Dolores Prato: Scottature

Esce per Quodlibet una nuova edizione di Scottature, racconto di Dolores Prato premiato nel 1965 allo “Stradanova” di Venezia. Storia dell’uscita nel mondo di una ragazza cresciuta in convento il testo è, come scrive la curatrice Elena Frontaloni, la prima manifestazione della “prosa tarda” dell’autrice per “la rapidità imprevedibile del dettato, la vividezza linguistica in studiato accordo con l’oralità, il rifiuto di lirismi e frammentismi d’accatto, uno humour malinconico e spaesato, l’autobiografia come spazio e non come genere della propria scrittura”.
Del racconto, per gentile concessione dell’editore, riproduciamo qui di seguito la “lassa” o “sospensione” finale.

 

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Ma per continuare gli studi lasciai di nuovo la clausura conventuale, e, con un moto tanto spontaneo che io l’avvertii dopo che era avvenuto, ruppi anche la clausura che avevo imposto a me stessa. Uscii fuori e guardai: l’amore fioriva intorno a me con l’esuberanza dei roseti a primavera, ed era tutto del tipo di quella rosa rossa. Io sorrisi e lui mi prese per mano; fummo felici e sfacciati come la rosa. Poi, non so perché, sempre meglio non sapere, egli fece a me quel che io non avevo fatto alla rosa, quel giorno che non avevo imparato nulla: mi gualcì e mi buttò.

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“Dolores Prato: Scottature” è stato scritto da Giorgiomaria Cornelio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Marabecca

di Daniela Sessa

In “Marabbecca”, ultimo romanzo di Viola Di Grado, persino la copertina sa di naufragio. E la donna di spalle con la testa spettinata dentro una gabbia è un relitto ammassato dall’onda. Della barca nemmeno una traccia, tanto è il relitto che ci interessa. Ci interessa quello che siamo, frantume. Si passa tra le cose della vita, facendosi il più delle volte male, e i pezzetti da ricomporre prima tagliano e poi formano un enigma sgangherato, superstite. Chi se non Athanasius Kircher poteva provare a decifrarlo? Non quell’Athanasius Kircher: i geroglifici egizi sono ben più semplice cosa dell’imbroglio della mente. Ma Athanasius Kircher, il pappagallo e la sua unica frase “ti amo, ti amo, ti amoooo“. L’amore è dunque l’enigma. Per tutti e per sempre. Anche per chi scrive. Occorre saperlo raccontare, l’amore. L’amore, con tutto il corredo di violenza o di passione altrimenti rischia di sgusciare nel già detto, già pensato, già…
Solo che “già” non esiste nel mondo di Viola Di Grado, cui appartiene invece il “giammai” ossia il dono della sorpresa fino al limite dello sconcerto. Sconcerto per l’originalità dell’invenzione, per la sorprendente declinazione dei personaggi, per il viaggio in un realtà talmente dura da esigere il surreale, per la meraviglia di una scrittura che si fa lama. Lucida e pronta a ferire. Fa tagli netti e corti, la frase una sincope della mente prima che della scrittura, un bisturi le parole, chirurgia e poesia. Dalla pagina zampilla sangue rosso buio: se fosse possibile inventare un colore, sarebbe la monocromia della marabbecca. Il mostro femmina nascosto nei pozzi pronto a mangiare i bambini: questo racconta la fiaba popolare. Marabbecca e sugghiu sono creature orrende e misteriose del folclore siciliano: il sugghiu ha una forma ibrida di rettile antropomorfo e viene dal mare mentre della marabbecca non si sa l’aspetto. E’ una femmina d’ombra, il buio è il suo destino e il suo potere. Viola Di Grado sceglie lei nelle leggende della Sicilia, per tornare nella sua terra e tornarvi a suo modo, con una storia che fagocita l’epica dentro l’inconscio. Che “Marabbecca” abbia il respiro dell’epica, il lettore se ne accorge man mano, procedendo dentro una storia apparentemente lineare. Il lettore entra dentro un labirinto dove nulla è come appare, dove non capisce se la marabbecca è fuori dal pozzo o è lui a esserci finito dentro, dove crede di sapere che la Marabbecca è Angelica, la ventenne in festa tutta glitter e abitini fiorati, o Clotilde, la protagonista col braccio e il cuore rotti. Oppure la marabbecca è Catania, la città nera come la lava o la Sicilia, l’isola che imprigiona. In ogni caso non si esce indenni da questo romanzo in cui la scrittrice ritorna a casa e la racconta con ferocia e alto tasso di letterarietà. D’altronde, per chi vuole uscire indenne dalla letteratura, può accomodarsi altrove. Quando Viola Di Grado scrive, essere lacerati dalle sue storie è il minimo che può accadere. E va bene così. Perché Viola Di Grado sa lo scarto tra la trama e l’invenzione. La trama offre la storia di un amore tossico e violento, di un incidente, di una malattia, di un nuovo amore: Igor e Clotilde prima, poi Clotilde e Angelica. Ci sarebbe materia per un mucchio di talk sulla violenza di genere, sul patriarcato, sulla fluidità di genere, sulla famiglia. Ma tutto questo è infilato dentro una casa piena di uccelli, è agito da personaggi incredibili e precipita come spinto giù da una scala disegnata da Escher, quindi dentro l’inconscio. Laddove è finita tutta la letteratura dal ‘900 in poi. “Marabecca” rientra dentro questa tradizione (il lettore attento saprà scovare le ombre lunghe delle letture della scrittrice) con una voce originalissima, giocata tutta sull’inattendibilità, della storia e della scrittura. E’ Clotilde, è la sua voce a portare il narrato nel prima e nel mentre, da una casa all’altra, da un personaggio a un uccello. Dal dentro al fuori? Ecco un geroglifico davvero ostico anche per il buon Athanasius Kircher. Clotilde è la scrittura che segue e insegue la menzogna: del narratore, dei personaggi, dei luoghi. E’ la casa voliera, in cui l’accudimento coincide con il possesso e le ali non si spiegano mai davvero: il volo è un precipizio, da cui chi si salva, si salva male. Mentre Athanasius Kircher, incerto anch’esso sulle ali della verità e della menzogna, sacerdote del buio, continua a parlare la stessa frase. Che sia lui la marabbecca?

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“Marabecca” è stato scritto da mariasole ariot e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Monologo bellico

di Daniele Muriano

Mi chiamo Aria, e sono una bomba. E che bomba… Non però in senso volgare, no. Io sono una bomba: lucida, tornita e inossidabile. Insomma, esplodo. Come posso avere una coscienza? Non lo so. Chiedetelo ai miei inventori. Mi avranno insufflato un’intelligenza artificiale, o un soufflé d’intelligenza alla vaniglia, non lo so. Questi tempi sono avanzatissimi. Anche le bombe hanno autocoscienza. Uccidono e, senza rimedio, soffrono per il loro destino. Ovviamente non possono soffrire dopo essere esplose, perché le bombe sono mortali (in un senso e nell’altro). Ma nel mentre, eccome se si struggono. “Si struggono e distruggono”, potrebbe essere lo slogan inventato da uno stupido.

Sia chiaro: non hanno colpa. Sono proprietà di chi le guida. Sono molto in breve, schiave. E no, carini: non chiamatemi bomba intelligente. Ché tra noi bombe, è un insulto. Al massimo, bomba autocosciente. O se preferite il nome proprio rispetto a quello generico, Aria. Chi mi ha battezzato con questo nome arioso? Forse l’aria stessa mi ha dato il nome di Aria. Infatti la sto attraversando. Sto brucando l’aria, come una mucca grigia che sfiora i prati del paradiso. Il brutto è che precipito, cioè mi precipito sull’obiettivo. Certo, lui per me è un semplice numero. L’obiettivo è un ammasso di coordinate precisissime. Non lo conosco, però. E se volete proprio saperlo, non lo conoscerò. Visto che esploderò al contatto con lui. Poi diranno di me che sono un mostro. Un ordigno senza cuore. È vero, purtroppo. Perché di cuore, no! non se ne parla.

Ma ho un naso, signori. Ed è piuttosto lungo. Con il mio naso buco l’azzurro dei cieli, attraverso questo orizzonte ingiusto. È un naso insensibile, che sente solo sé stesso. Ma è. Ho da lamentarmi? Forse. Ci sono però bombe peggiori, dalla vita assolutamente più corta. E poi, i miei circuiti mi impediscono di lamentarmi.

Cosa volete? Ammazzerò qualcuno, forse molti. Pioverò sul settimo piano di un palazzotto, sventrerò un tetto sotto il quale un ometto panciuto sta defecando in tranquillità, farò a pezzi le mattonelle del bagno, attraverserò in frantumi la tromba dell’ascensore mentre il signor palazzo si aprirà in tutte le direzioni come un animale squartato. Questo fatto è prevedibile. La mia intelligenza può quasi toccarlo. Eppure, io non so niente. Come dicevo, non conosco il mio obiettivo. Che è quasi Dio. Sì, credo che l’essere umano abbia il medesimo rapporto con l’essere divino. Dio è inconoscibile, e l’uomo può toccarlo davvero solo grazie alla morte. Non so però se ha senso divinizzare troppo il mio obiettivo, visto che – nella sua abissale passività – non ha alcun potere. Inoltre, verrà distrutto. È forse pensabile un dio che sta per essere fatto a pezzi? No, tutta questa metafora farcita di crema metafisica non tiene. L’obiettivo non è Dio.

Ci sono invece gli ingredienti affinché io sia buddista. Come può diversamente una bomba sopportare il suo destino infame? Del resto, la bomba è passiva. Deve lasciarsi andare, essere impermeabile a ogni sentimento terrestre, lasciarsi attraversare insomma dall’aria. Deve rinnegare le pulsioni, o soffrirebbe per la propria impotenza.

Invece io voglio vivere, amare, odiare, sopportare, contare le pecore nel pensiero prima di addormentarmi. Voglio subire la forza del caso, come tutti.

Pare che io abbia la fortuna degli uccelli. Sto attraversando questo abisso al contrario, sto volando in picchiata. E sono un essere potentissimo. Mi temono tutti. E avete notato quanto sono intelligente. Non sarò forse un dio? Probabilmente ho guardato lontano da me solo per modestia, mentre la grandezza era in direzione contraria, dentro di me. Mi sto sottovalutando. Come bomba, almeno posso vantarmi di essere il dio della morte. Meglio certo dell’ometto panciuto in defecazione che forse ucciderò. Meglio di te, umano, che pensi di essermi superiore perché non sei stato lanciato, e perché non sei stato direzionato da qualcun altro, perché non soffri il costante allontanamento dalle stelle. Ma pensaci. Sei sicuro fino in fondo di non essere stato lanciato, e poi direzionato, e di non soffrire ora questa sempre più grande lontananza dalle stelle? Lo so, lo so: pensi che sono disperato, che sono maniacale perché mi sto avvicinando alla morte mentre plano verso l’obiettivo, e che tutto sommato una bomba è una bomba. Ha una natura, per così dire. “Ecco, io pensavo che fosse una bomba buona, e invece abbiamo qui la solita bomba” pensi. E io dico razzista! Bombofobo! Mostro antropocentrico!

No, scusa. Era solo un test. Volevo valutare la tua pazienza e la tua attenzione. Visto che sei ancora qui, hai sicuramente passato il test. Allora possiamo essere amici. Certo, per il tempo che mi rimane. Quanti secondi mancano al grande schianto? 25… 24… Pensaci, però: credi sia bene provare a instaurare un’amicizia, o anche solo una minima conoscenza, con un essere intelligente che sta per finire la propria vita? Ti avviso: potresti soffrire. 21… Superato questo vile ostacolo, pensa anche al dopo: sarai diventato un amico, o un conoscente minimo (= coinvolgimento emotivo, un pochetto, dai!) di un essere intelligente che sta per ammazzare un gran numero di persone. Un ordigno, come mi chiamano i burocrati. Una bomba, come mi chiama la gente. Aria, come solo tu puoi chiamarmi, segno inestimabile di confidenza.

So anche che, con il passare del tempo, e ora siamo a 12… 11…, speri che lo schianto arrivi presto, perché la tua voglia di ascoltare una bomba sta cadendo in picchiata insieme a me. Ti sono scomodo, vero? “Basta” stai pensando, “schiantati!”

Eh, ma non ci pensi a quelli che si trovano a 3 secondi da me? 2… 1… Va bene, sono stato forse troppo manipolatorio nei tuoi confronti, non è giusto. Sto per esplodere sul tetto di una scuola elementare piena di bambini. Avrei voluto più tempo, vedi, perché ti ho mentito. Soprattutto sul dato più importante, sul particolare più bollente. Sulla sfumatura che cambia le cose…

C’entrano Dio, il senso della vita, le crepe sentimentali di cui siamo fatti. La verità è che, da dove vengo, nell’alto dei cieli, abbiamo coltivato un germe di sa.

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“Monologo bellico” è stato scritto da Giorgio Mascitelli e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

«La vera storia della Banda Hood», in libreria ad Aprile 2024

Nell’anno 1187, il generale curdo Ṣalāḥ al-Dīn sconfisse l’esercito cristiano alla battaglia di Hattin. Successivamente mise sotto assedio Gerusalemme e la riconquistò al mondo islamico, impossessandosi anche del transetto della Vera Croce. Su spinta del papa Gregorio VIII venne bandita una crociata – la terza – per riconquistare la città santa e la santa reliquia, alla […]

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“«La vera storia della Banda Hood», in libreria ad Aprile 2024” è stato scritto da Wu Ming 4 e pubblicato su Giap.

Carlo Ferraro: un ricordo

Il 16 febbraio 2024 è venuto a mancare Carlo Ferraro, già professore ordinario al Politecnico di Torino nonché fondatore e coordinatore del Movimento per la Dignità della Docenza Universitaria. Questo breve testo costituisce un suo ricordo, redatto da chi è stato a lui più vicino nella vita e nelle azioni del Movimento, ma intende esprimere lo stato d’animo non solo del piccolo gruppo dei suoi collaboratori, ma anche di tutti quei docenti che nel corso degli anni hanno trovato in Carlo un difensore, un rappresentante, una guida, sul piano sia materiale sia morale, un punto di riferimento prezioso.

Con profonda commozione, ringraziando gli amici di Roars per l’ospitalità, ricordiamo la figura di Carlo Ferraro a pochi giorni dalla morte, avvenuta lo scorso 16 febbraio. Carlo ha fondato il Movimento per la Dignità della Docenza Universitaria, quando era professore ordinario al Politecnico di Torino, e ha continuato a coordinarlo per quasi dieci anni. Quando, appunto nel 2015, il governo sbloccò gli aumenti stipendiali – che erano rimasti fermi per 5 anni – di tutti i dipendenti statali, tranne che quelli dei docenti universitari, Carlo ebbe la capacità e la forza di raccogliere il malcontento che serpeggiava nella categoria, e di guidarla, con incredibile tenacia e con grande dispendio di tempo e di energie, in una serie di iniziative di protesta, culminate prima col rifiuto di presentare i propri prodotti della ricerca alla Valutazione della qualità della ricerca e poi con uno sciopero nazionale, la cui piena legittimità fu sancita dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero; uno sciopero che, anche in termini di adesioni, non ha avuto precedenti nell’ambito della docenza universitaria. Queste sue iniziative hanno portato prima allo sblocco degli scatti e poi al ripristino della cadenza biennale (e non triennale) degli scatti stessi; si tratta di successi conseguiti nonostante le opposizioni dei ministri e dei rettori di turno, nonché dei sindacati tradizionali e di alcuni organi di stampa.

Il suo impegno non si è concluso con queste vittorie (nonostante, nel frattempo, fosse andato in pensione, e quindi non fosse più personalmente coinvolto nei temi affrontati) e la sua battaglia è poi proseguita: prima in difesa di chi, nel proprio Ateneo, stava subendo ritorsioni per aver partecipato alla prima protesta; poi vigilando sui regolamenti locali che potevano, di fatto, tagliare fuori dagli scatti una parte dei docenti; quindi perché a tutti i docenti (ricercatori a tempo indeterminato, professori associati) fosse data la possibilità di una progressione di carriera. Ma l’azione di Carlo non si è fermata a questi aspetti, che potremmo definire “sindacali”: Carlo si è battuto anche per l’aumento dei fondi per il diritto allo studio, per la progressiva eliminazione del precariato, per il finanziamento della ricerca di base, per la riduzione della burocrazia (la cui invadenza è diventata sempre più eccessiva) e anche perché il contrasto al Covid (e a future possibili epidemie) non si limitasse a puntare alla vaccinazione generalizzata, ma prevedesse anche investimenti su vari altri fronti (trasporti, impianti di climatizzazione, ecc.). Nel 2018 Carlo iniziò a lavorare a una riforma organica del sistema di reclutamento e progressione di carriera universitari, presentando presso tutte le sedi istituzionali vari documenti, firmati, anche stavolta, da migliaia di colleghi. Restiamo convinti che la riforma approvata dal Parlamento nel 2022 abbia risentito profondamente del lavoro di Carlo con il movimento, soprattutto per quanto riguarda la nuova figura di Ricercatore a tempo Determinato, che corrisponde a quella che lui ci descriveva con grande passione fin dal 2018. Ricordiamo anche l’ultima raccolta firme, avviata da Carlo per le progressioni di carriera, conclusa pochi mesi fa, che ha raccolto oltre 5 mila firme.

Questi aspetti del lavoro di Carlo relativi a quella che potremo definire come “causa comune” della categoria dei docenti universitari hanno avuto l’effetto positivo di dare una nuova “spinta” a una classe docente che sembrava ormai rassegnata, sottomessa, disamorata, disillusa, di farle ritrovare la capacità di recuperare la sua dignità e la consapevolezza del proprio ruolo, centrale per il progresso culturale, civile e democratico del nostro Paese. E i politici, i parlamentari, i ministri, i rettori, lo hanno avuto spesso come interlocutore, a volte “scomodo”, perché, sempre corretto e impeccabile sul piano istituzionale, era però sempre tenace, e direi inflessibile, nel sostenere idee e nel condurre battaglie che sono di tutti noi.

Ma Carlo in questi anni è diventato anche per molti docenti – e non solo per noi che abbiamo avuto il piacere e il privilegio di conoscerlo di persona e di diventare suoi stretti collaboratori e amici, ma anche per i molti altri che hanno avuto con lui contatti episodici, a volte solo per telefono o per posta elettronica – un amico fidato, un padre, o un fratello maggiore, sempre disponibile e premuroso nel dare un consiglio, nel dire una parola di incoraggiamento, nel risolvere una situazione specifica di disagio (andandosi magari a riguardare la normativa, che peraltro conosceva nei minimi dettagli, anche nei suoi continui aggiornamenti).

Al tempo stesso, sapeva anche ascoltare e rassicurare chi gli confidava i propri problemi personali; e, a sua volta, alle persone a lui più vicine parlava di sé, della sua vita (e, negli ultimi tempi, dei suoi problemi di salute) e della sua famiglia, a cui era legatissimo: la moglie, signora Paola, che aveva coinvolto anche in questo suo lavoro (a tratti davvero improbo), il figlio, la nuora e i nipoti (che appena possibile raggiungeva in Spagna). A tutti loro, che sentiranno più di tutti la mancanza di Carlo, ci stringiamo con profondo affetto.

Noi del gruppo del Movimento più vicini a Carlo non riusciamo ancora a rassegnarci alla sua perdita, ma sappiamo che il nostro imperativo categorico è quello di cercare di proseguirne l’azione, pur senza aver la sua forza, la sua competenza, il suo spirito di abnegazione. Continueremo così a sentirlo vicino, e per questo abbiamo voluto inserire il suo nome nella denominazione del Movimento, che, con il coordinamento di Davide De Caro, continuerà a lavorare per la dignità di tutti i docenti universitari, che – come in passato – potranno seguirne le iniziative e partecipare alle sue azioni senza alcuna richiesta di iscrizione. Pur nella grande tristezza del momento, noi sappiamo di doverci considerare fortunati per il solo fatto di aver conosciuto Carlo e di aver ricevuto da lui molto di più di quello che siamo riusciti a esprimere qui.

A cura del gruppo di coordinamento del Movimento Carlo Ferraro per la Dignità della Docenza Universitaria

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“Carlo Ferraro: un ricordo” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.

Da “Tok”

[Zest, giovanissima casa editrice, propone pubblicazioni di poesia e saggi divulgativi che esplorano le connessioni tra umano e non-umano e propongono riflessioni sulle problematiche legate all’Antropocene. È costituita da due collane: I gradienti, dedicata alla poesia, e Ecotomi, dedicata alla saggistica. Al progetto editoriale appartengono anche i volumi della Rivista TELLŪS a cura di ZEST Letteratura sostenibile progetto divulgativo dell’Associazione We feel green. Presentiamo qui un estratto dal primo volume della collana poetica.]

 

di Gabriele Belletti

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tok     tok     tok

tok     tok     tok


Batte contro il vetro
il ritmo di qualcosa,
forse è solo un sogno
che vaga nella stanza. 


tok   tok   tok

tok   tok


Batte e ancora batte, 
– non è simulata la premura –
si ripete
per forza e dedizione.


Provare a dire

– se non si può dire –

sempre è inizio

di rivoluzione.

*

Verde partigiano appartiene 
ad arbusti e infiorescenze. 
Sembrerebbe di unica creatura 
acquattata, pensierosa. 

Una reale corrispondenza. 

Il bambino è fermo
presso il punto 
dove il fiume si scioglie nella selva.


Chiama 

– si intensifica il segnale –

oltre la superficie 

un punto cardinale.

*

Si è sparpagliato 
da fronda a fronda
– rapidissimo –
un selvatico appello.

Le nuove orme

hanno dato vita
a un anomalo fermento

hanno sparso 
un’insolita gioia.

*

7° Cerchio

Eravamo del presente

– rubicondo –

affamato di occhi
per guardarsi.

Divideva
e moltiplicava
i nostri corpi

– ripetendo
uno stesso scrigno.

[…]

Si vedevano emergere col verde
altri specifici colori

un armamentario delizioso

patrimonio dell’attesa.

 

*          *          *

105° Cerchio

 

Dell’antico prato

avevano fatto un parcheggio.

 

Mi avevano graziato

per essere albero

prediletto

di un poeta morto ammazzato.

 

Piangevo – piano –

del rumore e delle procedure

 

esistevo – solo –

 

nonostante la morte

di tante sorelle

 

creature.

[…]

Con pochi altri,

nella via trafficata

e insonne, scambiavamo

il nostro ricordo paesaggio

 

rinnegavamo i fabbricati

che con desideri altissimi

imprigionavano

 

tutti

 

i loro fiati.

 

*          *          *

163° Cerchio

 

Il popolo del mio corpo

era un rintoccare da ogni

parte. I sopravvissuti

tornavano, sotto altra forma:

 

dimenticati prati

e macerie di anni

si dicevano

 

con nuovi occhi

 

con ieratiche zampette.

 

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“Da “Tok”” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Lo spettro della solitudine

 di Romano A. Fiocchi

Serena Penni, La destinazione, Il ramo e la foglia edizioni, 2023

Libro chiama libro. L’utilizzo della seconda persona singolare, quel ‘tu’ insistente, mi ha subito portato a collegare La destinazione a La modificazione. Il primo di Serena Penni, uscito nel novembre scorso, il secondo di Michel Butor, uscito sessantasette anni fa. Entrambi i romanzi, guarda caso, divisi in tre parti. Butor è esponente del Nouveau Roman, la ‘scuola dello sguardo’ teorizzata da Alain Robbe-Grillet: l’occhio dello scrittore come una macchina da presa che registra meccanicamente ciò che vede, le superfici, le forme, i colori, i movimenti, nulla più. Serena Penni è l’opposto: la sua macchina da presa emette raggi X e penetra nell’oggetto-essere umano che ha di fronte, scava nella sua anima, nelle sue nevrosi, nelle sue fobie. Una ‘scuola dell’introspezione’, insomma. C’è da dire che quando i raggi X si interrompono, i due scrittori collimano nelle minuziose descrizioni esteriori. Così Serena Penni, in una sorta di ecfrasi, ritrae il personaggio di Elisabeth: «Aveva i capelli neri, lunghi e un po’ mossi, il viso magro, un paio di occhiali con la montatura di tartaruga. […] La bocca era quasi perfetta, proporzionata e con labbra carnose, ma il naso era vagamente aquilino. La carnagione chiara contrastava con il nero dei capelli e delle sopracciglia. Dimostrava tra i quarantacinque e i cinquant’anni, qualche ruga d’espressione le segnava il viso. Aveva le guance arrossate per il freddo e per il vento».

In realtà, nel testo di Butor l’utilizzo della seconda persona singolare è costante in quanto la voce narrante si rivolge sempre al protagonista (l’incipit: «Hai messo il piede sinistro sulla guida d’ottone, e con la spalla destra tenti invano di sbloccare il portello scorrevole»), mentre in quello della Penni la voce narrante ruota su tre coprotagonisti che a turno si rivolgono al proprio antagonista. Mi spiego meglio. Ciascuna delle tre parti in cui è suddiviso La destinazione ha un protagonista-voce narrante diverso: Carla, Paolo ed Elisabeth, che con il proprio nome danno il titolo alle rispettive sezioni del romanzo. In “Carla” il personaggio omonimo racconta le sue vicende a Paolo, assente ma come se fosse di fronte a lei in carne e ossa. In “Paolo”, il personaggio di Paolo apre la sua confessione come se fosse l’inizio di un diario, per poi rivolgersi a Elisabeth solo nella parte centrale, abbandonando infine il ‘tu’ e tornando alla formula ‘diario’ nelle ultime pagine, quelle del suicidio, anzi: dell’omicidio di sé («Sono l’assassino di me stesso e di tutto quello che mi illudo di aver rappresentato»). Infine in “Elisabeth”, il personaggio di Elisabeth si rivolge a Paolo – sempre fisicamente assente – e conduce così il lettore sino alla soluzione del romanzo. Questo meccanismo narrativo genera dunque tre parti costituite di pieni e di vuoti che finiscono per incastrarsi perfettamente l’una nell’altra, integrandosi al punto di chiarire le situazioni lasciate in sospeso oppure, al contrario, smentendole e sostituendole con nuove verità. Perché la verità, secondo Serena Penni, non è univoca ma relativa: è la verità di ciascun personaggio. L’unica verità comune a tutti è l’impossibilità, per ciascuno, di trovare una corrispondenza d’affetto: Carla ama Paolo, Paolo ama Elisabeth, Elisabeth ama Gabriele (suo marito). Ma così come esiste una concatenazione di amori, esiste una concatenazione di morti: il padre di Paolo uccide la madre, Paolo uccide idealmente Gabriele, la morte in culla uccide la piccola Emma (figlia di Elisabeth e di Gabriele). Alla fine di queste concatenazioni di amori e di morti non resta se non lo spettro della solitudine, il senso dell’incomunicabilità tra gli individui, il disagio esistenziale dell’uomo contemporaneo.

Qual è il tema portante di questo romanzo psicologico? Credo sia la nevrosi di colui che è poi il protagonista assoluto, Paolo. Nevrosi causata dall’episodio terribile a cui ha assistito da bambino: l’uccisione della madre da parte del padre. In sostanza, un femminicidio. O meglio: non il dramma dell’atto in sé ma quello peggiore di chi si trova nella doppia posizione di figlio della vittima e di figlio dell’assassino. Serena Penni scava nel profondo della psiche di Paolo portando alla luce le ossessioni che lo tormentano: il terrore di aver ereditato il gene dell’omicida, il dubbio mai estinto di essere il vero autore dell’assassinio della madre, l’esistenza dentro di sé di un devastante complesso di Edipo e la conseguente ricerca disperata della figura materna nelle donne che incontra. Con un amore-odio che in uno slancio autodistruttivo lo porta addirittura a frequentare la casa di Shantal, luogo per scambisti.

C’è molto Freud, dietro questa scrittura. Non per nulla il testo è disseminato di sogni dei personaggi. A cominciare da Carla, sconvolta dalla fantasmagoria del castello sul fiume che può sprofondare da un momento all’altro. Poi i sogni innumerevoli di Paolo: dalle decorazioni sulle pareti – uccelli, pesci, foglie, fiori – che si animano, agli incubi con le molteplici metamorfosi del padre, ora in forma di mostro, poi di leone, pitone, ragno velenoso, uomo in giacca e cravatta, professore in saio grigio, poliziotto, fino al sogno dell’investimento volontario di Gabriele, il cui cadavere ad un tratto si trasforma in quello della madre uccisa, mentre le mani di Paolo diventano le mani del padre assassino. Freudiana è l’associazione di idee che alimenta il sogno dove Gabriele appare come angelo non-angelo. Infine il sogno di Elisabeth, che vede la propria madre vestita di nero che le parla in una lingua sconosciuta, terribile premonizione della morte della piccola Emma. Il susseguirsi di tutti questi sogni finisce per creare una vera e propria narrazione parallela nel linguaggio dei simboli, come a evidenziare la bipolarità dei personaggi, soprattutto di Paolo, con le molteplici maschere bisessuali dietro cui si nasconde sin da piccolo: Zorro, Giulio Cesare, Luigi XVI, Cleopatra, Maria Antonietta, Simone de Beauvoir. Ma anche le maschere che gli attribuisce Elisabeth: Achab, Dorian Gray, persino Faust. Tutto ciò fa di Paolo un concentrato di troppi individui per consentirgli di sopravvivere a se stesso.

Un’ultima considerazione tecnica. Carla, Paolo ed Elisabeth sono personaggi assolutamente teatrali e letterari. Nessuna persona reale terrebbe un discorso diretto al proprio antagonista in questo modo. L’abilità della Penni, che si innamora di volta in volta di ogni coprotagonista, sta nell’instaurare una convenzione con il lettore per cui lo stesso si immedesimi nella vicenda e la segua fino in fondo come se fosse la più autentica delle storie. Persino il misterioso paesino del Brasile dove si rifugia Paolo, luogo tra fisico e mentale che per certi aspetti evoca i vuoti e i silenzi della Crisopoli di Guido Morselli, si riveste di un fascino misterioso e poetico che incuriosisce e spinge il lettore alla caccia di indizi per identificarlo. Ma, come tutti i personaggi sono privi di cognome, il paesino del Brasile resta anonimo. Personaggi e luoghi non sono se non l’incarnazione di simboli: «Perché qui c’è un fiume trasparente che scorre lento e monotono verso l’aldilà, portando con sé i petali rossi dei fiori di un albero di cui non so il nome e le anime dei dannati».

* * *

Il ramo e la foglia è una piccola e coraggiosa casa editrice di Roma, coraggiosa perché è nata nella seconda metà del 2020, in piena epidemia di Coronavirus. Si segnalano, tra le sue ultime uscite, il fantasioso e ucronico Navi nel deserto di Luigi Weber e la riedizione, a distanza di cinquantaquattro anni, del Marcel ritrovato di Giuliano Gramigna.

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“Lo spettro della solitudine” è stato scritto da gianni biondillo e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Mahmud Darwish: «un altro giorno verrà»

 

 

È in uscita per Crocetti Non scusarti per quel che hai fatto di Mahmud Darwish, spesso definito “il poeta nazionale della Palestina”, scomparso nel 2008.

Ospito qui alcune poesie in anteprima.

 

Ho la saggezza del condannato a morte

 

Ho la saggezza del condannato a morte:

non possiedo niente perché niente mi possieda,

scrissi il mio testamento con il mio sangue:

“Confidate nell’acqua, oh abitanti del mio canto”.

Poi mi addormentai imbrattato e coronato dal mio

domani…

Sognai che il cuore della terra è più grande

della sua mappa,

e più chiaro dei suoi specchi e della mia forca.

Sognai una nuvola bianca che mi portava più in alto

come fossi un’upupa, e il vento le mie ali.

E all’alba fui svegliato dal mio sogno e dalla mia lingua

dalla chiamata della guardia notturna: “Vivrai un’altra

morte,

cambia le tue ultime volontà,

l’esecuzione è stata rinviata una seconda volta”.

Domandai: “Fino a quando?”.

Disse: “Aspetta ancora per morire di più”.

Dissi: “Non possiedo niente perché niente mi possieda”.

Scrissi il mio testamento con il mio sangue:

“Confidate nell’acqua

oh abitanti del mio canto!”.

 

Un altro giorno verrà

 

Un altro giorno verrà, un giorno femmineo,

alla metafora trasparente,

compiuto, diamantino, di visita nuziale, soleggiato,

fluido, allegro. Nessuno sentirà

alcun bisogno di suicidio o di migrazione.

Poiché ogni cosa, fuori del passato, è naturale e vera,

sinonimo dei suoi attributi originari.

Come se il tempo oziasse in vacanza… “Prolunga il bel

tempo

della tua grazia. Illùminati nel sole dei tuoi seni di seta,

e aspetta l’arrivo della buona novella. Poi,

potremo crescere. Abbiamo ancora tempo

per crescere dopo questo giorno…”

Un altro giorno verrà,

un giorno femmineo,

dal cenno canterino e dal saluto e verbo azzurri.

Tutto è femmineo fuori del passato,

l’acqua scorre dalle mammelle della pietra.

Nessuna polvere, nessuna siccità, e nessuna sconfitta.

E le colombe dormono in un carro armato abbandonato

quando non trovano un piccolo nido

nel letto degli amanti.

 

Al nostro paese

 

Al nostro paese,

quello vicino alla parola di Dio

un soffitto di nuvole,

al nostro paese,

quello distante dagli attributi del nome

la mappa dell’assenza,

al nostro paese,

quello minuscolo come un seme di sesamo

un orizzonte celeste… e un abisso nascosto,

al nostro paese,

quello povero come le ali di un gallo cedrone

libri sacri… e una ferita nell’identità,

al nostro paese,

quello circondato da colline dilaniate

l’imboscata di un nuovo passato,

al nostro paese, bottino di guerra,

la libertà di morire di brama e di struggimento.

Il nostro paese, nella sua notte insanguinata,

è un gioiello che brilla per le distanze più lontane

e illumina ciò che è al di fuori di lui…

Quanto a noi, dentro, soffochiamo ogni giorno di più!

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“Mahmud Darwish: «un altro giorno verrà»” è stato scritto da Giorgiomaria Cornelio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Nel frattempo Giap, ovvero: due o tre parole di spiegazione

Il 18 gennaio scorso, nell’ufficializzare che il 2024 sarebbe stato per noi un anno “sabbatico”, prevalentemente dedicato alla stesura dei nostri tre romanzi solisti, abbiamo scritto: «A essere sacrificati sono gli appuntamenti pubblici», specificando: «soprattutto quelli in trasferta». Dopo più di cinque settimane di immersione piena nella scrittura, dobbiamo constatare che siamo stati ottimisti. I […]

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“Nel frattempo Giap, ovvero: due o tre parole di spiegazione” è stato scritto da Wu Ming e pubblicato su Giap.

A volte ritrattano

Ritrattazioni, segnalazioni di cattive condotte scientifiche, manipolazione di citazioni, compravendita di autoraggi e citazioni, paper mills, falsificazione e manipolazione di dati inquinano la ricerca. Su questi temi c’è un ampio dibattito, gruppi di “investigatori” indagano su queste cattive condotte e c’è una crescente copertura da parte della stampa internazionale, specializzata e non. L’accademia italiana pare impermeabile alla questione, discutendo, quando va bene, il solo tema delle cosiddette riviste predatorie, anche qui in una maniera spesso distorta. La stampa italiana, con pochissime eccezioni, pare ancora più refrattaria. A questo silenzio contribuiscono certamente la minaccia di azioni legali e le azioni legali da parte dei ‘segnalati’. Per provare a rompere questo silenzio, abbiamo pensato di aprire una rubrica intitolata A volte ritrattano, dove segnaleremo quanto emerge nella stampa internazionale,  nei siti e nei blog che si occupano sistematicamente dell’inquinamento che colpisce la scienza contemporanea. Con particolare attenzione al contributo italiano. Inauguriamo con cinque episodi che riprendiamo da ForBetterScience.

 

Ritrattazioni, segnalazioni di cattive condotte scientifiche, manipolazione di citazioni, compravendita di autoraggi e citazioni, paper mills (letteralmente cartiere: organizzazioni che producono falsi articoli scientifici che finiscono sullle riviste più disparate), o review mills (che analogamente producono revisioni (referaggi) che hanno gli stessi contenuti indipendentemente dall’ambito scientifico a cui si applicano e che invitano gli autori a citare articoli della stessa rivista), falsificazione e manipolazione di dati e immagini sono in costante crescita. La questione dell’integrità della ricerca scientifica è oggetto di un ampio dibattito internazionale. Così come si discute ampiamente della spinte alle cattive condotte generata dall’adozione di valutazioni individuali o massive basate su performance bibliometriche.

Gruppi di “investigatori” indagano su queste cattive condotte e segnalano i risultati delle loro indagini a editori (editors) e case editrici (publishers), oltreché alla comunità scientifica attraverso siti specializzati come Pubpeer. C’è anche una crescente copertura da parte della stampa internazionale, specializzata e non; e da giornalisti indipendenti che scrivono su blog specializzati, tra i più noti ForBetterScience edito da Leonid Schneider e Retraction Watch.

Ricercatori italiani (con affiliazione italiana o estera) sono stati protagonisti di alcuni dei casi più eclatanti degli ultimi anni. Basti pensare al caso di Paolo Macchiarini, la cui storia tristemente incredibile è diventata oggetto di un documentario in onda su Netflix; o a quello di Carlo Maria Croce. Ci sono decine e decine di casi documentati che riguardano il coinvolgimento di ricercatori italiani in “cartiere”; casi di ricercatrici/ricercatori, tra cui ex-rettori, con poco esaltanti record di segnalazioni su pubpeer per articoli contenenti immagini o dati manipolati.

L’accademia del nostro paese pare impermeabile alla questione, discutendo, quando va bene, il solo tema delle cosiddette riviste predatorie, anche qui in una maniera spesso distorta.  La stampa italiana, con pochissime eccezioni, pare ancora più refrattaria. A questo silenzio contribuiscono certamente la minaccia di azioni legali e le azioni legali da parte dei ‘segnalati’.

Per provare a rompere questo clima di silenzio, abbiamo quindi pensato di aprire una rubrica di ROARS intitolata A volte ritrattano: non sempre infatti gli articoli segnalati sono anche oggetto di ritrattazione, continuando ad inquinare la letteratura scientifica. Nella rubrica ci limiteremo a segnalare, in lingua italiana, per i nostri lettori, quanto emerge nella stampa internazionale, nei blog e nei siti che si occupano sistematicamente dell’inquinamento che colpisce la scienza contemporanea. Con particolare attenzione al contributo italiano.

Inauguriamo la rubrica pescando dalla newsletter settimanale di Leonid Schneider. In quella della settimana scorsa su nove notizie segnalate ben cinque riguardavano casi di ricercatori italiani. La psicologa dell’università di Oxford Dorothy Bishop ha commentato nel suo blog e su pubpeer alcuni articoli del professor Alessandro Frolli, dell’Università degli Studi Internazionali di Roma,  nonché direttore scientifico della Fondazione FINDS (Fondazione Italiana Neuroscienze e Disordini dello Sviluppo) con sedi a Salerno e nella campagna di Caserta. Dorothy Bishop spiega che la sua attenzione sul lavoro di Frolli è stata attirata da una mail dell’ufficio editoriale della rivista Children, pubblicata da MDPI, che segnalava gli articoli più citati della rivista, tra cui quelli di Frolli. Bishop rileva molte incongruenze statistiche in alcuni dei paper segnalati, che i lettori interessati possono leggere in dettaglio qua. Questo invece il link alle segnalazioni specifiche su pubpeer. Il commento di Schneider: “I see a spectacular academic career for Frolli. As long as he doesn’t leave Italy”.

Schneider si occupa poi di alcuni paper dei professori Cinzia Antognelli e Vincenzo Nicola Talesa dell’Università di Perugia che conterrebbero immagini problematiche, alcune delle quali riprese da articoli pubblicati in articoli con autori diversi (qui il link a pubpeer).

Il terzo caso riportato da Schneider riguarda Maurizio Battino, dell’Università Politecnica delle Marche, nonché editor in chief di riviste MDPI e IOP press. In particolare, ci informa Schnieder, Battino, come editor in chief della rivista International Journal of Molecular Sciences (MDPI), sta considerando il caso di alcuni articoli di Salvatore Cuzzocrea e Francesco Squadrito segnalati da un whistleblower (Aneurus Inconstans) per immagini problematiche.  Di Battino, Schenider commenta un articolo che contiene parti riprese letteralmente da paper precedenti di autori diversi e pubblicato su una rivista (Mediterranean Journal of Nutrition and Metabolism) di cui è Editor in chief.

Il quarto caso riguarda invece due ritrattazioni per immagini problematiche di articoli di cui il prof. Maurizio Sabbatini dell’Università del Piemonte Orientale è il primo autore.

Il quinto caso riguarda infine Lorenza Colzato, una psicologa cognitiva che è stata affiliata all’università di Leiden, Olanda. Dopo quasi due anni dalla richiesta dell’Università di leiden, la rivista Frontiers in Psychology ha ritrattato uno dei sette articoli che l’università aveva segnalato come “tainted” (si veda qua).

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“A volte ritrattano” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.

Renée Vivien – “Saffo ‘900”

L’ardente agonia delle rose. Antologia poetica

– nella traduzione di Raffaela Fazio (Marco Saya Edizioni, 2023)

Dalla nota introduttiva della traduttrice:

La poesia di Renée Vivien (Londra 1877 – Parigi 1909) ha una caratteristica imprescindibile: la musica perfettamente orchestrata di ogni componimento. La costruzione meticolosa del verso, che risulta nella più fluida naturalezza sonora, è tanto più sorprendente nella nostra autrice quanto la lingua usata è una lingua acquisita: la britannica Pauline Mary Tarn, che assunse il nome di Renée Vivien, scelse il francese per dar forma alla sua voce, una voce di indiscusso e riconosciuto talento. L’equilibrio degli emistichi, il respiro calibrato intorno alla lunghezza delle vocali, il gioco delle rime, il richiamo interno delle allitterazioni, l’iterazione delle parole, spesso nelle epifore, sono alcuni dei più evidenti accorgimenti stilistici a cui ricorre la poetessa. […] Proponendo Renée Vivien in questa nuova veste italiana, mi auguro che il lettore riesca a percepire il ricco cromatismo della sua poesia, che tematizza l’amore con un’apertura inusuale per l’epoca, senza temere il passaggio, a volte repentino, tra dolcezza e violenza, desiderio e repulsione. L’eros si rivela allora tendenza irrinunciabile, sebbene fonte di sofferenza, nell’alveo di una costante malinconia, nota di fondo del decadentismo europeo. Rêverie, simbolismo visionario, sensualità dai toni anche morbosi affiorano con insistenza in Renée Vivien; tuttavia, la sua scrittura non si esaurisce là, sorprende di continuo, perché nasce da uno spirito inquieto e dolente, intento a ricercare, almeno nella forma poetica, quella purezza che, nella vita, si era spesso rivelata fugace o illusoria.

Cinque poesie dalla raccolta:

À la femme aimée

Lorsque tu vins, à pas réfléchis, dans la brume,
Le ciel mêlait aux ors le cristal et l’airain.
Ton corps se devinait, ondoiement incertain,
Plus souple que la vague et plus frais que l’écume.
Le soir d’été semblait un rêve oriental
De rose et de santal.

Je tremblais. De longs lys religieux et blêmes
Se mouraient dans tes mains, comme des cierges froids.
Leurs parfums expirants s’échappaient de tes doigts
En le souffle pâmé des angoisses suprêmes.
De tes clairs vêtements s’exhalaient tour à tour
L’agonie et l’amour.

Je sentis frissonner sur mes lèvres muettes
La douceur et l’effroi de ton premier baiser.
Sous tes pas, j’entendis les lyres se briser
En criant vers le ciel l’ennui fier des poètes
Parmi des flots de sons languissamment décrus,
Blonde, tu m’apparus.

Et l’esprit assoiffé d’éternel, d’impossible,
D’infini, je voulus moduler largement
Un hymne de magie et d’émerveillement.
Mais la strophe monta bégayante et pénible,
Reflet naïf, écho puéril, vol heurté,
Vers ta Divinité.

Études et préludes, 1901

Alla donna amata

Con andatura assorta arrivasti nella bruma:
il cielo univa allora cristallo e bronzo all’oro.
Il tuo corpo s’intuiva ondeggiare insicuro,
fluttuante più dell’onda, più fresco della schiuma.
Era la sera estiva un sogno dell’Oriente
di rosa e sandalo fragrante.

Tremavo. Come freddi ceri, lasciavi nelle mani
morire lunghi gigli, mistici e sbiaditi.
Spiravano i profumi, sfuggendo alle tue dita
nell’alito sfinito delle supreme pene.
Chiare le tue vesti continuavano a esalare
ora agonia, ora amore.

Del tuo primo bacio, sulle mie labbra mute,
il brivido sentii, di panico e dolcezza.
Udii sotto i tuoi passi le cetre, andando in pezzi,
gridare al cielo, fiera, la noia dei poeti.
Nella marea dei suoni in languido ritrarsi,
bionda, mi sei apparsa.

Con sete d’impossibile, eterno e infinito,
tentai d’intonare, modulandolo ampiamente,
un inno di stupore, magia e incantamento.
Ma la strofa balbuziente a fatica è salita,
eco puerile, ingenuo riflesso, volo che va,
ferito, verso la tua Divinità.

Studi e preludi, 1901

*

Amazone

L’amazone sourit au-dessus des ruines,
Tandis que le soleil, las de luttes, s’endort.
La volupté du meurtre a gonflé ses narines :
Elle exulte, amoureuse étrange de la mort.

Elle aime les amants qui lui donnent l’ivresse
De leur fauve agonie et de leur fier trépas,
Et, méprisant le miel de la mièvre caresse,
Les coupes sans horreur ne la contentent pas.

Son désir, défaillant sur quelque bouche blême
Dont il sait arracher le baiser sans retour,
Se penche avec ardeur sur le spasme suprême,
Plus terrible et plus beau que le spasme d’amour.

Études et préludes, 1901

L’amazzone

L’amazzone sorride, sulle macerie, felice,
e stanco delle lotte il sole si addormenta.
Il piacere del delitto le dilata le narici.
Esulta; della morte è la bizzarra amante.

Ama solo coloro che le donano l’ebrezza
di un’agonia selvaggia, del loro trapasso fiero,
e, disprezzando il miele della tiepida carezza,
non si può appagare con coppe senza orrore.

Sulle bocche esangui la sua voglia viene meno;
strappando loro il bacio che non può ricambiare,
si china con ardore sullo spasimo supremo,
più bello e più tremendo dello spasimo d’amore.

Studi e preludi, 1901

*

Ressemblance inquiétante

J’ai vu dans ton front bas le charme du serpent.
Tes lèvres ont humé le sang d’une blessure,
Et quelque chose en moi s’écœure et se repent,
Lorsque ton froid baiser me darde sa morsure.

Un regard de vipère est dans tes yeux mi-clos,
Et ta tête furtive et plate se redresse
Plus menaçante après la langueur du repos.
J’ai senti le venin au fond de ta caresse.

Pendant les jours d’hiver énervés et frileux,
Tu rêves aux tiédeurs des profondes vallées,
Et l’on songe, en voyant ton long corps onduleux,
À des écailles d’or lentement déroulées.

Je te hais, mais ta souple et splendide beauté
Me prend et me fascine et m’attire sans cesse,
Et mon cœur, plein d’effroi devant ta cruauté,
Te méprise et t’adore, ô Reptile et Déesse !

Cendres et Poussières, 1902

Somiglianza inquietante

Sulla tua bassa fronte, l’incanto del serpente.
Sente il tuo labbro il sangue, odore di ferita.
Qualcosa in me ha ribrezzo ed ecco già si pente
al morso del tuo bacio che freddo mi ha colpita.

Di vipera lo sguardo nell’occhio semichiuso.
La testa cauta e piatta in fretta si raddrizza
più minacciosa ancora dopo il languido riposo.
Conosco il tuo veleno in fondo alla carezza.

Nei giorni dell’inverno inquieti e raggelati,
tu sogni, in valli interne, tepori in cui bearsi.
La vista del tuo corpo, sì lungo e ondulato,
rammenta scaglie d’oro in lento dispiegarsi.

Ti odio, eppure molle l’estrema tua bellezza
mi ammalia, mi cattura, mi attira ancora e ancora
e il cuore che è atterrito dalla tua spietatezza
ti disprezza, Rettile e Dea, e insieme ti adora!

Ceneri e polveri, 1902

*

La soif impérieuse

J’étais hier la voyageuse solitaire.
J’allais, portant au cœur une âpre anxiété…
J’avais besoin de toi comme d’un flot d’été,
D’un flot purifiant où l’on se désaltère.

Aujourd’hui, mon silence a des bonheurs pensifs,
Ô très chère ! et mon âme est une coupe pleine,
Le monde est beau comme un verger de Mytilène :
Je ne crains plus le soir qui pleure sous les ifs.

J’avais besoin de toi comme d’une eau courante
Que l’on écoute et qui berce votre chagrin
Dans un ruissellement musical et serein…
J’entendis ta voix claire ainsi qu’une eau qui chante.

Ta voix coulait, murmure et cadence à la fois,
Chère, et ce fut dans mon être le bleu nocturne,
Et je sentis alors mon chagrin taciturne
S’attendrir… J’écoutais l’eau pure de ta voix.

Depuis lors, la lourdeur des blancs midis m’enchante,
Et ma soif ne craint plus le soleil irrité…
J’avais besoin de toi comme d’un flot d’été,
J’avais besoin de toi comme d’une eau qui chante…

À l’heure des mains jointes, 1906

La sete impellente

Ieri vagavo, solitaria viandante.
Un’ansia amara in cuore mi portavo…
Mi eri essenziale, quale rivo estivo
che scorre puro e s’offre dissetante.

Il mio silenzio ha calme gioie adesso.
È la mia anima una coppa piena.
Il mondo è bello: frutteto a Mitilene.
Pianga pure la sera sotto i tassi!

Mi eri essenziale, o tu, acqua fluente
che si ascolta e che culla grandi pene
nel ruscellare armonico, sereno…
La voce chiara, tua, acqua che canta.

Era la voce sia ritmo sia sussurro.
O cara, mi pervase il blu notturno,
si sciolse il mio dolore taciturno
alla tua pura voce, acqua che scorre.

Bianco e pesante, il meriggio ora m’incanta.
La sete più non teme il sole irato.
Mi eri essenziale, o tu, rivo d’estate,
mi eri essenziale, o tu, acqua che canta…

All’ora delle mani giunte, 1906

*

Épitaphe sur une pierre tombale

Voici la porte d’où je sors…
Ô mes roses et mes épines !
Qu’importe l’autrefois ? Je dors
En songeant aux choses divines…

Voici donc mon âme ravie,
Car elle s’apaise et s’endort
Ayant, pour l’amour de la Mort,
Pardonné ce crime : la Vie.

Haillons, 1910

Epitaffio su una pietra tombale

Esco, vedete: questa è la porta…
Ah le mie rose! Ah le mie spine!
Il tempo passato che importa?
Dormo pensando a cose divine…

L’anima mia, ecco, è rapita.
Al sonno, in pace, lei si converte,
perché ha, per amor della Morte,
perdonato il reato: la Vita.

Stracci, 1910

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“Renée Vivien – “Saffo ‘900”” è stato scritto da daniele ventre e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Last Stop Before Chocolate Mountain

di Mariasole Ariot

L’alternarsi di una luce desaturata e della sera che precede la notte, e ancora l’alba, e ancora la notte, con un andamento lento ritmato da principio dalla presenza di poche anime: anziani che camminano lenti, nel paesaggio contaminato e desertico, fossili di pesci di un passato remoto, pochi bambini col volto della calma. E la lentezza del paesaggio si fa metafora di un luogo altro, lontano dal troppo del brusio di un’America che si muove a velocità raddoppiata, dove tutto è rimasto nel poco del rimanente.

Last Stop Before Chocolate Mountain, di Susanna della Sala, candidato al David di Donatello 2023 e girato a Bombay Beach, nel sud della California, è storia di rinascita dalle macerie: frequentata come località di villeggiatura tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta da artisti come Frank Sinatra e i Beach Boys che qui venivano per fare vita mondana e per praticare sci d’acqua, nautica e pesca, Bombay Beach è poi stata abbandonata a causa di un disastro ambientale e sanitario. Pochi sono rimasti, pochi resistenti: outsiders. Salt sea è un lago contaminato, acque basse che dicono un’assenza, la sottrazione da una mandria umana di un luogo da cui scappare, e luogo altro in cui rifugiarsi. Dice la donna coi fiori raccolti: “Un arazzo dove tutto si trasforma in meraviglia” – perché Bombay Beach dalle ceneri delle rovine si fa luogo di attraversamento, di comunità che vive di comunione: saggia creatura in decadenza, e saggia perché alla volontà spinta di un Sapere inflazionato contrappone il conoscere e il conoscersi dell’altro.
L’immaginario si concentra nella creazione di uno specchio rotante che modifica l’imago tra altro e altro, tra un io che rinuncia al suo io per fondersi nel volto di chi sta nel retro. Non una fusione ma un intreccio del Nome, dei volti, della terra chiara che muove le mani.

Ed è là dove l’apparenza dell’immobile arriva all’occhio come luce fioca, che la potenza dell’arte si fa creazione, che da giorno a notte – in un documentario girato in quattro anni e qui contratto in un’alternanza di tempi racchiusi in una dimensione onirica – si dilata in un crescendo di frammenti di colore e il potere della sovrapposizione dei bianchi e dei neri di artisti che scoprono e ricoprono il paesaggio.
Dalle inquadrature vicine a sguardo di terreno/territorio, la macchina da presa si solleva verso i corpi dipinti, creature di legno e teatri, un pascolo dell’immaginazione, vita che vive della volontà di riscrivere la storia – la propria, quella collettiva.
L’uomo racconta un sogno: accoltellare il padre, là dove il padre ride e dice “Uccidere il passato, crescere”. Non un’uccisione del Padre in nome di una Legge da scardinare, ma in nome di una Legge dei singoli da ricreare: l’anarchia percepita dai pochi abitanti rimasti a Bombay Beach è un tentativo di ritrovare ciò che è stato scardinato nell’infanzia, ricordi di passati mortiferi o violenti. Non una fuga ma un andare, un incedere verso il desiderio.

E’ così che a Bombay Beach, dalle macerie arrivano da ogni ovunque “cantastorie” di storie disseminate: maghi, attori, pagliacci, pittori, poeti, scultori, danzatrici, musicisti. Sono anche la musica e il canto, infatti, a scandire il tempo dell’opera di Susanna della Sala : locande di voci e chitarre, prima che i “nuovi” arrivino. Voci a cappella di vecchi che danzano corde vocali e ridono la risata, quei sorrisi malinconici che non chiedono niente se non il tempo della quiete. Danze per cui non è prevista l’età ma solo corpo in movimento.

Esiste il dubbio: può chi giunge a questo luogo contaminato per inquinamento ma incontaminato per pensiero, invadere il vuoto con la struttura dei mondi da cui ci si vuole separare? Resta un punto interrogativo che – forse – trova risposta nelle ultime immagini: processioni di vecchi abitanti e degli artisti arrivati per la Biennale che procedono nelle acque basse e nelle strade nell’insieme. Dall’obiettivo che offusca alla nitidezza della scena.

E allora, come nell’arte giapponese del Kintsugi, le crepe lasciate da un umanità disperata che distrugge acque, cieli, terre e animali, che l’arte, come un sottile filo d’oro a riparare, fa della fragilità non una colpa, ma traiettoria e nume.

*per la rassegna Rovine d’America – Le città coinvolte nelle prime tappe del tour saranno a Roma (cinema Troisi), Bologna (cinema Pop Up Arlecchino) Genova (cinema Nickelodeon), Brescia (cinema Eden), Mantova (cinema Mignon), Venezia (cinema Rossini e Astra) e Bassano del Grappa (cinema Metropolis).

Nuove proiezioni si terranno a Genova, Bologna, Perugia, Torino e Mestre

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“Last Stop Before Chocolate Mountain” è stato scritto da mariasole ariot e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Lei e Anne

di Ilaria Pamio

 

 

“…ogni tanto socchiudeva gli occhi

per non perdere il contatto

tra il sogno e la realtà”
(Palazzeschi)

 

  La barista si spostava da una parte all’altra, presa com’era tra le macchinette del caffè, del cappuccino, della cioccolata. Attendeva che i beccucci fossero incandescenti, prima di metterci sotto la tazza.

«Cosa le porto?»

«Una cioccolata.»

Sylvia continuò a tener d’occhio l’uomo calvo: indossava il solito soprabito a scacchi rosso e grigio. Dalla manica sbucava il polsino blu del maglione. Compieva gesti lenti. Aveva lisciato con le mani la tovaglietta; disposto la tazza centrale davanti al suo viso; messo in ordine le bustine di zucchero nella vaschetta.

Sylvia aprì una bustina, la scosse e la versò nella cioccolata appena arrivata. Mescolò e soffiò, bevve facendo attenzione a non scottarsi. Adocchiò ancora l’uomo. Stringeva con la mano destra il bricco del latte. Lo versava lentamente, fissando la tazza del caffè. Il liquido uscì fino a bagnare la tovaglietta. Aveva una rosa tatuata sul capo.

 

Sylvia lasciò i soldi sul bancone e si diresse all’Hotel Oblique di cui era erede.

La facciata aveva un colore fiacco per la luce invernale: si presentava come un austero viso allungato pieno di occhi, alcuni socchiusi, che la osservavano.

Sentì un dolore forte al piede sinistro. Un filo di metallo incandescente salì fino alla coscia, la scosse dal bacino, percorse il gluteo, scese lungo il retto femorale e il ginocchio vacillò.

Il cuore le stava uscendo dal petto. Si sedette sulla vecchia sdraio del nonno vicino all’ingresso e chiuse gli occhi.

Pensò al mare. Il bar del Beppe con l’altalena di legno, i cabinati, il calciobalilla e i ragazzi grandi con cui lei e Anne avevano giocato.

«Oggi è il più bel giorno della mia vita, papà» aveva detto Anne. Lo diceva ogni volta. E Sylvia ogni volta si sentiva felice. Perché se Anne era felice, lo stomaco diventava caldo e irradiava benessere in tutto il corpo.

Ai bagni del Beppe gli ombrelloni rossi erano in file perfette da dieci. Il vicino, amico di famiglia, era sempre solo. In quel momento lo era anche Sylvia.

«Vieni qui, ho un regalo.»

Lei si avvicinò e lui le disse che era molto carina. Era proprio una bella bambina.

Sylvia abbassò un pochino la testa, lo sguardo rivolto al dorso dei piedi, e la sua bocca sorrise. Lui le raccolse una ciocca di capelli dietro l’orecchio, il dito tiepido toccò appena la guancia e il sorriso di lei si allargò. Le piaceva sentirsi dire che era bella. Poi lui rovistò nella sacca della Coca Cola, infilò tutto il braccio.

«Era qui, un attimo fa.»

Eccola: una rosa bianca con un gambo lunghissimo. L’uomo era inginocchiato sulla sabbia, un braccio piegato dietro la schiena, con l’altro gliela porse.

 

Sylvia rimase incantata da quel gesto, non prestò attenzione alle grida, né alle persone che correvano verso riva, incluso il vicino.

Lei, come ipnotizzata, stringeva la rosa. La prima della sua vita.

 

Riaprì gli occhi e guardò davanti a sé. L’Hotel Oblique ora aveva una luce diversa. L’immensa vetrata obliqua era più luminosa. La gabbia creata dagli infissi, che prima dava forma a dei triangoli scaleni, aveva cambiato intreccio. Sylvia fissò le porzioni di vetro: il cielo si specchiava nei rettangoli.

Lo stomaco si arrotolò su se stesso. Le succedeva quando era agitata. Coliche fortissime e improvvise. Si alzò di scatto. Tolse velocemente il cappotto e lo abbandonò sulla sdraio.

 

Appena entrata nell’Hotel guardò fuori da una finestra: c’era un punto, in fondo, in cui si vedevano solo rose bianche. Il cuore in petto correva talmente veloce che non lo sentiva più.

Conosceva tutte le camere alla perfezione. Erano trenta. Le avrebbe distinte anche senza il numero all’esterno; ogni giorno le rassettava una a una: ne conosceva ogni crepa sulle pareti, ogni piastrella scheggiata. Erano vuote, in ordine, pulitissime, odoravano di chiuso, di cassetti colmi di naftalina e di muffa. In ogni piano erano esposte fotografie a tema. Al primo c’erano le foto dei nonni; al secondo le foto di lei e Anne; al terzo i genitori da giovani. Sylvia percorse tutti i corridoi dei tre piani, come ogni giorno, poi prese le scale per raggiungere i sotterranei.

 

Il rumore si fece via via più intenso. Avvicinò il viso al vetro della porta e vide, lontana, l’acqua ondeggiare impetuosa. Entrò.

Il pavimento era coperto dalla sabbia, vicino alla piscina c’erano una fila di dieci ombrelloni rossi e le sdraio. Sotto un tendone c’erano poi un vecchio calciobalilla, dei cabinati e una tabella di gelati Eldorado.

Sylvia si slacciò le scarpe e tolse le calze. A contatto diretto con la sabbia sentì freddo, provò un fastidio che somigliava al dolore. Poi si tolse i pantaloni, il maglione, la maglietta.

Sedette su una sdraio. L’uomo calvo sotto l’ombrellone accanto la guardò, le sorrise e si avvicinò a lei. Quando furono uno di fronte all’altra, le passò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Lei abbassò lo sguardo. C’era profumo di salsedine, in piscina si intravedevano ciuffi d’alga e piccoli pesci marini. L’uomo calvo le porse la rosa bianca col gambo lungo. Lei gli sorrise.

Intanto una ragazza con un seno acerbo in un reggiseno rosa, i capelli a caschetto neri come i suoi e un braccialetto al polso identico al suo sprofondava in acqua. C’era silenzio.

Sylvia lasciò la rosa accanto alla sdraio e la raggiunse. L’uomo calvo rimase fermo a guardare, a bordo piscina. Si passava una mano sulla testa tatuata, sulla rosa. Sylvia aumentò la bracciata, i pesci le nuotavano attorno. Nuotò giù, fino in fondo, rasente il pavimento della piscina. Riemerse con la ragazza.

Anne, o chi per lei, respirava ancora.

 

 

 

 

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“Lei e Anne” è stato scritto da Giorgio Mascitelli e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Pisa: gli studenti e i manganelli della polizia

A Pisa, questa mattina un corteo pacifico di studenti, che manifestava chiedendo il cessate il fuoco a Gaza, è stato caricato e studenti inermi sono stati presi a manganellate dalle forze di polizia. Pubblichiamo la lettera di alcuni docenti del Liceo artistico Russoli di Pisa e la nota del Rettore dell’Università di Pisa Riccardo Zucchi riguardo l’accaduto.

Si tratta di un episodio violento che si inquadra nella demolizione sistematica del pluralismo andata in onda a reti unificate negli ultimi due anni. Le università e la scuola devono restare aperte e plurali. Come scrive Stephen M. Walt:

I docenti e gli studenti possono dire o scrivere ciò che desiderano, con la consapevolezza che l’istituzione difenderà il loro diritto di farlo anche di fronte a critiche feroci. Allo stesso tempo, l’università non farà nulla per isolare le loro idee da critiche legittime, anche da parte di altri membri dell’università stessa. 


 

 

Lettera docenti liceo artistico Russoli di Pisa

Siamo docenti del Liceo artistico Russoli di Pisa e oggi siamo rimasti sconcertati da quanto accaduto in via San Frediano, di fronte alla nostra scuola. Studenti per lo più minorenni sono stati manganellati senza motivo perché il corteo che chiedeva il cessate il fuoco in Palestina, assolutamente pacifico, chissà mai perché, non avrebbe dovuto sfilare in Piazza Cavalieri. Gli agenti in assetto antisommossa avevano chiuso la strada e attendevano i ragazzi con scudi e manganelli, mentre dalla parte opposta le forze dell’ordine chiudevano la via all’altezza di Piazza Dante. In via Tavoleria un’altra squadra con scudi e manganelli.

Proprio di fronte all’ingresso del nostro liceo, hanno fatto partire dapprima una carica e poi altre due contro quei giovani con le mani alzate. Non sappiamo se siano volate parole forti, anche fuori luogo, d’indignazione e sdegno, fatto sta che, senza neanche trattare con gli studenti o provare a dialogare, abbiamo assistito a scene di inaudita violenza. Ci siamo trovati ragazze e ragazzi delle nostre classi tremanti, scioccate, chi con un dito rotto, chi con un dolore alla spalla o alla schiena per manganellate gentilmente ricevute, mentre una quantità incredibile di volanti sfrecciava in Via Tavoleria.

Come educatori siamo allibiti di fronte a quanto successo oggi. Riteniamo che qualcuno debba rispondere dello stato di inaudita e ingiustificabile violenza cui sono stati sottoposti cento/duecento studenti scesi in piazza pacificamente: perché si è deciso di chiuderli in un imbuto per poi riempirli di botte? Chi ha deciso questo schieramento di forze, che neanche per iniziative di maggior partecipazione e tensione hanno attraversato la nostra città?

Oggi è stata una giornata vergognosa per chi ha gestito l’ordine pubblico in città e qualcuno ne deve rispondere.

 

Nota del Rettore dell’Università di Pisa sugli scontri avvenuti in città

L’Università di Pisa esprime profonda preoccupazione e sconcerto per gli scontri avvenuti questa mattina nel centro della città, che hanno causato a quanto pare il ferimento di studenti universitari e di studenti delle scuole superiori.

In attesa di ricevere chiarimenti sull’accaduto e sull’operato delle forze dell’ordine, auspica che tutte le autorità competenti intervengano per garantire la corretta e pacifica dialettica democratica, tutelando la sicurezza della popolazione e della comunità studentesca.

Conferma la sua posizione caratterizzata dalla massima apertura al dialogo pacifico fra tutte le posizioni e dal ripudio della violenza in tutte le sue forme. Riguardo alla tragica situazione in Israele e Palestina, ribadisce il suo sgomento per l’attacco terroristico dell’ottobre scorso e per la strage attualmente in corso nella striscia di Gaza, unendo la sua voce a quella di tutti coloro che chiedono l’immediato cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi.

Informa di aver già organizzato per il 14 marzo una riunione straordinaria del Senato Accademico aperta alla partecipazione di esterni, nel corso del quale verranno presentate, discusse e votate mozioni, elaborate anche da gruppi studenteschi, su questa e altre questioni di grande impatto sociale.

Riccardo Zucchi
Rettore dell’Università di Pisa

 

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“Pisa: gli studenti e i manganelli della polizia” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.

La follia dei numeri #1

di Antonio Sparzani

la fetta che vedete sarà un settimo della torta?

In tutta la mia vita adulta i numeri e la scienza che li tratta, la matematica, mi sono stati piuttosto familiari, e spesso necessari, data la mia professione di fisico teorico alla milanese università. Ma in queste settimane, ripensando ai numeri, anche in occasione di una mia recente pubblicazione, mi è venuto da ripensare al ruolo e alla sorte che tutta, diciamo, la teoria dei numeri ha avuto nella storia della matematica.
Tutti i manuali dicono, e sembra abbastanza plausibile, che la necessità di avere i numeri, nella propria lingua ancorché primordiale, sia stata quella del contare: io ti dò tre peperoni tu mi dài quattro melanzane, hai mancato di rispetto a mia sorella meriti dieci frustate sulla schiena, e così via. E questi sarebbero quelli che oggi chiamiamo numeri interi positivi (ancora senza lo zero, beninteso, che fu inventato ben più tardi) e sul loro senso e la loro utilità non mi pare si sollevino dubbi. Però: una volta che uno comincia a contare gli viene voglia di andare avanti: supponendo di aver adottato il cosiddetto sistema decimale, è facile accorgersi che non si riesce a nominare un numero intero più grande di tutti gli altri, perché posso sempre “aggiungere uno” e salire un altro gradino nella scala. E già qui ci si potrebbe porre il problema del significato di numeri molto grandi: milioni e miliardi vanno ancora bene, c’è gente al mondo che guadagna le cosiddette cifre da capogiro, oppure contiamo le stelle della Galassia o tutte le stelle dell’universo che conosciamo e avremo qualche miliardo di miliardi, un 1 con una ventina di zeri, contiamo gli atomi, gli elettroni, i quarks, gli sfuggenti neutrini che scorrazzano per l’universo e andiamo su ancora di una decina di zeri. Sì, ma poi? Se scrivo, dato che formalmente ha senso, un 1 con diecimila zeri, cosa vuol dire? Formalmente lo sappiamo cosa vuol dire, vuol dire 10 moltiplicato per se stesso diecimila volte, sì, ma abbiamo qualche vago esempio concreto? Certo che no. È un simbolo che alla nostra mente, che l’ha inventato, dice qualcosa, ma certamente nulla di praticamente pensabile. Senza dire poi che, con questa sfrenata illimitatezza, possiamo pensare 1 con miliardi di zeri, quanti ne vogliamo, allontanandoci sempre più da qualsiasi cosa concreta.

Si potrebbe forse, sul filo di queste considerazioni, mettere un limite? Già, ma dove e perché? Credo che qualsiasi limite andrebbe incontro a obiezioni e problemi formali e anche non formali.
Detto con una parola fin qui non scritta, i numeri interi positivi – detti anche, udite udite, numeri naturali – sono infiniti. Cosa vuol dire questo aggettivo che percorre anche la nostra lingua naturale (“ti amo infinitamente”, “un appartamento nel centro di Parigi costa infinitamente di più che una casupola sull’Appennino”) e in essa significa “tanto tanto”? Vuol invece dire letteralmente “non finito”, cioè vuol dire che non si arriva mai in fondo, che non c’è limite, che si può andare avanti finché si vuole: con la fantasia certo ma in nessun senso materialmente praticabile. Possiamo chiamarla astrazione, giustificata da una necessità logica, per esempio dalla necessità di poter definire la somma e il prodotto di due numeri interi qualsiasi: se ci fosse un limite N, il numero più grande di tutti, non potremmo eseguire somme o prodotti di numeri minori di N che diano un risultato maggiore di N.
Ma poi? Questa non è che una piccola follia rispetto a quant’altro ci siamo inventati: il fatto stesso che io li abbia chiamati poche righe fa “numeri interi positivi” indica già che c’è dell’altro, numeri non interi e/o non positivi. Quelli non interi fanno ancora parte dell’esperienza comune: io ti voglio dare un peperone e mezzo se tu mi dài due melanzane. E quell’uno e mezzo, tutti lo sappiamo, possiamo ormai scriverlo 1,5 (in Italia si usa la virgola, altrove si usa il punto, ma poco importa, pur di saperlo). Se vogliamo però dividere 10 mele in tre persone, abbiamo qualche difficoltà in più: se ne diamo 3 a ciascuna, ne rimane una, che bisogna equamente dividere in 3. Bisogna imparare a fare le divisioni. 1 : 3. Cioè dare a ognuno un terzo di mela, che scriviamo talvolta 1/3; sì, ma c’è un modo per scrivere questa quantità con un numero? Se applichiamo le regole che ci siamo già inventati per eseguire le divisioni, otteniamo 0,3333. . . ., non riusciamo a scriverlo tutto, questo numero, perché, per quanto andiamo avanti troviamo una fila di 3. E allora? Allora ci inventiamo i numeri decimali periodici, ovvero che hanno infinite cifre dopo la virgola però che si ripetono, magari a gruppi:
per esempio 1/7 = 0,(142857) dove con la parentesi – o il trattino sopra, a seconda delle convenzioni – si indica il gruppetto di cifre che si ripete. Si ripete, capite, si ripete infinitamente. Come faccio se devo dividere una torta per 7 persone? Certo non posso usare quel bizzarro numero periodico, piuttosto “vado a occhio” con eventuali proteste di chi avrà una fetta di qualche millimetro più piccola.
E allora a cosa serve preoccuparsi dell’esistenza di quel quoziente? Serve, risponde il matematico, per far sì che l’insieme dei numeri che maneggiamo sia un po’ più “completo”, cioè che si possano fare sempre le addizioni, le moltiplicazioni, ma anche le divisioni, vi pare? Eh sì, così oltre alla moltiplicazione è fattibile la sua inversa, la divisione, per carità, non la divisione per 0, che non dà alcun risultato (supponiamo di aver passato sotto silenzio l’invenzione del numero 0, com’è noto di provenienza araba).
E l’operazione inversa della somma, che sembra molto più innocua? 5 – 3 siamo capaci di farlo, ma 3 – 5 no. E allora ecco perché c’era quell’aggettivo “positivi”, perché si è voluto aggiungere degli altri numeri per rendere possibile sempre anche l’operazione inversa della somma, la sottrazione. Ed ecco che 3 – 5 ha un risultato, che chiamiamo -2, i numeri non si chiamano più interi, ma relativi, e formano una fila che non solo non finisce, ma neppure comincia: . . . .- 4, – 3, – 2, – 1, 0, 1, 2, 3, 4 . . . . numeri negativi prima dello zero e positivi quelli dopo.
E così s’è costruito un bel mucchio di oggetti, che chiamiamo sempre numeri, con aggettivi vari, nei quali si possono eseguire le operazioni che conosciamo normalmente (tranne s’intende, la divisione per 0, bisogna sempre ricordarlo). Questo “mucchio” è quello dei numeri razionali, così denominati perché si possono sempre mettere sotto forma di frazione, ovvero di divisione di un intero per un altro. Infatti si dovrebbe aggiungere a quanto detto che qualsiasi numero decimale, anche con infinite cifre dopo la virgola, purché ci sia un gruppetto di quelle cifre che sempre si ripeta, può essere rappresentato sotto forma di frazione, c’è l’apposita regoletta che avete tutti imparato alle medie, e subito dimenticato. E molto di quanto detto, notate, è stato motivato da questa esigenza di completezza: poter fare sempre, in tutti i casi, le quattro operazioni che capitano anche nella vita quotidiana.

Ma non è facile accontentare un matematico, che ha sempre nuove pretese, di cui ci occuperemo alla prossima puntata.

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“La follia dei numeri #1” è stato scritto da antonio sparzani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Lettera aperta

di Giovanni Anceschi e Davide Boriani

Chiusura delle sale dedicate al Gruppo T
e del quarto piano del Museo del Novecento a Milano

Dai primi giorni di gennaio il 4° piano del Museo del Novecento è chiuso al pubblico.  La sezione del Museo a cui si accedeva attraverso la passerella sospesa tra Arengario e Palazzo Reale è inaccessibile e totalmente disallestita. Non sono più visitabili le sale dedicate all’arte d’avanguardia del secondo Novecento.
Non è neppure possibile rintracciare informazioni sulla eventuale prossima riapertura e sul destino di quegli spazi. Un biglietto collocato all’entrata avvisa i visitatori che “per motivi tecnici alcune sale del percorso espositivo sono solo parzialmente visitabili”.

Le sale del museo dedicate al Gruppo T, gruppo storico di arte cinetica e programmata attivo a Milano dai primissimi anni ’60, formato da Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi e Grazia Varisco, sono state completamente smantellate. La Tricroma di Anceschi è stata restituita. I quattro “ambienti”, l’Ambiente a shock luminosi di Anceschi, l’Ambiente stroboscopico n. 4 di Boriani e l’Ambiente Strutturazione a parametri virtuali di Gabriele De Vecchi, smontati e, se non di proprietà del museo, restituiti anch’essi, come nel caso dello Spazio elastico ambiente di Gianni Colombo.
Strana è sembrata fin da subito la scelta del museo di privarsi di opere già acquisite, diminuendo di fatto il fondo che costituisce la sua ricchezza. Incomprensibile la tempistica e la fretta nel disfarsi a cavallo tra Natale e l’Epifania di quelle testimonianze preziose dell’arte cinetica e programmata. Assente qualsiasi rassicurazione rispetto ad una loro possibile nuova collocazione all’interno del museo.
Ma soprattutto è la decisione di smontare gli ambienti, allestimenti per loro natura fragili e difficilmente ripetibili, senza un progetto concreto di ricollocazione che desta le maggiori preoccupazioni.
La presenza degli ambienti del gruppo T nella Collezione Permanente costituiva un tassello fondamentale del percorso del Museo che dalla Struttura al neon di Lucio Fontana, posta alla fine dello scalone di accesso e visibile dall’esterno attraverso le vetrate dell’Arengario, portava alle sale del Gruppo T fino ad arrivare alla sala dedicata a Luciano Fabro.
Gli “ambienti” erano stati allestiti nel 2010 con l’attiva collaborazione e supervisione degli artisti, fatto che rendeva quell’allestimento irripetibile, rappresentando un’esperienza museale unica a livello internazionale.

L’arte cinetica e programmata è nata dall’impegno di artisti come Lucio Fontana e Bruno Munari in collaborazione con giovani artisti che lavoravano in gruppo (gruppo T, gruppo N, gruppo Mid, e altri). Le forme di arte nate dalla collaborazione tra artisti, sono state proposte come presa di coscienza collettiva di processi in continua evoluzione.
Critici e storici dell’arte come G.C. Argan e Umberto Eco ne hanno condiviso e difeso obiettivi e valori.

A quella che allora si configurava come evoluzione dell’arte nata in Europa, è stata contrapposta la Pop Art, importata dagli USA alla Biennale d’arte del 1964 con grande impegno di mezzi pubblici e privati allo scopo dichiarato di rendere predominanti nel sistema dell’arte modalità e interessi del mercato privato USA.
La prospettiva di facilitare lo scambio commerciale di opere ridotte a merce, ha prevalso sugli obbiettivi più complessi della ricerca interdisciplinare, dell’analisi e della risposta a bisogni emergenti sul piano collettivo, della nascita di forme di arte coerenti con lo sviluppo dei diversi saperi.
La difesa di questi valori non a caso si affianca alla difesa oggi necessaria di quei valori analoghi che qualificano l’assetto democratico della nostra società.
Le opere che vuole distruggere chi è preposto alla loro conservazione, sono realizzazioni essenziali del movimento che ha segnato l’evoluzione dell’arte italiana nel Novecento.
Ciò che è avvenuto al Museo del Novecento prefigura sostanzialmente l’affossamento dell’idea originaria da cui è nato il museo e, in generale, la rinuncia a ogni prospettiva che tenga conto dello svilupparsi dell’avanguardia artistica.

Chiediamo alla città, agli artisti, ai critici e agli intellettuali di mobilitarsi perché venga preservato un luogo amato dai milanesi, visitato dagli studenti, anche i più piccoli, e attrattivo per i turisti e gli studiosi di tutto il mondo.

Se vuoi rispondere all’appello scrivi a:
[email protected]

Raccoglieremo e pubblicheremo documenti e dichiarazioni di artisti, critici, intellettuali e cittadini che sono contrari o che giudicano negativa sul piano storico l’eliminazione della sezione del Museo del 900 dedicata all’arte programmata e cinetica e la distruzione degli ambienti che questa sezione raccoglie.

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“Lettera aperta” è stato scritto da Giorgio Mascitelli e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Giuseppe Novelli assolto con formula piena

Nel 2017 aveva destato un certo scalpore la vicenda del Rettore di Tor Vergata, prof. Giuseppe Novelli, il quale aveva ricevuto un avviso di chiusura indagini da parte della Procura di Roma per i reati di tentata concussione e istigazione alla corruzione. All’origine, le denunce sporte da due ricercatori dell’Ateneo, che avevano allegato alla magistratura anche la registrazione di colloqui avvenuti con il Rettore e con il Direttore del Policlinico.

In un nostro post del 2017 avevamo scritto che “Al di là del lessico e dei modi del prof. Novelli che, per come essi emergono dalla registrazione, paiono non consoni al suo ruolo istituzionale, vige la presunzione di innocenza. Occorrerà quindi per formulare un giudizio sulla sua condotta attendere l’eventuale rinvio a giudizio e poi la pronuncia del giudice.”

Nel 2018 avevamo riportato quanto dichiarato da Novelli in un’intervista al Foglio, rilasciata in occasione dell’inizio del processo per tentata concussione. Secondo Novelli, le parole “O ritira il ricorso oppure noi qui non ci parliamo! Per i prossimi anni per quello che mi riguarda si cerchi un altro Ateneo!” sebbene fossero “sopra le righe e inopportune” erano “la reazione a una provocazione“.

In primo grado, Novelli era stato condannato a un anno e otto mesi di reclusione, pena sospesa, per tentata concussione, mentre era caduta l’accusa di istigazione alla corruzione. È di qualche settimana fa la notizia che in secondo grado, Giuseppe Novelli è stato assolto con formula piena anche per la presunta tentata concussione. Da un lato ci rallegriamo per il venire meno di ogni ipotesi di reato. Dall’altro lato, rimangono validissime le considerazioni della Rete 29 Aprile che nel suo comunicato del 2017, in cui chiedeva le dimissioni di Novelli, scriveva:

Quell’audio è il sintomo di cosa siano diventati gli Atenei, e forse, più in generale, il Paese tutto, grazie alla “cultura” degli “uomini (quasi mai donne) soli al comando” che sta pervadendo gli spazi istituzionali in questi anni. […] vogliamo tener fede al dettato Costituzionale che all’art. 54 recita “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.

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“Giuseppe Novelli assolto con formula piena” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.

L’intellettuale di fronte a casa o Gaza

Di Adele Bardazzi

L’intellettuale, se è ciò che sono, è colui che parla in terza persona singolare, maschile. L’intellettuale che scrive e che voi state leggendo – perché l’intellettuale si rivolge a un voi, non un tu (e sto dicendo questo indossando il mantellino in tweed del critico letterario ossessionato dall’apostrofe) – un voi presente in tutta la sua bulimia semantica. In ogni caso l’intellettuale che scrive pensando a voi che leggerete le sue parole si trova nell’ultimo giorno dell’anno 2023 su una freccia diretto a nord del paese in cui è nato ma dove non vive più – la qual cosa viene capita pure da Renzi. L’intellettuale è sempre straniero. Questo è vero, fino a quando, tenta di fare un esercizio, ormai assodato: una critica rivolta verso l’esterno ma completamente ripiegata verso l’interno; e proprio lì, esattamente in quel momento, perde la sua posizione di straniero al trono – si chiarisca lo statuto – e ne diventa parte. Parte del voi, un noi che è sempre solo io. In questo caso, un io, o dio, dell’Occidente. In questo paese che diventa così a pochi chilometri dalla capitale del nord, tutto l’Occidente, vuole pensare che scriverà ciò che non gli è stato permesso e nel farlo, diventerà donna, ancora una volta, l’occidente ritornerà paese, il paese Italia, e così via.

È ormai noto l’atteggiamento di chi si fa chiamare intellettuale di fronte all’oggetto osservato: scriverne da intellettuale. Ovvero, reclamando una libertà e indipendenza del pensiero che il proprio linguaggio comunicherà all’altro, anzi a voi. Voi che 1. non sapete osservare tale oggetto come l’intellettuale o 2. non rischiate come l’intellettuale ha il coraggio di fare investito dalla sua responsabilità tutta sentita fino ai calzini bucati perché poco si cura di alcune faccende quotidiane essendo preso da ben altre più urgenti. Ma cosa avviene se l’intellettuale non sa di cosa stia parlando? L’intellettuale non sa mai ciò di cui scrive, soprattutto potete esserne certi, se lo scrivere è rivolto a voi. Tuttavia, l’intellettuale ne scrive. Di cosa scrive oggi, nell’ultimo giorno dell’anno 2023 l’intellettuale? L’intellettuale scrive di ciò che è davanti a sé, ma a distanza di sicurezza. La distanza che lo divide dall’oggetto e che lo rende importante ma anche già storia. È come se fosse già a saldo: scontato del 40 per cento. Lo compriamo non tanto perché lo reputiamo di un certo valore, non è nemmeno di questa stagione, ma perché davanti a tale sconto ci sentiremmo in imbarazzo a non farlo. Per questo, l’intellettuale ritorna a cercare i post che sono ormai seppelliti sotto le prime settimane di chiacchiericcio sulla Palestina.

Dove è la Palestina? La Palestina è in sicurezza, là e, pure, qui accanto a me. La prima volta, ufficialmente, l’ha portata qui il mio capo di facoltà dell’università in cui lavoro insieme a tantissimi altri intellettuali che conoscono la questione 1. molto meglio dell’intellettuale o 2. molto peggio. Ma stanno tutti insieme. Perché anche l’intellettuale è sempre plurale soprattutto se responsabile e impegnato. Ritornando al capo di facoltà, il gruppo di intellettuali di cui vi sto raccontando ha ricevuto delle linee guida chiare e precise su come comportarsi in una serie di scenari ipotetici. Il comportamento dei corpi degli intellettuali in università, non troppo in forma e non solo perché sono le vacanze natalizie e si muovono più del solito, sono le parole – e questo il capo di facoltà lo sa molto bene. Ogni intellettuale che parlerà non potrà mangiare il panettone, né a prezzo pieno, né a sconto. Romperà il patto di sangue che ha firmato con la propria università. Tradirà parole come, per prendere un esempio, ‘genocidio’. L’intellettuale salva l’email sul desktop insieme a screenshot di tagli di capelli da farsi prima dell’ultimo giorno dell’anno 2023 perché in realtà i buchi nei calzini stanno bene insieme a un bob francese fresco di piega. L’intellettuale riceve tantissime email importanti e in alcune che non c’entrano niente con la questione di cui vi sta parlando legge: Shabbat shalòm. L’intellettuale non sa cosa fare perché 1. non sa niente 2. è sempre plurale 3. scrive sempre a voi 4. questo scenario non è stato menzionato dal capo di facoltà. L’intellettuale decide così di togliersi il mantello da critico letterario e mettersi il cappotto di alpaca da vero intellettuale e risponde all’email: Shabbat shalòm & Jumu’ah Mubārak. Come se si potesse non cadere nella trappola di a versus b. Lo fa in realtà perché non sa niente né di a né di b e questa è la scelta più sensata data la natura di a e b che in realtà conosce bene. L’intellettuale a cui non importa niente 1. di essere il più stupido 2. di essere il più furbo 2. del cappotto di Max Mara Icon 101801 color cammello 3. il destinatario dell’email sopramenzionata 4. il capo facoltà 5. voi – si sente meglio per qualche momento fino a quando non fa un po’ troppo caldo e si toglie il cappotto riappendendolo sul gancetto vicino alla scrivania vuota.

Adesso, chiedo: l’intellettuale sta scrivendo 1. al capo di facoltà 2. a voi 3. ai palestinesi 4. agli israeliani 5. all’Occidente 6. alla Noia che bella grassa ingombra tutto lo spazio del posto accanto per le intere due ore e mezzo prima del cambio a Verona. Perché l’intellettuale viaggia in treno da sempre ma oggi si lamenta dello spazio del silenzio che non viene più rispettato. Sono domande importanti, che riguardano tutti, quello spazio di silenzio dove i palestinesi sono in 3D – li abbiamo aggiunti noi a costo zero nella nostra casa su Spatial. In questo spazio ci sentiamo al sicuro, troviamo case a prezzi stracciati e siamo tutti uguali davanti alla morte come in ogni storia che si rispetti. L’intellettuale è ormai arrivato alla stazione di cambio prima dell’arrivo nella città del nord del suo paese, e di tutto l’occidente, dove in bagno si cambierà (basterà rossetto e velluto) e si sente già soddisfatta in quanto è riuscita a non dire niente. L’intellettuale non dice niente, ma solo buon anno! e senza chiedere niente in cambio se non il pane quotidiano che tiene lo spirito saldo e fa volare qualsiasi atto di critica in alto di fronte a casa o Gaza.

 

 

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“L’intellettuale di fronte a casa o Gaza” è stato scritto da renata morresi e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Contro il Tempo. La tradizione di Zolla e l’enigma dei nostri giorni

di Ludovico Cantisani

I.

 

Thomas Alexander Harrison, Solitudine, 1893, olio su tela, cm 105×171, Musée d’Orsay, Parigi

Fuori dal Tempo. È a un appiglio che non esiste più che ancora cerchiamo di sollevare gli occhi – al cielo.

La grande battaglia che si sta combattendo è quella per soggiogare il Tempo. Combattono nella lotta tanto i filosofi quanto i fisici, chi costruisce friabili mondi virtuali non meno di chi canta stonate elegie per un mondo scomparso. Sullo stesso fronte, senza accorgersene, stanno millenaristi e transumanisti, apocalittici e integrati. Se c’è qualcosa che accomuna la maggioranza anonima che guida i nostri giorni e le sacche di resistenza che pure si sono generate – è più retorica che altro -, è questa comune lotta al Tempo, un attentato orfano di bersaglio. Fuochi sull’acqua vengono accesi, ma quelle fiamme non fanno in tempo neanche a diventare cenere, in un attimo nobile e sterile affogate, spente.

Ciò che è virtuale non è solo un sintomo, è l’ipnotica prova dell’irreversibilità di quanto successo. Un risultato per il quale hanno congiurato le correnti più diverse dei secoli passati, e postume hanno coagulato un presente da cui scappiamo prigionieri. La grande evasione è a sua volta una cella, quando non ci sono più gli antichi porti dove approdare. Il virtuale non è bene, non è male: sembra destinato a soppiantare quello che restava del nostro mondo concreto, ma anche questo risultato è di difficile collocazione morale. Esito, exitus, out. Il virtuale inghiotte, è un animale, e nessuno ha mai biasimato un animale per nutrirsi da sé – è un pozzo che mette in chiaro la candida direzione della storia verso il suo annullamento, come avevano sognato gli antichi.

Quello di realtà era un concetto che già nel Novecento non poteva essere scritto che fra virgolette. Adesso è il punto di fuga supremo. Il carattere inedito dei nostri tempi non è dato “soltanto” dall’assenza di un dio, e di qualsivoglia altro piano trascendente su cui proiettare l’oggi, l’io, la crisi, lo Stato, e qualunque altro gran concetto di questa risma. Gettati fuori senza un dentro, scopriamo che il nostro tempo è connotato da questo Autoespellersi. Calvario senza croce, croce senza sudario. Ci siamo tirati fuori, ci siamo cacciati fuori – l’autentico crollo a cui è andato incontro il concetto di responsabilità è solo un indizio, la premonizione di un sommovimento più grande. Ci siamo tagliati fuori – la vita, questo Qualcosa, va avanti, ma senza di noi — volontari prigionieri di uno strano Purgatorio, abbiamo scelto di guardare la vita, le sue testimonianze, soltanto nel riflesso di un riflesso, la ricondivisione di un video senza autore, o una specularità che inquadra noi stessi in fuga dal vuoto. Puro occhio, puro specchio, pura superficie – in un sol colpo che pure è durato decenni, l’uomo si è castrato dell’azione, della creazione, e dell’abisso, della dannazione.

È difficile essere eredi, scriveva Nietzsche sul finire di un altro secolo. Difficile perché pericoloso, difficile perché soffocante, difficile perché – ancora una volta – sterile. Adesso, il quadro è cambiato. Non è più difficile – è impossibile, ma in un altro senso, perché una genealogia si è spezzata. Eredità di chi, in un mondo tutto figli senza padri? Eredità di che cosa, adesso che il concreto ci sta sfuggendo di mano, l’economia segue percorsi propri, e di valori manco c’è bisogno di parlare? Adesso, è difficile Essere, anziché stare e basta. Alla fine, non si aspetterà più l’eterno ritorno, dell’uguale, ma il ritorno dell’eterno, in un mondo che fu ugualmente miope al cospetto del suo precedente farewell.

Se mai ci fu un ambiguo Eden prima della storia, adesso ci muoviamo in marcia verso l’irridente spiaggia del Dopostoria. Non è una crisi, è molto di più: l’ingresso in un Eone inaudito, inaudito perché silenzioso, chino ad occultare le tracce del suo scoccare, a disperdere le coscienze che potrebbero cogliere tale passaggio. Al netto di qualche bonaccia i rottami di un Passato sul bagnasciuga, di tanto in tanto, continueranno per sempre ad arrivare, ma saremo, come Robinson ungarettiani, allegri naufraghi, anzi, rinati. C’è un mondo da rifondare, uno specchio da lucidare, un proliferare di copie da rifinire, interi universi virtuali da popolare. E siamo solo all’alba di una strana aurora: le implicazioni di questa mutazione di cui ora si scorgono i primi segni intangibili sono ancora tutte da scoprire. Senza la morte, è rimasto l’aldilà – in mancanza di meglio, ecco il mistero buffo del nostro tempo. Di che sei fatto tu, di qual sostanza? Che milioni di strane ombre ti seguono?

 

 

II.

Arno Breker scolpisce un busto di Ezra Pound

La stella cometa della tradizione è caduta da qualche parte nel Novecento. La pregnante bellezza del suo ultimo volo non lasciava comunque sfuggire agli occhi quell’amara tonalità da canto del cigno che, di decennio in decennio, sempre più ha stretto la prosa degli ultimi indagatori del sacro. Heidegger, Benjamin, Eliade, Guénon, De Santillana, Jünger, Jung, Jaynes, Hillman, Zolla, Calasso, Battiato – una costellazione, parziale, di nomi, sbocciata poco dopo che Eliot, con il suo the nymphs are departed, inaugurasse nelle lettere l’inquietudine della secolarizzazione — una consapevolezza radicalmente diversa, eppure gemellare, all’estasi del vuoto scorto da Nietzsche.

“Ascendiamo il monte Ventoso della storia e guardiamo il disegno che si rivela da quella grande altezza; i particolari non si discernono più, vediamo alternarsi ciclicamente l’una all’altra civiltà basate sul commento d’un testo sacro tremendo e fascinoso, che non tanto è letto e giudicato quanto legge e giudica chi lo accosti, e civiltà prive d’un testo, apparentemente fondate sul culto della critica. I cicli sono millenari”. Così iniziava Che cos’è la tradizione. Un’idea decisiva nell’ampio mareggiare della storia umana, reazione allergica al sessantotto in forma di libro a firma di Elémire Zolla: un’opera che non attende un ritorno, ma che traccia cartografie generali dell’esperienza umana del sacro e della conoscenza. Diagnosi sibilline imputano all’assenza della tradizione la “perdita del fine”, la “tirannide delle parole”, ma anche “dei gruppi”, in un tentativo, orgoglioso e al tempo stesso conscio dei suoi limiti, di stare “al di sopra della mischia”, in un salto alla Cavalcanti delle gravità del presente, di quel presente – era il 1971 quando il libro uscì, e a quei tempi la Storia non era ancora data per morta, non da tutti almeno — il Secolo non si era ancora abbreviato a Berlino.

Via dal Novecento – lo sguardo di Zolla si ribalta all’indietro di millenni, e si sarebbe spostato anche in avanti di decenni, in quelle riflessioni sulla realtà virtuale che costellarono l’ultimo decennio della sua vita cosciente. “Ogni cosa”, leggiamo in Che cos’è la tradizione, “si spiega ritraendola alle sue origini, e all’inizio d’ogni opera umana scopriamo un rito, sicché l’esclamazione di Faust si salva purché completata: «All’inizio fu l’Azione – rituale»”. Riscoperta, la tradizione è un meccanismo ermeneutico, una machine à penser, un biglietto di sola andata verso l’Origine che smaschera l’entroterra sacrale da cui sorgano le più variegate manifestazioni della società di quegli anni, per la prima volta deliberata nel mettere il sacro alla porta.

È un perenne à rebours. “Ciò che oggi è macelleria fu immolazione ieratica, ci che è matrimonio fu ierogamia, ciò che è gara fu riesumazione religiosa della lotta perenne tra gli opposti, ciò che è guerra o azione in giudizio fu tenzone cerimoniale e ordalia, la ginnastica e gli esercizi acrobatici nei primordi espressero mimicamente il cammino e i risultati della contemplazione, il commercio nacque come cerimonia di donazioni contrapposte, il danaro come amuleto”, scrive Zolla in un elenco infinitibile. Tutto è Rito: persino il freudismo più spiccio potrebbe trovare qui insospettato compimento, e scoprire, nella convergenza tra rito e coito, rimanenze misteriche esperibili ancora oggi – ma andando ben al di là, e ben più a fondo, di ciò per cui oggi è scambiata la sessualità.

Tutto è rito anzi tutto fu rito, e adesso che i riti tradizionali impallidiscono in un progresso che non perdona quello che un tempo chiamavamo sacro ritorna in forme sclerotizzate ma pur sempre rituali. Proprio gli studi di Freud sui tic, le piccole manie, certe superstizioni che, etimologicamente, ancora sopravvivono, possono essere letti come le dimostrazioni che lungo un albero creduto morto qualcosa resta ancora – qualcosa di difficile definizione, per non parlare di circoscrizione. Ma a questo punto non si può peccare di ingenuità né di idealismo – tra i pochi peccati rimasti, dopo l’estinzione dei carnali: bisogna spezzare l’antico nesso tra sacro e buono, come la stessa fiaba oscura che chiude il saggio di Zolla insegna.

“Accetta tutto con socialità, senza rinchiuderti nel tuo individualismo sterile. Dobbiamo costantemente progredire verso nuove forme. Non ti va la parola progresso? Diciamo sviluppo. Vedi che ti vengo incontro. Il corpo come l’hai conosciuto finora non può continuare a esistere. La stella a cui guardiamo, l’utopia e la speranza ci sollecitano a un’invenzione costante di nuovi valori, a una scelta inquieta e sofferta di sensazioni e di possibilità nuove”. Che cos’è la tradizione termina con una fiaba amara, La casina nel bosco, la storia di un Ognuno che, smarritosi nel fitto di una foresta durante un temporale, pensa di trovare rifugio in una casetta dove scopre un vecchio intento a torturare “un uomo simile a lui” tenuto in catene. Il sermone del vegliardo pare scimmiottare discorsi ripetuti senza fine nei peggiori gulag e in tutti i regimi ideologici, ma in tale enfasi di predicazione cieca non si può non scorgere, andando indietro nei secoli, torture analoghe inflitte dai predicatori religiosi agli eretici, e, tornando a prima ancora e cambiando un po’ il linguaggio, quello che subirono i martiri cristiani dai persecutori romani. La granitica difesa della tradizione portata avanti da Zolla per tutto il libro scricchiola, un’intuizione ancora più profonda si fa strada in questo epilogo narrativo: è la vittoria della verità della parabola sulla forma-saggio, e la problematizzazione del sacro colto nella sua facie efferata.

 

III.

Immagine realizzata con dall-e mini

Nudi, di fronte a un insistente mistero. Incolumi, di fronte a un’apocalisse che non ha cancellato la vita dell’uomo, ma il precedente senso del suo stare al mondo. C’è, ci può essere un senso della vita oltre il sacro, eppure non è questo ciò che il Contemporaneo ricerca. Il Contemporaneo cerca un nuovo spazio sociale, composto da reti più che da azioni, il Contemporaneo vuole un ininterrotto presente, quell’attimo faustiano prorogato sine die in un piacere che non è un godere, il Contemporaneo cerca una sterminata domenica, priva di responsabilità, di simboli – forse anche di conseguenze, di azioni. Festa senza malinconia, corrida senza trofeo, sogno senza risveglio – mondo a una dimensione, la quarta, che risucchia via le prime tre — cancella anche i criteri di valutazione per questa metamorfosi, va oltre la decadenza, oltre la rivoluzione, oltre ogni banalizzazione che se ne potrebbe trarre, oltre le parole e le diagnosi stesse.

Il Contemporaneo cerca e vuole e ottiene la sua stessa cancellazione, il salto carpiato dalla realtà, l’assorbirsi del mondo tangibile in un nuovo mondo, un oltremondo. Le Immagini tornano a fluire, momentaneamente incapsulate in dispositivi che ancora le intrappolano, presto pronte anzi già accingentisi ad apparire come evocazioni, ologrammi, nuovi spettri amletici. Tentacolare tecnologia che illumina la notte oscurando le stelle, non c’è più spazio né per pensare né per agire, una sradicatezza che distoglie l’uomo dalla terra proiettandolo verso un nuovo mare, più colorato di quello omerico. Se questa è una fine resta pur sempre un’eutanasia. Si è perduto anche il senso della nostalgia. Proust è inerme – resta soltanto una nostalgia della nostalgia.

Tra le pagine più estreme di Che cos’è la tradizione spicca il capitolo Che cos’è il satanismo, dove Zolla racconta di un “Satana che “agisce nel tempo, ma come chi stia all’orlo d’un fiume e ne lambisca le acque”. Se ci si vuole addentrare come i cantori antichi delle saghe omeriche o del Beowulf “nell’essenza del male” l’unica via è quella che si trova passando il bosco, “uscendo fuori dal tempo” – ma “come riferirne a chi non abbia abbandonato lo spazio quotidiano” per “far sì che sospenda per un momento la forza narcotica della vita comune?”.

Adesso non c’è più la vita comune – c’è al limite una vita omogeneizzata, i grandi momenti collettivi, a parte i concerti di qualche pop star che pure deve a quella dimensione il perdurare della sua allure, sono tutti filtrati attraverso il grande medium digitale, che si appresta al salto definitivo nel virtuale. Il virtuale non è il satanico, che Zolla individuava in chi canta l’innovazione a tutti i costi, l’eversione delle forme, la “canzone della Grande Attesa” secondo cui “si sarebbe alla viglia di un mutamento radicale” – se mai, su questa falsariga, il satanico starebbe in certi interpreti e propugnatori dei nuovi media, non nel virtuale come nuova dimensione esistenziale.

Se mai e ancora una volta, è nel digitale e ancor più nel virtuale che si può arrivare a scorgere il paradosso della secolarizzazione, dacché è in questo nuovo mondo sviluppato dall’uomo ma già sfuggito al suo controllo come in una cosmogonia gnostica che si possono scorgere i confini di un nuovo iperuranio, il divinizzarsi di personalità intangibili invocate da milioni di ammiratori e seguaci, la versione pallida e despiritualizzata di quei futuri titani che Jünger scorgeva nel tempo ultimo della vecchiaia, l’eterno e subdolo ritorno degli archetipi anche millenni dopo che quegli dèi in cui a un primo sguardo si incarnarono erano stati decretati vuoti simulacri. “Conoscenza tradizionale è quella che rifiuta di lasciarsi chiudere nella prigione della storia e della società”, scriveva Zolla – quella che in una perenne metamorfosi scorre di secolo in secolo, si incarna, nascosta, in stemmi poesie quadri chiese film statue sotto gli occhi di tutti, quel ghigno esoterico che avvolge l’Occidente andando ben al di là di occultismi e complottismi, e che in Zolla ha trovato uno dei suoi interpreti terminali.

All’origine il rito, alla fine – all’esito? al compimento? all’outcome? – il virtuale: non sarà mai che le religioni, scomparendo, ci hanno lasciato eredi di un figlio ribelle?

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Il saggio di Elémire Zolla Che cos’è la tradizione. Un’idea decisiva nell’ampio mareggiare della storia umana, edito originariamente da Bompiani nel 1971 e passato anche per le edizioni Adelphi, è stato recentemente ripubblicato dalla Marsilio, nell’ambito dell’edizione definitiva dell’opera omnia di Zolla curata da Grazia Marchianò

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“Contro il Tempo. La tradizione di Zolla e l’enigma dei nostri giorni” è stato scritto da Giorgiomaria Cornelio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Dr. COARA, Mister ANVUR & Magnifico Rettore

In data 4 dicembre 2023 all’Università di Firenze, Menico Rizzi partecipava come membro dello steering board di COARA, a un Convegno su “Evoluzioni editoriali”, omettendo di dichiarare di essere membro del direttivo di ANVUR. Allora era parso inevitabile chiedersi a che titolo l’ANVUR continui a partecipare a COARA (Coalition for Advancing Research Assessment) e al suo capitolo nazionale italiano, pur violandone costantemente l’accordo. Pochi giorni dopo il quotidiano l’Azione rendeva nota l’intenzione di Menico Rizzi a candidarsi come Rettore dell’Università del Piemonte Orientale dove le elezioni dovrebbero essere indette nel prossimo mese di marzo. È noto che i professori collocati in aspettativa conservano il titolo a partecipare agli organi universitari cui appartengono, ma mantengono il solo elettorato attivo ed è pure noto che il mandato del consiglio direttivo Anvur scadrà ad aprile 2026. Che farà Rizzi? Per candidarsi, cesserà anticipatamente dall’incarico Anvur (178.500 Euro annui), nonostante l’incertezza dell’esito elettorale, visto che si annunciano almeno tre candidati?

In data 4 dicembre 2023 all’Università di Firenze, ci eravamo chiesti perché Menico Rizzi partecipasse quella stessa mattina, come membro dello steering board di COARA, a un Convegno su “Evoluzioni editoriali”, omettendo di dichiarare di essere membro del direttivo di ANVUR.

Allora era parso inevitabile chiedersi non solo a che titolo l’ANVUR continui a partecipare a COARA e al suo capitolo nazionale italiano, pur violandone costantemente l’accordo, ma anche se e come COARA sia in grado di assicurare che i suoi aderenti mantengano le promesse in esso contenute. (https://www.roars.it/anvur-aderisce-a-coara-ma-gli-impegni-sottoscritti-sono-in-contrasto-con-le-decisioni-prese/).

Abbiamo appreso che negli stessi giorni (8 dicembre) il quotidiano l’Azione rende noto che sempre Menico Rizzi ha intenzione di candidarsi come Rettore dell’Università del Piemonte Orientale dove le elezioni dovrebbero essere indette nel prossimo mese di marzo. La notizia è stata successivamente confermata da altro quotidiano locale attento alle vicende dell’ateneo piemontese, Novara oggi.

E’ noto che il mandato del consiglio direttivo Anvur non è in scadenza ad aprile 2024, ma scadrà ad aprile 2026. L’art. 6, co. 2, d.p.r. n. 76/2010, come modificato dall’art. 14 co. 4 bis, d.l. n. 36/2022 (come convertito dalla l. n. 79/2022), ha previsto che “Il Presidente ed i componenti degli organi di cui al comma 1 restano in carica sei anni”, anziché quattro e che la presente modifica “si applica anche al mandato dei componenti del Consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR), in carica alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”.

E’ di conseguenza lecito chiedersi come potrà ufficializzare tra pochi giorni la propria candidatura a rettore non essendo ancora cessato dalla carica. Cesserà anticipatamente dall’incarico Anvur con l’incertezza dell’esito elettorale poiché concorrerà con almeno tre candidati? Il consiglio direttivo è informato? Chi nominerà il MUR in sostituzione di Menico Rizzi per i prossimi due anni?

L’art. 13 del d.p.r. n. 382/1980, dispone infatti che i professori collocati in aspettativa conservano il titolo a partecipare agli organi universitari cui appartengono ma mantengono il solo elettorato attivo.

E’ partita la VQR 2020-2024 e il consiglio direttivo attuale ha approvato il bando, Rizzi abbandonerà proprio ora?

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“Dr. COARA, Mister ANVUR & Magnifico Rettore” è stato scritto da ROARS e pubblicato su ROARS.