Bioeconomics (Georgescu Roegen) vs bioeconomy: i miti del riciclo completo della materia e dell’onnipotenza delle tecnologie

di Alberto Berton

I passi che seguono sono tratti – per maggiori dettagli si veda la nota finale – da “La storia del biologico. Una grane avventura” di Alberto Berton, Jaca Book (NdR)

Nonostante alcuni deboli tentativi di fare della bioeconomics di Georgescu-Roegen la base teorica della bioeconomy[1], l’impostazione dell’economista rumeno resta fondata su una ‘visione del mondo’ che non ha nulla a che vedere con la bioeconomia com’è oggi comunemente intesa. Come si diceva all’inizio, un caso emblematico, quello della bioeconomia, in cui l’uso del suffisso bio genera grandi confusioni[2].
Per quanto riguarda l’agricoltura, ad esempio, la bioeconomics di Georgescu Roegen sviluppa delle analisi e conduce a valutazioni diametralmente opposte a quelle su cui si basa la bioeconomy. Vediamo in che senso.
Per prima cosa, in termini molto generali, per Georgescu-Roegen, nonostante l’importanza vitale di ogni forma di riciclo e di utilizzo di energia e materiale di origine rinnovabile, l’economia umana non riuscirà mai ad affrancarsi completamente dall’attività mineraria, anche solo per la nostra dipendenza dall’estrazione di minerali ad alto contenuto di metalli e di altri materiali utili, nonché per l’impossibilità del riciclo completo della materia. Matter matters too, anche la materia conta, amava scrivere Georgescu-Roegen per ricordare l’importanza del problema dell’esaurimento delle miniere di metalli e di rocce fosfatiche in un contesto dominato dall’problema dell’energia. In agricoltura questa dipendenza è divenuta sempre più evidente nel corso del tempo a causa della nostra evoluzione esosomatica che ci ha portato, ad esempio, dai primi falcetti in legno e selce alle gigantesche mietitrebbiatrici.
Proprio nella conferenza del 1972 alla Yale University a cui si faceva prima riferimento, Georgescu-Roegen affrontò il problema dell’analisi delle diverse forme di agricoltura da un punto di vista bioeconomico.  Secondo l’economista rumeno l’industrializzazione dell’agricoltura, basata sulla sostituzione del lavoro umano e di quello animale con i macchinari a motore termico, nonché con la sostituzione del letame e delle rotazioni con i fertilizzanti di sintesi e i pesticidi, ha effettivamente permesso un aumento significativo della produzione agricola mondiale, ma questo tipo di sviluppo agricolo, nel contempo, ha comportato la sostituzione di risorse rinnovabili di origine solare abbondanti con risorse non rinnovabili di origine terrestre, scarse ed esauribili.
Grazie all’agricoltura industriale, l’umanità è riuscita ad incrementare in modo rapido e considerevole la produzione di cibo su una data superficie agricola, ma questa intensificazione di un processo in ultima analisi fotosintetico, è stata raggiunta grazie ad un aumento più che proporzionale del consumo di risorse non rinnovabili, che sono quelle veramente critiche data appunto la loro scarsità, la loro non riproducibilità e la loro esauribilità.
Georgescu-Roegen, inoltre, considerando il fatto, accertato empiricamente, che tutti i fattori produttivi in agricoltura hanno rese fortemente decrescenti, ovvero che all’aumentare dei livelli di produzione l’incremento delle rese si ottiene solo grazie a un incremento sempre maggiore del consumo di risorse, giunge alla conclusione che l’agricoltura moderna, basata soprattutto  su fattori produttivi di origine terrestre piuttosto che su quelli di origine solare, è una energy squanderer, ovvero una sperperatrice di energia fossile. Per questa ragione, l’aumento delle produzioni agricole attraverso un’agricoltura sempre più meccanizzata e basata su un sempre maggiore uso di fertilizzanti e pesticidi di sintesi, rappresenta una strategia che in una prospettiva di lungo periodo va contro i più elementari interessi bioeconomici della specie umana.

La diseconomia dell’agricoltura industriale, orientata alla massima resa immediata, secondo Georgescu Roegen «è particolarmente pesante nel caso delle varietà a resa elevata che hanno fatto vincere al loro creatore, Norman E. Borlaug, il premio Nobel»[3]. Queste varietà sono capaci di produrre anche il doppio delle colture tradizionali, ma solo a condizione di un uso massiccio di fertilizzanti, pesticidi, diserbanti, sistemi di irrigazioni e macchine agricole, ovvero di un uso intensivo di fattori produttivi non rinnovabili. Sementi di varietà ad alta resa, fertilizzanti di sintesi, pesticidi e diserbanti chimici, macchine agricole, pompe idrovore e combustibili rappresentarono difatti il ‘pacchetto’ che venne promosso a livello globale dalla Fondazione Rockfeller e dalla Fondazione Ford per dare avvio alla Rivoluzione verde.
Quando Georgescu-Roegen espose pubblicamente queste sue argomentazioni (1972), a Norman Borlaug, padre riconosciuto della Rivoluzione verde, era stato da poco (1970) attribuito il Premio Nobel per la Pace grazie al suo impegno nella lotta contro la fame attraverso la creazione delle varietà di ‘grano nano’. Per certi versi simili alle ‘varietà élite’ create dal nostro Nazareno Strampelli durante l’epoca fascista, questi grani molto bassi sono capaci di crescere senza ripiegarsi su sé stessi, o, come si dice correttamente, senza allettare, pur utilizzando massicce dosi di fertilizzanti azotati. È probabile che le critiche dell’economista rumeno al lavoro di Borlaug non siano state recepite con piacere all’interno della Fondazione Nobel che mai, come ho anticipato, attribuì l’importante onorificenza a Georgescu Roegen, nonostante i suoi fondamentali contributi alla scienza economica standard e nonostante la sua originale visione della bioeconomia.
Secondo Georgescu-Roegen, riassumendo, l’agricoltura moderna è una sperperatrice di risorse e «se la produzione di cibo tramite complessi agro-industriali divenisse la regola generale, molte specie connesse con l’agricoltura organica all’antica potrebbero gradualmente scomparire, una conseguenza che forse condurrebbe il genere umano in un vicolo cieco ecologico senza possibilità di ritorno»[4] E’ quindi presente nel pensiero dell’economista rumeno la stessa preoccupazione che troviamo in Nikolai Vavilov e Girolamo Azzi per l’erosione genetica causata dalla diffusione delle nuove varietà ad alta resa.

Come vuole farci capire Georgescu-Roegen, l’eccezionale capacità fotosintetica dell’agricoltura industriale è raggiunta grazie ad un consumo ancor più eccezionale di risorse non rinnovabili (gas, petrolio, suolo fertile), risorse che sono scarse (e quindi oggetto di studio dell’economia) non solo in quanto limitate (come la superficie di terra arabile), ma anche in quanto esauribili e non riproducibili (come lo sono i giacimenti di petrolio, gas naturale e in parte anche il suolo).
Dato che il genere umano per ‘nutrire il pianeta’, o, più correttamente, per nutrire sé stesso, ha bisogno oggi – come avrà bisogno domani – anche delle risorse che giacciono sotto la crosta terrestre, l’’economia nel tempo’ dell’uso di queste risorse non rinnovabili è il problema bioeconomico più importante. Tale problema, che rappresenta anche un problema di giustizia intergenerazionale, tende ad essere normalmente aggirato sulla base di quelli che Georgescu-Roegen definì ‘miti economici’, quali il mito delle infinite possibilità della tecnologia, il mito della possibilità della sostituzione infinita di una risorsa esauribile con un’altra o il mito del riciclaggio completo della materia. In questo senso, anche la bioeconomia così come viene attualmente intesa, ovvero la prospettiva di una economia interamente basata sul flusso di risorse rinnovabili, sulle infinite possibilità dell’ingegneria genetica e sul riciclo completo delle risorse di origine terrestre, quindi un’economia perfettamente sostenibile, in grado addirittura di crescere indefinitamente nel tempo attraverso – nella sostanza – l’incremento dell’intensificazione dell’attività fotosintetica e della velocità di riciclo della materia organica, ha tutte le caratteristiche del  mito economico.
Per Georgescu-Roegen, una volta smascherati i vari miti economici, e preso atto dell’ineluttabile carattere entropico del processo economico, la questione cruciale per quanto concerne l’agricoltura, non consiste solo nel determinare quanto cibo può produrre un certo sistema agro-alimentare ma anche per quanto tempo questo può mantenere certi livelli di produzione.

È evidente, come è stato sottolineato da più parti, che l’obiettivo dell’ulteriore intensificazione produttiva, in assenza di un reale cambiamento nei modelli di produzione, di trasformazione, di distribuzione e di consumo, non può rappresentare la strategia più corretta, ai fini di raggiungere l’obiettivo, questo sì condivisibile, di una maggiore sostenibilità presente e futura dei sistemi agro-alimentari.
A livello di campo, non si tratta tanto di scegliere tra un’agricoltura intensiva ed un’agricoltura estensiva; quest’ultima tra l’altro, in molte situazioni, risulta oggi impraticabile dati i livelli di popolazione raggiunti e la conseguente pressione sulle terre coltivate. La scelta non potrà che essere tra un modello agro-industriale più intensivo di risorse non rinnovabili (macchine sempre più potenti ed energivore, fertilizzanti, pesticidi e erbicidi di sintesi) e un modello agro-ecologico più intensivo di risorse rinnovabili (macchinari e sistemi a energia rinnovabile, lavoro umano e animale, sostanza organica), avendo ben chiaro che il primo modello avrà sempre nell’immediato maggiori rese del secondo, ma alla lunga – dando a questo termine un’estensione necessariamente indeterminata –si rivelerà meno sostenibile, producendo complessivamente di meno.

[1] Cfr. M. Bonaccorso, Inside the World Bioeconomy. The Bio-revolution has just begun, Il Bioeconomista Publisher, Milano, 2014., p.15 e B. Croce, S. Ciafani e L. Lazzeri, Bioeconomia. La chimica verde  e la rinascita di un’eccellenza italiana, Edizioni Ambiente, Milano, 2015, p. 22
2] A. Berton e G. Nebbia, Dialogo sulla bioeconomia op. cit.
[3] Ibidem
4] Ibidem

 

NdR: i passi che precedono sono tratti dal sottocapitolo “Biologico e bioeconomia” del volume “La storia del biologico. Una grane avventura” dell’economista e grande esperto dell’agricoltura biologica Alberto Berton, pubblicato da Jaca Book (2023), e con una prefazione dello storico Piero Bevilacqua. L’autore si interessa da tempo all’opera di Georgescu Roegen, sul quale ha svolto una tesi. Più in generale questa sua storia del movimento biologico rappresenta il quadro più completo e approfondito sull’argomento ad oggi esistente, anche considerando il campo internazionale. Nella sua stringatezza e relativa brevità è quindi un lavoro molto importante, che consiglio a chi voglia farsi un’idea al di là di tutti i luoghi comuni e le controverità che circolano su questi temi. Mi piacerebbe comunque tornarci sopra.

 

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“Bioeconomics (Georgescu Roegen) vs bioeconomy: i miti del riciclo completo della materia e dell’onnipotenza delle tecnologie” è stato scritto da giacomo sartori e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

La vera storia della banda Hood: ecco il booktrailer

Quella di Robin Hood è senz’altro una delle leggende più longeve di ogni tempo. È intramontabile, perché la sua figura richiama subito la riparazione dei torti sociali, la vendetta di classe, la ridistribuzione della ricchezza, la reazione dei poveracci al dominio dei potenti, la creazione di una microsocietà autarchica, basata su regole proprie. Robin Hood […]

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“La vera storia della banda Hood: ecco il booktrailer” è stato scritto da Wu Ming e pubblicato su Giap.

Carlo Ragliani: “La carne”

 Intervista a Carlo Ragliani

a cura di Lucrezia Lombardo

 

L.L.:          È uscita a gennaio 2024, con l’editore Ladolfi, la raccolta “La carne”, un testo complesso, in cui il linguaggio pare oltrepassarsi di continuo, esprimendo – come in un dipinto – la fatica di corpi che combattono, sentono, cadono…
Questa restituzione del linguaggio poetico ad una dimensione materiale e incarnata è uno degli aspetti che più mi hanno colpito, leggendo il tuo testo.
Vorrei pertanto domandarti, com’è nato il titolo
“La carne”? Perché questa scelta visiva?

 

C.R.:          In un tempo come quello che ci tocca in sorte, in cui lo zeitgeist mostra il proprio strabismo nell’assolvere plenariamente e condannare senz’altro questa nostra materialità sia nel suo pudore che nel suo svelarsi, mi è sembrato sensato recuperare il senso carnale come destinazione della parola poetica. Moriremo tutti nella nostra cella.

Il titolo del testo mi si è mostrato alla luce dell’unica cosa che resti da fare: non più concedersi alla sterile contemplazione della parola in astratto, che mi sembra allontanare vita e viventi in una catarsi dalle volute tanto ampie da essere irrealizzabile; e nemmeno spendersi nell’ammirazione di un ambito più vago che si manifesta, per questo, incorporeo e deresponsabilizzante.

Nell’ora in cui di più l’umanità è separata dalla propria anima, il mio ploro è questo: si riscopra la profanazione. Si recuperi la sacertas che si fa nella parola come violazione della legge della bellezza, dell’eccelsa bellezza, e quella concretezza tremenda ed infesta che non può che materializzarsi nella tensione al basso, al ripugnante, all’immondo, all’indecente materia che sopporta e profetizza lo splendore mortale ed il suo cruccio.

Deinde la carne come centro di imputazione dell’oscenità, la carne come il corpo del reato, la carne come dimensione fisica in cui si agglutina l’esperienza del tragico sublime, la carne come scandalo del peccato, la carne del sovrano assediato, la carne del monarca detronizzato.

La carne del nazzareno in cui si manifesta come vergogna immensa la morte del dio che in questi si calava.

La carne rinnovata, la carne demonizzata. La carne ingannata, la carne tradita.

La carne eretica che partecipa alla dimensione del divino non più come mistica passiva e sterilizzata; ma come attante immediato dell’arcano, officiante alla cerimonia che si celebra ad Eleusi.

La carne sconsacrata, e vendicativa di sé stessa in un ganglio vitale denso di senso e significato, di cupore fondo e quindi tanto più intimo quanto più oscuro.

La carne inonorata, risemantizzata nella catabasi orfica finalmente esiziale, pregna della propria ombra autentica e concreta; di contro al dilagare di una luce immateriale, rarefatta, e priva di un senso che smargini l’autoreferenzialità.

Ecco, questo mi sembra interessante. Non un cielo che gira le spalle nel momento in cui gli si rivolga lo sguardo.

 

L.L.:          La silloge si apre con versi che trafiggono e che annunciano l’inammissibilità – dal punto di vista umano e, quindi, dal punto di vista della nostra carne – della morte. Scrivi infatti che “non saremo mai / muti quanto basta / per scendere / nel gorgo / per spingere / la carne / nel sepolcro…”. Possiamo dire che il motivo centrale della silloge è la contraddizione insanabile e inconcepibile del rapporto che lega vita e morte?

 

C.R.:          Io non penso che vi sia contraddizione fra morte e vita. Anzi, credo coscientemente che la prima sia la premessa, nonché prosecuzione naturale, della seconda; e mi riservo di poter dire che fra le due non possa coesistere altro che un rapporto di reciproca sineddoche.

Al più può presentarsi una incoerenza in astratto fra la vita redenta e la morte, perlomeno secondo me, e se si prende in esame la prospettiva religiosa cristiana, stante la salvezza. E tale è poi il dubbio che ha dato vita al testo, ossia quello riguardante ogni mia congettura alla teodicea.

Questo, e l’impossibilità concreta di raggiungere una conclusione che sia da ritenersi più attuale del dover pazientemente sopportare le angherie di una vita – evidentemente – irredimibile, in vista di una auspicata perpetuità.

Possiamo piuttosto dire che il motivo centrale dell’opera sia una rivalutazione della teoria chenotica, (come ne dirò a stretto giro), dal momento che ogni tentativo che faccia fronte al nulla che si staglia dal Golgota ricade necessariamente nella gabbia quinziana in cui si contorce il pensiero esistenzial-fideista.

Se la discesa del celeste nell’umano non conduce ad altro che alla carnalità, dunque è altrettanto vero che all’aspettativa secolarizzata si assomma la colpa serena di essere ciò che siamo, botri e vette comprese.

Ma che esista ancora il male, e la morte, a seguito della redenzione, e dopo la resurrezione, mi sembra più testimoniare un fallimento che un trionfo. Posto poi che lo scollamento fra vertigine e abisso sia il senso più intimo del testo che precede quest’ultimo, mi sembra di poter asserire coscientemente che “La carne” si concentri sulla dimensione visibilmente tangibile della nostra perimetrazione fisica, e non solo.

Ma, sia ammesso, in sei anni molte cose son cambiate e molte altre son state caducate. E l’incredulità alle promesse si è concentrata alla diffidenza, al dubbio, all’incapacità di poter desiderare altro che l’epilogo di attesa e felicità lusingate.

Per riprendere la questione dello stile oracolare, è mia convinzione che “La carne” rappresenti un momento stazionario, ancillare al complesso, di piena citrinitas; e successivo a quello di albedo che ho vergato nel libro precedente – ben conscio di invertire la mandatoria impostazione alchemica.

Di qui, dunque, credo si possa recuperare l’archetipo junghiano del Vecchio Saggio come modus, se potesse aiutare a contestualizzare meglio quanto ho appena detto; in vista della rubedo che avverrà, in vista dell’unione degli opposti, in vista del locus in cui ci si riappropria del materiale inconscio proiettato ingannevolmente all’esterno, per rielaborarlo consapevolmente a un livello superiore, aprendosi all’amore.

E dico questo perché se esiste anche un caso eccezionale per cui il sempiterno penetra nella carne per conoscerne tutta la natura mortale, dunque ci è anche dato di riflettere sull’inversione archetipica della struttura genetica di ogni cosa.

E se quindi ci è dato di riconsiderare tale paradigma, credo che si possano ribaltare pedissequamente tutti i modelli affini: l’orfismo e l’onirico, l’ascesi occidentale, il prototipo gnostico dell’aldilà positivo di contro all’aldiquà svilente della corporalità, et cetera res.

Sia questo perciò l’arcano con cui sondare l’umanità, e la sua anima bramosa, rea ed oscura; e quelle sue pulsioni animali quanto più fondanti che si materiano in un nucleo atro di desideri viscidi e passioni sùcide.

Parafrasando Montale de “Il fuoco e il buio”, credo sia possibile credere al buio innanzi ad una luce bugiarda. Questo, mi pare, sia il significato della mia opera.

 

L.L.:          Allacciandomi alla precedente domanda, vorrei chiederti, in che rapporto sta la tua ricerca poetica con la ricerca spirituale, ovvero con la ricerca di una dimensione metafisica – sia essa trascendente o immanente – che fonda l’esistenza su questa terra? Esiste – a tuo parere – qualcosa che sia in grado di restituire pienezza a una condizione di vulnerabilità qual è quella dell’intero universo vivente, ancorato alla carne, a qualcosa di talmente fragile da avere, infine, un destino che si conclude?

 

C.R.:          Premesso che non è assolutamente detto che metafisico e spirituale coincidano, il mio tentativo di informare un pensiero poeticamente rilevante riguarda l’evidenza per cui la divinità, incarnata nel corpo del cristo, muore con questo.

Sarebbe a dire che al di là di tutto il Padre, morendo nel/col Figlio, abdica al trono dell’onnipotenza e diviene il simbolo della mortalità.

La mia opinione (ma mi sembra cosa verificabile, tosto che una mera opinio) è che, seppur per poco, la morte inghiotta l’iddio; divenendo l’unica potenza assimilabile a quella altissima. In altre parole, la carne in cui si cala il divino perisce, come tutte le altre creature subordinate all’ordo naturalis. Il che significa che la salvazione non avverrà se non subordina al demerito insito nella conclusione di ogni cosa.

Per questi motivi vorrei inoltre dire che i versi citati, in verità, afferiscono al dogma della resurrezione; il che, dal lato mio e come ho scritto, comporta una (non solo mia) discordanza innanzi ad ogni verità imposta per articolo di fede ed imposizione.

In questo, dunque, alcuna verità o speranza è negata come confermata. Fermo restando, però, che la reintegrazione della potenza passi comunque per il gelo del sepolcro. Il che rende piuttosto amara ogni consolazione ipotetica.

In questo modo, non mi sento in grado di poter fornire una risposta che svincoli da questo fatto certo, come non mi si può addebitare la gioia o fragilità altrui: mi sento solo di dire che (nei limiti imposti) se deve esistere una benedizione che consoli, salvi e guarisca, essa non può che passare per quella maledizione che sussume in sé stessa ogni male.

Da qui parte ogni mia parola, ed ogni mio silenzio; perché innanzi alla morte absoluta cade ogni docetismo, e si svela più vicina ogni cosa. Ma preferirei parlare di poesia, per quel che mi è dato. Non di teologia, né di religioni. Ognuno di noi si sceglie il proprio veleno.

E non vedo nemmeno un motivo per farlo; o meglio: non vedo più né una ragione pregnante a sufficienza per discutere in maniera indebitamente aggiuntiva alle falle dell’esperienza teologica, né per entrare a piedi pari nell’argomento “poesia religiosa”, come se questa possa essere contrapposta o paragonata ad altro, ovvero se si potesse distinguere in generi di poesia.

E ritengo sia più difficile preferire di non vedere che la salvezza non abbia eliminato né la depravazione del male, né l’afflizione della morte; che accogliere questa condizione con la dignità con cui si dovrebbe accettare la malattia.

Come dicevo, innanzi alla morte si scioglie ogni dubbio si disfa. Perché quest’evidenza scabrosa non è che un inizio, un passaggio che conduce ad una identità senza ideologie e affini.

Di qui, francamente, credo si possa recuperare una condotta deontologica altroché bastevole. Al contrario mi sembra di capire che molti non desiderano comprendere che la croce sia divenuta l’effige di un dio che giunge alla propria miserabile conclusione.

Dal canto mio, non mi sembra che il crocifisso ritragga un’immagine di vittoria; più tosto, la croce effigia l’esatto opposto: l’umiliante momento culminale della vita, che sboccia nella morte.

Questa dovrebbe essere la verità del credente: l’accettazione del male, senz’altro, e la speranza di non dover soffrire inutilmente. E l’estasi dell’agonia, senza sconti di genere e senza codardia, baciando le piaghe sudice e fiorenti della morte che siamo.

Se questo mi configura come facente parte della categoria preposta alla cultuazione dei morti nell’Italia contemporanea, o della morte, ben venga. Non credo muterà molto, né anche credo che le mie parole cambieranno qualcosa.

 

L.L.:          Nella tua poetica si respirano i temi della grande riflessione filosofica moderna, in modo particolare, il tono – a tratti oracolare – che impieghi, mi riporta alla mente “Così parlò Zarathustra” di F. Nietzsche. Vorrei chiederti, in che rapporto stanno, a tuo parere, la filosofia (ovvero la riflessione razionale sulle questioni di senso) e la poesia? È possibile una poesia–filosofica?

 

C.R.:          Spero di non offendere nessuno nel dirlo, ma mi sembra che i poeti-filosofi siano già esistiti. E credo che la lista non possa partire che da Leopardi, se considerassimo un indice che proceda secondo un carattere sistematico. Ma ciò che rivela questa domanda è una preoccupazione legittima: quel che mi sembra essere il quesito vero riguarda l’inconsistenza del pensiero che si tramuta in versificazione.

A questo, temo di non saper fare fronte. Soprattutto perché una pubblica denuncia ad hominem mi sembra infruttoso, specialmente se riguardante la preparazione minima e raffazzonata, l’elezione/l’essere eletti da un maestro, la condensa degli elementi più svariati senza una adeguata preparazione e senza approfondimento per dimostrare ecletticità, la dimostrazione di una santimonia contraddetta alla minima occasione, il ritenere che il proprio istinto basti alla poesia in assenza della fatica dello studio, l’improvvisarsi, l’intruppare movimenti stretti da esaltazioni vicendevoli in assenza di una amicizia che permetta una critica cordiale, e chi più ne ha e più ne metta.

In effetti, non chiederei ai poeti di essere filosofi. Chiederei loro di essere sapienti, perché dopo tutti i relativismi di comodo, ogni minimo sforzo per tollerare il dolore scivola nello scolatoio di questo tempo.

In verità la questione da porre mi pare sia un’altra, e cioè domandarsi senza nascondimenti: “quanto spazio c’è nel nostro cuore? Ameremmo il profeta, perché egli ama il peccatore? Ameremmo ancora il peccatore, perché siamo noi?

Credo sia questa la risposta: amare ciò che vive perché morirà significa anche riqualificare la vita alla luce della morte, anche e soprattutto con il canto. E tornando all’ars poetica, mi sembra che nessun verso possa esistere se prima non si sia formato in un sentimento abbastanza consolidato sicché questo possa essere detto.

Se pensiamo al “cosa” ed al “come”, la poesia veicola entrambi; se, invece, il carmen sposta il proprio baricentro sui caratteri di opportunità della parola, senza passare la cruna della mortalità, sostengo che non si possa tacere che all’abbassarsi della qualità del pensiero segua l’abissarsi della qualità del poetare. Ma stiamo parlando di altro.

Ciò di cui son convinto consiste nel fatto che non si possa parlare di razionalità stretta nel caso della poesia, e forse lo schema razionale generico non è adeguato neanche alla vita umana. In linea di massima, sarebbe bello vi fosse un principio di non contraddizione fra forma e sostanza; ma chi può decretarlo, se non chi produce, vive, e respira?

La mia convinzione riposa nel fatto che la poesia sorga da una a-razionalità; sarebbe a dire che questo, seppur dotato di una certa logica, non pertenga ad un sistema ragionevole per cui vi sia una consequenzialità condivisibile. Ed è giustissimo che sia così!

Di più: mi sembra che i presupposti, ovvero le premesse, di ogni enunciazione dell’oggidì tendano non più a risolvere un argomento, ma a parlarne oltre il valore stimabile della parola.

Non penso sia sano chiedere ed ottenere dubbio su dubbio, dedurre noto dal noto sino a quando alla luce del sole ripartorito i nostri ori avranno reso sgombro lo specchio di Narciso. O sino a quando ogni cosa già detta sarà detta ancora, e meglio, e nuovamente uguale a sé stessa; rassomigliando colui che, specchiandosi in sé stesso, si riflette nell’animazione atroce dell’inanimato.

 

*       *       *

 

per essere

padri e madri

nell’inganno

mangeremo

la manna

di cui la materia

è spoglia

la lebbra

che spolpa

l’innocenza

nell’incanto che condanna

i vivi non possono

amare i morti

 

*

 

questa terra è nera e morta

come la mano

che scava nel fondo

del mondo

e non draga

il credo di risorgere

dalla motriglia

ma la morte divina

e l’arcano segreto

in cui entriamo

ed in quel fango

la salma è dono

alla gora in cui

si divora l’iddio

dal disgusto

alla devozione

versa vino e fiele

il bacio infedele

 

*

 

ciò che si compie

adempie la pretesa

e riempie la tomba

promessa

al limite del vaio

impassibile

i morti non possono

amare i vivi

 

*       *       *

 

Carlo Ragliani (1992), laureato in giurisprudenza presso l’ateneo rodigino dell’università di Ferrara. È redattore in “Atelier Cartaceo”, e caporedattore in “Atelier Online”. Ha pubblicato “Lo stigma” (italic, 2019), “La carne” (Ladolfi, 2024; Segnalazione speciale al premio Montano, ed. XXXVII).

 

Lucrezia Lombardo nasce ad Arezzo nel 1987. Dopo la maturità classica si laurea in Scienze Filosofiche, è redattrice di “Atelier Poesia”, scrive per “La Bibliothèque Italienne”, ed è responsabile del blog culturale del quotidiano ArezzoNotizie. Insegna Storia e Filosofia, e collabora con vari atenei privati come docente di Bioetica e Storia della filosofia. Per la poesia, ha pubblicato “La Visita” (L’Erudita, Giulio Perrone 2017), “La Nevicata” (Il Seme Bianco 2017), “Solitudine di esistenze” (L’Erudita, Giulio Perrone 2018), “Paradosso della ricompensa” (Eretica 2018), “Apologia della sorte” (Transeuropa 2019), “In un metro quadro” (Nulla Die 2020), “Amor Mundi” (Eretica 2021), “Cercando il mezzogiorno” (Helicon, 2021; vincitrice del primo premio, per la poesia inedita, al concorso “La Ginestra di Firenze”), “Elegia Ambrosiana” (Divergenze, 2021), “L’errore della luce” (Ensamble, 2022), “Il gelsomino indiano” (Cosmopoli, 2023), “La venditrice di menta” (Progetto cultura, 2023), e “L’approdo dei sogni” (Controluna, 2023). Per la saggistica, ha pubblicato “L’Alunno” (Divergenze 2019; vincitore del primo premio al concorso “Nuovi Saperi”), “Due saggi dirompenti. La Repubblica delle occasioni risolutive e il processo coscienziale” (Divergenze, 2022; finalista al Premio Carver 2022, sezione saggistica, Salone del Libro di Torino), “Una vita di lampo. Portraits de poètes” (Eretica edizione 2023, in collaborazione con la rivista letteraria internazionale italo-francese La Bibliothèque Italienne). Per la prosa, ha pubblicato “Scusate, ma devo andare” (Porto Seguro, 2020); “Kinder” (Augh! 2021, finalista al “Premio Santucce e Storm 2023”); “Un karma distratto” (Porto Seguro, 2021). È stata curatrice e autrice del secondo numero della rivista di scienze umane “Augeo”, titolo del numero “Oltre l’ideologia dell’emergenza”, Divergenze 2022 (hanno scritto nel numero i primari dei reparti di Malattie Infettive ed Ematologia della Asl 8, Ospedale S. Donato di Arezzo). Maggiori informazioni sull’autrice sono disponibili sul sito www.lucrezialombardo.com.

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“Carlo Ragliani: “La carne”” è stato scritto da Giorgiomaria Cornelio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Top Italian Scientists: buco nella classifica degli studi

TIS – Il sistema di valutazione delle ricerche scientifiche pesca nei dati di Google Scholar, ma i suoi risultati sono scarsamente attendibili

Esiste una classifica dei presunti “Migliori scienziati italiani” che non è riconosciuta da nessuno, salvo la Regione Lombardia che la usa per assegnare premi milionari. È la lista dei Top Italian Scientists (Tis) che ora pubblica anche una rivista nel cui board figurano accademici con problemi giudiziari o che hanno subito l’onta della ritrattazione da parte delle riviste scientifiche che avevano pubblicato i loro studi e poi hanno scoperto errori o presunte frodi.

Il padre della classifica Tis non è un accademico. È un informatico di un’azienda di Londra: Luca Boscolo. “Non è una classifica ufficiale e ha dei limiti – spiega al Fatto –. L’ho calcolata nel 2010 a partire dai punteggi assegnati da Google Scholar a 53 mila ricercatori.” Google Scholar è uno strumento gratuito che conta le citazioni degli articoli in rete, ma con scarso credito accademico. E però per entrare nella classifica Tis bastano solo 30 articoli indicizzati da Google Scholar, citati da almeno altri 30 autori.

TUTTI SANNO che la lista vale poco, ma a molti accademici piace riportarla nei curricula. La Regione Lombardia ci ha costruito addirittura il premio “Lombardia e Ricerca”: un milione di euro l’anno da dividere al massimo tra tre ricercatori scelti da 15 membri Tis. “Una dotazione superiore a quella dei premi Nobel”, dice la Regione. Ma chi seleziona i 15 giurati dalla lista Tis? La Regione spiega che usa solo la banca dati Scopus, più seria. Eppure sul sito del premio, la Regione riporta spesso l’uso della lista Tis. Nel 2017, una giuria di 14 Tis assegna il milione di euro a Giacomo Rizzolatti, neuroscienziato e Tis, scopritore dei neuroni specchio. L’anno dopo Rizzolatti sarà giurato per l’assegnazione dello stesso premio. “Sono la Regione e la Fondazione Umberto Veronesi a indicare i giurati”, spiega Rizzolatti. Così però sembra quasi che i Tis si premino l’un l’altro. “In parte è vero”, risponde al Fatto. “Fino quando ci sono stato io, il regolamento prevedeva che chi vinceva poi facesse il giurato”. Un mese fa, Boscolo ha fondato la rivista Journal of Top Italian Scientists. Ha deciso lui i criteri di pubblicazione: negli studi deve figurare almeno un autore Tis perché vengano presi in considerazione, un criterio mai visto al mondo.

Come nasce l’idea della rivista? “Un giorno – risponde Bo scolo – ho fatto un esperimento: mettere un articolo sul sito web della lista Tis . Ho visto che Google Scholar lo indicizzava anche se non era mai stato pubblicato (da una vera rivista, ndr) e aumentava i punteggi degli autori citati nell’articolo”. Quindi la rivista serve ad aumentare i punteggi bibliometrici dei Tis? “Sì, anche”, dice Boscolo. Citarsi l’un l’altro per gonfiare i punteggi è pratica considerata scorretta: alti indici bibliometrici possono orientare fondi e carriere.

A Boscolo serviva un board editoriale. Ben 346 accademici Tis hanno accettato di farne parte nonostante l’opacità dell’operazione. Nel board c’è anche Salvatore Cuzzocrea, farmacologo, ex rettore dell’Ateneo di Messina ed ex presidente della Conferenza dei rettori (Crui) dimessosi da entrambi gli incarichi a ottobre 2023 perché indagato per alcuni rimborsi milionari. Di recente, per un’altra vicenda, Cuzzocrea è stato rinviato a giudizio per turbativa d’asta. Studi di cui è autore sono stati oggetto di 158 segnalazioni su PubPeer, il sito che riporta potenziali frodi scientifiche o plagi. Il 18 gennaio 2024, per la prima volta, un suo articolo è stato ritrattato. “L’articolo non è mio”, dice Cuzzocrea, che pure figura come primo autore.

ANCHE ALESSANDRA BITTO, farmacologa clinica dell’Università di Messina, è nel board della rivista. Ha 79 segnalazioni su PubPeer ed è co-autrice di 9 articoli ritrattati. C’è poi Roberto Bolli, direttore del dipartimento di Chirurgia vascolare dell’Università di Louisville, Kentucky, per il quale l’università di Harvard, nel 2018, chiese la ritrattazione di 31 studi. E ancora, c’è Domenico Ribatti, coautore di Paolo Macchiarini, il chirurgo condannato in Svezia per violenze su tre pazienti, a cui è ispirata la serie Netflix Bad Surgeon. Ribatti condivide con Macchiarini un articolo su Nature che è stato ritrattato. Anche Paolo Miccoli, ex presidente dell’Agenzia nazionale di valutazione della ricerca (Anvur), è nel board. Aveva copiato il tema proprio nel concorso per entrare in Anvur. Oggi è presidente dell’Associazione delle Università telematiche. Nel board figura infine Ignazio Marino, ex senatore ed ex sindaco di Roma e chirurgo alla Thomas Jefferson University di Filadelfia (Usa). “Ho offerto una potenziale disponibilità condizionata a un approfondimento degli obiettivi e del ruolo – spiega al Fatto –. Ma dopo la mia email del 23 dicembre 2023 non ho più saputo nulla. Non so perché il mio nome sia sul sito della rivista”.

 

(Fonte: Il Fatto Quotidiano) 

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“Top Italian Scientists: buco nella classifica degli studi” è stato scritto da Laura Margottini e pubblicato su ROARS.

Rosa

di Laura Ramieri

Prima di questa storia, nessuno sapeva perché il Signor Rosa amasse quel colore. In tutte le sue sfumature, dal brillante al pastello, ma solo, rosa.

Il Signor Rosa, il cui vero cognome era proprio Rosa, era alto e sottile, più simile a un lampione che a un uomo, aveva i capelli scompigliati, nei toni di un pomeriggio bruciato, e i baffi: folti, pettinati con le punte all’insù, rosa. Splendidamente, perennemente, rosa.

Il Signor Rosa lavorava al Luna Park della città, un piccolo spazio fisso fatto di dolciumi invitanti, cartomanti in lustrini, giostrine luccicanti, pupazzi simpatici. Di giorno era frequentato da bambini golosi, ragazzini curiosi, addetti ai lavori indaffarati, e un pizzico di quel senso di abbandono caratteristico di un luogo di divertimento quando c’è troppa luce. La sera, si animava magicamente delle più strane creature. Persone sfortunate, animali perduti, e tutti quelli segnati da difetti inaccettabili alla perfezione del giorno: cicatrici spaventose, deformità tremende, arti mancanti, cecità crudeli, sorti maledette. Ma a cosa serviva, nascondersi, se le persone del giorno, chiamiamole così, non si accorgevano di quelle della notte, chiamiamole così?

Il Signor Rosa abitava entrambi i mondi, quello del giorno, e quello della notte, e non provava assolutamente nulla.

Il signor Rosa aveva ipnotici occhi azzurro piscina, e indossava sempre al polso destro un braccialetto di perline nere lucide, che sfavillavano enfatizzando ogni suo movimento, e che nascondevano una scritta tatuata all’interno dell’avambraccio, una scritta nera, appena percettibile, in una bella grafia dal tocco infantile: Rosa.

Dettagli del Signor Rosa che venivano notati, ammirati come fantasticherie, e poi, dimenticati insieme alle sue magie. Di giorno, gli sguardi che si rivolgevano a lui somigliavano a scherzi cattivi. Di notte, la sua figura diventava incanto: l’infinita altezza, gli intriganti baffi rosa, i capelli scintillanti come fiamme. Un sogno a occhi spalancati. Tutte le notti il sorriso del Signor Rosa illuminava di meraviglia l’intero Luna Park, e la sua fila lunghissima si snodava paziente ed emozionata: il Signor Rosa era il proprietario del banco dello zucchero filato, lo zucchero filato più buono del mondo, si sussurrava, dal tramonto all’alba. Uno zucchero filato che da lontano, dall’ingresso del Luna Park, riconoscevi come la più stupefacente delle visioni: formava una nuvola quasi trasparente che galleggiava poetica in aria, fino a disperdersi, lenta, in piccoli soffi. E poi ricominciava. Uno spettacolo da togliere il respiro, e il profumo, dolce, dolcissimo, ma dolce come una cosa squisita a cui ti devi avvicinare, che devi vedere, toccare, insomma quella sensazione lì, irresistibile. Tutti, si mettevano in fila. Ammaliati dalle nuvole danzanti, innamorati del profumo delizioso, prendevano il loro posto come piccoli giocattoli, in ordine, con cura, e così ciascun abitante della notte, seppur nella sua tragedia, pareva illuminato. Il magnifico carosello della sciagura, improvvisamente sorridente e felice, aspettava il momento di trovarsi di fronte al Signor Rosa, ammirarlo girare lo zucchero filato, e ricevere infine il suo tanto bramato sguardo, uno per ciascuno di loro, uno sguardo che regalava amore e perdono. Li stregava con fascino e compassione e tutti, davanti a lui, restavano in silenzio, osservavano la procedura che il Signor Rosa compiva meticolosamente, con gesti precisi, e poi, nel momento di porgere quel bastoncino di meraviglia, li guardava in faccia: tutti, tutti, tutti, si sentivano graziati, di più, benedetti. Senza vergogna. Il Signor Rosa era uno specchio che mostrava bellezza, e i più disperati si rivolgevano a lui desiderosi di comprensione, di conforto. Il Signor Rosa non giudicava, e guardava tutti con lo stesso identico, incontenibile, amore. Questo, accadeva solo la notte. Il Signor Rosa aveva un unico gusto di zucchero filato, e ovviamente, era rosa.

 

Il Signor Rosa non provava nulla, abbiamo detto. Come il più perfetto dei personaggi svolgeva un ruolo, non provava rammarico per le persone del giorno, e non provava affetto per le persone della notte, che pure sì, benediva, ma senza quell’amore spettacolare che pareva sprigionare dall’esterno. Il Signor Rosa non provava nessun sentimento. Il suo volto aveva due versioni, il giorno, e la notte, e finiva lì, come se non esistesse, fuori dal Luna Park. Le persone del giorno non avrebbero saputo dire di averlo visto in qualche altro luogo. Le persone della notte non si vedevano, di giorno, e forse vivevano solo al Luna Park, così che anche loro, il suo più fedele pubblico, non sapeva dire di averlo mai visto fuori dalla sua stessa magia.

Perché il Signor Rosa, che aveva una vita all’apparenza gratificante, di più, un uomo ammirato, non provava alcun sentimento? Qualcuno sapeva cosa significasse la scritta sul suo avambraccio?

 

Capitò che era Novembre, la notte nelle luci del piccolo Luna Park somigliava a un sogno fatato, tutto nebbia e brillii. Capitò nella fila senza movimento, senza accorgimento, come un’apparizione: occhiali dalla montatura rosa polvere, papillon rosa confetto, giacca rosa lecca-lecca, pantalone rosa bonbon, stivaletto rosa fucsia. Accanto a lui, un piccolo cane dallo sguardo triste. Il cane era tutto bianco, con una coda vaporosa tutta nera, e una macchia, anch’essa nera, attorno all’occhio destro. Il suo guinzaglio era colore rosa bambola. L’uomo rosa camminava a passi lenti, e il cane teneva la testa alta; i due personaggi seguirono la fila senza un respiro. Pur essendo adatti al contesto, stonavano terribilmente. L’uomo rosa era pallido, aveva gli occhi socchiusi come sottili fessure, e le rughe del suo viso si increspavano in infiniti disegni. Non parlò al cane. Forse qualcuno li guardò, meravigliandosi dell’abbondare di rosa, ma in quella fila erano nel posto giusto, e nessuno rivolse loro gesto, né salutò il cane: in quel bel colore sembravano nascondere qualcosa capace di allontanare anche le persone della notte. Qualcosa che non aveva nulla, di dolce, amorevole, rosa: qualcosa di freddo, di ingiusto. Qualcosa di orrendo.

L’uomo rosa e il cane bianco e nero raggiunsero il loro turno, e arrivarono davanti al Signor Rosa: ecco il momento. Il Signor Rosa divenne cereo, e si immobilizzò. Restarono a guardarsi, l’uomo rosa, il cane bianco e nero, e il Signor Rosa, rigidi come in un malvagio incantesimo. La lunga fila se ne accorse, ma rimase zitta, incapace di descrivere la scena, o di dire una parola. E poi, il cane abbaiò. Una volta, un verso delicato come un commosso saluto, da far battere lieto il cuore. Nell’improvvisamente silenzioso Luna Park una lacrima, dal rumore spettrale, agghiacciante, scese sulla guancia del Signor Rosa, perdendosi nei suoi bellissimi baffi rosa.

 

Una piccola croce costruita da due rametti giace in un campo di erba verdissima, protetta dal respiro di alberi felici. Vicino alla croce, una rosa dai petali lisci, rosa, perfetta. Accanto alla croce e alla rosa, tante altri croci, e tanti altri fiori. Al tramonto il cielo diventa rosa, e la luce, rosa, sembra guardare tutte le croci, abbracciandole con amore.

«Sei davvero tu?»

«Non hai più saputo amare, dopo di me.»

« Non volevo lasciarti sola.»

«Ma io sono in quel posto bellissimo. Tutto rosa.»

«Volevo restare con te, in quel rosa. In quella pace.»

«Non potevi. E adesso non vivi in nessun luogo.»

«Non è lo stesso rosa. Ma ti somiglia, Rosa, guarda.»

«Mi sei mancato.»

«Sei venuta a prendermi?»

 

L’uomo rosa alzò un mano e fece schioccare le dita, senza espressione. Lo schiocco sembrò velare il Luna Park di un cupo dolore, come se la morte in persona si fosse messa in fila, e avesse toccato tutti con il suo male. E quello, fu.

Per un solo primo e unico istante Il Signor Rosa, quella notte di Novembre di nebbia e brillii, perse misteriosamente il controllo del suo zucchero filato. Che devoto, non smise di continuare a filarsi, fino a invadere il banchetto, a ricoprire il Signor Rosa, per poi spargersi nel Luna Park che diventò tutto, tutto, tutto, una gigantesca nuvola rosa, e come la più appiccicaticcia delle caramelle intrappolò cose e persone e del Luna Park, per molti giorni, rimase solo un effetto nebbia che nascondeva la vista, e che nessuno voleva attraversare. Ovviamente, era tutto rosa.

Le persone del giorno si spaventarono, e dissero di aspettare, dissero che si trattava di qualche stranezza dovuta alle piogge, che sarebbe passata. La nebbia rosa durò fino al primo giorno di inverno, durante la notte uno scoppio come di un fuoco d’artificio fece rabbrividire per lo spavento chiunque lo udì. Mille sfumature di rosa colorarono il cielo. L’esplosione si portò via tutto: i dolciumi invitanti, le cartomanti in lustrini, le giostrine luccicanti, i pupazzi simpatici. Si portò via l’intero Luna Park. Ma dove sorgeva una volta l’area, come una aggraziata ombra, rimase, tra le erbacce e la terra, una polvere appiccicosa che nessuno ebbe il coraggio di attraversare, nemmeno di avvicinare. Ovviamente, rosa.

E credo che sia ancora, anche adesso, là.

 

Rosa, mia preziosa amica, la memoria serve a vivere per sempre.

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“Rosa” è stato scritto da Giorgio Mascitelli e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

«La fortuna del Greco», storia di un italiano

di Antonella Falco

Il termine “fortuna” deriva dal latino “fors” e ha la stessa radice di “ferre” che significa “portare”, di conseguenza, stando all’etimologia della parola, “fortuna” vuol dire semplicemente “ciò che porta la sorte”. E La fortuna del Greco – sorprendente romanzo d’esordio edito da Rubbettino del trentenne Vincenzo Reale, insegnante di lingua italiana per stranieri e autore di racconti e libretti d’opera – probabilmente è solo quella di essere riuscito a sopravvivere alle avversità del Fato, uscendo incolume dai disagi della fame e dell’emigrazione, dal bombardamento di Napoli del 3 settembre 1943, dallo scontro a fuoco tra una truppa Alleata e un gruppo di soldati tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, da una potenzialmente rovinosa caduta in montagna, da una cruenta faida paesana e dalle follie del Tòzzolo, suo cugino.

Antonio il Greco è dunque un sopravvissuto, impastato di tenacia, fatalismo e dignità. Deve il suo soprannome alla somiglianza con uno dei due Bronzi di Riace, «quello con un occhio solo, il vecchio guerriero».

La sua parabola esistenziale, che attraversa quasi un secolo di Storia, nazionale e locale, lo rende un testimone dei grandi e piccoli eventi del Novecento italiano, e tuttavia la sua vicenda pare essere calata in un tempo mitico e astorico, si potrebbe dire ancestrale. «Il mondo era così recente che molte cose erano senza nome, e per menzionarle bisognava indicarle col dito»: non è un caso che tornino alla memoria queste parole dell’incipit di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, perché anche nel romanzo di Vincenzo Reale il mondo di Carafa Nuova, immaginario paese incastonato nel cuore dell’Aspromonte, sembra avvolto da un’aura primordiale, e, proprio come la Macondo di Garcia Marquez, è un microcosmo arcano e isolato nel quale la linea di demarcazione tra i vivi e i morti è tutt’altro che netta, così ai viventi è concesso il dono della chiaroveggenza e alla religione ufficiale si mescolano credenze e superstizioni popolari, la magia, il malocchio, le presenze ultraterrene.

Custodi e medium di questo mondo liminare, e dunque figure liminari esse stesse, sono le donne: Coletta, la madre del Greco, che aveva con santa Brigida la stessa intima familiarità che si potrebbe avere con una vecchia amica e parlava col marito morto, sua cognata Teresa, detta la Sanpaulara «perché era nata la notte dei santi Pietro e Paolo» e «aveva la capacità innata di domare i serpenti», tanto da averne addomesticato uno, una piccola serpe rossa che custodiva tra i seni, e sua figlia Marina che sapeva togliere il malocchio. Se alle donne spetta questo ruolo di connessione con lo spirito, la magia e il soprannaturale, gli uomini sono invece figure pragmatiche, materiche, a volte violente fino a divenire brutali e spietate: sono loro che fanno la guerra, che si uccidono a vicenda nelle faide, che si fanno giustizia da soli, in un mondo in cui «la violenza e la beffa coesistevano, così come il senso dell’onore e la lascivia. Era possibile credere in tutto, anche nella congruenza dei contrari. Ciò che contava davvero era sopravvivere, e ognuno doveva sopravvivere a modo suo».

La fortuna del Greco, pur essendo incentrato sul personaggio eponimo, è in realtà un romanzo corale e lo stesso protagonista non può prescindere dal proprio alter ego, Antonio il Tòzzolo, suo cugino e compagno di mille rocambolesche avventure. Il Tòzzolo è una sorta di doppio complementare a cui il Greco guarda con divertimento e ammirazione in quanto capace di fare quello che lui, per il suo carattere sempre controllato e responsabile, non riuscirebbe neppure a concepire. È proprio il Tòzzolo a conferire al romanzo quella sfumatura picaresca che ne alleggerisce il tono epico e tragico: Antonio il Greco e Antonio il Tòzzolo attraversano gli eventi, spesso drammatici, della loro esistenza con spavalderia e noncuranza, convinti di formare insieme un connubio invincibile. Nel rievocarne il ricordo, il Greco ammanta il cugino di un’aura leggendaria fino a creare l’immagine di uno strambo eroe invulnerabile, quasi immortale. La caratteristica che più colpisce del Tòzzolo è la disinvoltura con la quale si relaziona al denaro e a qualsiasi altro bene materiale cui entra in possesso in maniera non del tutto lecita: sembrerebbe dedito a scialacquare ogni sia pur piccola fortuna che gli capiti fra le mani, tuttavia la sua è una leggerezza che ha tutto il sapore della spensieratezza e della gioia di vivere proprie della gioventù. Non è un caso che a fare da spartiacque nella storia del Greco sia proprio la separazione dal Tòzzolo, che decreta la fine della fase più scanzonata e lieta della sua vita.

Pur nella sua specificità tematica e stilistica La fortuna del Greco ricorda la narrativa di Domenico Dara, non solo per quel realismo magico di matrice ispano-americana che sposa felicemente l’antichissima tradizione del racconto orale tipica del nostro Meridione, ma anche per la capacità, che sia Dara che Reale hanno, di creare personaggi iconici in grado di imprimersi indelebilmente nella memoria del lettore.

Il romanzo di Vincenzo Reale è un affresco antropologico, sociologico e storico di una Calabria in bilico tra un passato preistorico, magico, violento ma anche puro e incontaminato e un futuro incerto, una Calabria nella quale distruzione e ricostruzione sono i due poli opposti entro cui la gente è abituata a muoversi e a vivere, ricominciando ogni volta daccapo, in un moto perpetuo che fa di questa terra il luogo per antonomasia del non-finito. Quel non-finito che si palesa negli scheletri di case con i tetti piani, i mattoni a vista, i pilastri sporgenti, senza intonaco e senza finestre: «schizzi di cemento disarmonici» li ha definiti Gioacchino Criaco nel libro La Maligredi. Un aspetto paesaggistico e sociale divenuto ormai identitario della nostra regione. L’incompiuto, come stile architettonico ma anche come categoria dello spirito. Pure il Greco non finirà la sua casa, lui, esperto muratore che l’ha tirata su con le proprie mani, mattone dopo mattone, deciderà di non finirla. Non perché non può, ma perché non vuole. E sui diversi possibili motivi di questa scelta, come sulle differenti interpretazioni di quella che può essere stata (o non stata) la fortuna del Greco, il romanzo si chiude, in un finale che lascia al lettore la libertà e lo spazio di trarre le proprie conclusioni.

Il romanzo di Vincenzo Reale pur attingendo a una storia familiare – è il nonno dell’autore ad aver ispirato la figura del Greco – affronta tematiche in cui tutti possono riconoscersi, come sempre accade con la vera letteratura che sa partire dal particolare per assurgere all’universale.

La narrazione, potenziata dalla forza immaginifica della parola, si snoda attraverso piani temporali diversi, non seguendo un ordine cronologico lineare ma procedendo per salti, perché è così che «si racconta la vita, saltando di qua e di là nella memoria, ricordando un po’ i buoni un po’ i cattivi tempi intrecciati e indistricabili, in una concatenazione di persone e parole».

Vincenzo Reale, La fortuna del Greco, Rubbettino 2023, pp. 171, euro 16,00

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“«La fortuna del Greco», storia di un italiano” è stato scritto da davide orecchio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Tumor Valley, un video prodotto dall’intelligenza collettiva delle lotte in Emilia-Romagna

In val Padana si respira la peggiore aria dell’Europa occidentale. In tutte le mappe dell’inquinamento nel continente, questa zona è nera pece in un mare di giallino e arancione pallido. Ci sono lunghi periodi dell’anno in cui la regione in cui viviamo, l’Emilia-Romagna, è una gigantesca camera a gas. Nel discorso pubblico – quello degli […]

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“Tumor Valley, un video prodotto dall’intelligenza collettiva delle lotte in Emilia-Romagna” è stato scritto da Wu Ming e pubblicato su Giap.

Da termometro a valutazione individuale: la resistibile ascesa dei test INVALSI

Un vecchio adagio recitava che i test INVALSI servissero per migliorare il sistema di istruzione, che fossero anonimi e che non valutassero né il singolo studente, né l’insegnante. Si trattava di un semplice termometro: uno strumento che segnalava i punti di forza e i punti di debolezza della scuola italiana. Non bisognava demonizzare un termometro: ogni strumento, si sa, non è né buono né cattivo in séDipende dall’uso che se ne fa. Questo racconto non ci aveva mai convinto. Origini e scopi dei test erano stati ben delineati dal trio Checchi-Ichino-Vittadini nel 2008 in un documento per l’allora ministra Gelmini: i test sarebbero dovuti progressivamente diventare lo strumento di regolazione dell’insegnamento e della popolazione studentesca. Da termometro di stato a certificazione algoritmica individuale, è stato un attimo. Una prevedibile e resistibile ascesa, quella dei test Invalsi: realizzatasi con sostegno politico e mediatico trasversale e irriducibile, nell’assenza di voci critiche radicali. Bene constatare che oggi, quando i buoi sono scappati dalle stalle, si levino petizioni e preoccupazioni diffuse. Noi sosterremo queste posizioni, benché tardive, perché continuiamo a credere che ogni costruzione umana e ogni fede, perfino quella nei test Invalsi, siano in realtà fatti profondamente politici, e quindi modificabili.


Un vecchio adagio recitava che i test INVALSI servissero per migliorare il sistema di istruzione, che fossero anonimi e che non valutassero né il singolo studente, né l’insegnante. Si trattava di un termometro, un semplice termometro: uno strumento che segnalava i punti di forza e i punti di debolezza della scuola italiana. Non bisognava demonizzare un termometro: ogni strumento, si sa, non è né buono né cattivo in séDipende dall’uso che se ne fa.

Questo racconto non ci aveva mai convinto.  Le origini del sistema di misurazione degli apprendimenti erano state ben tracciate da Daniele Checchi, Andrea Ichino e Giorgio Vittadini nel 2008: i test nascevano per diventare progressivamente uno strumento di controllo e gestione dell’insegnamento, e di regolazione della popolazione scolastica. Tutto sarebbe venuto col tempo e senza fretta. Lo avevamo ricordato anche qui.

Nel 2016 arrivò infatti  la misura valore aggiunto delle scuole,  nel 2017 le prove divennero computerizzate; poi fu la volta delle certificazioni individuali delle competenze, a firma del direttore generale INVALSI: una vera e propria seconda pagella con tanto di  “voto” da 1 a 5 (livello) in matematica, italiano e inglese.

Sebbene la metafora del termometro buono cominciasse a scricchiolare, il volontarismo progressista, misto ad un’ingenua fiducia nei dati che danno senso e correggono il mondo, continuava a ritenere lo strumento perfettibile. D’altra parte, l’indotto che nel tempo si andava consolidando attorno ai test – ricercatori e studiosi di varie aree disciplinari, fondazioni, enti e aziende private – proliferava, intrecciandosi sempre più alle attività istituzionali di scuole e università.

Il cambio di passo non si fece attendere: l’immagine dello strumento (termometro, fotografia o analisi del sangue) fu progressivamente accompagnata dalla nuova retorica delle disuguaglianze, dei divari e dell’equità.

“Dati per tutti per non lasciare indietro nessuno” fu lo slogan che nel 2019 inaugurò la messa in circolazione di una nuova parola d’ordine, la dispersione implicita, e di una nuova postura comunicativa: la valutazione compassionevole. Solo i test Invalsi censuari avrebbero potuto segnalare gli studenti  “dispersi impliciti” (citazione testuale), ovvero coloro che fallendo nei test avrebbero rappresentato una nuova piaga sociale. Una categoria di giovani da sorvegliare, anno dopo anno, regione per regione:  bambini e adolescenti destinati ad “una vita adulta con competenze totalmente insufficienti per agire autonomamente” (citazione ancora testuale).

Nel 2020 arrivò la pandemia, e i test furono sospesi, ma durò poco. La macchina dell’informazione pubblica produsse prontamente lo spettro del learning loss e della perdita di apprendimenti da quantificare.

Con il PNRR, arriviamo all’oggi. E la posta in gioco dei test continua ad alzarsi.

Da un lato, essi acquisiscono valore predittivo, diventando indicatori di fragilità individuale capaci di “individuare precocemente” disagi e insuccessi scolastici e indirizzare risorse vincolate ad attività di recupero differenziate.

Contemporaneamente, un decreto legge (nr 19, 2 Marzo 2024) prevede che i risultati entrino nel curriculum digitale di ogni singolo alunno, accessibile tramite la piattaforma ministeriale Unica.

Da termometro di stato a certificazione algoritmica individuale, è stato un attimo. Un percorso politico scorrevole e trasversale, favorito da un sostegno mediatico compatto e irriducibile, nell’assenza di voci critiche radicali.

Bene constatare che oggi, quando i buoi sono scappati dalle stalle, si levino petizioni e preoccupazioni diffuse. Noi sosterremo queste posizioni, benché tardive e parziali, perché crediamo sempre che ogni costruzione umana e ogni fede, persino quella nei test Invalsi, siano in realtà profondamente politiche, e quindi modificabili.

Nel frattempo, attendiamo la pronuncia del Garante della Privacy e invitiamo i primi 500 mila fortunati studenti (e rispettive famiglie) che si troveranno nel curriculum misteriosi punteggi Invalsi a fare richiesta formale di accesso e spiegazione dell’esito che gli verrà automaticamente attribuito.

Dinanzi ad un esercizio di potere opaco che etichetta con un giudizio imperscrutabile, possiamo ancora invocare  il Diritto.

L’immagine di copertina è tratta da qui.

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“Da termometro a valutazione individuale: la resistibile ascesa dei test INVALSI” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.

Deus ex Makina: Maniak

 

La nuova crociata dei bambini

di

Francesco Forlani

Sarà pur vero che oggi più che mai viviamo in un’epoca in cui solo la tecnica potrà finalmente offrirci la consapevolezza della fragilità nostra e del nostro pianeta, ma sarà ancora una volta la letteratura a renderne disponibile il racconto. Sentiamo da due anni almeno, come voci di Cassandra, gli uni e gli altri, raccontarci la”svolta” delle nostre vite con l’avvento dell’Intelligenza artificiale, in ogni campo dello scibile umano, in ogni parte dell’umano senza alcuna distinzione tra anima e corpo ma questo di Labatut è il primo libro, almeno per me, a tentare una genealogia appassionante di tale rivoluzione tanto cruenta quanta necessaria, per capire da dove si era partiti.

Dalle prime pagine di questo romanzo vivamente consigliatomi dall’amico Miguel Gallego, sentiamo una profonda tensione tra vita e tecnica, una guerra senza esclusione di colpi, combattuta da eroi, generalmente scienziati, alle prese con le scoperte che hanno cambiato la storia dell’umanità, con tanto di nome e cognome e fatti che potremmo definire storici. 

“Tutto ebbe inizio con un telaio meccanico, e devo dire che si trattava di un apparecchio mostruoso. Sembrava proprio la macchina sognata da Franz Kafka nel suo racconto Nella colonia penale, quella che incide sul corpo del condannato il comandamento che ha trasgredito: un gigantesco insetto metallico con diecimila zampe, che ingurgitava istruzioni e secerneva fili di seta come un vecchio ragno deforme. Papà l’aveva portato a casa per farcelo vedere.”

A pagina settanta di questo “curioso” libro di Benjamin Labatut si racconta della scoperta, fondamentale per il celebre matematico Von Neumann, di un telaio a schede perforate. Sono andato a riprendere l’incipit del racconto in questione e un dubbio non affatto inessenziale è sorto su come fosse stato tradotto in due versioni differenti. Poiché si trattava di un’opera in tedesco ho chiesto lumi alla mia amica Silvia Bortoli, germanista:

Silvia cara assai, mi servirebbe una piccola tua consulenza traduttoria. Nella colonia penale di Kafka, l’incipit in francese dice “c’est un appareil singulier”, in quella italiana, credo perché ho consultato una versione on line pirata: “”È una macchina veramente curiosa”, tu come l’avresti tradotto?

Io avrei tradotto “è un apparecchio singolare”. È una versione fedele. Cosi lo traduce anche Andreina Lavagetto (Feltrinelli), ma Anita Rho, grande traduttrice della generazione precedente, che traduceva con maggior libertà e maggiore attenzione all’efficacia narrativa, ha tradotto con “È veramente una macchina curiosa”, e ritmicamente è migliore di quella che hai trovato tu, che pure le assomiglia.

Apparecchio, che come ci ricorda la Treccani è “nell’uso tecn. e scient., complesso di elementi di varia natura, meccanici, elettrici, ecc., coordinati in modo da costituire un dispositivo atto a un determinato scopo”.

Apparecchio dunque ma anche congegno narrativo, dispositivo, telaio, trama, ordito, filo, per rimanere alla “macchina” che strega una delle menti più brillanti del secolo breve,  come ci viene raccontato da Eugene Wigner, Premio Nobel per la fisica nel 1963.

Ho conosciuto Planck, von Laue e Heisenberg. Paul Dirac era mio cognato, Leo Szilard e Edward Teller sono stati fra i miei più cari amici, e anche Albert Einstein era un buon amico. Ma nessuno di loro aveva una mente rapida e acuta come quella di János von Neumann. L’ho affermato diverse volte in loro presenza, e nessuno mi ha mai dato torto.
Solo lui era del tutto vigile.

Leggendo capitolo dopo capitolo questa incredibile prova di Labatut non si può non pensare al grande Marcel Schwob, e in particolare a due opere. Sicuramente, Vite immaginarie, e a seguire La crociata dei bambini. Il primo per la dimensione programmatica della bio-fiction, vero e proprio manifesto su come “romanzare” la vita degli altri, famosi o meno che siano; il secondo per aver saputo come pochi illustrare quello strano episodio del 1212, all’insegna del frammento di Eraclito tra i più oscuri e sorprendenti: Il tempo è un bambino che gioca, che muove le pedine; di un bambino è il regno.

Scrive Schwob:

Ed è proprio su questo che si fonda l’arte del biografo: sulla scelta. Non deve essere vero; deve creare una congerie di tratti umani. Leibnitz dice che per creare il mondo, Dio ha scelto il migliore tra i mondi possibili. Come una divinità inferiore, il biografo è in grado di scegliere, fra i possibili umani, ciò che è unico. Non deve ingannarsi sull’arte, non più di quanto Dio si sia ingannato sulla bontà. È necessario che l’istinto di entrambi sia infallibile. Pazienti demiurghi hanno raccolto per il biografo certe idee, certi movimenti fisiognomici, certi fatti. La loro opera è sparsa nelle cronache, nelle memorie, negli epistolari e negli scolii. In mezzo a questo arruffio il biografo sceglie ciò che gli serve per dare vita a una forma che non somiglia a nessun’altra. Non serve che essa sia simile a quella che fu creata un tempo da un dio superiore, basta che sia unica, come qualsiasi altra creazione.

La sensazione che si ha leggendo Maniac, è che Benjamin Labatut abbia seguito alla lettera le indicazioni di Schwob, ovvero programmando la sua makina anagramma di maniak ben al di là della bibliografia proposta nelle ultime pagine, esplorando ognuno degli interstizi offerti in quell’immensa documentazione a disposizione.

In altri termini non commette l’errore di molti biografi di credersi storici privandoci, per quella strana ambizione alla scientificità del dato oggettivo, di quanto v’è di più essenziale nella vita e soprattutto nell’arte del romanzo:

E così ci hanno privato di mirabili ritratti. Hanno creduto che solo la vita dei grandi uomini potesse interessarci. L’arte è estranea ad analisi di questo tipo. Agli occhi del pittore il ritratto d’un perfetto sconosciuto, fatto da Cranach, ha lo stesso valore di quello di Erasmo. Non è grazie al nome di Erasmo se quel quadro è inimitabile. L’arte del biografo dovrebbe consistere, piuttosto, nel dare lo stesso risalto sia alla vita d’un povero attore che a quella di Shakespeare. È un bieco istinto che ci fa constatare con piacere la contrazione del muscolo sternomastoideo nel busto di Alessandro, o il ciuffo in testa nel ritratto di Napoleone. Il sorriso di Monna Lisa – per quanto ne sappiamo potrebbe anche essere un uomo – ha un che di ben più misterioso.

Enfant prodige

In ognuna delle tre parti che compongono il polittico immaginato da Labatut troviamo la parola Wunderkind.

“Quindi c’era un alieno in mezzo a noi, un vero Wunderkind, e a scuola tutti parlavano di lui. Dicevano che aveva imparato a leggere a due anni”.

Per il piccolo Von Neumann, che ebbe un ruolo fondamentale nella costruzione della Bomba Atomica prima e nella rivoluzione informatica poi, risuona nel lettore il frammento eracliteo, del bambino preso dal suo stesso gioco, come quando, da adulto bambino è alle prese con il MANIAC, ovvero la loro macchina Mathematical Analyzer Numerical Integrator And Computer.

I protagonisti vengono descritti, raccontati, messi sovente a nudo, da quanti ne costituiscono il vero mondo di relazioni sociali e vitali: qui è la moglie che lo racconta, la prima o la seconda, un collega di laboratorio, un concorrente, l’amico anche se è il più delle volte dai nemici che arriva al lettore il tassello decisivo. Come nella Crociata dei Bambini di Schwob, il nudo fatto si veste delle narrazioni di ognuno dei protagonisti o semplici testimoni dei fatti: il goliarda, il lebbroso, i bambini, il Papa, il mendicante o la piccola Allys.

Sappiamo da Klára Dán Von Neumann, dopo un esilarante scambio di vedute del suo John con Albert Einstein e di cui lasceremo al lettore la scoperta, come per lui la vita fosse soltanto un gioco, un terribile gioco da prendere sul serio. Ed è grazie ad uno dei suoi eccessi che scopriamo la più insostenibile delle verità con cui uno scienziato deve misurare la propria coscienza. Non è allora questione di agire nel mondo con una doppia morale, come nella recente opera cinematografica dedicata a Oppenheimer da Christopher Nolan, ma di ammettere una volta e per tutte che quando si fa una scoperta non è possibile tornare indietro.

 « Quello che stiamo creando» disse «è un mostro la cui influenza cambierà il corso della storia, sempre che una storia continui a esserci! Ma sarebbe impossibile non andare fino in fondo. Non solo per ragioni militari, ma anche perché non sarebbe etico, da un punto di vista scientifico, non fare quel che sappiamo di poter fare, per quanto le conseguenze possano essere terribili. E questo è solo l’inizio! ».

È un passaggio chiave a mio avviso perché permette di capire cose altrimenti insostenibili dal punto di vista etico. Ricordo perfettamente quando in una piacevole conversazione con un mio compagno di liceo diventato medico, in cui gli raccontavo dei miei studi sulla “questione della colpa nella Germania Nazista, mi parlò del suo manuale, credo di fisiologia, se non ricordo male- ma non ne ho trovato conferma in rete- del Favilli, che riportava a proposito delle conoscenze della medicina sull’ipotermia come queste fossero state acquisite sulla pelle dei deportati nei campi di concentramento.

Ricordo allora la stessa domanda – ma non le risposte- sulla legittimità di tali scoperte, su come si potesse “approfittare” di tale abominio. Non è affatto un mistero che il peggiore istinto dell’uomo, nell’esercizio dell’arte della guerra, abbia nella storia prodotto invenzioni micidiali, armi terribili, con il solo scopo di dominare la vita degli altri, ma un mistero rimane su come le stesse abbiano provocato come effetti collaterali beni preziosi per l’umanità. Le prime riprese cinematografiche dei Fréres Lumière, come ci ricorda la studiosa Violaine Challéat  facevano riferimento a scene militari, così l’energia atomica o la stessa Rete Internet, inventata in piena guerra fredda. Von Neumann ci dice che sarebbe perfino non etico rinunciare alla verità di una scoperta, a prescindere dalle idee e azioni che l’hanno resa possibile. MANIAC è figlio delle menti di Los Alamos, l’IA la piena realizzazione dell’avventura.

«Con la creazione della bomba atomica i fisici hanno conosciuto il peccato, ed è una conoscenza che non possono più perdere». Questo aveva detto Oppenheimer.

Un gioco da ragazzi

“AlphaGo era il parto della mente di Demis Hassabis, un Wunderkind della zona nord di Londra che aveva quattro anni quando vide il padre – un cantautore nonché proprietario di un negozio di giocattoli greco-cipriota – giocare a scacchi con lo zio. Chiese loro se gli potevano insegnare a muovere i pezzi sulla scacchiera, e un paio di settimane dopo nessuno dei due era più in grado di sconfiggerlo.”

Grazie a Labatut scopriamo che a Los Alamos, coloro che avrebbero fabbricato il più grave assalto al cielo da che storia era storia, giocavano spesso a scacchi prima di lasciarsi sedurre da un altro gioco più antico e importato dall’oriente, il GO. E scoprirà il lettore l’incredibile storia della famosa partita dell’Atomica, quella giocata dall’allora campione in carica di GO, Utaro Hashimoto, contro lo sfidante Kaoru Iwamoto, il 6 Agosto del 1945 a Hiroshima.

 

Scena de “Il processo” di Orson Welles
Children play the popular East Asian board game Go, also known as Baduk in Korean, at the 11 World Youth Baduk Championship in Seoul, 2011( PHOTO REUTERS)

Nelle ripetute sfide tra giocatori in carne e ossa e macchine pensanti raccontate con estrema grazia da Labatut – splendidamente tradotto da Norman Gobetti- si rimane davvero incantati come quando si assiste ad un gioco che non si conosce affatto ma che ci coinvolge attraverso l’estrema precisione con cui i giocatori lo vivono. L’illusione- stare nel gioco, in ludum- sembra moltiplicarsi da sé, il gioco vivere di vita propria, come nel racconto poco noto di Walter Benjamin Rastelli racconta.

Rastelli è un mago che ha un solo numero, semplicissimo e meraviglioso che consiste nel far eseguire a una palla movimenti e volteggi con le sole note di un flauto dotato di poteri sovrumani. Quando viene presentato alla corte di un sultano che nulla perdona e molto offre a chi fosse stato in grado di divertirlo accade il fatto. Nessuno sapeva il trucco del mago che consisteva nel dirigere la palla grazie a un nano che in una simbiosi perfetta con la sfera e le note del suo padrone, invisibilmente creava quel gioco. La sera del tanto temuto spettacolo Rastelli, pur avendo percezione di qualcosa di terribile, esegue alla perfezione il suo numero riuscendo così ad avere salva la vita e ottenere un lauto premio dal committente.

Quando all’uscita del palazzo attende il complice nano per felicitarsi accade che al posto di questi si presentasse trafelato un messaggero che quasi lo assale in mezzo alle guardie :

«Vi ho cercato dappertutto, signore, – gli disse. – Ma Voi avevate lasciato le vostre stanze anzitempo, e non mi è stato concesso di accedere al Palazzo». Ciò dicendo mostrò una lettera autografa del nano. «Caro maestro, non siate in collera con me, – c’era scritto. – Oggi non potete esibirvi dinanzi al Sultano. Io sono malato e non posso lasciare il letto».

Appassionante l’ultima sfida all’ultima pietra, tra il Wunderkind Lee Sedol e AlphaGo. Quando la macchina ha sfidato il bambino e ha vinto, quando abbiamo scoperto che Dio stava per tornare sulla terra.

 

 

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“Deus ex Makina: Maniak” è stato scritto da francesco forlani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Il maiale Kras

di Giorgio Kralkowski

Le urla si sono quasi dissolte sopra le tegole del casale e al fumo dei camini, si sono infilate tra l’erba alta e hanno forse raggiunto gli uomini nei campi più lontani, appena prima delle acque del fiume, che inghiottono le voci di chi vi parla appena accanto. Adesso al loro posto i fruscii del lavoro, i rumori umidi delle mani e della carne, il tremare del metallo dei coltelli.

I nostri visi si incontrano nella grande vasca del sangue bruno del maiale Kras. Sul liquido scuro e lucido emergono porzioni delle nostre facce bianche, il riflesso delle lampade fioche, la luce grigia dell’alba. Agli odori tiepidi e brumosi della mattina e del sudore si mescolano quelli caldi secchi polverosi della terra e della paglia che si sentono anche in bocca. Il legno già brucia nelle stufe.

*

Nel silenzio di questo luogo lontano, ora che la notte si trasforma in alba, ritornano alla memoria spettri di suoni remoti: in giorni come quelli le urla riempivano i vuoti tra le case e trovavano una fuga solo nel cielo e tra le spighe dei campi. Erano come le urla acute dei bambini sotto una mano aperta, o sotto i colpi di un bastone. Quando iniziai a ricordare i suoni degli anni che erano stati, ero un bambino. Ne avevo appena tre e, seduto sulla paglia in un angolo del casale, osservavo; sette quando iniziai ad avvicinarmi; nove quando iniziai a portare i secchi per raccogliere il sangue. Quando la pelle bianca delle mie mani si bagnò di un rosso vivo ne avevo dieci. A sedici mi venne regalato un coltello. Quell’anno mi dissero che è “importante la prima bestia che si uccide… le nostre mani… il sangue…”.

*

Krzysiek e suo padre, con gli stivali immersi nel vascone, abbracciano i fianchi del grande animale, quasi senza che ve ne sia bisogno, tanto mansueto si mostra alla vista della lama, e così a un colpo in testa che quasi lo stordisce. Alla prima incisione di quella pelle spessa emette uno squittio soffocato. Solo quando il coltello affonda intero nella carne solleva un grido alto, terrificante e umano, per poi lasciar cedere la tensione dei muscoli delle zampe, abbandonarsi in terra e crollare nella polvere e nel silenzio.

Grandi secchiate d’acqua calda vengono gettate in terra. Il sangue ancora sgorga nel vascone e nelle bacinelle e nei secchi. Le vasche vengono scambiate non appena si riempiono e vengono versate in grandi tinozze, e poi da capo. La carne delle zampe posteriori viene trapassata da due ganci e il corpo viene issato a mezz’aria. Il calore di quella che un tempo era stata la vita di Kras sale e si straccia come vapore nelle volte del casale.

*

Kras era stato il maiale più grande che il paese ricordasse: una bestia mostruosa, immensa. Ricordo che arrivava con il dorso poco sotto la spalla di un uomo adulto, ben piazzato e dal petto largo, e aveva la testa grande come quella di un grande bovino, tanto da poter essere montato e cavalcato: occasioni, queste, che non erano mancate, e non solo nei giochi dei bambini, ma anche in quelli degli ubriachi. Di temperamento, si era sempre mostrato mansueto, tanto che era rimasto quasi immobile quando si era trovato di fronte una mano con un grosso coltello.

Si sarebbe detto che attendesse da sempre, che nella propria coscienza di bestia castrata la morte fosse solo un altro punto nell’accidentalità del tempo, o dell’eternità, così come lo era stato il suo venire al mondo tempo prima. Sembrava, o così a me sembrava quando la sera lo riportavo in stalla e mi sedevo in terra di fronte a lui, di scorgere nei suoi occhi neri una saggezza antica, una dimenticata arte divinatoria, un certo sentire innato, ferino: un tempo delle bestie. Sembrava che nel corpo di Kras vibrasse un qualcosa di remoto e intraducibile, e che se anche avesse posseduto le parole, non avrebbe potuto dire.

*

La somma dei rumori affiochisce e gli uomini lasciano i propri lavori per accendere il fuoco con cui bollire la carcassa del grande animale. L’enorme testa pallida e pelosa di Kras viene staccata con colpi secchi e violenti che vibrano sordi sul legno. Inizia a farsi lucida quando viene separata dall’immenso corpo, che già pende per far scolare il sangue. Il sangue viene trascinato in basso da niente più che il proprio peso, la gravità e la sospensione di vene che ormai non seguono più un percorso ciclico, ma sono ora un canale aperto, reciso, interrotto. Al rumore del lavoro si sostituisce lentamente il silenzio.

Sono solo e nella luce acerba di questo grande casale esploro gli occhi dell’animale. Il loro colore emana un peso grave e notturno, che si addentra attraverso cunicoli di tane abissali. Nel trovarmi di fronte all’immensa testa mi invade il pensiero di non aver solo ucciso, ma persino decapitato il nume di una divinità pagana che ha abitato questi campi prima ancora che vi fosse un paese; prima che il ripetersi dei passi segnasse un sentiero, che un sentiero dividesse le distese in geometrie, le geometrie in possesso: in tempi in cui le piante e le bestie erano pur senza lo sguardo, pur senza la parola di un uomo. Prima che si iniziasse a separare, a separarci. La mia schiena e le mie mani tremano al pensiero di aver macellato un antico dio delle colline o delle bestie che fino ad allora, di nascosto, ha abitato il corpo del maiale Kras.

Tra i pensieri sento la grande bocca della bestia aspirare lentamente l’aria del grande stanzone come se caricasse un ultimo respiro. Poi, con voce remota e cupa dice “Grazie…”.

“Per cosa?”, chiedo. Kras temporeggia, esala la fatica del morire in un fiato caldo e umido. “Prima o poi, presto o tardi, sarebbe successo…”, aggiunge e sembra fatichi ad aggiungere altro ancora, sia per la testa mozzata, sia per la vita che lo lascia per versarsi nella paglia e sotto i miei stivali.

“Mi dispiace per le urla… so che tua sorella si spaventa…”. Rispondo di non preoccuparsi, che con un coltello in gola anche io avrei urlato, che a differenza di chi lo aveva preceduto era stato quasi impassibile. “Certo”, ride, “un’altra botta in testa l’avrei preferita… Krzysiek ha la mano leggera, mentre tu, o tuo padre…”, sorride ironico, soffia ancora dalle grandi narici fino a farle vibrare. Un’aria calda umida mi si incolla in viso. Indugia: “Senti Marek, che sapore ho, che sapore ha la mia carne?”. Rimango in silenzio. Un gelo acuto e vivo si intreccia alla mia carne. “Dipende…”. “Dipende da come decide di cucinarti la mamma quel giorno. Se diventerai salumi. Quest’anno, se il tempo sarà buono, è probabile che faremo le salsicce e poi con il resto si…”. “Tu non vorresti conoscere che sapore ha la tua carne?”. Esito.

Dopo aver fatto vibrare una delle sue grosse orecchie, quasi ad assecondare compassionevolmente i miei indugi aggiunge: “Ascolta… come fate queste salsicce? Cosa ne sarà della mia carne?”. “Dipende anche quello. Se c’è tanto grano, e quest’anno ne abbiamo, e se di sangue ne hai buttato abbastanza, bolliremo il grano e mescolandolo al sangue ci faremo una salsiccia scura”. “Anche col sangue?”, “Anche col sangue”. “E…”, le parole sono lente, affaticate, gli occhi socchiusi “…e con le mie viscere, poi che ci fate?”, “Ci facciamo una zuppa, ma prima vanno…”, “Perdonami… il tempo è poco e la mia domanda è più importante dell’immaginare in quali strani modi trasformerete il mio corpo. Perdonami, e dimmi Marek… che sapore ha la mia carne? Tu che puoi sapere, mentre sai che io non potrò mai. Dimmi se non la mia, tu puoi conoscere che sapore ha la tua carne?”

L’eco della domanda arriva fioca alle mie orecchie. Il mio corpo si fa inconsistente e così le cose del mondo intorno, che non sono più materia che io possa toccare. L’occhio scuro della grande bestia, in cui il mio viso si riflette in una sembianza appannata e tremula. Sulle mie guance scorrono lacrime calde, che cadono e bagnano le mie mani contratte, si mescolano con il sangue secco per scioglierlo ancora. Mi accorgo di singhiozzare, di un rumore lontano, ovattato, delle mie labbra che tremano. Ai singhiozzi, al vuoto cavo e compresso dei miei polmoni, a un pianto disperato, si mescola un canto basso e continuo che sembra abitarmi da un tempo eterno, anteriore a qualsiasi liturgia che abbia mai scandito durante una messa, a ogni parola che abbia mai ascoltato, a ogni parola che sia mai esistita:

“Nel volume delle viscere mancano le pagine che spiegano a che temperatura vanno mantenute, che tempo farà domani, dove mirare lo sguardo, se oggi sono preda o cacciatore, in quali sentieri… e una noticina scritta a matita: ‘corri più piano, ti inseguirò più piano’. Quali impronte, quali paure seguire, quali abbandonare e come dovrò vestire il mio corpo quest’oggi, a che cottura la mia carne? Devo avvolgerla nella paglia, bagnarla nell’acqua appena calda, prepararla per quando un giorno tornerà a non essere più mia? La terra, la terra, il corpo, la terra. Mangiare fiori, queste erbe che mondino i miei intestini. Provare se le punte delle mie dita sanno ancora della calendula di qualche estate passata?

Quanto del mio sangue cadrà nel mondo dai tagli che si apriranno sulle mie mani, dai morsi che involontariamente masticheranno la carne delle mie guance? Se un giorno le bestie le mangeranno, quando bruceranno, in quale terra mi consumerò? Potessi versarle in un grande catino, tenerle rosse fra le mani, essere una volta solo un corpo, un diavolo nudo. Devo guardare nel buio delle loro pieghe dove è caldo, ma mi è difficile piegare la testa abbastanza. Il centro, il centro, il centro che manca. Quando sarò terra scura, quando ogni pianta crescerà sul mio corpo, quando non sarò più e sarò pianta.

Masticare la mia carne, che il mio corpo corrisponda due volte al mio corpo, questo mai se conosco le parole. Se non conosco il mio sapore chi sarò domani? Esisterà un rituale, un vecchio rituale dimenticato, nel quale si sopravvive al giorno, per il giorno dopo, mangiando il corpo che si è abbandonato la notte prima, appena ci si addormenta, il momento esatto esatto. Verrai mangiato, avrai l’onore, conoscerò il sapore della tua carne e saprò di te, non conoscerò il sapore della mia carne e non saprò di me. Ho scritto questo corpo in una lingua di carne che non parlo, che mai saprò leggere. Non la parola, ma il corpo, non la parola, ma il corpo, non la parola, ma il corpo, si può mai tornare indietro? Il centro, il centro, il centro che manca…”

La voce si spegne e con lei il mio respiro. Aspiro in un rantolo l’aria che ha abbandonato il mio corpo nello spazio di una continua esalazione.

*

Io sto piangendo. Singhiozzo, montando da un lamento a un pianto disperato, mentre la carne del mio corpo contratto rilascia la morsa delle dita, e poi del petto, e delle gambe e frana pesante addosso alla testa della bestia. Rimane tremula l’immagine della pelle della grande testa pallida dell’animale. Poso una mano sulla grande fronte per sentire che scotta come quella di un grave affebbrato e la accarezzo e cingo le mie braccia intorno al grande capo fino a sentire le dita congiungersi e la mia guancia bagnata sul grande animale, balbettando e ingollando aria in polmoni fino a quasi sentirmi soffocare.

Tra il rumore del mio pianto sibila un ultimo rantolo che raccoglie l’aria per un’ultima frase: “Ti disperi tanto ed è così semplice, che non si può dire, che semplicemente è. Più grande di noi, e di noi poco importa, vivi sapendo che anche tu scomparirai. Sei carne e sarai terriccio caldo, e sarai stelo e sarai fiore. Esso era prima che fossimo, sarà quando non saremo più. Non saremo noi a rimanere. Nemmeno io capivo nel tempo in cui ero uomo”. Mentre la mia vista si schiarisce e il mio pianto esausto si spegne, Kras ha smesso di ascoltare, ha abbandonato gli occhi e di lui rimane solo una grossa testa pelosa, abbandonata in un grande e serafico sorriso. Così si separa dalla vita, e da me.

*

La neve riflette il sole restituendo il colore dell’ambra più chiara. L’alba rossa impallidisce per mescolarsi all’azzurro del cielo. Krzysiek torna con gli stracci, altri secchi, la scopa. Gli altri uomini trasportano la legna su un piccolo carretto cigolante. Il casale va pulito, la carne tagliata, spartita e messa al sicuro. Da un tempo di cui nessuno ha ricordi, nel nostro paese, e non negli altri, del maiale si stacca la testa dal corpo restante e si posa su fascine e sterpaglie, per poi accendere un grande falò.

Accendiamo un fiammifero e il fiammifero accende la paglia e la paglia accende i rami e i rami avvampano in un primo fuoco, che lentamente scioglie la poca neve su cui posa la pira. L’odore tiepido del legno che brucia riempie le mie narici. Il fumo si attarda basso sopra i tetti delle case. I galli iniziano a cantare.

Guardo un’ultima volta la testa di Kras scomparire tra le fiamme. Un pesante collare di fumo avvolge quel che rimane di quel che fino a poche ore prima era stato un immenso animale. Mi chiedo se sono stato io a portarla lì sopra, ma non riesco a ricordare. Guardo ancora i suoi occhi, che prima riflettevano la fiamma e ora iniziano ad abbandonare la propria lucentezza e a farsi prima lattiginosi, poi bianchi come quelli dei ciechi, o dei cani con la cataratta. Bruciano i rari peli del muso e la pelle prima suda e si fa lucida, stillando gocce di grasso, poi scurisce in un rosso opaco. Il vento prende a soffiare, le fiamme iniziano a guizzare alte, per poi inghiottirlo lentamente come i rovi quando crescono sulle cose del mondo. I carboni respirano una luce rossa e materiale per farsi lentamente grigi. Rimango seduto in terra fino a non sentire le guance, fino a perdere lo sguardo e il corpo tra le braci. Il vento accarezza le spighe dei campi. Il fiume scorre lontano. Di tutto rimane un silenzio.

Foto di mitjaC da Pixabay

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“Il maiale Kras” è stato scritto da davide orecchio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Test INVALSI nel curriculum dello studente: un abuso

Il recente decreto legge che prevede di inserire i risultati dei test Invalsi nel curriculum degli studenti desta serie preoccupazioni. I punteggi nei test, quanto quelli sul QI, sono fortemente influenzati dalla condizione socioeconomica delle famiglie e dalle caratteristiche del contesto sociale e territoriale da cui provengono gli studenti. Chi proviene da famiglie o da contesti svantaggiati ha, mediamente, punteggi inferiori di chi, invece, è più avvantaggiato sotto il profilo socioeconomico.  Uno dei rischi da scongiurare è che i risultati ottenuti nei test – risultati che, è bene ricordarlo, possono variare nel tempo – possano essere usati per «incasellare» gli studenti, indirizzandone irrimediabilmente il successivo percorso scolastico o professionale. Da strumento per misurare e contrastare le disuguaglianze, i test sulle competenze diventerebbero, così, un elemento che contribuisce a perpetuare le disuguaglianze stesse.

 

  1. A cosa servono i test?

I livelli di apprendimento conseguiti nelle prove Invalsi dovranno essere indicati, in forma descrittiva, in una specifica sezione del curriculum dello studente allegato al diploma di scuola superiore. È quanto prevede, tra l’altro, il decreto legge n. 19 del 2 marzo 2024, riguardante misure per l’attuazione del «Piano nazionale di ripresa e resilienza», ricalcando una norma già contenuta in uno dei decreti sulla «Buona scuola» (d. lgs. n. 62/2017) ma finora rinviata. L’inserimento dei risultati delle prove Invalsi nel curriculum dello studente è, a nostro avviso, una scelta discutibile per una serie di ragioni.

Partiamo dalle finalità delle prove Invalsi. Per come dichiarato nel suo statuto (art. 2), l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione (Invalsi), ha la finalità di promuovere «il miglioramento dei livelli di istruzione e della qualità del capitale umano, contribuendo allo sviluppo e alla crescita del sistema d’istruzione, motore di sviluppo dell’economia italiana e promotore di equità sociale». Ai sensi della normativa sul segreto statistico (D. lgs. n. 322/89) i dati raccolti dall’Invalsi «non possono essere comunicati o diffusi se non in forma aggregata e secondo modalità che rendano non identificabili gli interessati ad alcun soggetto esterno, pubblico o privato, né ad alcun ufficio della pubblica amministrazione». La ragione di ciò, come spiega lo stesso Istituto, è che «le prove non valutano gli studenti come fanno gli insegnanti, ma esaminano i loro esiti di apprendimento e lo stato di salute del sistema scolastico».

In pratica, i risultati dei test Invalsi dovrebbero servire a indirizzare la politica scolastica verso interventi mirati, atti a colmare le lacune formative e correggere le disparità tra scuole o tra aree geografiche. Non dovrebbero servire, invece, per fornire informazioni a terzi sulle competenze degli studenti. Al più, nel rispetto della privacy, i risultati dei singoli studenti potrebbero aiutare i docenti a individuare situazioni di disagio su cui intervenire con appropriati strumenti didattici. Per tali ragioni, i risultati individuali dei test dovrebbero rimanere riservati e il loro utilizzo limitato all’interno del sistema scolastico.

Alla luce delle finalità sopra richiamate, l’argomentazione secondo la quale i risultati dei test Invalsi fornirebbero ai terzi interessati, come i futuri datori di lavoro, utili informazioni sulle competenze acquisite dagli studenti, appare quantomeno discutibile. Purtroppo, come accaduto in altri casi, nel nostro paese strumenti di valutazione pensati per specifici obiettivi, per una sorta di eterogenesi dei fini, vengono utilizzati per scopi diversi da quelli originari.

 

  1. Un problema di disuguaglianze

Ci sono, poi, altri aspetti, ancora più delicati, da considerare. Anzitutto, chiediamoci cosa misurino i test Invalsi. I test scolastici in genere misurano alcune specifiche competenze, ma non quelle attitudini, come la capacità di comunicazione, e quei tratti della personalità di carattere socio-emotivo e relazionale che hanno molta importanza nella vita sociale e nel lavoro. Inoltre, i risultati nei test sulle competenze non si sovrappongono ai voti attribuiti dagli insegnanti. Questi, infatti, sono frutto della valutazione prolungata di una serie di aspetti non racchiudibili in un questionario, per quanto articolato esso possa essere.

Invece, come appurato da solide ricerche [1], i punteggi ottenuti nei test sulle competenze, come quelli condotti negli Stati Uniti e nel Regno Unito, hanno un’elevata correlazione con i punteggi dei test sul quoziente d’intelligenza (QI). La correlazione tra i risultati dei test sulle competenze e quelli sul QI risulta, inoltre, molto alta quando si considerano i punteggi medi nazionali o regionali [2].

Non siamo a conoscenza di studi che riguardino specificamente le prove Invalsi, ma a livello regionale i risultati ottenuti dagli studenti negli Invalsi sono correlati a quelli dei test Ocse-Pisa. Queste evidenze costituiscono ulteriori motivi a sostegno di un atteggiamento prudente nell’interpretazione e nell’uso dei risultati individuali dei test scolastici.

È importante sottolineare che tanto i punteggi nei test sulle competenze, quanto quelli sul QI, sono fortemente influenzati dalla condizione socioeconomica delle famiglie e dalle caratteristiche del contesto sociale e territoriale da cui provengono gli studenti [3-5]. Gli studenti provenienti da famiglie o da contesti svantaggiati hanno, mediamente, punteggi inferiori a quelli che, invece, sono più avvantaggiati sotto il profilo socioeconomico. Fattori sociali ed economici spiegano, poi, le differenze medie nei risultati nei test che si osservano tra quartieri ricchi e poveri delle stesse città o tra territori.

In Italia, nelle regioni meridionali, in cui i redditi sono più bassi e l’incidenza della povertà è maggiore, i punteggi medi degli studenti sono significativamente inferiori a quelli delle regioni economicamente più sviluppate [6]. In breve, i risultati nei test sulle competenze, come quelli Invalsi, riflettono il grado di disuguaglianza socioeconomica tra individui, gruppi e territori. Perché, dunque, riportarli nel curriculum dello studente?

 

  1. Usi e abusi dei test

In conclusione, riteniamo utile interrogarsi sull’utilità dei test scolastici che in Italia, come in altri paesi, si sono affermati sulla base di motivazioni improntate a principi economici e competitivi, la cui validità è messa in discussione da diversi studiosi [7]. L’uso eccessivo o improprio di questi strumenti di misura non è esente da rischi.

Uno dei rischi da scongiurare è che i risultati ottenuti nei test – risultati che, è bene ricordarlo, possono variare nel tempo – possano essere usati per «incasellare» gli studenti, indirizzandone irrimediabilmente il successivo percorso scolastico o professionale. Da strumento per misurare e contrastare le disuguaglianze, i test sulle competenze diventerebbero, così, un elemento che contribuisce a perpetuare le disuguaglianze stesse. Non è un caso che il paese in cui tradizionalmente si fa più largo uso (e abuso) dei test, gli Stati Uniti, sia anche tra quelli con disuguaglianze socioeconomiche particolarmente elevate. La tendenza ad applicare acriticamente modelli e approcci che in altri paesi hanno già dimostrato rilevanti limiti, e il cui utilizzo può produrre guasti sociali, andrebbe evitata.

 

Riferimenti

[1] Borghans L., Golsteyn B.H., Heckman J.J., Humphries J.E. (2016), What grades and achievement tests measure. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 113(47), 13354-13359.

[2] Rindermann H. (2007), The g-factor of international cognitive ability comparisons: the homogeneity of results in PISA, TIMSS, PIRLS and IQ-tests across nations, European Journal of Personality, 21(5), 667–706.

[3]von Stumm S., Plomin R. (2015), Socioeconomic status and the growth of intelligence from infancy through adolescence, Intelligence, 48, 30-36.

[4] Thomson, S. Achievement at school and socioeconomic background—an educational perspective (2018), Npj Science of Learning, 3:5.

[5] Nieuwenhuis J., Hooimeijer P. (2016), The association between neighbourhoods and educational achievement, a systematic review and meta-analysis, Journal of Housing and the Built Environment 31, 321–347.

[6] Daniele V. (2021), Socioeconomic inequality and regional disparities in educational achievement: The role of relative poverty, Intelligence, 84, 101515,

[7] Berliner D.C. (2020), The implications of understanding that PISA is simply another standardized achievement test, in: G. Fan, T. S. Popkewitz (eds), Handbook of Education Policy Studies, Springer, Singapore.

 

 

 

 

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“Test INVALSI nel curriculum dello studente: un abuso” è stato scritto da Eusebio Chiefari Vittorio Daniele e pubblicato su ROARS.

Rossi-Landi: programmazione sociale e poesia

È da poco uscito per Biblion edizioni Maestri contro. Brioschi, Guglielmi, Rossi-Landi, un volume di saggi a cura di Paolo Giovannetti e mia. L’iniziativa è nata da un seminario organizzato alla Statale di Milano il 10 febbraio 2023, grazie al contributo importante di Laura Neri. In quell’occasione, ci dividemmo per gruppi: Laura Neri, Stefania Sini e Lorenzo Cardilli intervennero su Franco Brioschi, Cecilia Bello, Stefano Colangelo, Massimiliano Manganelli e Chiara Portesine su Guido Guglielmi, Simona Menicocci, Ezio Partesana, Francesco Maria Terzago ed io su Rossi-Landi. Oltre a Paolo Giovannetti, era presente nel ruolo di moderatore Giorgio Mascitelli.

Di Andrea Inglese

 

Una filosofia del linguaggio pionieristica

A Ferruccio Rossi-Landi si confà perfettamente il titolo del nostro incontro, e nel duplice significato di essere controcorrente – fuori dalle mode e dalle tempistiche intellettuali del suo paese – e contro in senso teorico e politico, in quanto difende una concezione “militante”, seppure minoritaria, del sapere sull’uomo e il linguaggio. Si batte, insomma, non solo contro un modello di sapere ma anche di società, che quel sapere legittima. A ciò si aggiunga una pratica precoce dell’interdisciplinarità e del dialogo serrato tra filosofia e scienze umane (linguistica, semiotica, economia).

Rossi-Landi è stato dunque un pioniere nell’ambito della ricerca intellettuale. Si trova a Oxford l’anno stesso della morte di Wittgenstein (1951). E di Wittgenstein coglie tutta la portata critica nei confronti sia del positivismo logico che della successiva filosofia analitica. Del 1961 è il suo primo libro, Significato, comunicazione e parlare comune, in cui propone una lettura critica dei presupposti fondamentali della filosofia analitica. Ora, un tale lavoro non poteva essere recepito dalla filosofia italiana, ancora ignara del dibattito analitico e non ancora arricchita del confronto con la linguistica e la semiotica, come avverrà invece durante la temperie strutturalista. Il pensiero di Rossi-Landi continua a evolvere sul filo di un dialogo tra il secondo Wittgenstein e Marx. È del 1966 un suo articolo dal titolo “Per un uso marxiano di Wittgenstein”. Ed anche questa nuova direzione di ricerca lo colloca, nel panorama italiano, in una posizione assai solitaria. Ma la singolarità del suo percorso è riscontrabile fin nei suoi lavori più tardi, come Metodica filosofica e scienza dei segni del 1985, pubblicato l’anno della sua scomparsa.

Un piccolo esempio non tanto dell’inattualità di Rossi-Landi, ma del fatto che ancora non sia stata assimilata la sua lezione, è la smilza pagina che gli dedica Wikipedia. Di certo, il suo isolamento intellettuale e l’originalità di una ricerca in perpetua evoluzione hanno favorito anche il formarsi di alcuni nodi irrisolti nel suo pensiero. Ne sono testimonianza, oggi, studi di giovani ricercatori, che hanno come ambizione di riconsiderare i fondamenti teorici del suo pensiero in un’ottica critica e di ulteriore chiarificazione. A questo proposito è importante citare almeno la recente monografia di Giorgio Borrelli dal titolo Ferruccio Rossi-Landi. Semiotica, economia e pratica sociale (Edizioni dal Sud, 2020). Essa conferma che, seppure con ritardo, esiste un nuovo interesse per il nostro autore e non solo da un punto di vista puramente storiografico, ma anche teoretico e militante.

Per quanto mi riguarda, non ho certo le competenze per avanzare valutazioni sulle sue tesi maggiori, né posso spacciarmi per uno studioso della sua opera. Agirò, però, con l’opportunismo metodologico che caratterizza spesso il lavoro di riflessione sulla letteratura, ossia metterò in rilievo alcuni punti del pensiero di Rossi-Landi, sperando che risultino utili per chiarire aspetti importanti della pratica poetica contemporanea.

 

Ideologie letterarie e olismo antropologico: Rossi-Landi e Descombes

Se la lirica si è imposta come genere dominante della poesia moderna, nulla ci dice, stando almeno alla situazione italiana, che questo dominio si sia inequivocabilmente esaurito, nonostante i più svariati annunci di un oltrepassamento di portata storica. “Dopo la lirica”, insomma, il lirismo sembra tutt’ora vivo e vegeto come anche il quadro ideologico che lo giustifica. Così è, di conseguenza, per la contestazione del lirismo e per alcuni dei suoi presupposti teorici. Pratiche di poesia anti-lirica o semplicemente non lirica sono tutt’ora rivendicate, e spesso attraverso un inevitabile riferimento alla tradizione novecentesca delle avanguardie. Se siamo d’accordo nel riconoscere questi tratti molto generali del paesaggio poetico attuale (almeno in Italia), è importante sottolineare che la partizione conflittuale tra postura lirica e postura non-lirica trae le proprie risorse ideologiche da ideali complementari e, spesso, intrecciati indissolubilmente.

Nel paradigma lirico, l’enunciato poetico deve realizzare una restituzione (verbale, ritmica, musicale) di un’integrità o di una totalità perduta, quella dell’esperienza individuale e autentica, del vissuto silenzioso che precede l’impoverimento imposto dal discorso ordinario, attraverso cui la persona comune è costretta a esprimere ciò che gli accade e la sua visione del mondo. Nel paradigma alternativo e minoritario, che fa riferimento alle avanguardie, il valore dell’enunciato poetico pertiene al suo carattere emancipatore, ossia alla sua possibilità di affrancarsi, attraverso procedimenti verbali più o meno innovativi – sia di tipo grafico e visivo, che orale e performativo –, dalle costrizioni ideologiche e culturali di una società data. Questi ideali – integrità ed emancipazione – si presentano sia in modo intrecciato che separato sul piano delle poetiche. Possiamo avere una poesia lirica, che predica l’emancipazione dagli stereotipi veicolati dalla lingua comune così come una poesia sperimentale o di ricerca che persegue l’utopia di un “realismo integrale”. A monte, però, agiscono dei costrutti ideologici più complessi (e anche più confusi) che legittimano questi ideali, e la loro influenza sulle pratiche di scrittura.

Se consideriamo il paradigma lirico, è inevitabile fare riferimento all’espressivismo nelle sue forme per lo più ingenue[1], ossia a un complesso di idee basato sulla partizione tra individuo-esperienza-interiorità, da un lato, e società-linguaggio comune-esteriorità, dall’altro. La versione ingenua dell’espressivismo presuppone che l’individuo poetante possegga una qualche forma di esperienza privata e interiore, da salvaguardare rispetto alla traduzione che il linguaggio comune finisce per farne, spogliandola della sua ricchezza originaria. Se prendiamo in conto, invece, le forme contestatrici del paradigma lirico, legate a gesti di rottura avanguardistici o sperimentali, ritroviamo spesso una sorta di rovesciamento ideologico degli ideali espressivisti. In tale prospettiva, è l’esteriorità della lingua a costituire il soggetto – e quindi l’individuo poetante –, non lasciando ad esso nessuna riserva interiore d’autenticità, ma anche nessuna zona mentale immune dalla penetrazione dell’ideologia. Si rischia d’imbattersi, qui, in una versione più o meno riduttiva sia di certi assunti strutturalisti che post-strutturalisti.

Più in generale, nel piccolo universo delle ideologie letterarie, si riflette un fenomeno che, pur avendo caratterizzato la crisi della modernità, continua a ripresentarsi come nuovo e assillante nell’epoca attuale. La società contemporanea sembra perennemente minacciata da una duplice e contraddittoria condizione: da un lato, la rottura del legame sociale, l’atomizzazione dell’io e la conseguente diffusione di un pernicioso narcisismo di massa; dall’altro, un controllo e un condizionamento sociale illimitati, che espongono il singolo senza difese al dominio delle istituzioni e dei centri di potere economico e tecnologico. Il caso delle piattaforme digitali è da questo punto di vista esemplare. Da un certo punto di vista, non vi è dispositivo sociale in grado di inverare nel modo più diffuso, democratico e capillare gli ideali espressivisti: attraverso le finestre dei “social”, ognuno ha la possibilità di “scegliere se stesso”, ovvero di costruire un’immagine e un discorso che siano la più libera e autentica espressione di sé, mettendo in secondo piano la lunga lista delle proprie “appartenenze”. Non a caso, le piattaforme sono anche accusate di accrescere le posture narcisistiche degli individui, rendendo questi ultimi sempre più ciechi nei confronti della diversità di condizioni, esperienze e prospettive presenti nella società. Le finestre di Facebook e Instagram banalizzano e rendono in qualche modo operativo l’imbroglio concettuale del solipsismo: ”l’unico mondo che esiste è il mio mondo”. D’altra parte, queste oasi di libertà selvaggia, dove i desideri dell’individuo trionferebbero su ogni vincolo collettivo, si rivelano, in realtà, sfere opache sottoposte a forme di condizionamento e sfruttamento ampiamente inconsapevoli. Ogni giorno, attraverso la volontaria “connessione”, non accediamo soltanto a strumenti di comunicazione multimediale di cui non abbiamo deciso architettura e funzioni, ma forniamo ininterrottamente dati sul nostro comportamento che potranno essere utilizzati, nel migliore dei casi, per arricchire grandi aziende, e nel peggiore, per accentuare il controllo o il condizionamento nei nostri confronti, da parte di soggetti terzi (privati o statali).

Queste prospettive simultanee e antitetiche sembrano riconducibili alle due opzioni ideologiche, di cui si sono serviti studiosi, critici e poeti nel corso della seconda metà del Novecento: ideali espressivisti e difesa dell’autenticità individuale versus sparizione del soggetto e onnipotenza delle strutture linguistiche impersonali. Su questo gioco di specchi tra l’espressivismo come quadro ideologico del lirismo e lo strutturalismo o post-strutturalismo come quadro ideologico di certo avanguardismo, si è espresso anche Italo Testa nel suo recente saggio “Teoria della poesia”, inserito nel volume Teoria della letteratura a cura di Laura Neri e Giuseppe Carrara (Carocci, 2022, p 204).

È pur vero che in una certa misura una concezione meramente soggettivista e psicologista dell’espressivismo sembra divenire egemonica in una certa fase della teoria della poesia moderna e contemporanea, finendo per generare una reazione oggettivista, un partito preso delle cose che ne ribalta gli assunti, e finisce per sfociare nella «morte del soggetto» strutturalista.

Ora ciò che ci permette di mettere fuori gioco sia il quadro espressivista sia quello riduzionista che gli si oppone è una filosofia del linguaggio come quella di Rossi-Landi, che si accompagna a una più generale concezione antropologica. Fin dalla sua prima opera del 1961, Significato, comunicazione e parlare comune, egli considera il fatto linguistico come un fatto sociale globale. Ciò significa considerare che la comunicazione di significati è una pratica sociale, che si apprende e si esercita all’interno di un intreccio di quelli che Wittgenstein chiamava giochi linguistici e forme di vita. Questo intreccio costituisce una totalità, un orizzonte comune a tutti i parlanti, anche se si articola attraverso una gran ricchezza di pratiche e di universi discorsivi particolari. (Alle spalle di Rossi-Landi vi sono i concetti di “spirito oggettivo” hegeliano, di “cosmologia” secondo Charles Sanders Peirce, di “prassi” secondo Marx e di “semiotica” secondo Charles Morris.)

Secondo quest’ottica, il linguaggio è quindi un sistema inseparabile di segni verbali e segni non-verbali, di attitudini comportamentali e di modelli d’enunciazione. Impossibile, quindi, presuppore forme di “privatezza” o d’“interiorità” dell’esperienza individuale che precedano il formarsi del “soggetto umano” entro le strutture sovrapersonali di una società storicamente data. Il concetto stesso d’intersoggettività è messo in crisi, in quanto esso implica l’esistenza di singole esperienze soggettive, che si troverebbero poi nella condizione di accordarsi e d’istituire significati comuni. In altri termini, è respinto il pregiudizio contrattualistico che sta alla base della varie forme di “individualismo metodologico”, ancora in uso nelle diverse scienze umane. Scrive Rossi-Landi, in Semiotica e ideologia (Bompiani, 1972/2000, p. 24):

quando gli individui si mettono a parlare non esprimono affatto un proprio accordo, non concorrono affatto in un contratto, non aderiscono ad alcuna convenzione, non stringono alcun patto; bensì soltanto imparano una tecnica comunitaria cui partecipano attivamente quali erogatori di lavoro linguistico, ma che subiscono in modo pressoché totale per quanto riguarda le modalità tecniche.

Il concetto di “lavoro linguistico”, che permette agli individui di produrre e scambiare “enunciati”, è quindi inseparabile non da proprietà della mente, della coscienza o del cervello, ma innanzitutto da “tecniche comunitarie”, il cui esercizio ovviamente presuppone determinate condizioni biologiche, ma che non è in alcun caso riducibile a esse. Le tecniche sono pratiche di significazione, che permettono a un individuo di produrre un significato (verbale o non verbale) per un altro individuo. Questo implica che l’istituzione di una certa tecnica precede i due individui (e i loro eventuali “stati mentali”) nelle circostanze dell’interlocuzione, ed è trasmessa a entrambi dalla società in cui vivono. Una tale concezione della comunicazione linguistica ha conseguenze radicali: – cito sempre da Semiotica e ideologia – 1) “In nessun caso il lavoro linguistico va inteso come attività interiore del soggetto, come ‘atti intenzionali’ od ‘operazioni mentali’ che si svolgerebbero necessariamente nella psiche conscia o inconscia dei singoli individui realisticamente intesa (…)” (p. 35); 2) bisogna respingere, a sua volta, “un pregiudizio individualistico di tipo idealistico o spiritualistico, secondo il quale gli individui sarebbero preformati alla loro convivenza sociale” (24-25).

Rossi-Landi difende quella che filosofi contemporanei come Vincent Descombes definiscono una concezione olistica della mente e della vita sociale, precisando che i due termini sono qui sinonimi: vi è “mente”, laddove vi è “società”, ossia un mondo di significati comuni, e non semplicemente intersoggettivi. In Les institutions du sens (Minuit, 1996, p. 333), Descombes formula il concetto di olismo antropologico e riconduce le “tecniche comunitarie” di Rossi-Landi agli “usi”, con riferimento alla sociologia francese di Marcel Mauss:

Questi usi sono delle istituzioni nel senso di Mauss, sono della maniere di fare e di pensare, di cui gli individui non sono gli autori. Gli individui sono certamente gli autori delle frasi che costruiscono, ma non sono gli autori del senso di queste frasi, ed è precisamente quel che si vuole dire, parlando di un significato impersonale degli enunciati.

Tale concezione olistica permette anche di delucidare una delle questioni che sono cruciali per le scienze umane, ma anche per quelle naturali, ossia l’ominazione, la formazione dell’animale uomo, in quanto animale “sociale” e “parlante”. Scrive Rossi-Landi in Linguistica ed economia (Mimesis, 2016, p. 36-37):

l’ominazione con tutti i processi che la compongono va intesa come affatto antecedente all’uomo. Assumere che, in generale, ci sia nell’individuo umano qualcosa di già formato significare negare l’interpretazione storico-materialistica dell’ominazione. Ciò vale quando l’elemento assunto è di tipo spirituale come quando è di tipo biologico: sia che lo riduca a qualcosa che sta al di fuori della storia perché lo sovrasta, sia che lo si riconduca a qualcosa di precedente alla storia e di estraneo ad essa. Studiare l’ominazione in senso storico-materialistico significa invece ricondurre l’uomo a processi comunitari che lo precedono ma poi anche lo accompagnano come uomo in generale […].

 

Programmazione sociale e autonomia individuale

Ora, se una tale impostazione olistica mette fuori gioco l’espressivismo ingenuo e i suoi pregiudizi contrattualistici e mentalistici, essa è confrontata alla difficoltà di rendere conto, da un lato, dell’integrazione del nuovo venuto in una totalità di senso connessa a una data società e una data lingua, e, dall’altro, della capacità di quest’ultimo di esercitare, nel corso di questa integrazione, un’autonomia e persino una critica nei confronti delle norme acquisite. Si tratta di concepire come possono convivere il carattere sociale e globale dei significati, e nello stesso tempo la capacità di gruppo o individuale di metterli in discussione, senza fare riferimento a un’interiorità di tipo extrastorico (naturale, biologico, pre-sociale) o sovrastorico (spirituale, razionale – in senso kantiano -, ecc.).

Per quanto riguarda il processo di integrazione, Rossi-Landi parla di programmazione e di programmi. In Ideologia (Isedi, 1978, p. 198), scrive: “Gli individui imparano cioè a eseguire programmi che sono stati elaborati da precedente lavoro umano sociale. Si diventa membri della società in quanto, anche senza saperlo, se ne accettano i prodotti e si impara ad adoperarli”. È il necessario apprendimento dei “programmi” che permette sia all’individuo di interagire con la società già costituita, sia a quest’ultima di conservare la coesione dei gruppi sociali e dei valori. Il rapporto dei singoli gruppi sociali alla programmazione non è, però, privo di conseguenze sul piano ideologico e politico. Il fatto di aver sottolineato questo aspetto è probabilmente l’apporto più importante di Rossi-Landi alle concezioni olistiche del sociale. In questo quadro concettuale, egli inserisce il concetto (storico-materialistico) di “classe dominante”, “come la classe che possiede il controllo dell’emissione e circolazione dei messaggi verbali costitutivi di una data comunità” (in Semiotica e ideologia, pp. 205-206). La programmazione sociale, quindi, è sempre ideologica, in quanto favorisce un gruppo sociale (la classe dominante[2]) a scapito di un altro (la classe dominata). Ciò significa, allora, che la partecipazione degli individui alla comunicazione (il loro specifico lavoro linguistico per produrre enunciati) è inevitabilmente alienato.

Giunto su questo terreno, il pensiero di Rossi-Landi sembra preso in un movimento contraddittorio: è indispensabile accrescere la consapevolezza del condizionamento sociale, ossia del peso della dominazione di classe, additando ogni aspetto della vita sociale e discorsiva in cui essa è presente, ma, nello stesso tempo, è necessario elaborare un quadro concettuale che implichi la possibilità per individui o gruppi sociali di emanciparsi da essa. Ritroviamo il rischio di ogni enfasi messa sul potere delle strutture sovrapersonali – sistemi semiotici o dispositivi specifici di “fabbricazione” della soggettività di tipo foucaultiano. Come si sfugge, in tale prospettiva, all’alienazione diffusa, conquistando una forma di autonomia individuale? Rossi-Landi cerca di sciogliere questo nodo, affermando che, nonostante ogni interazione verbale o non-verbale sia frutto di programmazione sociale, è possibile concepire programmazioni innovative, e soprattutto programmazioni liberatorie. Non è, però, così chiaro come un soggetto individuale o collettivo passi dalla semplice esecuzione di un programma ereditato, a un programma liberatorio e di rottura. Ma questo è un problema tipico di una concezione olistica del mentale (e della società). In un saggio dedicato a Descombes (“L’apport de la philosophie de Vincent Descombes aux sciences sociales”), inserito in un libro collettivo del 2020 (Le social et l’esprit, a cura di F. Callegaro e J. Xie, éditions EHSSS, p. 21) Alain Ehrenberg, Irène Théry e Philippe Urfalino lo individuano lucidamente: “Come conciliare la constatazione di un’iscrizione del pensiero individuale nell’universo sociale che lo precede e lo oltrepassa (…) ?” Come insomma lasciare uno spazio di autonomia all’interno di pratiche non verbali e verbali interamente condizionate da un sistema sociale e dalla sua ideologia?

M’interessa considerare a questo punto se, in Rossi-Landi, la poesia possa svolgere un qualche ruolo di emancipazione, di apertura oltre la programmazione sociale ereditata. D’altra parte, la principale dimensione politica insita nella poesia risiede proprio nella pretesa di aprire uno specifico spazio – ritualizzato finché si vuole – in cui sia possibile verificare un’esteriorità almeno relativa del parlante rispetto al codice discorsivo a cui è sottoposto. Ora, come già ricordato all’inizio, tale pretesa attraversa, dalla modernità in poi, sia il campo del genere lirico sia quello delle rotture avanguardistiche. Nel saggio introduttivo al suo recentissimo libro, Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale (Interlinea, 2023, p. 8), è ancora Italo Testa, con riferimento ad Adorno, a ricordarlo: il dire poetico autorizza la speranza in un mondo che ancora non c’è (e che esso comunque non può realizzare): “Ciò non riguarda necessariamente un contenuto utopico determinato, ma investe l’aspetto controfattuale della forma poetica, quella possibilità di mettere a distanza il mondo (…)”.

Perché questa ipotesi di lavoro linguistico specificatamente “poetico” abbia senso, bisogna capire come sfuggire al condizionamento storico-ideologico della lingua, che secondo Rossi-Landi “raggiunge un punto in cui è il linguaggio che si serve di noi” (in Linguistica ed economia, cit., p. 275). Se, insomma, è la lingua dei dominanti che ci parla, non solo ogni forma di critica radicale e contestazione della società esistente è compromessa, ma persino quella “distanza dal mondo”, che la pratica poetica cerca di mettere in scena, di ritualizzare. Ma proprio quando il nostro autore nega al parlante comune un contributo di tipo “creativistico” (nato nella sua libera interiorità), anche valorizza circostanze in cui può avvenire una “messa a distanza” del mondo. Quest’ultima si realizza in un primo tempo non attraverso una “magica” capacità di saltare al di fuori della lingua e dei significati comuni, contrapponendo loro qualcosa di più autentico, intimo, privato, o un semplice gesto di negazione indifferenziata. Come dice Rossi-Landi, il primo passo verso l’emancipazione consiste in un “accrescimento della programmazione umana” (in Ideologia, cit., p. 199) ossia in una presa di coscienza di tutto quanto è implicito e inconsapevole nel lavoro linguistico ordinario. L’autonomia del parlante comincia, ad esempio, con l’esplicitazione dei modelli di enunciato che egli ripete e riprende. Ma questo processo di “accrescimento della consapevolezza” non si fa a partire da un qualche slancio espressivo individuale o in virtù di qualche innata chiaroveggenza dell’intelletto, ma attraverso uno specifico e ulteriore lavoro linguistico sui significati e i modelli di enunciato condivisi socialmente. Scrive Rossi-Landi, in Linguistica ed economia (cit., p. 102):

Per diventare consci dei programmi per l’uso degli artefatti linguistici dobbiamo studiare il funzionamento delle cose che sono già state prodotte. Il singolo lavoratore linguistico raramente procede dai programmi per l’uso ai modelli di produzione, passando sugli artefatti a ritroso, sebbene questo non sia impossibile. Di solito accade solo nella ricerca, nell’invenzione di parole nuove che soddisfano un nuovo bisogno sociale, e nel caso della cosiddetta “creazione” poetica (modificazioni riportate a programmi, o anche ad alcuni modelli di produzione).

Ha quindi ragione chi, nell’universo del consumo letterario, denuncia la poesia come un genere “sbagliato”, elitario o autoreferenziale, in quanto l’enunciato poetico inceppa, rallenta, a volte rende impossibile il normale sviluppo della comunicazione, chiedendo al lettore una complicità in questa operazione di allontanamento da tutto quanto è percepito nella programmazione linguistica come “familiare”, “naturale”, “ovvio”. D’altra parte, la voce “ideologica”, accordata alla concezione dominante di letteratura, dicendo quel che dice, va anche incontro a una contraddizione. Da un lato, si addita l’incresciosa situazione del prodotto “poetico”, che non è una merce letteraria di consumo facile e familiare (friendly, come dicono gli anglosassoni) come invece lo è il romanzo, dall’altro, si denuncia spesso il fatto che “tutti sono poeti”, tutti scrivono, e quindi nessuno legge la poesia. Se questo è anche solo in parte vero, significa che, nonostante le riserve dei critici e degli editori, la “poesia” fa parte di un programma sociale di comunicazione, è qualcosa di condiviso nelle sue linee più generali, anche se i suoi prodotti più “lavorati” (secondo procedimenti di esplicitazione critica) non sono a volte neppure riconosciuti come legittimi frutti di questo programma.

Vediamo di trarre, ora, qualche conclusione da questo percorso attraverso Rossi-Landi e l’olismo antropologico. In primo luogo, sia i testi poetici inscritti nel paradigma lirico sia quelli inscritti in quello delle avanguardie, fanno riferimento a tradizioni, ossia a forme di programmazione sociale, che implicano, a partire dal discorso e dai significati comuni, uno specifico “lavoro linguistico” del “poeta”. Quest’ultimo si trova di fronte a dei programmi “inscatolati” gli uni negli altri, e quindi non solo lavora sui significati comuni, ma anche sugli specifici modelli di enunciato che vengono dalle tradizioni poetiche a cui ha accesso storicamente. Lo “stile” individuale, allora, è semplicemente uno specifico lavoro linguistico, atto a individualizzare l’enunciato poetico, non certo il riflesso di una singolarità biologica, che, in modo misterioso, si tradurrebbe direttamente nel linguaggio. Opporre, allora, la “scrittura” allo “stile” in un’ottica barthesiana, significa semplicemente indicare un diverso orientamento del lavoro linguistico. Non si tratta, quindi, di annunciare la sparizione del soggetto, quanto di sospendere – grazie a un’accresciuta consapevolezza – una serie di automatismi che il perseguimento dello stile personale ha sedimentato nel codice lirico. È su questo terreno che, per un critico attento alla contemporaneità come Gianluca Picconi, si gioca oggi la possibilità di una poesia di ricerca e in particolar modo di un’attitudine “non-assertiva”. Scrive Picconi in La cornice e il testo. Pragmatica della non-assertività (Tic Edzioni, p. 22): “La scrittura non-assertiva potrebbe essere allora il tentativo di determinare il passaggio, in poesia, da stile a scrittura: eliminazione delle componenti individuali irriflesse e istintive, per lasciare spazio a una progettazione capillare ma disindividualizzata dell’oggetto letterario. Disindividualizzare, in particolare, la funzione del testo più cogente alla lirica, ossia l’autore”. Dobbiamo solo precisare, in virtù del discorso fatto fino ad ora, che quelle “componenti individuali” sono “irriflesse e istintive”, come lo sono tutta una serie di attitudini inscritte in un dato programma sociale, attitudini cioè non ancora sottoposte a esplicitazione e distanziamento critico.

Ciò che oggi cerchiamo di definire come il campo della poesia “di ricerca”, è un tipo di lavoro linguistico, interno al programma moderno della poesia, ma che opera simultaneamente su almeno due fronti: quello degli automatismi linguistici del discorso ordinario e quello degli automatismi linguistici insiti nella tradizione del genere letterario a cui fa riferimento. Se la poesia di ricerca e la poesia lirica condividono, in fondo, gli ideali moderni dell’emancipazione, la prima considera che l’affrancamento deve realizzarsi anche rispetto ai caratteri inevitabilmente ideologici (e quindi storici e convenzionali) connessi con lo specifico discorso poetico. Così è stato con la grande crisi della metrica tradizionale, tra fine Ottocento e primo Novecento; così è oggi, ad esempio, con la crisi (o la cancellazione) della distinzione tra verso e prosa nelle scritture poetiche contemporanee. Una tale situazione non sancisce la fine della poesia come istituto sociale ancora prima che letterario – del resto, non è certo un gruppo di poeti, pur talentuosi e innovatori, che potrà farlo. Essa mostra, semmai, che il processo d’individualizzazione dell’enunciato poetico può avere tutt’ora un senso, ma si realizza attraverso prosaici procedimenti o dispositivi, che poco hanno a che fare con la singolarità biologica del poeta, e molto, invece, con lavorazioni linguistiche specifiche che ambiscono sia a modificare il programma sociale della poesia sia i modelli di enunciati che essa veicola. Anche la poesia di ricerca, quindi, essendo frutto di lavoro linguistico, implica un’intenzionalità soggettiva, e non si realizza in forme anonime o de-soggettivate – questo potrebbe avvenire nei casi di poesia realizzata attraverso l’Intelligenza Artificiale, somma espressione di automatismi linguistici. Quello che rischia di sparire dall’orizzonte è allora soltanto il presupposto ideologico di ogni lavorazione su programmi e modelli linguistico-letterari, ossia quella singolarità extrastorica – sostrato biologico o psicologico – di un autore, garante di uno stile fatalmente unico.

 

[1] Una forma non ingenua di espressivismo è quella elaborata dal filosofo canadese Charles Taylor, che cerca di comprendere gli ideali espressivisti attraverso una genealogia della modernità e di fornirne una descrizione, che integri gli apporti della “svolta linguistica”. L’espressione di sé è allora un’articolazione personale, realizzata attraverso il linguaggio comune, di modelli, norme, valori ereditati dalla società (moderna) in cui viviamo.

[2] Oggi possiamo complicare lo schema marxiano classe dominante-classe dominata, inserendo altre partizioni e subordinazioni sociali: di genere, di orientamento sessuale, relative al gruppo etnico.

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“Rossi-Landi: programmazione sociale e poesia” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Circa 70 anni: il tempo necessario agli editori per trasformarsi

Gli accordi trasformativi  nascono con l’intento di “indirizzare” la comunicazione scientifica, prevalentemente chiusa dietro paywall,  verso l’accesso aperto. Si chiamano trasformativi perché gli editori dovrebbero a poco a poco trasformare il proprio modello di business da read only a publish, attraverso una fase, quella attuale di read and publish. Si chiamano anche transitori, perché la fase di passaggio ha una durata limitata, dopo la quale il journal o l’editore deve attuare la trasformazione in gold open access. Almeno questo era l’intento di chi ha lanciato e sostenuto il modello. Una revisione di questo costoso modello commissionato dal JISC nel Regno Unito, ha rivelato che questa trasformazione potrà avvenire solo fra più di 70 anni.

Nulla di quanto era stato annunciato è avvenuto, i contratti trasformativi non hanno facilitato la trasformazione dei grandi editori, né tantomeno si vede la fine della loro transitorietà. Al punto che la coalizione che maggiormente aveva sostenuto questi contratti (Coalition S) ha decretato la indisponibilità a finanziare articoli ed editori trasformativi (che non si sono trasformati) a partire dal 2025.

The fact that so many titles were unable to meet their OA growth targets suggests that for some publishers, the transition to full and immediate open access is unlikely to happen in a reasonable timeframe.  As cOAlition S was seeking to encourage a time-limited transition, the decision to terminate this programme at the end of 2024 appears well-founded.

Nei diversi Paesi europei questi accordi sono stati affrontati in maniera consortile, cioè le contrattazioni sono state gestite in maniera collettiva per potere avere più peso nelle discussioni con gli editori: in Germania il consorzio è Project DEAL, in Svezia è Bibsam,  in Francia è Couperin , in Spagna CSIC CRUE, in Italia Crui CARE.

A 8 anni dal primo contratto trasformativo (concluso con Springer)  il consorzio britannico ha commissionato una critical review per valutare gli effetti delle politiche implementate, i risultati raggiunti rispetto a quelli attesi, l’incidenza dei costi.

Un report molto approfondito e dettagliato, di cui però per motivi confidenziali non abbiamo a disposizione i dati.

Scopo della review era di stabilire la crescita delle proporzione di lavori in accesso aperto in UK dopo la introduzione della misura dei contratti trasformativi, ma anche il contributo del Regno Unito all’open access a livello globale.

Come sappiamo l’open access ai risultati di ricerca è richiesto obbligatoriamente da molti enti finanziatori della ricerca, e anche questa è una dimensione che è stata misurata, così come la transitorietà di questa tipologia di contratti.

Uno dei punti che è rimasto sottotraccia, anche se implicito nei risultati, è il fatto che questa tipologia di contratti non ha minimamente modificato la comunicazione scientifica, e quel sistema considerato problematico dalle comunità disciplinari stesse, non si è minimamente modificato.

Stiamo parlando di un sistema in cui proliferano le paper mills, le review mills, in cui lo scorso anno abbiamo assistito a più di 10mila retractions  raggiungendo un record tristemente negativo.

Se pensiamo che uno dei motivi per cui il movimento dell’open access è iniziato era riuscire a modificare le modalità di comunicazione e disseminazione della ricerca scientifica, certamente questo risultato non è stato raggiunto. Nonostante lo sviluppo di infrastrutture pubbliche scholar-led, l’editoria tradizionale e proprietaria assorbe ancora la maggior parte dei fondi a disposizione per la comunicazione scientifica.

Il report sottolinea i successi della misura adottata dal Regno Unito, una misura che solo nel 2022 è costata 137 milioni di sterline. La percentuale di articoli open access è aumentata, dal 21% al 46%, ma è purtroppo aumentato anche il numero assoluto degli articoli che stanno dietro paywall, e in alcune aree disciplinari ciò si è accompagnato ad una diminuzione degli articoli archiviati in modalità green open access.

In pratica uno degli effetti degli accordi trasformativi è stata una diminuzione  degli Author accepted manuscripts archiviati nei repositories istituzionali, il che è un peccato perché il green è un modello di business che non ha costi per gli autori, che per questo è inclusivo e gli archivi istituzionali sono dei buonissimi strumenti di disseminazione delle ricerche.

Il report fa una serie di analisi anche sui costi parlando di alcuni risparmi che però non possono essere verificati per via della confidenzialità dei dati e che sembrano non considerare come sarebbe stato uno scenario differente: e cioè la incidenza dell’open access green in assenza degli accordi trasformativi (ricordiamo che la maggior parte delle università del Regno unito ha definito una policiy di rights retention strategy, per cui agli autori ogni istituzione chiede di non cedere i diritti di ripubblicazione dell’author accepted manuscript nell’archivio istituzionale della istituzione.)

Gli estensori esprimono significant concerns sulla sostenibilità dei contratti trasformativi a lungo termine.

Ma vediamo cosa ci dice il report sul focus di questi contratti che è la transitorietà.

La auspicata transizione sarà possibile ma solo in presenza di una massa critica a livello globale che ora non esiste, sia perché ci sono parti del mondo che non possono permettersi questi costosissimi contratti, sia perché altre parti del mondo non vogliono sostenere questo modello di business.

Piuttosto preoccupante risulta essere questa affermazione: Based on the journal flipping rates observed between 2018 and 2022 it would take at least 70 years for the big five publishers to flip their TA titles to OA.

Sembra uno scherzo ma non lo è. La transizione che avrebbe dovuto durare qualche anno, ora pare richiedere almeno 70 anni.

Non è l’unico elemento critico. Molti editori, sempre secondo il report, non hanno una roadmap definita rispetto all’accesso aperto, inoltre sembra che nonostante la grande quantità di accordi trasformativi conclusi, molti articoli manchino all’appello “in 2022 21894 missed articles could have been published via the relevant TAs”.

Le strategie di pubblicazione degli autori non si sono minimamente modificate: The top four publishers (Elsevier, Springer Nature, Wiley and T&F) together account fur just under 50% of all articles published.

Il report si conclude con alcune raccomandazioni:

la necessità di individuare ulteriori indicatori che permettano di dimostrare “a commitment to equity”

l’opportunità per istituzioni e finanziatori di ripensare attraverso questa revisione critica e i nuovi indicatori di equità modelli futuri che eliminino i paywalls e facilitino la inclusione

lo spostamento di fondi da accordi trasformativi inefficienti verso modelli alternativi.

Al di là dei risultati che in fondo non sembrano essere quelli sperati (infatti l’open access a qualsiasi costo non può essere una soluzione praticabile), poter avere dei dati e delle proiezioni su cui ragionare è fondamentale per i futuri indirizzi strategici di un paese. Il modello adottato nel Regno Unito ha assorbito cifre consistenti di denaro pubblico e quindi è sembrato necessario rendicontare i risultati e gli effetti delle politiche implementate. Questi risultati possono essere inoltre utili anche ad altri paesi che hanno intrapreso in maniera decisa la stessa strada (come ad esempio l’Italia), per avviare studi e riflessioni analoghi.

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“Circa 70 anni: il tempo necessario agli editori per trasformarsi” è stato scritto da Paola Galimberti e pubblicato su ROARS.

ADDIO ALL’INVERNO

di Cécile Wajsbrot

(NdR Il testo che segue, letto dall’autrice lo scorso agosto all’Accademia delle Arti di Berlino, è apparso nel numero 21 della rivista Journal der Künste, periodico della stessa istituzione. La traduzione è di Stefano Zangrando)

1552 – Pantagruele e i suoi compagni raggiungono il confine con il mar Glaciale, quando ad un tratto odono delle grida. Tutt’attorno non vedono nulla e nessuno, ovunque c’è solo l’oceano. Sono terrorizzati, alcuni vogliono fuggire. Il timoniere, tuttavia, li riporta alla calma. Quelle che sentite sono le parole di una battaglia che ha avuto luogo lo scorso inverno, parole che il freddo ha congelato. Ora che il tempo si è fatto più mite, le parole si scongelano, ma i combattenti sono spariti da un pezzo.

Fine del XXI secolo – In conseguenza del riscaldamento globale la calotta di ghiaccio del Polo Nord si è sciolta facendo salire il livello del mare, il Giappone è stato sommerso, Venezia inghiottita e a Parigi regna un clima tropicale per la gioia dei flâneur nel Giardino delle Tuileries, divenuto una foresta di bambù. Al Grand Palais si tiene la Conferenza Annuale per la Stabilizzazione del Clima –  la cui comunicazione è affidata a una nota società, Panem et Circenses. Ma le cose si complicano, perché sono in ballo grossi interessi economici.

1999 – Il romanzo Greenhouse Summer di Norman Spinrad, tradotto in italiano con il titolo Condizione Venere e dal quale proviene questa visione degli effetti del riscaldamento globale, esce nell’anno della tempesta Lothar, che subito dopo Natale distruggerà gli alberi delle Tuileries, quelli dei giardini di Versailles e delle foreste della Francia occidentale – centoquaranta milioni di metri cubi di bosco abbattuti. A Parigi il vento soffia fino a 200 chilometri orari.

Agosto 2023 – E noi qui, oggi, più avvezzi alle immagini della catastrofe che alle parole che la designano. Alberi sradicati, strade squarciate, dighe distrutte, onde colossali, paesaggi alluvionati, città devastate. Le immagini che scorrono sempre più spesso sui nostri schermi rendono pressoché inutili i commenti fuoricampo. Eppure le parole hanno qualcosa da dire. Noi che scriviamo lo sappiamo bene.

1816, l’anno senza estate – In una lettera alla sorellastra, Mary Shelley descrive la propria ascesa sulle Alpi, «nel pieno di una violenta tempesta di pioggia e vento». Pochi giorni dopo, la vista sul lago di Ginevra si ammanta di neve. Fra l’aprile e il settembre 1816 piove per trenta giorni. In quell’estate Byron, Shelley e Mary Shelley, costretti in casa dal maltempo, per combattere la noia decidono di scrivere una storia di fantasmi ciascuno. È l’atto di nascita di Frankenstein.

Aprile 1815 – Il Tambora, un vulcano indonesiano, erutta. Piogge di pietra pomice, immense colate di lava, una colonna di fumo alta quarantaquattro chilometri, i corpuscoli di polvere giungono a cadere nell’emisfero nord-americano e nel nord dell’Europa. Nell’estate 1816 le temperature calano di mezzo, quando non di un intero grado, provocando cattivi raccolti in Svizzera e Germania, e carestie che provocano agitazioni. Le tinte irreali dei cieli di Turner hanno forse la loro sorgente nelle condizioni climatiche provocate dall’eruzione.

2050 – Il passaggio a nord-ovest, il passaggio a nord-est cercato a lungo e che ha provocato tanti morti, naufragi e spedizioni, il passaggio tra Siberia e Alaska: tutto questo è sempre navigabile. In estate l’Artico è libero dal ghiaccio e la spartizione delle acque e delle risorse ha portato tensioni e conflitti fra i paesi dell’estremo nord.

1866 – In un lungo preambolo a I lavoratori del mare intitolato L’arcipelago della Manche, Victor Hugo nel capitolo venti scrive: «Il mare edifica e demolisce; l’uomo aiuta il mare non a costruire, ma a distruggere […]. Tutto sotto di lui si modifica e cambia, ora in meglio, ora in peggio. Qui trasfigura, lì deturpa». Victor Hugo sa che l’umanità è entrata nell’era dell’Antropocene, anche se questa parola non esiste ancora. E dopo un passaggio che glorifica il progresso, avverte: «Tuttavia non dovremmo sopravvalutare il nostro potere. Ciò che facciamo non va oltre la superficie. L’uomo veste o sveste la Terra, un disboscamento è un indumento dismesso. Ma rallentare la rotazione del globo sul suo asse, accelerarne la corsa intorno alla sua orbita […], modificare la processione degli equinozi, cancellare una goccia di pioggia, giammai […]. L’uomo può cambiare il clima, ma non la stagione».

Oggi – Già allora, si è tentati di dire leggendo queste frasi di Victor Hugo – e ogni volta che qualcuno dà prova di preveggenza o di lucidità. Già allora – Aldous Huxley che negli anni cinquanta del ventesimo secolo ci mette in guardia dai rischi della sovrappopolazione. Già allora – queste righe tratte da Primavera silenziosa di Rachel Carson, scritte nel 1962: «L’aggressione più allarmante compiuta dall’uomo nei confronti dell’ambiente è la contaminazione dell’atmosfera, del suolo, dei fiumi e dei mari con sostanze pericolose e persino mortali». Già allora, diranno gli esseri umani nel 2065, se ce ne saranno ancora, leggendo i libri di coloro che al volgere del XX secolo, o all’inizio del XXI, avevano messo in guardia dagli effetti dannosi dei gas serra, e ascoltando le voci di coloro che chiedevano di mettere al bando il diesel, di chi sperava di limitare il riscaldamento medio globale a meno di due gradi, mentre avrà raggiunto già i cinque o sei. Già allora, diranno se avranno accesso ai documenti delle conferenze sul clima tenute a partire da quella di Rio nel 1992. Lo sapevano, diranno, e sospirando aggiungeranno: perché non hanno fatto niente?

Da sempre – la metafora guida l’immaginazione. I paesaggi dei dipinti e dei libri nascono da estrapolazioni dai paesaggi reali che attraversiamo. Li interpretiamo, ne carichiamo le tinte, li rendiamo puri. Un inverno particolarmente freddo dà inizio a un’era glaciale, il cielo scuro di un paesaggio nevoso diviene di un verde singolare. La guerra fredda, l’acqua raffreddata dei reattori nucleari, produce infiniti paesaggi ghiacciati che perfino gli eroi più intrepidi dei film catastrofici domano solo con grande fatica.

Nel XXI secolo potremo ancora scrivere l’inverno, sapremo ancora leggerlo, comprenderemo ancora i dipinti e i libri che lo illustrano? Consapevoli come siamo di una possibile scomparsa della specie umana in un futuro che non si calcola più in millenni o secoli, ma in decenni, rassomigliamo, torniamo simili agli Aztechi che di notte vegliavano colmi d’angoscia spiando la riapparizione del sole. La notte del mondo incombe, e il passato ci mostra la via del futuro. È la paura che estende il proprio influsso. Con gli occhi spalancati osserviamo ciò che accade oggi, sappiamo, e anticipiamo – nelle previsioni scientifiche come nei racconti di science fiction. Sappiamo – e allora, che cosa faremo?

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“ADDIO ALL’INVERNO” è stato scritto da giacomo sartori e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

L’orgoglio della modestia

di Gianni Biondillo

È fin troppo facile non apprezzare l’architettura del Movimento Moderno. Non un orpello, non un fregio, un linguaggio formale all’apparenza basico, senza fronzoli, senza inventiva. Finestra ritagliate su pareti bianche, tetti piani, pilastri senza capitelli. Di tutt’altra pasta le architetture coeve o di solo pochi anni prima: colonne in pietra, archi, sculture magniloquenti, balconi in ferro battuto. Una bellezza esibita, ricca, enfatica. Sarebbe facile, dicevo, ma sarebbe ingeneroso. Senza contestualizzare ci rifugeremmo in una lettura della cose puramente estetica e nostalgica: com’erano belle le architetture del passato, come sono brutte quelle della modernità! Ma quella generazione di artisti, che sapeva benissimo progettare usando gli stili dell’eclettismo, aborriva quel modo di pensare l’arte non per ragioni estetiche ma per ragioni etiche. Progettare case per ricchi era di certo più proficuo per la loro carriera professionale. Solo che le risorse a disposizione – artigiani, materie prime, tecnologie – erano infinite unicamente per chi se lo poteva permettere. Quella generazione comprese che era immorale progettare palazzi di una ricchezza esibita e volgare, quando la massa popolare, il proletariato, i poveri, vivevano nelle nostre città in condizioni abitative disperate, al limite della sussistenza.

Il tema era, a parità di risorse a disposizione, progettare una casa decorosa per tutti. Indipendentemente dal censo o dalla classe sociale. Era una questione etica, appunto. Il tema dell’existentzminimum, tanto dibattuto in quegli anni, voleva definire quali fossero le condizioni essenziali di un nucleo famigliare affinché non mancasse nulla alla loro civile convivenza: acqua corrente, bagni, igiene, riscaldamento, luce naturale, ricambio d’aria. Cose che i ricchi, quelli che riempivano di fregi le facciate delle loro case, avevano già, ma che alla stragrande maggioranza delle popolazioni urbane mancavano. Quindi, piuttosto che baloccarsi con l’ennesimo esperimento formale, bisognava cambiare il gusto sia delle classi dirigenti che di quelle popolari. Avere, come ebbe a scrivere Lionello Venturi, l’orgoglio della modestia. Concepire il progetto come il luogo dove la qualità fosse a disposizione di tutti e non di pochi eletti. Usare materiali di facile reperibilità, di basso costo, replicabili, e concentrare tutti gli sforzi per estrarne bellezza, attraverso la funzionalità. È la base dell’idea del design che accompagnerà l’intero novecento: immaginare una lampada, un piano cottura o una poltrona, utilizzabili sia dal borghese che dall’operaio. Una vera e propria democrazia delle risorse estetiche.

Il razionalismo, insomma, non era contrario alla tradizione ma al tradizionalismo. La mostra fotografica sull’architettura vernacolare di Giuseppe Pagano alla VI Triennale lo dimostra in modo palmare: non erano gli stili del passato che lo interessavano, ma come, in una ristrettezza di risorse, la cultura popolare avesse trovato le più razionali soluzioni tecnologiche, trasformandole in soluzioni formali.

Nel secondo dopoguerra, le seconde e terze case, le borgate abusive, le palazzate abusive e le villettopoli cresciute indiscriminatamente, sono state molto più devastanti sul nostro paesaggio così fragile che le tanto vituperate periferie urbane. Il “Piano Fanfani”, quanto meno, voleva dare una casa a tutti, pensandola come un diritto. Oggi il valore d’uso è stato soppiantato dal valore di scambio. Si costruisce non per fare case ma per fare cassa, in una nazione dove non c’è bisogno di costruire più nulla. Oggi le più avvedute avanguardie, memori della lezione etica dei maestri, non progettano il nuovo ma rimettono in gioco e riqualificano il già esistente. Piuttosto che sfoggiare ennesime, leziose torri tortili in vetro e acciaio, ammantate di un peloso greenwashing, occorre tornare all’orgoglio della modestia. Porsi eticamente in una realtà dalle risorse scarse, sfidando dal punto di vista della progettazione una realtà ipercostruita. Progetto sostenibile, stop al consumo di suolo e cubatura zero dovranno essere i nuovi imperativi. E chi se ne frega del bello stile.

(precedentemente pubblicato su Il Corriere della sera-Design del 22-11-23)

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“L’orgoglio della modestia” è stato scritto da gianni biondillo e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Calendario della Wu Ming Foundation, Marzo–Aprile 2024

Da oggi torniamo a una prassi che era in auge su Giap diversi anni fa: la pubblicazione del calendario bimestrale degli appuntamenti. Come già scritto, per noi il 2024 sarà molto meno gironzolevole degli anni precedenti. Le trasferte sono ridotte ai minimi termini, per via di scritture in corso che richiedono il massimo della concentrazione. […]

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“Calendario della Wu Ming Foundation, Marzo–Aprile 2024” è stato scritto da Wu Ming e pubblicato su Giap.

Sessantacinque anni

[Per Besa è uscito Il diario delle mie sparizioni, di Daniele Comberiati. Pubblichiamo un estratto del primo racconto, dal titolo Sessantacinque anni].

di Daniele Comberiati

           SESSANTACINQUE ANNI

            Il Dépanneur

Ero passato dal Dépanneur un venerdì pomeriggio, pensando di trovarlo chiuso. Il classico atto mancato, mi dicevo parcheggiando la macchina. In realtà, speravo che sarebbe stato chiuso ma avevo promesso a mia moglie che ci sarei andato in settimana. Si trovava nella vecchia zona industriale della città, ormai da anni, se non da decenni, in disuso. Quando ero ragazzino c’erano ancora i meccanici, soprattutto di motociclette elettriche – i veicoli a benzina stavano già scomparendo – e con i miei ci eravamo andati quattro o cinque volte, a mia memoria sempre il sabato pomeriggio, quando non c’erano eventi organizzati, non avevo compiti da fare e, affinché non passassi ore attaccato al telefono, mio padre mi costringeva a uscire con lui. Comprava i pezzi di ricambio per la moto e i catarifrangenti colorati per le nostre biciclette, che non erano a norma – infatti li aggiungevamo a quelli comunali, non potevamo sostituirli – ma erano verdi o gialli e a me e mia cugina piacevano tantissimo. Io però, che avevo due anni più di lei, già li usavo meno (la bici mi serviva solo per andare al liceo e al centro civico) e passavo quei pomeriggi ad annoiarmi. Se veniva pure mia cugina era anche peggio perché mio padre iniziava a fare i confronti – vedi com’è sorridente lei? Devi sempre rovinare tutto con il tuo carattere? – e io mi immusonivo ancora di più. Le ultime volte ci eravamo andati noi due soli (anche mia cugina stava crescendo e, siccome mio padre era solo suo zio, non poteva certo obbligarla) e mi ricordo pomeriggi polverosi e annoiati in cui io non potevo rimanere in macchina e lo ascoltavo discutere sulla possibilità di comprare al mercato nero una targa valida per l’estero. «Ormai non le vendono più o sono carissime» gli rispondeva uno dei meccanici, attento a non farsi sentire. L’ultima volta avevano tutti la stessa tuta blu acido con due fasce gialle sugli avambracci.

E comunque quelle vecchie fabbriche ne avevano attraversate di ere: dal tessile alla produzione chimica, negli anni Settanta. Con la delocalizzazione, le aziende avevano chiuso e i due edifici più grandi avevano ospitato per un’estate la più grande occupazione abitativa della città. La polizia li aveva sgomberati piuttosto in fretta – un giorno umido di fine agosto, quando tutti sembravano aver cose più importanti a cui pensare – ma il quartiere per decenni era rimasto alternativo: un enorme centro sociale, che ospitava concerti punk-rock e festival di fumetto e letteratura indipendenti, aveva preso il posto delle case popolari fin quando, attraverso un movimento lento ma percepibile, anche il centro sociale si era trasformato. Una discoteca alternativa, così dicevano alcuni amici di mio padre che ci erano andati, ma pur sempre una discoteca: un locale in cui si pagava l’ingresso con le cripto-monete, che possedeva i documenti di usufrutto dei terreni, e i cui gestori pagavano le tasse. Della politica rimanevano strofe sparse di alcune canzoni dei gruppi che si esibivano, e i graffiti che imperversavano sui muri delle altre fabbriche. Poi erano rimasti solo i muri a ricordare quei movimenti, mentre i musicisti alternativi erano invecchiati e i prezzi dei biglietti erano triplicati nel giro di mezza estate: la discoteca alternativa era ormai un locale alla moda, e per questo fu spostato al centro della città – stessa gestione, stesso nome, persino stessi buttafuori all’entrata, ma cocktail più cari – allo Shibozu, il quartiere dove, dalle 21 alle 4 e 30 del mattino, si svolgeva tutta la vita notturna. La giustificazione era che alle vecchie fabbriche non ci fossero posti per i parcheggi con le colonnine per le ricariche delle auto elettriche, e che il traffico bloccasse la principale arteria cittadina che dalle 21 alle 22, mentre gli ultimi impiegati tornavano nei quartieri suburbani, era molto trafficata.

Cancellarono l’ultimo graffito dopo il crollo del capitalismo e decisero di metterci gli “Uffizi per le nascite, i decorsi e i decessi”. «È un luogo inclusivo», era lo slogan, «che serve a tutta la città e di cui la popolazione potrà usufruire». In effetti, non era lo stesso quando c’era il centro sociale: la musica dei Porn-corn, per esempio, piaceva a qualche vecchio amico di mio padre ma non a me. Invece agli Uffizi ci dovevamo passare tutti, prima o poi.

Del passato però era rimasto il nome, dagli antichi proprietari belgi di una delle fabbriche, curiosamente la più piccola, che produceva tappi da bottiglia: il Dépanneur.

Non c’era fila perché, l’ho capito dopo, gli uffici non chiudevano mai. H24, sette giorni su sette. La burocrazia perpetua.

«Chi deve registrare?»

«Mio padre…»

«Genere?»

«Mio padre… uomo».

«Ha indisponibilità?»

«Io o lui?»

«Suo padre, ovviamente. Perché non è venuto lui a registrarsi?»

«È arrivato ieri a casa nostra. Si sta ambientando…»

«Sessantaquattro anni precisi, quindi? Lo prenoto fra trecentosessantacinque o trecentosessantasei giorni?»

«Ah, possiamo decidere noi?»

«Certo, anche se teoricamente dovrebbe essere lui a decidere. Ma nei primi due mesi può cambiare, basta inviarci una mail».

«Faccia trecentosessantasei allora».

«Perfetto. Il regolamento con le tariffe e le multe lo ha già suo padre. Si ricordi solo che, dal primo gennaio di quest’anno, ogni giorno di ritardo è punibile con una multa in denaro o con una pena sociale per i figli o i nipoti dell’anziano, qualora i figli avessero ancora a carico prole minore. Lei ha figli?»

«Sì, uno».

«Età?»

«Nove anni».

«In tal caso potrebbe riversare su di lui la pena sociale per il mancato arrivo di suo padre. Raddoppiamento delle tasse universitarie, accesso vietato ad alcune facoltà di prestigio, decurtamento parziale dei primi stipendi…»

«Sì sì ho capito, grazie, non c’è bisogno che faccia la lista».

«Una firma qui… perfetto. Se suo padre non si presenta due mesi dopo la data, la reclusione familiare è obbligatoria e suo figlio sarà ospitato in uno dei centri per minori della città fino a quando non lo ritroviamo. Per le modalità di esecuzione parleremo con suo padre fra sei mesi circa. Gli ricordi di rispondere alle mail; senza risposta procediamo automaticamente con l’iniezione e la cremazione, a meno che non ci siano ragioni religiose contrarie esplicite, ma per queste deve compilare altri documenti».

«No, non mi sembra, mio padre è ateo».

«Perfetto allora. Grazie di essere venuto, e approfitti con suo padre dell’anno spirituale, mi raccomando!»

«Certo, grazie».

Ero ritornato alla macchina sollevato e angosciato al tempo stesso. Risposi a un messaggio di mia moglie: “Tutto a posto al Dépanneur, serve qualcosa per cena?”

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“Sessantacinque anni” è stato scritto da silvia contarini e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Vietare l’uso del bollino di fragilità INVALSI: il reclamo al Garante della Privacy

Mentre nelle scuole iniziano i test Invalsi per gli studenti dell’ultimo anno delle scuole secondarie di secondo grado in Gazzetta Ufficiale viene pubblicato  il decreto 19 del 2 marzo 2024 (PNRR), che inserisce i risultati delle prove Invalsi nel curriculum dello studente. Nel frattempo alcune associazioni e organizzazioni che operano nel mondo della scuola hanno inviato un reclamo al Garante per la Protezione dei Dati Personali sulla classificazione degli alunni “fragili” con cui chiedono di vietare a INVALSI tale trattamento. Riportiamo di seguito il testo del Reclamo con l’elenco delle venti associazioni firmatarie.

AL GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI P.ZZA VENEZIA, 11 00187 ROMA

Reclamo ex art. 77 del Regolamento (Ue) 2016/679 e artt. da 140-bis a 143 del Codice in materia di protezione dei dati personali, recante disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento nazionale al Regolamento

In qualità di associazioni di insegnanti e genitori di alunni residenti in Italia e frequentanti la scuola pubblica italiana, sottoponiamo all’attenzione del Garante le seguenti circostanze, riguardanti il trattamento dei dati associati al nuovo indicatore di fragilità predisposto dall’INVALSI. Riteniamo infatti che classificare gli esiti dei test INVALSI in termini di fragilità individuale, in funzione di un punteggio conseguito algoritmicamente, si configuri come una schedatura impropria in quanto non controllabile, non verificabile né revisionabile per via umana, ovvero non automatizzata.

L’Istituto Nazionale di Valutazione del Sistema di Istruzione, INVALSI, è Titolare del Trattamento e Responsabile della Protezione dei dati: INVALSI con sede in via Ippolito Nievo, n. 35 – CAP 00153 – Roma – C.F.: 920000450582 – Tel. (+39) 06 941851 – fax (+39) 06 94185215 – e-mail: [email protected]. Il Responsabile per la protezione dei dati (o anche “Data Protection Officer” – DPO) nominato da INVALSI è reperibile al seguente indirizzo di posta elettronica: [email protected].

A partire dal 2022, l’INVALSI fornisce a tutte le istituzioni scolastiche un nuovo indicatore individuale, denominato di fragilità, allo scopo di “identificare studenti in condizione di fragilità” in ottica “preventiva, per riconoscere gli alunni che manifestano segnali relativi a potenziali situazioni di disagio, fragilità e abbandono” (1). Tale indicatore è attualmente impiegato come strumento di policy nell’ambito delle azioni previste dal PNRR per la riduzione dei divari territoriali (2). Gli elenchi dei codici identificativi degli studenti “fragili” passano dai database INVALSI alle segreterie scolastiche, che tramite le piattaforme dei registri elettronici (3) associano i rispettivi nomi e cognomi. Agli elenchi in chiaro hanno accesso dirigente e docenti, che possono individuare gli studenti destinati ad attività didattiche differenziate (4), grazie ai finanziamenti destinati alla “lotta alla dispersione scolastica” (5).

Osserviamo quanto segue.

  1. L’attribuzione dei punteggi INVALSI di tutti gli studenti italiani, esclusi i bambini di 7 e 10 anni, che svolgono un test cartaceo, avviene in maniera algoritmica. Le batterie di test sono computerizzate.
  2. La banca dei quesiti INVALSI non è pubblica. Il processo di test assembly non è noto. La compilazione dei test non è replicabile da parte dello studente o del genitore interessato.
  3. La correzione delle domande è gestita in maniera centralizzata. Non sono noti i soggetti che se ne occupano: chi sono i “gruppi di correttori”, gli “assistenti alla codifica” i “table leader” abilitati dall’INVALSI? (6). Non sono note le procedure impiegate né il margine di errore associato alle correzioni. L’emissione dei risultati (livelli) non è verificabile dallo studente che li acquisisce.
  4. Le soglie con cui INVALSI definisce la distinzione algoritmica tra i vari livelli, ovvero la distinzione tra fragili e non fragili, non sono note né ricavabili dalla documentazione istituzionale. Anche il margine di errore statistico di attribuzione dei punteggi non è noto.
  5. Non esistono standard “di competenze” fissati normativamente nel nostro ordinamento, fatta eccezione per i quadri di certificazione linguistica, importati da quelli internazionali. Non esiste alcuna definizione né regolamentazione di quali siano le competenze minime misurabili (7).
  6. L’ informativa dell’INVALSI “in relazione al trattamento dei dati degli studenti ai fini della rilevazione degli apprendimenti” (8) non menziona l’indicatore predittivo di fragilità, non esplicita le finalità, le modalità di trattamento, di diffusione e conservazione delle informazioni contenute in tale indicatore.
  7. Non risultano disciplinati il diritto alla cancellazione, quello di revoca del consenso, il diritto di opposizione al trattamento da parte di chi è, o potrebbe, essere classificato come fragile.
  8. Non risulta nota la stima del livello di rischio associato al trattamento dei dati relativi all’indicatore di fragilità.
  9. Non è possibile, da parte dello studente, esercitare il diritto alla spiegazione e al controllo (articolo 71 GDPR, oltre che articoli da 13 a 15 e 22), ovvero il diritto concreto di ottenere informazioni significative e comprensibili su come il suo punteggio INVALSI sia stato acquisito, chi è responsabile delle correzioni e quali conseguenze comporta il trattamento dei dati di fragilità.
  10. Non risulta possibile una revisione umana del processo di attribuzione del punteggio, e dunque dell’esito della classificazione di fragilità.

Riteniamo pertanto che il nuovo indicatore di fragilità individuale elaborato dall’INVALSI, il suo impiego come strumento di policy e la diffusione/pubblicizzazione degli elenchi degli studenti fragili si configurino come una schedatura individuale impropria, oltre che come una distorsione dagli scopi istituzionali dell’Istituto di Valutazione.

Tutto ciò premesso, i sottoscritti

CHIEDONO

al Garante per la protezione dei dati personali, esaminato il reclamo che precede e ritenutane la fondatezza, di assumere nei confronti di INVALSI ogni opportuno provvedimento e, in particolare, di imporre il divieto di estrazione e di trattamento dei dati “di fragilità” individuale.

 

Le associazioni firmatarie:

Associazione ROARS

Associazione ALaS

Federazione dei Lavoratori della Conoscenza FLC CGIL

USB Scuola

Unicobas Scuola

CUB SUR Scuola

Organizzazione Studenti OSA

Cobas Torino

Cobas Sardegna

Cobas Tuscia

Cobas Terni

Cobas AUTOCONVOCATI

Partito delle Rifondazione Comunista/scuola

Priorità alla Scuola

Ass. Cattive Ragazze

Centro Studi per la Scuola Pubblica CESP Padova

Redazione Professione Docente

Associazione La Nostra Scuola Agorà 33

Associazione Per la Scuola della Repubblica

Associazione Nazionale Docenti AND


 

Di seguito, i materiali richiamati nel testo

(1) https://www.invalsiopen.it/dati-invalsi-contrasto-fragilita-apprendimenti/

(2) https://pnrr.istruzione.it/competenze/riduzione-dei-divari-territoriali/

(3) https://axiositalia.it/wp-content/uploads/2023/03/Invalsi.pdf

(4) https://www.liceopiedimontematese.edu.it/public/files/Risultati_prove_Invalsi_2023_-_Individuazione_alunni_fragili.pdf

https://www.itiscannizzarocolleferro.edu.it/wp-content/uploads/2023/06/progetto-Azioni-di-prevenzione-e-contrasto-alla-dispersione-scolastica-1.pdf

(5)  https://invalsi-areaprove.cineca.it/docs/2022/Istruzioni%20caricamento%20file%20studenti.pdf

(6)  https://blog.deascuola.it/articoli/chi-corregge-le-prove-invalsi

(7) Gli elenchi dei traguardi di competenze sono fissati normativamente solo per il primo ciclo (https://www.miur.gov.it/documents/20182/51310/DM+254_2012.pdf) mentre per il secondo ciclo sono frutto di una selezione operata da un “gruppo di lavoro INVALSI”: vedi https://invalsi-areaprove.cineca.it/docs/file/QdR_MATEMATICA.pdf pag. 10.

(8)  https://invalsi areaprove.cineca.it/docs/2023/Rilevazioni_Nazionali/2023_INFORMATIVA_PROVE_NAZIONALI.pdf

 

 

 

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“Vietare l’uso del bollino di fragilità INVALSI: il reclamo al Garante della Privacy” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.

Non c’è creatura che non sia un popolo

 

Sì, che si sappia:

non c’è creatura che

non sia un popolo.

 

Il dolore è collettivo.

 

Carichiamo in noi

ogni cosa estinta,

ogni debito,

ogni incandescenza

nel    limo opaco di

tutte  le vite negate.

 

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Partitura visiva di Giuditta Chiaraluce

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“Non c’è creatura che non sia un popolo” è stato scritto da Giorgiomaria Cornelio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Abbattere le frontiere! Apericena benefit

Sabato 16 marzo

c/o Circolo ARCI “Al Bafo” (Piazzetta Bolognini, Seriate)

Ore 20:00

Apericena benefit in sostegno e solidarietà con i compagni e le compagne condannatx per i fatti del Brennero.

Per prenotarsi inviare una mail a: [email protected]

Vi aspettiamo.

Per saperne di più sulla vicenda e la situazione processuale:

Cassazione processo Brennero: rinvio in appello, diversi proscioglimenti e prescrizioni

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“Abbattere le frontiere! Apericena benefit” è stato scritto da underground e pubblicato su Underground.