Svezia, meritano di essere superati.1

I resoconti e le presentazioni britanniche, olandesi e tedesche sembrano suggerire che i contratti trasformativi non solo hanno imposto un sovraccarico di lavoro amministrativo, ma hanno prodotto fallimenti annunciati e conseguenze indesiderate.

Era prevedibile che solo una percentuale bassissima di riviste sarebbe passata all’accesso aperto, come documentato da Coalition S: perché un editore commerciale, con un vincolo contrattuale temporaneo, e in grado di spuntare prezzi altissimi sia per leggere sia per scrivere grazie a una valutazione bibliometrica della ricerca in Italia imposta anche amministrativamente, dovrebbe aver interesse a passare all’accesso aperto? Fra le conseguenze indesiderate si annovera, invece, una ulteriore concentrazione dell’editoria e delle relative piattaforme, una netta diminuzione del numero di articoli depositati negli archivi aperti e un aumento, proprio nelle riviste cosiddette trasformative, degli articoli ad accesso chiuso.2

Sui contratti trasformativi del Regno Unito, Jisc ha composto una revisione critica approfondita e anzi doverosa per un paese che vi ha speso in questi anni 137 milioni di sterline, pubblicando 39.163 articoli.3 I revisori britannici hanno lavorato su questioni riproponibili anche per l’Italia.

  1. Quale percentuale della letteratura accademica è ad accesso aperto?
  2. Quale impatto hanno avuto gli accordi trasformativi negoziati a livello consortile sull’accesso aperto delle pubblicazioni scientifiche a livello nazionale?
  3. Che effetto hanno avuto gli accordi trasformativi sui costi per le istituzioni di ricerca?
  4. In che misura gli accordi trasformativi hanno facilitato la conformità con i requisiti degli enti finanziatori?
  5. In che misura gli accordi trasformativi hanno consentito una maggiore trasparenza dei processi di accesso aperto degli editori scientifici?

Il rapporto britannico, sebbene molti dati di cui ha fatto uso siano soggetti a clausole di segretezza, riferisce che la spesa per i contratti trasformativi rappresenta più di un terzo dell’esborso delle biblioteche del Regno Unito per materiale librario. Riconosce, inoltre, che, a dispetto del dispendio di denaro pubblico, lo scopo di indurre le riviste scientifiche commerciali degli editori più grandi a passare all’accesso aperto pieno si realizzerà, a questo passo, fra 72 anni,4 quando saremo tutti morti. Ci si è chiesti, inoltre, se render pubblici a carico del contribuente articoli su riviste amministrativamente prestigiose indurrà mai i ricercatori a comprendere che la pubblicità a cui l’accesso aperto mirerebbe è quella della scienza e non quella del prestigio.

Disporre di informazioni pubbliche, nazionali e internazionali, sull’ammontare della spesa e su quanto se ne è ricavato è fondamentale per capire si ci siamo approssimati ai risultati attesi, ammesso e non concesso che risultati si attendessero. A ridosso dell’eventuale riapertura dei negoziati per il rinnovo di contratti ormai trasformativi solo in un senso ironico, sarebbe cruciale discutere della loro efficacia anche nel medio e nel lungo termine, e sui possibili modelli alternativi. E sarebbe anche utile sapere se, ai sensi dell’articolo 45 comma 2 del nuovo codice dei contratti pubblici, i negoziatori CRUI-CARE ricevono, a titolo di incentivo, una percentuale dell’importo complessivo, o se la CRUI ha un regolamento specifico in merito, essendo fatta salva “la facoltà delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti di prevedere una modalità diversa di retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti”.

Non basta raccontare che gli articoli ad accesso aperto, così generosamente finanziati con denaro altrui, sono, non sorprendentemente, aumentati di numero. Sarebbe importante avere anche le informazioni di contesto ricavabili dalla risposte alle cinque domande dei revisori Jisc.

E non sarebbe difficile ottenerle, se CRUI-CARE rendesse disponibili alle istituzioni e ai cittadini i dati necessari a decidere con cognizione di causa, a sviluppare politiche sulla scienza non estemporanee e a permettere al ministero dell’università e della ricerca di rispondere alle richieste dell’Unione Europea, popolandone i rapporti sulla scienza aperta che al momento, per quanto concerne l’Italia, rimangono desolatamente vuoti.

Chiediamo dunque a CRUI CARE di render pubblici tutti i dati sui contratti trasformativi di cui dispone. Se, per la causa dell’accesso aperto, sono stati un cosi brillante successo dovrebbe essere anche nel suo interesse.

This text is licensed under a CC BY-SA 4.0 license

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  1. Il gruppo di lavoro svedese suggerisce di: (a) concludere accordi con editori che pubblicano solo riviste ad accesso aperto; (2) offrire una piattaforma nazionale di pubblicazione indipendente; (3) aiutare le testate di proprietà dei ricercatori ad abbandonare gli editori commerciali; (4) continuare a lavorare per adeguare il copyright legato all’accesso aperto.
  2. Si veda Jisc, A review of transitional agreements in the UK, 2024, p. 47.
  3. Secondo i dati raccolti da SCONUL nel 2021/22 le spese totali per il sistema bibliotecario britannico ammontano a £ 374.273.000.
  4. Jisc, A review of transitional agreements in the UK 2024, p. 47.

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“Contratti trasformativi: una lettera aperta alla CRUI” è stato scritto da ROARS e pubblicato su ROARS.

Fuorilegge! Iniziative a sostegno della cassa di solidarietà “La lima”

Sabato 13 aprile
c/o Circolo ARCI “Al Bafo”
Piazza Bolognini, Seriate (BG)

Ore 17:30: presentazione dell’opuscolo di autodifesa legale: “Fuorilegge”

Ore 20:00: apericena Benefit a sostegno della Cassa di solidarietà “La lima”

L’iniziativa si inserisce in un giro di presentazioni dell’opuscolo in Lombardia. Nel flyer sono indicate anche le presentazioni che si terranno a Brescia e Cremona.

Scarica il flyer in .pdf.

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“Fuorilegge! Iniziative a sostegno della cassa di solidarietà “La lima”” è stato scritto da underground e pubblicato su Underground.

La lettura narrativa come resistenza

di Paolo Morelli

Solo gli algoritmi salveranno la letteratura italiana

Ecco un esempio di frase ragionevole. Se guardiamo all’attuale produzione narrativa nostrale infatti, non si può fare a meno di notare quanto sia ormai esclusivamente frutto di un mero calcolo minimale, inconsapevole o meno non è questo il punto. Dimenticata la possibilità di affidarsi allo stato di affezione che possiedono le parole, ignari della malia delle frasi e della complicità di ogni conversazione fantastica vi si privilegia un più o meno accurato dosaggio dei contenuti alla moda, vi si legge solo il dominio della Ragione Calcolante, la famosa, la quale poi smunta ma sempre più assertiva pretende dal lettore una razionalizzazione totale, con un grado tale di determinismo che non lascia nulla al caso.
Tutto può essere oggi solo pensato come un racconto da consumare, che sia più o meno engagé non è questo il punto, ma scritto con regole ben riconoscibili, non seguire le quali è considerato un errore grave che vale la squalifica. E il calcolo deve essere ben riconoscibile appunto, altrimenti dimostrerebbe che un altro modo è possibile. Lo slancio, la dedizione, la nevrosi, la pausa, l’eccesso, la follia, perfino un brandello di originale o cosiddetto pensiero laterale sono banditi ormai da tempo in quanto ritenuti impossibili o indicibili. Mai e poi mai un dispositivo basato sulla saggezza dell’incertezza, solo il meccanismo appena sufficiente a confermare proprio ciò che bisogna dire. Persino quello che una volta si diceva stile sembra non contare più. “Tutto è irrimediabilmente trascorso”, come scrive un vincitore di premi, siamo al tempo di Oramai. Scrivere è solo un gesto stanco, ripetuto, automatico, uno dei tanti, programmato si ma in sistema che si vuole chiuso, e rigido poi nel far finta di no, che non è per niente così.
Un gesto muto, già programmato per sordi. Perché è innanzitutto la voce immanente al testo ad esser stata messa al bando, sostituita dal mutismo della pagina scritta, in base all’assunto che niente rafforza più l’autorità quanto il silenzio, e se ne sia o no consapevoli non è questo il punto.
Ecco come mai ci vengono in aiuto gli algoritmi: loro, quel lavoro, lo fanno più in fretta e, tra breve, anche meglio. Se consideriamo nei due soggetti generici la persistenza effettiva del cosiddetto pensiero emotivo, il cretino veloce in questo caso vince sul cretino lento.
Purtroppo, una sola cosa gli algoritmi non riusciranno mai a fare: riprodurre la voce di cui può essere intessuto un racconto, cosa ormai rara o pressoché sparita dall’orizzonte letterario, perché in essa si riascolta ogni volta, oltre al passato, anche il futuro di tutti.
La voce in un testo letterario o più specificamente narrativo è l’esperienza vissuta attraverso il corpo. Per questo Dostoevskij ad esempio cominciava a delineare i personaggi a partire dalle loro voci. In quanto concomitante insieme al linguaggio e al corpo la voce è il tramite possibile, la giunzione fra coscienza e sensazione cui ogni volta tende la narrazione. E, come aveva già individuato ad esempio Valery, ”il Linguaggio scaturisce dalla voce, piuttosto che la voce dal Linguaggio”, mentre il Mondo Nuovo che si impone ha proprio come nemica giurata l’esperienza diretta, di prima mano, oltre alla fantasia quando ha dignità conoscitiva, vale a dire carne e sangue della letteratura.
Siccome però fortuna vuole che le voci che ci vengono dal passato restano tuttora abbondanti, intrise e indelebili sulle pagine, c’è un archivio sonoro ancora a nostra disposizione e nulla vieta agli amanti delle cause perse di pensare alla lettura narrativa come un atto di resistenza, per riscoprire il piacere della lettura a voce alta così come dell’ascolto, per reinserire la narrazione nella nostra vita come pratica di socialità quotidiana. In un contesto in cui la socialità è concepita come remoto concetto della solitudine, riallacciarsi alla tradizione della dimensione narrativa delle parole e per ciò stesso curativa. Come sentire un testo. Mettersi a disposizione di una tonalità. Respirazione, intonazione, sprezzatura. Certo però del tutto laicamente, all’insegna dell’Orwell di 1984 quando dice che “in questo gioco che stiamo giocando, non possiamo vincere. Un certo tipo di insuccesso è preferibile a un certo altro tipo. Questo è tutto”.
Insomma per quello che vale.

 

L’arte della viva voce

Quindi un approccio intensivo alla lettura ad alta voce e, cosa altrettanto importante, all’ascolto di un testo letterario, più specificamente una prosa o una narrazione.
Come sappiamo della parola narrazione da qualche anno si sono impadroniti i politici, al solito per i loro interessi, a significare più che altro come riescono a riempire i canali di informazione con la versione dei fatti che gli fa più comodo. Noi invece ci riallacciamo alla tradizione della parola con le sue ampie sonorità, con tutte le sue ricchezze e le ambiguità, e della frase, alla sua malia, considerando prima di tutto la narrazione come un atto di socialità e normalità.
Già raccontare infatti è una cura, forse una delle poche possibilità che ci restano per far riacquistare alle nostre vite un certo qual senso di confidenza e normalità. Perché cosa possiamo chiamare normalità se non il tessuto quotidiano di racconti che ci facciamo, le piccole narrazioni che riempiono i nostri incontri, le circolazioni anche di ovvietà, quello che il filosofo Günther Anders diceva “un mero recitare insieme ciò che insieme si ascolta senza posa”? Alcuni, come il critico americano Richard Brooks hanno più volte ribadito la centralità della narrazione nello strutturare ogni esperienza umana: “Le nostre vite sono strettamente intrecciate alle storie che raccontiamo o che ci vengono raccontate”. Altri ancora si spingono fino al punto di dire che non siamo che le storie che abbiamo incontrato nelle nostre vite. A guardare bene, altro non possiamo chiamare normalità se non il nostro modo di raccontarci un certo corso di eventi, perché è attraverso i racconti, anche i più semplici, che organizziamo la nostra esperienza nel mondo. Se poi si tratta di un racconto letterario questo fare mondo, come si diceva una volta, vale a dire il provare a organizzare modelli di esperienza può assumere i crismi del rituale per sentirsi parte di una socialità, in quella specie di conversazione universale che è la letteratura, altrimenti vige la paura.
In un contesto in cui la socialità è concepita esclusivamente come somma di condizioni isolate (ed è un risultato poi che non viene mai), uno dei presupposti di tale isolamento è la presunzione. Il pensiero che ci viene imposto è tutto improntato sul fatto che c’è un passato, un prima ignorante e balbettante e un oggi che ne è il riscatto. Questo succede anche per ciò che riguarda la considerazione che si aveva dei libri nel passato, quando molti erano gli analfabeti e pochi i libri, rispetto all’oggi in cui l’analfabetismo è di ritorno o addirittura funzionale. Qualcuno vi potrà raccontare invece che i libri un tempo, almeno fino alla metà del secolo scorso erano trattati con ogni sorta di rispetto e timore reverenziale. I pastori ad esempio ci vengono tramandati come l’epitome, il massimo dell’ignoranza di quei remoti tempi, ed invece può capitare di scoprire che, in tutto il mondo, essi avevano a volte ricche biblioteche e soprattutto avevano un orecchio letterario finissimo. Cosa crediamo facessero la sera attorno al fuoco, durante le transumanze ad esempio, se non che chi sapeva leggeva a tutti gli altri, narrazioni prima di tutto in versi ma non solo? Vi sono squisite narrazioni in versi da leggere a voce alta, l’Ariosto lo si potrebbe mettere tra le sostanze psicotrope, per gli effetti, benefici, di destabilizzazione fantastica che provoca nella mente di chi lo legge. E, d’altra parte, se ci facciamo caso i libri una volta avevano una serie di accorgimenti, piccoli espedienti per invitare il lettore, metterlo a suo agio, come ci si tiene a mettere a suo agio un ospite.
È comunque la dimensione narrativa della parola ad animare un rapporto fantastico con il mondo, a catalizzare capacità percettive e riflessive esiliate.
Tutta la logica di un testo si trova nella voce che contiene, se la contiene, se ne ha una, tanto che anche i traduttori di recente hanno imparato a leggere ad alta voce il testo che devono tradurre. Facciamoci caso, i libri che non si possono leggere ad alta voce sono anche quelli in cui non si vede immediatamente quello che vi si descrive, bisogna rileggerlo e comunque a volte è inutile. La voce in una narrazione è quel congegno infallibile che ogni volta ci riporta al remoto, al condiviso, come se si trattasse dell’incontro con una mente molto simile. Se la poesia esiste da sempre nell’esigenza della mente di ricrearsi condizioni originarie per non perdere i propri strumenti cognitivi, la narrazione ha la sua funzione primaria come luogo di convergenza e condivisione, una specie di intimità allargata in cui si riconosce la propria voce in un’altra percependo il suo tono, e con sé porta l’esigenza della socialità.
“Leggere è ascoltare altri sé”, diceva Nietzsche, oppure “Leggere è soprattutto disposizione all’ascolto” sosteneva R.L. Stevenson. Ma soprattutto la voce viene a rammentarci come la narrazione sia un fatto culturale nel senso più ampio della parola, non un semplice orpello ma una necessità umana primaria come sostengono gli scienziati e quindi auspicabilmente di uso quotidiano come potrebbe essere l’amicizia, o il vino per la convivialità.
Quello che dobbiamo fare per leggere a voce alta una storia è passare da una lettura introspettiva e intellettiva, dal silenzio a volte ignavo della pagina scritta a un esercizio fisico, corporeo, fatto essenzialmente di vocalità, vale a dire espressione fisica della voce e di postura. Intonarsi sulle parole, non solo decifrarne i significati, sulla linea di quella che viene o meglio veniva chiamata prosodia, cioè l’insieme dei caratteri fonici – dinamici, melodici, quantitativi: accenti, tono, ritmo sul flusso sonoro del testo, perché le sonorità emotive sono il perno della narrazione, e non tanto lo sviluppo logico-semantico. E poi la voce, la traccia orale di un testo non è soltanto la parte corporea del linguaggio ma implica altresì  l’affettività, è nell’udito che sta racchiuso tutto il senso sociale di una storia. Proprio così l’oralità diventa esperienza vissuta, quella parte di vita che le pagine portano con sé.
Già nessun enunciato umano può darsi interamente senza emozione: i modi, i gesti, gli atteggiamenti sono patrimonio del discorso: questa la fonte primaria anche della narrazione scritta, dei libri che devono contenere una voce.
Nasce così una specie di slancio che viene a lasciarsi trasportare dalle parole, a sentire le parole che ci vengono dentro, diciamo così e risuonano sempre più familiari all’orecchio di ognuno.
In questa maniera è possibile fare della lettura narrativa non solo un atto di evocazione vero e proprio nei riguardi di un testo e del suo autore, ma una sorta di esercizio spirituale se non è parola brutta: una prova di socialità, amicizia, addirittura fraternità si potrebbe dire, se non è parola brutta anche questa.
Non stiamo qui cercando una concentrazione onerosa o un’attenzione forzosa, non nella lettura né tantomeno nell’ascolto. E neppure la bravura, quasi il contrario, ma di perdersi nel testo, di farsi guidare dalle tonalità, di affidarsi allo stato di affezione delle parole (ed è sempre nella prima frase di un testo che riconosciamo il suo tono). Non dobbiamo fare insomma come certi attori quando leggono una storia e si sente subito che non è in funzione delle parole che leggono, oppure che le recitano perché esse valgono assai per darsi dell’importanza. Si mettono in posa, si ascoltano mentre leggono (cosa dolorosa per chi legge e fastidiosa per chi ascolta), mentre qui intendiamo tentare un non-ascolto di sé, di fare soltanto da tramite al testo, che ogni volta si reinventa con la voce di ognuno, con le sue particolarità e complessità di tessitura.

Quindi immaginiamoci se fra i gesti quotidiani di condivisione ci inserissimo un: Ti leggo due pagine di questo libro che mi hanno commosso, o m’hanno fatto sganasciare… Facendogliele anche sentire bene. Significa riappropriarsi di un piacere sovrano, così come si chiama conversazione sovrana quando non tentiamo di imporre noi stessi, le nostre idee o la nostra visione ma invece cerchiamo risposte assieme all’interlocutore.
In conclusione, per ottenere il risultato non abbiamo bisogno di qualità particolari, tipo una cosiddetta bella voce, o una dizione perfetta, tanto meno di una voce impostata come quella di molti attori:
1) basta rinforzarsi con l’esercizio (oltretutto man mano si scoprirà che leggere per se stessi a voce alta è un cerimoniale assai piacevole, curativo, nutritivo oserei perfino dire), finché l’abitudine non diventi natura ma senza aver alcun obiettivo se non l’amore per le pagine che si leggono e il piacere di condividerle. Allora si situerà fra le tante cose importanti ma piacevoli, quelle che, come si dice ancora, rendono la vita degna di essere vissuta.
2) abbandonarsi, fidarsi di quelle pagine e di quell’amore, senza paura alcuna di sbagliare. Quindi ancora, il modo di estendere la pratica, per essere sicuri di comunicare sarà quello di esporsi così come si è, senza cercare di essere qualcun altro.

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“La lettura narrativa come resistenza” è stato scritto da giacomo sartori e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Collana Adamàs, La vita felice editore

[Continua quella che vorrebbe essere non tanto un’indagine, ma una ricognizione ragionata e dialogata dell’editoria indipendente di poesia. Abbiamo iniziato con Le Mancuspie, una collana di poesia diretta da Antonio Bux per le edizioni Graphe.it. a. i.]

La Collana Adamàs, La vita felice editore, è diretta da Tommaso Di Dio, Vincenzo Frungillo, Ivan Schiavone. Nel 2023 sono stati pubblicati i libri di Heiner Muller (settembre), Vito Bonito (maggio), Florinda Fusco (maggio), Franco Ferrara (dicembre), di cui presentiamo degli estratti. Nel 2024, sono usciti in febbraio Cinema di sortilegi di Tommaso Ottonieri e 06.010 di Sara Davidovics.

Risposte di Vincenzo Frungillo

Come è nata l’idea di questa nuova collana di poesia?

La collana Adamàs, diretta da Ivan Schiavone, Tommaso Di Dio, oltre che da me, nasce ufficialmente nel 2023 con i primi tre volumi pubblicati (Vito Bonito, Florinda Fusco e Heiner Müller), ma in realtà l’idea di un nuovo spazio per la poesia contemporanea era nei nostri pensieri già da un po’ di tempo. Dopo la scomparsa dell’editore Francesco Forte e la chiusura della casa editrice Oèdipus, era finita anche la meritoria collana Croma K, diretta da Invan Schiavone, quindi ci siamo ripromessi di continuare il lavoro di Ivan con un’altra casa editrice per non disperdere i progetti già in cantiere ed aggiungervi idee e proposte mie e di Tommaso. La vita felice e l’editore Gerardo Mastrullo ci hanno dato quest’occasione e l’abbiamo accolta con entusiasmo.

 

Che regime di produzione avete? Vi soddisfa quello che riuscite a mettere in opera (numero di titoli all’anno)?

Il regime di produzione è piuttosto intenso, in verità. Ci siamo ripromessi di pubblicare nove volumi all’anno con tre titoli in febbraio, tre in maggio e tre in novembre. Direi che siamo soddisfatti anche se la cura dei libri ci impegna abbastanza.

 

Come scegliete i libri che volete pubblicare? Quali sono i criteri che vi guidano? Siete interessato a difendere aree poetiche o correnti specifiche all’interno del panorama contemporaneo?

Nella terna di libri pubblicati abbiamo deciso di inserire un/una autore/autrice straniero/a, magari inedito/a in Italia, anche se abbiamo aperto con la ristampa di Heiner Müller, Non scriverai più a mano, tradotto da Anna Maria Carpi, già edito da Scheiwiller, ma non più disponibile; un/a autore/autrice italiano/a del recente passato che reputiamo importante per le nuove generazioni, ma che non ha ancora lo spazio editoriale che meriterebbe, ad esempio, insieme ad Argo edizioni si è avviato un progetto di ripubblicazione delle opere di Franco Ferrara; e infine un/a autore/autrice italiano/a che reputiamo importante per l’attuale panorama poetico nazionale: finora abbiamo pubblicato Vito Bonito, Florinda Fusco, Tommaso Ottonieri, Sara Davidovics. Il fatto che noi tre curatori siamo anche tre autori piuttosto diversi l’uno dall’altro per poetica, oltre che formatici in tre aree geografiche piuttosto diverse (Napoli, Roma, Milano), ci aiuta ad avere una visione piuttosto ampia dell’attuale panorama. Aiuta inoltre la possibilità che ognuno di noi ha di essere a contatto con contesti poetici internazionali: prossime uscite straniere previste provengono da aree linguistiche differenti (portoghese, tedesco, macedone, americano). Non abbiamo una linea o una corrente privilegiata, come dicevo, veniamo da ambiti differenti e cerchiamo di prendere il meglio di ciò ci sta intorno o che ci viene proposto. Abbiamo però stilato un piccolo testo programmatico in cui abbiamo cercato di dire qualcosa sulle nostre intenzioni. Ne riporta una parte qui di seguito:

“La parola [Adamàs] appare in una celebre poesia di Guido Guinizzelli («Com’adamàs del ferro in la minera») e porta con sé l’idea – che facciamo nostra – di una scrittura che non ponga l’alternativa oziosa fra pensiero e poesia, fra conoscenza, filosofia e arti del linguaggio e della scrittura, ma tenti di portare le prime e le seconde ad un punto di fusione che le renda coese e indistinguibili. E insieme duplice e una sola è la stessa parola “adamàs”: possiamo sì tradurla con “diamante”, ma anche con quella di “calamita”, perché si attribuiva a questo minerale il potere sia di risplendere e farsi trasparente e così rilanciare la luce che lo penetrava, sia quello di attrarre a sé per una forza invisibile e stupefacente il metallo ferroso, opaco, denso e pesante. Così pensiamo debba essere la poesia: da un lato deve portare il ricordo degli strati più sepolti di noi e saper trarre alla superficie il rimosso geologico del nostro vivere sul pianeta terra, dall’altro sapere raccogliere intorno alla propria luce una densità metallica e metamorfica di significati e di atmosfere, di visioni e cosmologie che possano sfuggire all’ipocrita semplicità della più trita comunicazione a cui il l’epoca dello spettacolo ci ha condannato e che sempre più sembra pervasiva, anche nelle scritture che si dicono letterarie”.

Non esiste quindi una corrente poetica di appartenenza ma l’attenzione ad autori e autrici autentici e autentiche che sappiano traferire in un libro di poesia quanto auspicato nel nostro manifesto.

*

Heiner Müller
Da Non scriverai più a mano, 2023

Pellicola nera
Il visibile
Si può fotografare
O PARADISO
DELLA CECITA’
Ciò che ancora si ascolta
È conservato 
TAPPATI GLI ORECCHI FIGLIO
I sentimenti
Sono di ieri Pensato
Non viene nulla di nuovo Il mondo
Si sottrae alla descrizione
Tutto l’umano
Diventa estraneo 
                            
                                     1993
*



Vito M. Bonito
Da Acrobeati, 2023



I


è come sui papaveri esausti
le zanzare
un deliquìo di morte
un iperìo senza più porte

una festa di sangui
di cirrose protervie
banalmente impervie

come a volte
quando scendi da le stelle
o mi del cielo
nel sì del mio sfacelo

tra li papavera belle

	oh! perché perché
	allor ti lingui?

oh! perché?
		ti esangui?

[…]

che? non ti piageva
la smisurata tua doglianza?
la buia lontananza?
la bua senza speranza?
il fior che fragile morì
tra gli usignuoli già in ardore?

non è abbastanza
questo papaverico tremore?

cos’è che non sai?
o è perché te ne vai e vai
e vai alfin laggiù
tra i rrasoi
che rrose non furono mai

luce morte dondolio
oh sine fine addio

beate rrime addio beate
mai state mai neppure nate

voi
spente lampadine
io fervente
senza mutandine


II


ergo la vita è un vuoto esergo
non scritto
		io porto il cimiero in segno di castità
		li nervi bianchissimi dei denti

io mi dentificavo ogni mese
poi mi cariavo
il cimiero non me lo sono tolto
nemmeno da morto

abbiamo tutti paura come i fioretti nel notturno
gelo solo che noi in noi chiudiamo lo sfacelo
ci fanno male gli arti le pupille l’infinita
solitudine prostatica

siamo solo un dolore impertinente
un reuma un’unghia che non cade tra le rrose
						o dove o niente


*


Florinda Fusco
Da Materia osservabile, 2023

1.
Leggera fluttuazione sulla gonna. La maglia fuxia. La chewing gum si gonfia tra le labbra. Piccola 
croce tatuata sulla spalla. Guarda in alto adesso. Verso nord-est. Sembrerebbe un nulla. Ma: una
leggera fluttuazione ha generato un’espansione che ha prodotto materia e ordine: galassie, stelle, 
pianeti.

2.

Ecco la lista delle cose presenti: 
diario, borsetta, cappello a falda ampia, smalto, pillole
Errato: sono cose del passato, di un miliardesimo di secondo fa, il tempo che la luce emessa 
dalle cose impiega a raggiungere gli occhi
Ecco la lista delle cose presenti: 
la luce

*

Franco Ferrara

Da Lettere a Natasha, 2024

 

[…]

il silenzio

ma l’audacia che pongo con questa parola

è (anche) annientamento dalla devastazione

del tempo.

 

(Perché non parli?

dovrebbe allora disorientarmi la solare incautela

cui affido la mia tendenza di essere?)

 

(Ricordi? lo abbiamo detto:

«la gioia è infinitamente ricca, dà, getta via;

la gioia è più assetata, più vigorosa,

più affamata, più terribile, più estrema

                                        di ogni dolore…

implora perché qualcuno prenda; vorrebbe

                                                  essere odiata

tanto è ricca la gioia

                    che è assetata anche di dolore!»)

Per questo, vedi?

sento di trarre nutrimento

anche da questa eccezione al silenzio

che ti offro come una focaccia

di datteri e d’orzo;

(e anche per questo

sento che non posso esimermi dal porre la mano

nella stimma di questa luce).

 

*



___________

“Collana Adamàs, La vita felice editore” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

The Top Italian Scientists and their Journal

Finally, the Top Italian Scientists have founded their own journal and called it the Top Italian Scientists Journal. But who are the Top Italian Scientists? They are the scientists who appear in a ‘do-it-yourself’ ranking called TIS. To be ‘accepted’ among the TIS you must have an h-index of at least 30 according to Google Scholar. The TIS Journal accepts only articles authored by at least a TIS. Its editorial board is extraordinary. There is Salvatore Cuzzocrea, who resigned in October as rector of the University of Messina and president of Conference of the Rectors of Italian Universities (CRUI) over a judiciary investigation into reimbursements for research activities. His articles have been the subject of 158 reports on pubpeer – mostly related to incorrect images- and he has recently gathered 3 retractions. There is Domenico Ribatti, co-author of one of the retracted articles by Paolo Macchiarini, the surgeon sentenced in Sweden “to two years and six months imprisonment after being found guilty of aggravated violence against three of his patients,” featured in the Netflix series Bad Surgeon. Also well represented are former members of the governing board of the national agency for evaluation of research (ANVUR): with a former president and two former board members. It is unfair, however, to dwell on unfortunate cases. Let us then look at the statistics: articles from TIS are retracted or put under scrutiny, for anomalies in images or otherwise, with a frequency far outside the norm. We read the first article published by the journal: more than 60 percent of it literally reproduces pieces of articles already published elsewhere and signed in the vast majority of cases by other authors. It is well known that citation doping is easy, through self-citations or citation exchanges. Even Clarivate has long claimed to exclude from its rankings those whose numbers are too big to be true, for example, those who are overproductive. In the last edition, it deleted the ranking of mathematicians, declaring that it was unable to distinguish between highly cited authentic and farcical ones. As if one year people no longer run the Tour de France because substances invisible to doping tests are circulating. We Italians have uncritically embraced these numerical criteria, making them the heart of the recruitment and promotion system, and the consequences are now visible. Moral of the story: given the company, does it suit one’s reputation to be on the TIS list?

Ringing of fanfares: just as in soccer, a new era is opening for the Italian academy. In soccer, green light for the super league of the strongest and most emblazoned teams that will no longer have to compete with mediocre national teams. In the Italian academy, the super journal of excellent Italian scientists has just arrived. Excellent in what sense? Nobel prizes? More medals? No, bibliometrically excellent. For decades there have been databases that take into account not only the articles published, but also who cites whom. A type of measure that has had many supporters in Italy and that for 10 years has been the basis for the recruitment of professors, regulated by Anvur, the national agency for university and research evaluation. A true panacea to restore the academy of rigged recruitment procedures and nepotism.

Finally, the Top Italian Scientists have founded their own journal and called it the Top Italian Scientists Journal. But who are the Top Italian Scientists? They are the scientists who appear in a ‘do-it-yourself’ ranking called TIS. To be ‘accepted’ among the TIS you must have an h-index of at least 30 calculated on Google Scholar (which means: having written 30 articles that have each received at least 30 citations on Google Scholar).

1. The TIS ranking (and its history).

The Top Italian Scientists ranking was launched by Mauro degli Esposti and Luca Boscolo around 2010 [see here]. There is a public version based on Google Scholar data, and a restricted access version based on Scopus data (to which we do not have access). To date it appears that the sole maintainer is Luca Boscolo (here). The TIS ranking continues to be an entirely opaque object: it is not possible to know what server it is on (whois is covered by privacy), who puts up the resources, how the TIS club is formed, much less how the TIWS women’s club is run.

Parallel to the rankings, a VIA-Academy (Virtual Italian Academy) had been built, which had attempted the establishment of a telematics university [link to news at the time here], which failed before it was born [see here]. VIA-academy’s website has disappeared from the web, but you can visit it here. And you can see the only recent activity we found evidence of here.

Paolo Giudici, a statistician from the University of Pavia, obviously one of the TIS, and Luca Boscolo reconstruct the history of the TIS ranking with an old-fashioned narrative style (interested readers will enjoy the entire article here):

The Top Italian Scientists database started in 2010 when Luca Boscolo got
inspired by an article that gathered a list of 300 Italian academics in Italy and
abroad with the highest scientific impact in any area. To measure the scientific
impact they used the h-index. Luca had the idea to download the entire list of
the academics working for the Italian universities (about 54k people) and for
each of them calculated their h-index using Google Scholar as database. Luca
then extracted a list (about a 1k people) whose h-index was greater or equal
than 30. The result was called “list Top Italian Scientists” (TIS), and a paper
was published displaying a list of the Italian universities ordered by the number
of TIS. The paper was cited by some of the main Italian newspapers such as
La Stampa and it went viral scattering a huge interest in the academic world.
After that, Luca started to get flooded with emails congratulating the work or
indicating someone with h-index ¿= 30 [sic]. After more than 12 years the list has
grown up from a 1k to more than 5.5 k. Nowadays this list is known to all
Italian academics working in Italy or abroad.

If one does not stop at the self-apologetics of TIS, one can verify quite easily that when some politician or journalist has used the TIS ranking, he or she has gotten himself or herself into quite a bit of trouble.

The Lombardy Region used the TIS ranking to select jurors and prize-winners for the Lombardy Prize. Once again, creating bewilderment among journalists and scholars (for a summary see Tiziana Metitieri here and here).

The TIS ranking even elicits hilarity when observed by nonItalians. Here for example Leonid Schneider recalls the role in climbing the ranks of the Iranian paper-mills, organisations dedicated to the production of articles often associated with the sale of authorisations of convenience.

Roars also dealt with the TIS list in 2012 [here] with an article entitled Classifiche incredibili (Unbelievable rankings). The mathematician Alessandro Figà Talamanca caustically commented:

It should be added that as long as the decision on who signs a job is made by the bosses, we will continue to see scientifically disqualified characters on the list of top Italian scientists who are only capable of exploiting the work of young people.

2. Il nuovo Top Italian Scientists Journal

At the beginning of 2024, the Top Italian Scientists Journal appeared on the web [here]. In recent weeks we have saved a few versions on the wayback machines because the site appears to be constantly changing].

The journal purports to be an open access journal (no payment is required to read the articles published there), multidisciplinary (covering all areas of human knowledge except, as I understand it, the humanities). It declares that it adopts a single-blind peer review model: articles before being published are read by anonymous reviewers who are aware of the authors of the articles. To adhere to the principles of the Committee for Ethis in Publications (COPE).

And to adopt an Open Access Gold model: authors of accepted articles pay for publication.

There are, however, several quirks.

Let’s start with the formal ones. The website states that ‘TISJ is not currently live yet’. Who knows what that means. The articles do not have DOIs, but the site informs us that they are pending. There is no indication of when the articles were submitted to the journal and how long the review process took for each one. The articles were all published at very short intervals in the first 15 days of the year and then the publications came to a standstill. The server on which the journal resides is not known. It is not known who the publisher of the journal is, or at least it is not known who and under what legal form holds the ownership rights to the journal and the site. This is information that we do not doubt will be promptly disseminated.

Other oddities are less difficult to remedy. As we anticipated, ‘gold open access’ means that it is the authors who pay so-called APCs (article processing charges) for the publication of their articles. The TIS journal does not charge APCs, but when an article is accepted, authors can make a donation to the journal.

Nowhere could we find any indication of who receives the donation on behalf of the journal or TIS. It costs money to publish a journal (even to acquire DOIs). Who pays for TIS?

But the strangest oddity is that the magazine only publishes articles signed by at least one author who is listed on the TIS list. A kind of golf club magazine in which only members of the club can write. 

To find out that only TIS members can write in the journal, you have to go to the page about formatting papers (!):

3. The editorial board of the TIS Journal

Like any self-respecting journal, the TIS Journal also has an editorial board, composed of course only of members in the Top Italian Scientists classification. The list of board members is constantly growing and changing.

The changes are not insignificant. Suffice it to say that on 8 January, as can be seen here, the journal had an editor in chief: Vito D’Andrea. A week later, the journal no longer had an editor in chief, to date the editor in chief is TIS Enrico Gherlone.

But who are the TISs crowding the editorial board?

There is Salvatore Cuzzocrea, who resigned in October as rector of the University of Messina and as president of the Conference of the Rectors of Italian Universities because of a judicial investigation into reimbursements for research activities (see here). Cuzzocrea holds the record, among board members, for the number of 167 reports on pubpeer. PubPeer is a web platform that allows users to discuss and review scientific research after publication. The site is mainly used as a whistleblowing platform to report misconduct and fraud in scientific literature. In Cuzzocrea’s case, the reports mainly concern incorrect images in articles. His first retracted article

, followed by two others, is dated 18 January 2024.

In second place among board members in terms of the number of pubpeer reports is Alessandra Bitto of the University of Messina, who counts 79, mostly for incorrect images in articles. Alessandra Bitto is co-author of 9 articles that have been retracted. Leonid Schneider wrote about the University of Messina group here and there. Francesco Margiocco wrote about it in the Italian newspaper SecoloXIX.

Members of the editorial board include Roberto Bolli, co-author of Pietro Anversa -also TIS – for whom Harvard University, in 2018 at the end of an investigation asked for the retraction of 31 articles on the use of stem cells for the regeneration of heart tissue . Bolli is co-author of 3 articles retracted by Anversa. (Retraction Watch reports that “Bolli was recently [2019] fired as editor of a journal for making homophobic comments“).

There is Domenico Ribatti one of the co-authors of Paolo Macchiarini, the surgeon sentenced in Sweden ‘to two years and six months imprisonment after being found guilty of aggravated violence against three of his patients’, starring in the Netflix series Bad Surgeon. Ribatti shares with Macchiarini an article in Nature that has been retracted (see here and here), and other 3 flagged on pub pubpeer (over a total of 18 flagged papers).

There is Francesco Trapasso one of the co-authors of cancer researcher Carlo M. Croce who now has at least 14 retractions and lawsuits to his credit, including with his lawyers (see here and in Italiano here and here). Croce, according to the TIS ranking, is the best of the best. Trapasso shares two retractions with Croce. And he also shares two with Alfredo Fusco (see here) .

Among the board members is Arrigo Cicero, who has at least 6 retractions to his credit due to multiple publication of the same paper (see here).

And also Pier Paolo Pandolfi (see here) who has 36 flagged papers on pubpeer.

The board could not fail to include a qualified representation of former ANVUR officers. There is Paolo Miccoli, former president of ANVUR and, thanks to the revolving doors, newly appointed president of the association of telematic universities. Certainly readers of roars will remember the cut-and-paste affair of the ‘theme’ to become a member of the agency.

And there is also Daniele Checchi, a former member of the ANVUR board. He was selected among the TIS thanks to his performance on Google Scholar where he has, as is often the case for economists, 500% more citations than those recorded on Scopus (which would not have allowed him to exceed the mythical threshold of 30!).

4. Rule or exception?

A handful of unfortunate incidents cannot undermine the goodness of an objective criterion such as the one underlying the TIS ranking. You don’t have to look at individual incidents, you have to look at the statistics, and the statistics say TIS is TIS.

We too looked at some statistics for the members of the TIS Journal editorial board. We focused in particular on the reports on pubpeer and in the Retraction Watch database, which contains the metadata of articles that have been subject to retraction, expression of concerns by editors, and corrections.

We photographed the board as of 8 January 2024 and cross-referenced the board members with the data available on the Retraction Watch database and the pubpeer platform. As of 8 January, 157 board members were listed.

Of these, 24 (15.3%) have at least one report on Retraction Watch. The total number of articles reported on Retraction Watch for TIS journal’s board members is 59. This means an average of 0.38 reports per capita. The 157 TIS board members account for 6.2% of Italian reports on Retraction Watch.

To get a more precise idea, let us take the full and associate professors of Italian universities on the same date (10.726+19.616=30.342) and assume that they have an average of 0.38 reports per capita on Retraction Watch. Retraction Watch should contain a total of 11.530 reports from Italian authors. Instead, it contains only 949. This means that the number of reports per capita of Italian academics is 0.03, which is an order of magnitude less than the board members of the TIS journal.

Let us now take the pubpeer data. There are 47 (29.9%) board members who have at least one report in pubpeer. The total number of reported articles is 484: each board member has on average 3.1 reported articles. Again, if Italian ordinaries and associates had the same average, articles by Italian authors would be 93.453.

One possible objection to these figures is that because TIS are the best, they are more visible and therefore subject to more stringent controls. Besides, what counts for a journal is not who is on its editorial board, but the relevance of the articles it publishes.

5. A good morning: the first article in the TIS Journal
We read the first article published by the journal:
Corrado Angelini, Advances and new treatments are available for neuromuscular disorders and affect Quality of Life, Top Italian Scientists Journal 1(1), 2 January 2024

More than 60% of the article literally reproduces parts (mainly abstracts and conclusions) of articles already published in other journals and popular articles available on websites and signed in the vast majority of cases by other authors.

In the pdf below, you can compare the text in the TIS JOURNAL and the articles that have literally identical parts with it.

tis_first paper

6. The moral of the story

It seems to have told the academic world inside out. Those at the top are actually those who stumble the most. It is well known that citation doping is easy, through self-citations or citation exchanges. A problem of us anthropologically cunning Italians? Yes and no.

No, because internationally we have long been aware of the problems with the rankings of highly cited scientists (see here). By now, doping problems can no longer be swept under the carpet even by companies that make bibliometric statistics their main business. The most famous one (Clarivate), which is also decisive for the ARWU ranking, has long claimed to exclude those whose numbers are too big to be true, for instance those who are overproductive. Even, in the last edition, it deleted the ranking of highly cited mathematicians because it found no way to separate dopers from the rest (see here). A bit like not running the Tour de France one year because there are doping substances circulating that are impossible to detect by doping tests.

But it is also a problem for us Italians, because unlike other countries we have embraced these criteria and made them the core of our recruitment and promotion system. So much so that in international statistics the Italian anomaly is clearly visible and puts us on the same level as nations that have also encouraged doping.

Moral of the story. The TIS list is a hall of fame? It is a discreet sign of provincialism to boast of being part of the TIS and to launch a journal without harbouring the suspicion of arriving out of time, when the toy is broken. Whoever is really top, a little bit of a stink should have smelt it, if he or she follows the scientific debate and does not live on top of a pear tree.

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“The Top Italian Scientists and their Journal” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.

Cartoline dal Sud: scrivere l’abbandono

 

 

 

di Valeria Nicoletti

Spira il vento in queste pagine, quello che trasforma, che allontana, ma anche quello che riporta con sé profumi, suoni e memorie di quanto ci si lascia alle spalle. Sono storie “sciroccate”, quindi, in tutti i sensi, quelle che compongono la pregevole raccolta edita da Tamu, dove si radunano dieci penne, una diversissima dall’altra, che tuttavia condividono quel sentirsi scisse, a metà, un po’ tradite e un po’ traditrici della terra che le ha generate.

Nata dal laboratorio di scrittura curato da Ubah Cristina Ali Farah e Claudia Durastanti, che ne firmano anche la prefazione, questa antologia raccoglie storie di separazioni, di migrazioni, interne o internazionali, dove la differenza tra le due è dura da decifrare, narrate da una prospettiva contemporanea e inedita, grazie anche all’età degli autori, tutti tra i venti e i trent’anni, tutti a loro modo sperimentatori di nuove tendenze, forme ma anche contenuti della letteratura attuale. Storie sgualcite da lunghi viaggi e segnate da strappi, da tagli con quel cordone ombelicale che è spesso rappresentato dalla figura della madre, o ancor più, in molti casi, della nonna, dove riaffiora una malcelata ambiguità verso quel sentimento di appartenenza, a tratti ricercato, quasi sempre fuggito.

Memorie che, per scriverle, necessitano il ricorso a una lingua sepolta, abbandonata, a rinominare cose di cui, nel tempo, sembra essere sfuggito il nome. Riemerge allora un idioma sparito, a tratti anche anarchico, con parole materiche, corporee, intime, sgrammaticate sì ma subito riconoscibili nel loro senso più autentico. Ed ecco che, sullo sfondo di paesi appoggiati alla terra “come un neonato sul corpo della madre”, si consumano tragedie che feriscono a morte, nel senso in cui La Capria si faceva mortalmente colpire da quell’indolenza tutta meridionale, perché la terra, quella che si abbandona, è sempre al Sud, che sia quello italiano o quello di altre aree del mondo. Si ritorna e si riallena il corpo a misurarsi con raffiche di vento, cariche d’umidità e temperature dimenticate, ma anche ad affrontare chi, dal paese, se n’è andato pur essendovi rimasto. Un dolorosissimo ritorno al passato, oppure un curioso e originale immaginare un futuro in cui la “grande migrazione al Nord” si sia finalmente compiuta e il mezzogiorno, dopo essere stato discarica e terra dei fuochi, sia stato tramutato in un labirinto di radici, cunicoli sotterranei e rizomi, popolato solo da pochissimi sopravvissuti.

La scrittura diventa allora strumento per cimentarsi e trovare il coraggio di sfidare narrazioni stereotipate su uno strettissimo Sud da cartolina, rigettare finalmente quello scorfano di morantiana memoria, ma anche un modo per ritrovarsi, per rimettersi insieme, per accettare finalmente il fatto di essere tramontana e scirocco insieme, di sbraitare “contro la mia terra perché non mi riguarda più” ma anche di parlarle “sottovoce perché è l’unico posto a cui assomiglio e l’unico a cui so assomigliare”. Sono storie, queste, di chiusura del cerchio, ma anche, come dice Claudia Durastanti, di “schiusura”, dove il guscio finalmente si rompe.

Storie che “terminano esattamente quando devono iniziare”, come scrive una delle autrici, per lasciare al respiro altro tempo e altro spazio e continuare la ricerca. Per fare, di questa antologia, una compassionevole ed eterogenea “opera aperta” che il lettore, anch’egli, come tutti, sicuramente segnato dalle sue migrazioni, potrà completare.

AA.VV., Sciroccate, Tamu edizioni, 2023, 212 pagine, 16 euro.

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“Cartoline dal Sud: scrivere l’abbandono” è stato scritto da ornella tajani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

“Una fitta rete d’intrecci”: su “Agatino il guaritore” di Massimiliano Città

 

di Daniele Ruini

Si suol dire che tutte le cose, tutte le verità
hanno due facce diverse o contrarie, anzi infinite
(G. Leopardi)

Ad un certo punto, lungo la statale che collega Montepicozzo Marittima a Boschetto (frazione di Vallombrina), si può scorgere una biforcazione: due stradine subito nascoste da una vegetazione lasciata crescere nella più totale incuria, dove «la mano casuale della natura ha disegnato, nel corso degli anni, una fitta rete d’intrecci ascendenti tale da non permettere, neanche a un minimo bagliore del cielo, di filtrarci attraverso». Non che la prima stradina, che si conclude in una piazzola scenario di incontri notturni, non offra materiale da romanzo; ma il narratore ci avvisa che non è in quella direzione che gli interessa procedere: sarà invece lungo la seconda strada che accompagnerà il lettore, alla scoperta di una «modesta abitazione» in cui risiede il protagonista eponimo della sua storia.

Non sembri ozioso aver voluto dare rilevanza a tali dettagli; il fatto è che è proprio nella pagina iniziale che si manifestano alcuni dei tratti caratteristici dell’ultimo romanzo di Massimiliano Città, “Agatino il guaritore” (Il ramo e la foglia edizioni). L’opera si nutre infatti di un potenziale narrativo per così dire sempre aperto a nuove possibili aggiunte, in un intreccio di sviluppi e biforcazioni potenzialmente infinito. Quello di Città è un romanzo corale, in cui intorno al protagonista ­– un presunto santone su cui girano tante voci e che da anni presta i suoi servizi ai bisognosi della zona– ruotano i destini di vari personaggi che ad un certo punto si incrociano con il suo.

E nel raccontare tutto questo l’autore sembra porsi nella stessa prospettiva della chiacchiera paesana: quelle tramandate nella vallata erano infatti storie «intrecciate», tali per cui «iniziavi a parlare di qualcuno e finivi distante una decina di chilometri a parlare delle sventure di altri, da anni lontani dagli occhi».

Facendo continuamente avanti e indietro nel tempo, il narratore ci presenta una compagine di vicende che, sullo sfondo di una provincia siciliana tagliata fuori dalla modernità, descrivono esistenze sofferte: una donna, un tempo indipendente e ambita, costretta a cedere la nipote; un ludopatico pieno di debiti; una figlia che non può più sopportare le sofferenze del padre malato terminale; un giovane calciatore che si vende le partite e che, diventato avvocato e piccolo imprenditore, desidera intraprendere una carriera politica; due genitori disperati per la cecità del loro neonato; un ragazzo, senz’arte né parte, che desidera fare il giornalista. Sono miserie di varia natura rispetto alle quali Agatino agisce come una calamita: la sua specialità è proprio quella di districarsi «in quel crogiolo di voci, facce, nomi ed esperienze» dei suoi questuanti e di vendere loro una soluzione o anche solo un barlume di speranza.

L’aura di mistero intorno ad Agatino dipende anche dal vuoto di notizie sul suo passato: nessuno sa di dove sia originario, e assai poco si conosce della sua vita precedente. Il poco che emerge dalla sua infanzia, passata in balia di una madre prepotente che non lo ho mai desiderato e che lo ha presto allontanato da sé, basta però a farci comprendere come alla base della sua remunerativa attività, in cui convivono conforto e raggiro, vi sia proprio quell’abbandono sofferto da piccolo. In questo senso la citazione da Niels Bohr posta dall’autore in esergo al suo libro, in cui si dichiara che la coesistenza degli opposti è la cifra delle verità più profonde, rimanda all’ambiguità che circonda le imprese di Agatino. Non sorprende allora che a (s)travolgere il protagonista del romanzo sarà proprio l’occasione miracolosa in cui si rivelerà capace –con suo sorpreso sconcerto– di donare a qualcuno la gioia più grande della sua carriera.

Dimostrando un’ammirevole padronanza narrativa e stilistica, Massimiliano Città ci guida con la sua scrittura raffinata in un labirinto fatto di tante storie e molteplici personaggi (molti dei quali portano, come il protagonista, un diminutivo nel nome). “Agatino il guaritore” è l’esito felice di un narratore ispirato che descrive parabole umane disperate – parabole che conducono a un venditore di speranza il cui business si basa su un postulato difficile da contestare: «Pensiamo d’esserci evoluti per il fatto di conoscere causa ed effetto dei fulmini e dei tuoni che dall’orizzonte s’avvicinano alle nostre case, ma una paura ancestrale c’è rimasta dentro le ossa».

 

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““Una fitta rete d’intrecci”: su “Agatino il guaritore” di Massimiliano Città” è stato scritto da ornella tajani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Premio Tirinnanzi 2024

Il Comune di Legnano e la Famiglia Legnanese, per ricordare il poeta Giuseppe Tirinnanzi (Firenze 1887 – Legnano 1976), indicono la quarantaduesima edizione del Premio di Poesia Città di Legnano – Giuseppe Tirinnanzi.

Il premio si divide in tre sezioni:

a) Lingua italiana

b) Legnano città 1924-2024

c) Premio alla carriera

La partecipazione è libera e gratuita.

a) Sezione Lingua Italiana. Solo per libri editi nell’ultimo biennio.

Si partecipa inviando quattro copie di un libro di poesia stampato tra il 1° gennaio 2022 e il 30 aprile 2024. I 4 volumi, corredati da breve biobibliografia, dati anagrafici e recapito dell’autore/autrice, nonché dalla dicitura “Partecipa al Premio Tirinnanzi 2024”, vanno inviati entro il 30 aprile 2024 (fa fede il timbro postale) al seguente indirizzo:

Segreteria Premio Tirinnanzi c/o Fam. Legnanese, C.P. 71 – 20025 Legnano Centro (Milano).

La Giuria Tecnica, composta da Franco Buffoni (Presidente), Uberto Motta, Fabio Pusterla e assistita dal Presidente della Famiglia Legnanese o da un suo delegato, dal Sindaco di Legnano o da un suo delegato, da un membro della Famiglia Tirinnanzi e dal Segretario Luigi Crespi ([email protected]), sceglie tre libri i cui autori/autrici saranno invitati alla cerimonia di premiazione che si terrà a Legnano sabato 23 novembre 2024 h 16.45 presso il Teatro Tirinnanzi, piazza IV Novembre 4, Legnano (Mi). Ciascuno/a dei tre finalisti riceverà un premio in denaro di euro 1.500. Non sono ammesse deleghe. In caso di forzata assenza il/la finalista rimarrà tale, ma non riceverà alcun premio in denaro. Alcuni testi di ciascun/a finalista saranno stampati nel programma di sala. Nel corso della cerimonia ciascuno/a dei/le tre finalisti/e sarà intervistato dal Presidente della Giuria e verrà invitato/a a leggere le poesie stampate nel programma di sala. Al termine, la Giuria Popolare esprimerà su apposita cartolina il proprio voto decretando il/la vincitore/vincitrice, che riceverà un ulteriore premio di euro 2.500.

Tra i libri pervenuti per la Sezione Lingua Italiana la Giuria premierà anche con euro 1.000 un’opera prima o comunque l’opera di un/una giovane poeta.

 

b) Sezione Legnano Città 1924-2024. Si partecipa inviando un solo testo di max 6mila battute spazi inclusi, in prosa o in poesia, edito o inedito, in italiano o in un dialetto di ceppo lombardo, in quattro copie, corredato da breve biografia, dati anagrafici e recapiti dell’autore, nonché dalla dicitura “Partecipa al Premio Tirinnanzi 2024”, entro il 30 aprile 2024 (fa fede il timbro postale) all’indirizzo sopraindicato. L’argomento è “Legnano Città” e può toccare tutti i possibili aspetti della storia di Legnano: storici, culturali, artistici, industriali, commerciali, naturalistici, ecologici ecc.

Tutti/e i/le partecipanti riceveranno un attestato commemorativo del Centenario della Città.

La Giuria sceglierà un/una vincitore/trice che sarà premiato/a alla cerimonia di premiazione presso il Teatro Tirinnanzi, piazza IV Novembre 4, Legnano sabato 23 novembre 2024 h 16.45, e riceverà un assegno di euro 2.000. Non sono ammesse deleghe. In caso di forzata assenza il vincitore/la vincitrice rimarrà tale, ma non riceverà alcun premio in denaro.

Seguirà una festa del dialetto milanese con il poeta e performer Davide Ferrari che reciterà testi della grande tradizione da Carlo Porta a Delio Tessa a Franco Loi.

c) Premio alla Carriera della Fondazione Tirinnanzi. Già assegnato nel 2010 a Luciano Erba, nel 2011 a Franco Loi, nel 2012 a Giampiero Neri, nel 2013 a Giorgio Orelli, nel 2014 a Vivian Lamarque, nel 2015 a Milo De Angelis, nel 2016 a Valerio Magrelli, nel 2017 a Maurizio Cucchi, nel 2018 a Biancamaria Frabotta, nel 2019 ad Antonella Anedda, nel 2020 a Giuseppe Conte, nel 2021 a Umberto Fiori, nel 2022 a Dacia Maraini, nel 2023 a Eugenio Finardi, il Premio alla Carriera di euro 4.000 verrà assegnato a un/una autore/autrice di chiara fama che si sia particolarmente distinto/a nella propria ricerca linguistica, tematica e nell’impegno civile. In caso di forzata assenza il/la vincitore/vincitrice rimarrà tale, ma non riceverà alcun premio in denaro.

Ai sensi del Regolamento UE 679/2016 e del D.Lgs. 196/2003 e s.m.i., i/le concorrenti autorizzano la Segreteria al trattamento dei propri dati personali forniti per la partecipazione al Premio, per tutte le finalità connesse alla gestione dello stesso. Con la partecipazione i/le concorrenti danno atto di aver letto l’informativa di cui all’art. 13 del citato Regolamento UE, pubblicata sul sito Internet www.premiotirinnanzi.it.

La partecipazione costituisce implicita accettazione delle norme del bando. Per quanto non previsto valgono le delibere della Giuria, il cui giudizio è insindacabile.

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“Premio Tirinnanzi 2024” è stato scritto da renata morresi e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Discorso di Capo Orso Scalciante

a cura di Silvano Panella

Introduzione

Versione di Silvano Panella del discorso che
Capo Orso Scalciante pronunciò nel 1890. Orso
Scalciante (1845-1904) fu un grande capo dei nativi
americani Miniconjou (Lakota Sioux). Il suo nome in
lingua lakota è Matho Wanahtaka.

Il discorso

Fratelli, vi prometto che un giorno nessun uomo
bianco poserà più la mano sui nostri cavalli. Vi
prometto che un giorno l’uomo rosso della prateria
dominerà di nuovo il suo mondo e nessuno lo
allontanerà più dai terreni di caccia. I fantasmi dei
vostri padri mi hanno detto che desiderano unirsi a voi
guidati dal messia che già venne una volta per vivere
su questa terra ma fu ucciso dagli uomini bianchi. Io
ho visto le meraviglie della terra degli spiriti. Ho
parlato con loro. Ho viaggiato a lungo. Ora sono
tornato per avvertirvi che presto ci ricongiungeremo
con i fantasmi dei nostri padri e con il messia.
Sedici lune fa uscii fuori dal mio tipì nella riserva
Cheyenne e mi preparai per il viaggio perché avevo
avuto una visione. Accadde subito dopo la semina del
grano. La voce nella visione mi aveva ordinato di
incontrare i fantasmi perché essi desideravano tornare.
Viaggiai sul treno dei bianchi fino al punto in cui la
ferrovia si interrompe. Qui incontrai due uomini rossi
che non conoscevo ma che mi salutarono come un
fratello. Mi offrirono carne e pane. Avevano tre
cavalli, uno era per me. Cavalcammo per quattro
giorni senza mai parlare, sapevo già che quegli uomini
sarebbero stati i testimoni della mia esperienza. Due
soli erano già tramontati, avevamo superato gli ultimi
segni della civiltà bianca quando incontrammo un
uomo nero d’aspetto fiero, vestito di pelli. Viveva da
solo e le sue medicine avevano un grande potere.
Agitava le mani e comparivano sacche di soldi,
agitava le mani e comparivano carri colorati, agitava le
mani e comparivano mandrie di bisonti. L’uomo nero
ci disse che era nostro amico, potevamo restare con lui
e prendere quel che volevamo, denaro, carri, bisonti.
Non restammo e proseguimmo per altri due giorni.
La sera del quarto giorno, sfiniti dal viaggio,
cercammo un luogo dove accamparci. Incontrammo
un uomo vestito come un indiano ma con i capelli
biondi. Aveva un volto piacevole e le sue parole mi
rallegravano e non pensavo più alla fame, non pensavo
più alla stanchezza. Egli disse che il nostro lungo
viaggio ci aveva condotti a lui e ora dovevamo lasciare
i cavalli e seguirlo a piedi. Così facemmo. Mentre
camminavo provavo un gran senso di serenità. A un
certo punto il sentiero in salita nella foschia divenne
proprio un sentiero di nuvole che ci portò in cielo.
Fratelli, la mia lingua è dritta e non riesce a rivelare
tutto quello che vidi, non sono più un oratore ma un
messaggero degli spiriti. L’uomo che seguimmo ci
portò al cospetto del Grande Spirito e di sua moglie.
Erano vestiti da indiani. Ci prostrammo e da una
apertura del cielo vedemmo tutte le terre e tutti gli
accampamenti dei nostri antenati. C’erano i tipì e
c’erano i fantasmi dei nostri padri, c’erano grandi
mandrie di bisonti e tutti erano felici perché l’uomo
bianco non era ancora arrivato. L’uomo che avevamo
seguito ci mostrò le sue mani ferite, i suoi piedi feriti,
erano i segni lasciati dagli uomini bianchi che lo
crocifissero. Ci disse che sarebbe tornato sulla terra
ancora una volta, ci disse che sarebbe rimasto a vivere
con noi, con gli indiani. Eravamo noi il popolo che
aveva scelto stavolta. Sedemmo davanti al tipì del
Grande Spirito, su pelli di animali a me sconosciuti. Ci
venne spiegato come recitare le preghiere ed eseguire
le danze. Vi mostrerò come si fa. Poi il Grande Spirito
parlò:

Porta questo messaggio ai miei figli rossi, ripetilo
parola per parola. Ho trascurato gli indiani per molte
lune, ora se mi obbediranno li renderò il mio popolo.
La terra sta invecchiando. La renderò nuova per voi,
per voi e per i fantasmi dei vostri padri, delle vostre
madri, dei vostri fratelli, dei vostri cugini, delle vostre
mogli. Lo farò per tutti quelli che accoglieranno le mie
parole. Coprirò la terra con nuova terra, coprirò i
bianchi malvagi e le cose malvagie, e tutto quel che
esiste di cattivo verrà sepolto. Sulle nuove terre ci
saranno prati, alberi, fiumi. Bisonti e cavalli
correranno liberi e gli uomini potranno bere, mangiare,
cacciare ed essere felici. Renderò invalicabili i mari
affinché le navi di chi intende conquistare le terre
altrui non potranno mai più passare. Mentre farò tutto
questo voi danzerete e pregherete, vi alzerete in cielo e
quando sarà tutto pronto tornerete sulla terra e sarete
assieme ai fantasmi dei vostri antenati. Chi dubiterà
del mio messaggio verrà lasciato in brutti luoghi dove
vagherà perdutamente finché non crederà e imparerà le
preghiere e le danze. Io sottrarrò agli uomini bianchi il
potere della polvere da sparo affinché quando
spareranno di nuovo su di voi le loro armi si
bruceranno. Soltanto chi crederà avrà armi che
funzionano, armi da usare sugli uomini malvagi. E se
pure un uomo rosso verrà ucciso mentre danza, il suo
spirito si unirà ai fantasmi dei suoi antenati e tornerà
sulla terra assieme a loro. Andate, ora. Dite a tutti di
prepararsi per la venuta dei fantasmi.

Ci venne offerto cibo dolce, squisito. Mentre
mangiavamo arrivò un uomo molto alto, molto magro,
con grandi denti, i capelli corti. Capimmo subito che
era uno spirito maligno. Questa creatura si rivolse al
Grande Spirito e disse: voglio metà degli abitanti della
terra. Il Grande Spirito rispose: no, non posso darteli,
li amo troppo. Lo spirito maligno ripeté la richiesta,
ma ottenne soltanto un altro rifiuto. Poi chiese una
terza volta. Il Grande Spirito disse che avrebbe potuto
lasciargli gli uomini bianchi. Noi no, oramai ci aveva
scelto come suo popolo. Lo spirito maligno scomparve
e io pensai che perfino lui non volesse avere niente a
che fare con gli uomini bianchi.

Ci furono mostrate le danze, ci furono insegnati i
canti. Poi fummo accompagnati giù. Ritrovammo i
nostri cavalli. Tornammo alla ferrovia. Il messia ci
seguì in cielo per insegnarci altri canti. Poi ci disse di
tornare dalla nostra gente, di riferire tutto quello che
avevamo visto, di insegnare quanto avevamo appreso.
Ci promise che sarebbe rimasto sulla terra per guidare
i fantasmi dei nostri padri fino a noi.

Questa versione si rifà alla trascrizione in lingua inglese che si trova nel volume di memorie My Friend the Indian (1910) dell’agente agli affari indiani James McLaughlin (1842-1923).

Foto di Eszter Miller da Pixabay

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“Discorso di Capo Orso Scalciante” è stato scritto da davide orecchio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Bioeconomics (Georgescu Roegen) vs bioeconomy: i miti del riciclo completo della materia e dell’onnipotenza delle tecnologie

di Alberto Berton

I passi che seguono sono tratti – per maggiori dettagli si veda la nota finale – da “La storia del biologico. Una grane avventura” di Alberto Berton, Jaca Book (NdR)

Nonostante alcuni deboli tentativi di fare della bioeconomics di Georgescu-Roegen la base teorica della bioeconomy[1], l’impostazione dell’economista rumeno resta fondata su una ‘visione del mondo’ che non ha nulla a che vedere con la bioeconomia com’è oggi comunemente intesa. Come si diceva all’inizio, un caso emblematico, quello della bioeconomia, in cui l’uso del suffisso bio genera grandi confusioni[2].
Per quanto riguarda l’agricoltura, ad esempio, la bioeconomics di Georgescu Roegen sviluppa delle analisi e conduce a valutazioni diametralmente opposte a quelle su cui si basa la bioeconomy. Vediamo in che senso.
Per prima cosa, in termini molto generali, per Georgescu-Roegen, nonostante l’importanza vitale di ogni forma di riciclo e di utilizzo di energia e materiale di origine rinnovabile, l’economia umana non riuscirà mai ad affrancarsi completamente dall’attività mineraria, anche solo per la nostra dipendenza dall’estrazione di minerali ad alto contenuto di metalli e di altri materiali utili, nonché per l’impossibilità del riciclo completo della materia. Matter matters too, anche la materia conta, amava scrivere Georgescu-Roegen per ricordare l’importanza del problema dell’esaurimento delle miniere di metalli e di rocce fosfatiche in un contesto dominato dall’problema dell’energia. In agricoltura questa dipendenza è divenuta sempre più evidente nel corso del tempo a causa della nostra evoluzione esosomatica che ci ha portato, ad esempio, dai primi falcetti in legno e selce alle gigantesche mietitrebbiatrici.
Proprio nella conferenza del 1972 alla Yale University a cui si faceva prima riferimento, Georgescu-Roegen affrontò il problema dell’analisi delle diverse forme di agricoltura da un punto di vista bioeconomico.  Secondo l’economista rumeno l’industrializzazione dell’agricoltura, basata sulla sostituzione del lavoro umano e di quello animale con i macchinari a motore termico, nonché con la sostituzione del letame e delle rotazioni con i fertilizzanti di sintesi e i pesticidi, ha effettivamente permesso un aumento significativo della produzione agricola mondiale, ma questo tipo di sviluppo agricolo, nel contempo, ha comportato la sostituzione di risorse rinnovabili di origine solare abbondanti con risorse non rinnovabili di origine terrestre, scarse ed esauribili.
Grazie all’agricoltura industriale, l’umanità è riuscita ad incrementare in modo rapido e considerevole la produzione di cibo su una data superficie agricola, ma questa intensificazione di un processo in ultima analisi fotosintetico, è stata raggiunta grazie ad un aumento più che proporzionale del consumo di risorse non rinnovabili, che sono quelle veramente critiche data appunto la loro scarsità, la loro non riproducibilità e la loro esauribilità.
Georgescu-Roegen, inoltre, considerando il fatto, accertato empiricamente, che tutti i fattori produttivi in agricoltura hanno rese fortemente decrescenti, ovvero che all’aumentare dei livelli di produzione l’incremento delle rese si ottiene solo grazie a un incremento sempre maggiore del consumo di risorse, giunge alla conclusione che l’agricoltura moderna, basata soprattutto  su fattori produttivi di origine terrestre piuttosto che su quelli di origine solare, è una energy squanderer, ovvero una sperperatrice di energia fossile. Per questa ragione, l’aumento delle produzioni agricole attraverso un’agricoltura sempre più meccanizzata e basata su un sempre maggiore uso di fertilizzanti e pesticidi di sintesi, rappresenta una strategia che in una prospettiva di lungo periodo va contro i più elementari interessi bioeconomici della specie umana.

La diseconomia dell’agricoltura industriale, orientata alla massima resa immediata, secondo Georgescu Roegen «è particolarmente pesante nel caso delle varietà a resa elevata che hanno fatto vincere al loro creatore, Norman E. Borlaug, il premio Nobel»[3]. Queste varietà sono capaci di produrre anche il doppio delle colture tradizionali, ma solo a condizione di un uso massiccio di fertilizzanti, pesticidi, diserbanti, sistemi di irrigazioni e macchine agricole, ovvero di un uso intensivo di fattori produttivi non rinnovabili. Sementi di varietà ad alta resa, fertilizzanti di sintesi, pesticidi e diserbanti chimici, macchine agricole, pompe idrovore e combustibili rappresentarono difatti il ‘pacchetto’ che venne promosso a livello globale dalla Fondazione Rockfeller e dalla Fondazione Ford per dare avvio alla Rivoluzione verde.
Quando Georgescu-Roegen espose pubblicamente queste sue argomentazioni (1972), a Norman Borlaug, padre riconosciuto della Rivoluzione verde, era stato da poco (1970) attribuito il Premio Nobel per la Pace grazie al suo impegno nella lotta contro la fame attraverso la creazione delle varietà di ‘grano nano’. Per certi versi simili alle ‘varietà élite’ create dal nostro Nazareno Strampelli durante l’epoca fascista, questi grani molto bassi sono capaci di crescere senza ripiegarsi su sé stessi, o, come si dice correttamente, senza allettare, pur utilizzando massicce dosi di fertilizzanti azotati. È probabile che le critiche dell’economista rumeno al lavoro di Borlaug non siano state recepite con piacere all’interno della Fondazione Nobel che mai, come ho anticipato, attribuì l’importante onorificenza a Georgescu Roegen, nonostante i suoi fondamentali contributi alla scienza economica standard e nonostante la sua originale visione della bioeconomia.
Secondo Georgescu-Roegen, riassumendo, l’agricoltura moderna è una sperperatrice di risorse e «se la produzione di cibo tramite complessi agro-industriali divenisse la regola generale, molte specie connesse con l’agricoltura organica all’antica potrebbero gradualmente scomparire, una conseguenza che forse condurrebbe il genere umano in un vicolo cieco ecologico senza possibilità di ritorno»[4] E’ quindi presente nel pensiero dell’economista rumeno la stessa preoccupazione che troviamo in Nikolai Vavilov e Girolamo Azzi per l’erosione genetica causata dalla diffusione delle nuove varietà ad alta resa.

Come vuole farci capire Georgescu-Roegen, l’eccezionale capacità fotosintetica dell’agricoltura industriale è raggiunta grazie ad un consumo ancor più eccezionale di risorse non rinnovabili (gas, petrolio, suolo fertile), risorse che sono scarse (e quindi oggetto di studio dell’economia) non solo in quanto limitate (come la superficie di terra arabile), ma anche in quanto esauribili e non riproducibili (come lo sono i giacimenti di petrolio, gas naturale e in parte anche il suolo).
Dato che il genere umano per ‘nutrire il pianeta’, o, più correttamente, per nutrire sé stesso, ha bisogno oggi – come avrà bisogno domani – anche delle risorse che giacciono sotto la crosta terrestre, l’’economia nel tempo’ dell’uso di queste risorse non rinnovabili è il problema bioeconomico più importante. Tale problema, che rappresenta anche un problema di giustizia intergenerazionale, tende ad essere normalmente aggirato sulla base di quelli che Georgescu-Roegen definì ‘miti economici’, quali il mito delle infinite possibilità della tecnologia, il mito della possibilità della sostituzione infinita di una risorsa esauribile con un’altra o il mito del riciclaggio completo della materia. In questo senso, anche la bioeconomia così come viene attualmente intesa, ovvero la prospettiva di una economia interamente basata sul flusso di risorse rinnovabili, sulle infinite possibilità dell’ingegneria genetica e sul riciclo completo delle risorse di origine terrestre, quindi un’economia perfettamente sostenibile, in grado addirittura di crescere indefinitamente nel tempo attraverso – nella sostanza – l’incremento dell’intensificazione dell’attività fotosintetica e della velocità di riciclo della materia organica, ha tutte le caratteristiche del  mito economico.
Per Georgescu-Roegen, una volta smascherati i vari miti economici, e preso atto dell’ineluttabile carattere entropico del processo economico, la questione cruciale per quanto concerne l’agricoltura, non consiste solo nel determinare quanto cibo può produrre un certo sistema agro-alimentare ma anche per quanto tempo questo può mantenere certi livelli di produzione.

È evidente, come è stato sottolineato da più parti, che l’obiettivo dell’ulteriore intensificazione produttiva, in assenza di un reale cambiamento nei modelli di produzione, di trasformazione, di distribuzione e di consumo, non può rappresentare la strategia più corretta, ai fini di raggiungere l’obiettivo, questo sì condivisibile, di una maggiore sostenibilità presente e futura dei sistemi agro-alimentari.
A livello di campo, non si tratta tanto di scegliere tra un’agricoltura intensiva ed un’agricoltura estensiva; quest’ultima tra l’altro, in molte situazioni, risulta oggi impraticabile dati i livelli di popolazione raggiunti e la conseguente pressione sulle terre coltivate. La scelta non potrà che essere tra un modello agro-industriale più intensivo di risorse non rinnovabili (macchine sempre più potenti ed energivore, fertilizzanti, pesticidi e erbicidi di sintesi) e un modello agro-ecologico più intensivo di risorse rinnovabili (macchinari e sistemi a energia rinnovabile, lavoro umano e animale, sostanza organica), avendo ben chiaro che il primo modello avrà sempre nell’immediato maggiori rese del secondo, ma alla lunga – dando a questo termine un’estensione necessariamente indeterminata –si rivelerà meno sostenibile, producendo complessivamente di meno.

[1] Cfr. M. Bonaccorso, Inside the World Bioeconomy. The Bio-revolution has just begun, Il Bioeconomista Publisher, Milano, 2014., p.15 e B. Croce, S. Ciafani e L. Lazzeri, Bioeconomia. La chimica verde  e la rinascita di un’eccellenza italiana, Edizioni Ambiente, Milano, 2015, p. 22
2] A. Berton e G. Nebbia, Dialogo sulla bioeconomia op. cit.
[3] Ibidem
4] Ibidem

 

NdR: i passi che precedono sono tratti dal sottocapitolo “Biologico e bioeconomia” del volume “La storia del biologico. Una grane avventura” dell’economista e grande esperto dell’agricoltura biologica Alberto Berton, pubblicato da Jaca Book (2023), e con una prefazione dello storico Piero Bevilacqua. L’autore si interessa da tempo all’opera di Georgescu Roegen, sul quale ha svolto una tesi. Più in generale questa sua storia del movimento biologico rappresenta il quadro più completo e approfondito sull’argomento ad oggi esistente, anche considerando il campo internazionale. Nella sua stringatezza e relativa brevità è quindi un lavoro molto importante, che consiglio a chi voglia farsi un’idea al di là di tutti i luoghi comuni e le controverità che circolano su questi temi. Mi piacerebbe comunque tornarci sopra.

 

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“Bioeconomics (Georgescu Roegen) vs bioeconomy: i miti del riciclo completo della materia e dell’onnipotenza delle tecnologie” è stato scritto da giacomo sartori e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

La vera storia della banda Hood: ecco il booktrailer

Quella di Robin Hood è senz’altro una delle leggende più longeve di ogni tempo. È intramontabile, perché la sua figura richiama subito la riparazione dei torti sociali, la vendetta di classe, la ridistribuzione della ricchezza, la reazione dei poveracci al dominio dei potenti, la creazione di una microsocietà autarchica, basata su regole proprie. Robin Hood […]

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“La vera storia della banda Hood: ecco il booktrailer” è stato scritto da Wu Ming e pubblicato su Giap.

Carlo Ragliani: “La carne”

 Intervista a Carlo Ragliani

a cura di Lucrezia Lombardo

 

L.L.:          È uscita a gennaio 2024, con l’editore Ladolfi, la raccolta “La carne”, un testo complesso, in cui il linguaggio pare oltrepassarsi di continuo, esprimendo – come in un dipinto – la fatica di corpi che combattono, sentono, cadono…
Questa restituzione del linguaggio poetico ad una dimensione materiale e incarnata è uno degli aspetti che più mi hanno colpito, leggendo il tuo testo.
Vorrei pertanto domandarti, com’è nato il titolo
“La carne”? Perché questa scelta visiva?

 

C.R.:          In un tempo come quello che ci tocca in sorte, in cui lo zeitgeist mostra il proprio strabismo nell’assolvere plenariamente e condannare senz’altro questa nostra materialità sia nel suo pudore che nel suo svelarsi, mi è sembrato sensato recuperare il senso carnale come destinazione della parola poetica. Moriremo tutti nella nostra cella.

Il titolo del testo mi si è mostrato alla luce dell’unica cosa che resti da fare: non più concedersi alla sterile contemplazione della parola in astratto, che mi sembra allontanare vita e viventi in una catarsi dalle volute tanto ampie da essere irrealizzabile; e nemmeno spendersi nell’ammirazione di un ambito più vago che si manifesta, per questo, incorporeo e deresponsabilizzante.

Nell’ora in cui di più l’umanità è separata dalla propria anima, il mio ploro è questo: si riscopra la profanazione. Si recuperi la sacertas che si fa nella parola come violazione della legge della bellezza, dell’eccelsa bellezza, e quella concretezza tremenda ed infesta che non può che materializzarsi nella tensione al basso, al ripugnante, all’immondo, all’indecente materia che sopporta e profetizza lo splendore mortale ed il suo cruccio.

Deinde la carne come centro di imputazione dell’oscenità, la carne come il corpo del reato, la carne come dimensione fisica in cui si agglutina l’esperienza del tragico sublime, la carne come scandalo del peccato, la carne del sovrano assediato, la carne del monarca detronizzato.

La carne del nazzareno in cui si manifesta come vergogna immensa la morte del dio che in questi si calava.

La carne rinnovata, la carne demonizzata. La carne ingannata, la carne tradita.

La carne eretica che partecipa alla dimensione del divino non più come mistica passiva e sterilizzata; ma come attante immediato dell’arcano, officiante alla cerimonia che si celebra ad Eleusi.

La carne sconsacrata, e vendicativa di sé stessa in un ganglio vitale denso di senso e significato, di cupore fondo e quindi tanto più intimo quanto più oscuro.

La carne inonorata, risemantizzata nella catabasi orfica finalmente esiziale, pregna della propria ombra autentica e concreta; di contro al dilagare di una luce immateriale, rarefatta, e priva di un senso che smargini l’autoreferenzialità.

Ecco, questo mi sembra interessante. Non un cielo che gira le spalle nel momento in cui gli si rivolga lo sguardo.

 

L.L.:          La silloge si apre con versi che trafiggono e che annunciano l’inammissibilità – dal punto di vista umano e, quindi, dal punto di vista della nostra carne – della morte. Scrivi infatti che “non saremo mai / muti quanto basta / per scendere / nel gorgo / per spingere / la carne / nel sepolcro…”. Possiamo dire che il motivo centrale della silloge è la contraddizione insanabile e inconcepibile del rapporto che lega vita e morte?

 

C.R.:          Io non penso che vi sia contraddizione fra morte e vita. Anzi, credo coscientemente che la prima sia la premessa, nonché prosecuzione naturale, della seconda; e mi riservo di poter dire che fra le due non possa coesistere altro che un rapporto di reciproca sineddoche.

Al più può presentarsi una incoerenza in astratto fra la vita redenta e la morte, perlomeno secondo me, e se si prende in esame la prospettiva religiosa cristiana, stante la salvezza. E tale è poi il dubbio che ha dato vita al testo, ossia quello riguardante ogni mia congettura alla teodicea.

Questo, e l’impossibilità concreta di raggiungere una conclusione che sia da ritenersi più attuale del dover pazientemente sopportare le angherie di una vita – evidentemente – irredimibile, in vista di una auspicata perpetuità.

Possiamo piuttosto dire che il motivo centrale dell’opera sia una rivalutazione della teoria chenotica, (come ne dirò a stretto giro), dal momento che ogni tentativo che faccia fronte al nulla che si staglia dal Golgota ricade necessariamente nella gabbia quinziana in cui si contorce il pensiero esistenzial-fideista.

Se la discesa del celeste nell’umano non conduce ad altro che alla carnalità, dunque è altrettanto vero che all’aspettativa secolarizzata si assomma la colpa serena di essere ciò che siamo, botri e vette comprese.

Ma che esista ancora il male, e la morte, a seguito della redenzione, e dopo la resurrezione, mi sembra più testimoniare un fallimento che un trionfo. Posto poi che lo scollamento fra vertigine e abisso sia il senso più intimo del testo che precede quest’ultimo, mi sembra di poter asserire coscientemente che “La carne” si concentri sulla dimensione visibilmente tangibile della nostra perimetrazione fisica, e non solo.

Ma, sia ammesso, in sei anni molte cose son cambiate e molte altre son state caducate. E l’incredulità alle promesse si è concentrata alla diffidenza, al dubbio, all’incapacità di poter desiderare altro che l’epilogo di attesa e felicità lusingate.

Per riprendere la questione dello stile oracolare, è mia convinzione che “La carne” rappresenti un momento stazionario, ancillare al complesso, di piena citrinitas; e successivo a quello di albedo che ho vergato nel libro precedente – ben conscio di invertire la mandatoria impostazione alchemica.

Di qui, dunque, credo si possa recuperare l’archetipo junghiano del Vecchio Saggio come modus, se potesse aiutare a contestualizzare meglio quanto ho appena detto; in vista della rubedo che avverrà, in vista dell’unione degli opposti, in vista del locus in cui ci si riappropria del materiale inconscio proiettato ingannevolmente all’esterno, per rielaborarlo consapevolmente a un livello superiore, aprendosi all’amore.

E dico questo perché se esiste anche un caso eccezionale per cui il sempiterno penetra nella carne per conoscerne tutta la natura mortale, dunque ci è anche dato di riflettere sull’inversione archetipica della struttura genetica di ogni cosa.

E se quindi ci è dato di riconsiderare tale paradigma, credo che si possano ribaltare pedissequamente tutti i modelli affini: l’orfismo e l’onirico, l’ascesi occidentale, il prototipo gnostico dell’aldilà positivo di contro all’aldiquà svilente della corporalità, et cetera res.

Sia questo perciò l’arcano con cui sondare l’umanità, e la sua anima bramosa, rea ed oscura; e quelle sue pulsioni animali quanto più fondanti che si materiano in un nucleo atro di desideri viscidi e passioni sùcide.

Parafrasando Montale de “Il fuoco e il buio”, credo sia possibile credere al buio innanzi ad una luce bugiarda. Questo, mi pare, sia il significato della mia opera.

 

L.L.:          Allacciandomi alla precedente domanda, vorrei chiederti, in che rapporto sta la tua ricerca poetica con la ricerca spirituale, ovvero con la ricerca di una dimensione metafisica – sia essa trascendente o immanente – che fonda l’esistenza su questa terra? Esiste – a tuo parere – qualcosa che sia in grado di restituire pienezza a una condizione di vulnerabilità qual è quella dell’intero universo vivente, ancorato alla carne, a qualcosa di talmente fragile da avere, infine, un destino che si conclude?

 

C.R.:          Premesso che non è assolutamente detto che metafisico e spirituale coincidano, il mio tentativo di informare un pensiero poeticamente rilevante riguarda l’evidenza per cui la divinità, incarnata nel corpo del cristo, muore con questo.

Sarebbe a dire che al di là di tutto il Padre, morendo nel/col Figlio, abdica al trono dell’onnipotenza e diviene il simbolo della mortalità.

La mia opinione (ma mi sembra cosa verificabile, tosto che una mera opinio) è che, seppur per poco, la morte inghiotta l’iddio; divenendo l’unica potenza assimilabile a quella altissima. In altre parole, la carne in cui si cala il divino perisce, come tutte le altre creature subordinate all’ordo naturalis. Il che significa che la salvazione non avverrà se non subordina al demerito insito nella conclusione di ogni cosa.

Per questi motivi vorrei inoltre dire che i versi citati, in verità, afferiscono al dogma della resurrezione; il che, dal lato mio e come ho scritto, comporta una (non solo mia) discordanza innanzi ad ogni verità imposta per articolo di fede ed imposizione.

In questo, dunque, alcuna verità o speranza è negata come confermata. Fermo restando, però, che la reintegrazione della potenza passi comunque per il gelo del sepolcro. Il che rende piuttosto amara ogni consolazione ipotetica.

In questo modo, non mi sento in grado di poter fornire una risposta che svincoli da questo fatto certo, come non mi si può addebitare la gioia o fragilità altrui: mi sento solo di dire che (nei limiti imposti) se deve esistere una benedizione che consoli, salvi e guarisca, essa non può che passare per quella maledizione che sussume in sé stessa ogni male.

Da qui parte ogni mia parola, ed ogni mio silenzio; perché innanzi alla morte absoluta cade ogni docetismo, e si svela più vicina ogni cosa. Ma preferirei parlare di poesia, per quel che mi è dato. Non di teologia, né di religioni. Ognuno di noi si sceglie il proprio veleno.

E non vedo nemmeno un motivo per farlo; o meglio: non vedo più né una ragione pregnante a sufficienza per discutere in maniera indebitamente aggiuntiva alle falle dell’esperienza teologica, né per entrare a piedi pari nell’argomento “poesia religiosa”, come se questa possa essere contrapposta o paragonata ad altro, ovvero se si potesse distinguere in generi di poesia.

E ritengo sia più difficile preferire di non vedere che la salvezza non abbia eliminato né la depravazione del male, né l’afflizione della morte; che accogliere questa condizione con la dignità con cui si dovrebbe accettare la malattia.

Come dicevo, innanzi alla morte si scioglie ogni dubbio si disfa. Perché quest’evidenza scabrosa non è che un inizio, un passaggio che conduce ad una identità senza ideologie e affini.

Di qui, francamente, credo si possa recuperare una condotta deontologica altroché bastevole. Al contrario mi sembra di capire che molti non desiderano comprendere che la croce sia divenuta l’effige di un dio che giunge alla propria miserabile conclusione.

Dal canto mio, non mi sembra che il crocifisso ritragga un’immagine di vittoria; più tosto, la croce effigia l’esatto opposto: l’umiliante momento culminale della vita, che sboccia nella morte.

Questa dovrebbe essere la verità del credente: l’accettazione del male, senz’altro, e la speranza di non dover soffrire inutilmente. E l’estasi dell’agonia, senza sconti di genere e senza codardia, baciando le piaghe sudice e fiorenti della morte che siamo.

Se questo mi configura come facente parte della categoria preposta alla cultuazione dei morti nell’Italia contemporanea, o della morte, ben venga. Non credo muterà molto, né anche credo che le mie parole cambieranno qualcosa.

 

L.L.:          Nella tua poetica si respirano i temi della grande riflessione filosofica moderna, in modo particolare, il tono – a tratti oracolare – che impieghi, mi riporta alla mente “Così parlò Zarathustra” di F. Nietzsche. Vorrei chiederti, in che rapporto stanno, a tuo parere, la filosofia (ovvero la riflessione razionale sulle questioni di senso) e la poesia? È possibile una poesia–filosofica?

 

C.R.:          Spero di non offendere nessuno nel dirlo, ma mi sembra che i poeti-filosofi siano già esistiti. E credo che la lista non possa partire che da Leopardi, se considerassimo un indice che proceda secondo un carattere sistematico. Ma ciò che rivela questa domanda è una preoccupazione legittima: quel che mi sembra essere il quesito vero riguarda l’inconsistenza del pensiero che si tramuta in versificazione.

A questo, temo di non saper fare fronte. Soprattutto perché una pubblica denuncia ad hominem mi sembra infruttoso, specialmente se riguardante la preparazione minima e raffazzonata, l’elezione/l’essere eletti da un maestro, la condensa degli elementi più svariati senza una adeguata preparazione e senza approfondimento per dimostrare ecletticità, la dimostrazione di una santimonia contraddetta alla minima occasione, il ritenere che il proprio istinto basti alla poesia in assenza della fatica dello studio, l’improvvisarsi, l’intruppare movimenti stretti da esaltazioni vicendevoli in assenza di una amicizia che permetta una critica cordiale, e chi più ne ha e più ne metta.

In effetti, non chiederei ai poeti di essere filosofi. Chiederei loro di essere sapienti, perché dopo tutti i relativismi di comodo, ogni minimo sforzo per tollerare il dolore scivola nello scolatoio di questo tempo.

In verità la questione da porre mi pare sia un’altra, e cioè domandarsi senza nascondimenti: “quanto spazio c’è nel nostro cuore? Ameremmo il profeta, perché egli ama il peccatore? Ameremmo ancora il peccatore, perché siamo noi?

Credo sia questa la risposta: amare ciò che vive perché morirà significa anche riqualificare la vita alla luce della morte, anche e soprattutto con il canto. E tornando all’ars poetica, mi sembra che nessun verso possa esistere se prima non si sia formato in un sentimento abbastanza consolidato sicché questo possa essere detto.

Se pensiamo al “cosa” ed al “come”, la poesia veicola entrambi; se, invece, il carmen sposta il proprio baricentro sui caratteri di opportunità della parola, senza passare la cruna della mortalità, sostengo che non si possa tacere che all’abbassarsi della qualità del pensiero segua l’abissarsi della qualità del poetare. Ma stiamo parlando di altro.

Ciò di cui son convinto consiste nel fatto che non si possa parlare di razionalità stretta nel caso della poesia, e forse lo schema razionale generico non è adeguato neanche alla vita umana. In linea di massima, sarebbe bello vi fosse un principio di non contraddizione fra forma e sostanza; ma chi può decretarlo, se non chi produce, vive, e respira?

La mia convinzione riposa nel fatto che la poesia sorga da una a-razionalità; sarebbe a dire che questo, seppur dotato di una certa logica, non pertenga ad un sistema ragionevole per cui vi sia una consequenzialità condivisibile. Ed è giustissimo che sia così!

Di più: mi sembra che i presupposti, ovvero le premesse, di ogni enunciazione dell’oggidì tendano non più a risolvere un argomento, ma a parlarne oltre il valore stimabile della parola.

Non penso sia sano chiedere ed ottenere dubbio su dubbio, dedurre noto dal noto sino a quando alla luce del sole ripartorito i nostri ori avranno reso sgombro lo specchio di Narciso. O sino a quando ogni cosa già detta sarà detta ancora, e meglio, e nuovamente uguale a sé stessa; rassomigliando colui che, specchiandosi in sé stesso, si riflette nell’animazione atroce dell’inanimato.

 

*       *       *

 

per essere

padri e madri

nell’inganno

mangeremo

la manna

di cui la materia

è spoglia

la lebbra

che spolpa

l’innocenza

nell’incanto che condanna

i vivi non possono

amare i morti

 

*

 

questa terra è nera e morta

come la mano

che scava nel fondo

del mondo

e non draga

il credo di risorgere

dalla motriglia

ma la morte divina

e l’arcano segreto

in cui entriamo

ed in quel fango

la salma è dono

alla gora in cui

si divora l’iddio

dal disgusto

alla devozione

versa vino e fiele

il bacio infedele

 

*

 

ciò che si compie

adempie la pretesa

e riempie la tomba

promessa

al limite del vaio

impassibile

i morti non possono

amare i vivi

 

*       *       *

 

Carlo Ragliani (1992), laureato in giurisprudenza presso l’ateneo rodigino dell’università di Ferrara. È redattore in “Atelier Cartaceo”, e caporedattore in “Atelier Online”. Ha pubblicato “Lo stigma” (italic, 2019), “La carne” (Ladolfi, 2024; Segnalazione speciale al premio Montano, ed. XXXVII).

 

Lucrezia Lombardo nasce ad Arezzo nel 1987. Dopo la maturità classica si laurea in Scienze Filosofiche, è redattrice di “Atelier Poesia”, scrive per “La Bibliothèque Italienne”, ed è responsabile del blog culturale del quotidiano ArezzoNotizie. Insegna Storia e Filosofia, e collabora con vari atenei privati come docente di Bioetica e Storia della filosofia. Per la poesia, ha pubblicato “La Visita” (L’Erudita, Giulio Perrone 2017), “La Nevicata” (Il Seme Bianco 2017), “Solitudine di esistenze” (L’Erudita, Giulio Perrone 2018), “Paradosso della ricompensa” (Eretica 2018), “Apologia della sorte” (Transeuropa 2019), “In un metro quadro” (Nulla Die 2020), “Amor Mundi” (Eretica 2021), “Cercando il mezzogiorno” (Helicon, 2021; vincitrice del primo premio, per la poesia inedita, al concorso “La Ginestra di Firenze”), “Elegia Ambrosiana” (Divergenze, 2021), “L’errore della luce” (Ensamble, 2022), “Il gelsomino indiano” (Cosmopoli, 2023), “La venditrice di menta” (Progetto cultura, 2023), e “L’approdo dei sogni” (Controluna, 2023). Per la saggistica, ha pubblicato “L’Alunno” (Divergenze 2019; vincitore del primo premio al concorso “Nuovi Saperi”), “Due saggi dirompenti. La Repubblica delle occasioni risolutive e il processo coscienziale” (Divergenze, 2022; finalista al Premio Carver 2022, sezione saggistica, Salone del Libro di Torino), “Una vita di lampo. Portraits de poètes” (Eretica edizione 2023, in collaborazione con la rivista letteraria internazionale italo-francese La Bibliothèque Italienne). Per la prosa, ha pubblicato “Scusate, ma devo andare” (Porto Seguro, 2020); “Kinder” (Augh! 2021, finalista al “Premio Santucce e Storm 2023”); “Un karma distratto” (Porto Seguro, 2021). È stata curatrice e autrice del secondo numero della rivista di scienze umane “Augeo”, titolo del numero “Oltre l’ideologia dell’emergenza”, Divergenze 2022 (hanno scritto nel numero i primari dei reparti di Malattie Infettive ed Ematologia della Asl 8, Ospedale S. Donato di Arezzo). Maggiori informazioni sull’autrice sono disponibili sul sito www.lucrezialombardo.com.

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“Carlo Ragliani: “La carne”” è stato scritto da Giorgiomaria Cornelio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.