Lettera all’indirizzo degli uccelli

di Carmen Naranjo

traduzione di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli

 

da Idioma dell’inverno (1971)

 

Piove in questa città
piove… pioggia polvere
invidia piove notti e giorni
piove suoni di altre piogge

Metto avorio e non va
in questa città non c’è
avorio metto oro e non dice
in questa città non c’è
oro metto argento e
non rima
in questa città non c’è
argento metto l’idioma
della pioggia acqua
acquazzone acquitrino
metto paracqua ed ombrelli
metto pioggerella e giungo alla mia città

E non metto
nulla e tolgo
tutto terrazze
e luci balconi
e torri
e restano piogge

Oggi piove come
sempre da così presto
che non so come
iniziò a piovere
magari sia solo una
figura di rituali grifi
d’acqua
che danzano in suono di
gocce fiumi in finestre e
calli
occhi turpi dietro l’alba
e la lunga vetrata
dell’inverno con verdi
mani reumatiche

Dall’acqua
astratta tappeto
d’erba terrazza
d’alghe uscì
questo sogno di
cieli e barche

Io piovo perché amo
piovo verticale il mio
ritorno e non fecondo spighe
a volte piovo chiacchiere
quando non posso piovere
tanta pioggia di tante cose
gocce e gocce di miseria
nella cerimonia del viaggio
sulla memoria dell’acqua

 

*

 

da Nel circolo dei pronomi (2003)

 

Io

 

io alle sei della sera
con un cero nella mano
lentamente nella mia stessa strada
cerco il dio senza faccia
giocatore instancabile nella scacchiera delle stelle
io graffiando l’alba
disegno un segno astratto
e me lo ruba il vento
io alle 11 della notte
con un filo sulla fronte
trasparente e agile
do le mie droghe di silenzio
e ingrosso il capitale del mio grido
io mi sommo all’altro io
mi metto le sue scarpe
leggo il manuale di diplomazie
mi addormento con l’altro
e mi risveglio senza nulla
mi stanco della mia sostanza d’ore
e spremo le mie economie di tempo

al di sotto dell’acqua
ride un cristallo rotto

io una somma di espropriazioni
un inventario inconcluso
un punto senza azione e voce
nel circolo dei pronomi
un naufragio di sorti e occasioni
con esibizioni balbettanti
un libro sulle spalle
un peso perpendicolare dal cielo
e un ragno che scende da un
filo nero per la schiena
impiccagioni di equilibri senza spazio
saette costipate dalle stimmate
età che consumano la mia età
in un piatto greco con salsa romana
bilance ebree magneti indigeni

questi baci
che corrono sulla tua schiena

io – andarmene io – venirmi
l’aria tiene armonie di spade
equidistanti distanze spogliate
perdute devoluzioni indolenti
cerimoniosi cervelli lontani
condizioni che mi condizionano
un giro bancario atemporale
con numeri stranieri
la parola è una gomma da masticare
quando perde la menta si sputa

raccoglimi nelle stagioni
del tuo fidanzamento

mi odo nelle cerbottane
là nelle absidi
arabesche decomposizioni
dove non giunge la mandragora
e il mio sogno si sveglia nel sonno

non guardarmi più
lascia il tuo seme nei miei occhi

io faccio fessure agli eroi
dipingo occhiali agli idoli
e so ridere le mie solitudini
davanti alla sconfitta ghiandolare di domani

portami nei tuoi velieri
sotto il santo e segno della tua notte

io rotondamente calendario
alveare di bronzo senza briglia
sboccato nel quotidiano
imboscato in braccia e riti

fissati nei miei sintomi
e infermami di più

io con le mie amare dogane
con le mie litanie sbadate

voglio tremare nel tuo grembo

io con i miei ancoraggi di mummia
nel caos della polvere e dello iodio

la tua memoria è una vetrina
dove misi un centrotavola

 

*

Testi tratti da Lettera all’indirizzo degli uccelli, di Carmen Naranjo, edizione italiana a cura di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli (Edizioni dell’Orso 2023).

Carmen Naranjo (Costa Rica, Cartago, 1928 – Costa Rica, San José, 2012) è figura centrale nella storia letteraria costaricana. Scrittrice, diplomatica e attivista, ha lavorato per le Nazioni Unite, l’UNICEF e altre organizzazioni umanitarie, denunciando la deforestazione, la malnutrizione e lo sfruttamento che affliggono l’America Latina, e promuovendo i diritti dei poveri e delle donne. “Carmen Naranjo ha affondato la penna nella realtà, con rara capacità di suscitare stupore, empatia e compassione nei confronti dell’essere umano, restituendoci la fotografia interiore di un continente così grande da sembrare inconciliabile, così piccolo da sembrare un’isola.” (dall’introduzione)

Tomaso Pieragnolo vive da oltre trent’anni tra Italia e Costa Rica ed è traduttore e poeta; tra le sue raccolte di poesia, finaliste e vincitrici di premi nazionali, ricordiamo Portraits (Passigli 2022), Viaggio incolume (Passigli 2017), nuovomondo (Passigli 2010), L’oceano e altri giorni (Venezia 2005), Lettere lungo la strada (Venezia, 2002), Poesía escogida (Editorial de la Universidad de Costa Rica e Fundación Casa de Poesía, 2009). Dal 2007 traduce per la rivista Sagarana autori del Costa Rica inediti in Italia; tra di loro Eunice Odio, poi pubblicata in volume in Questo è il bosco e altre poesie (Via del Vento 2009) e Come le rose disordinando l’aria (Passigli 2015), con Rosa Gallitelli.

Rosa Gallitelli vive a Padova e dal 1992 tra Italia e Costa Rica, dove ha trascorso lunghi periodi a stretto contatto con le popolazioni native tra foresta vergine e Oceano Pacifico e cooperato a progetti di tutela del patrimonio naturale. Da questa esperienza discende la raccolta poetica Selva creatura leggera (Passigli 2015), Premio Nazionale di Letteratura Naturalistica Parco Majella 2023, Premio Minturnae 2016, finalista Premio Marineo e Morlupo 2016, selezione Premio Marazza 2016. Dal 2007 traduce con Tomaso Pieragnolo per la rivista Sagarana e per varie case editrici autori costaricani in anteprima italiana.

Lettera all’indirizzo degli uccelli è la prima opera di Carmen Naranjo pubblicata in Italia.

*

 

de Idioma del invierno (1971)

 

Llueve en esta ciudad
llueve… lluvia polvo envidia
llueve noches y días
llueve sonidos de otras lluvias

Pongo marfil y no va
en esta ciudad no hay marfil
pongo oro y no dice
en esta ciudad non hay oro
pongo plata y no rima
en esta ciudad no hay plata
pongo el idioma de la lluvia
agua aguacero aguazal
pongo paraguas y sombrillas
pongo garúa y llego a mi ciudad

Y no pongo nada
y lo quito todo
terrazas y luces
balcones y torres
y quedan las lluvias

Hoy llueve como siempre
desde tan temprano que no sé
cómo empezó a llover
quizás sea sólo una figura
de rituales grifos de agua
danzando en sonidos de gotas
ríos en ventanas y calles
ojos turbios detrás del alba
y el largo vitral del invierno
con verdes manos reumáticas

Del agua abstracta
alfombra de yerba
terraza de algas
salió este sueño
de cielos y barcas

Yo lluevo porque amo
lluevo vertical mi regreso
y no fecundo espigas
a veces lluevo palabrerías
cuando llover no puedo
tanta lluvia de tantas cosas
gotas y gotas de miseria
en la ceremonia del viaje
sobre la memoria del agua

 

*

 

 

de En el círculo de los pronombres (2003)

 

YO

yo a las seis de la tarde
con un cirio en la mano
lentamente en mi propia avenida
busco al dios sin cara
jugador incansable en el ajedrez de las estrellas
yo arañando el amanecer
dibujo un signo abstracto
y me lo roba el viento
yo a las 11 de la noche
con un hilo en la frente
transparente y ágil
doy mis drogas de silencio
y engroso el capital de mi grito
yo me sumo al otro yo
me pongo sus zapatos
leo el manual de diplomacias
me duermo con el otro
y me despierto sin nada
yo me canso de mi sustancia de horas
y estrujo mis economías de tiempo

debajo del agua
ríe un cristal roto

yo una suma de expropiaciones
un inventario inconcluso
un punto sin acción y voz
en el círculo de los pronombres
un naufragio de suertes y ocasiones
con exhibiciones tartamudas
un libro en la espalda
un peso perpendicular desde el cielo
y una araña bajando de un hilo
negro por el hombro
colgaduras de equilibrios sin espacio
saetas estreñidas por los estigmas
edades consumiendo mi edad
en un plato griego con salsa romana
balanzas hebreas imanes indígenas
esos besos
corriendo por tu espalda

yo – irme yo – venirme
armonía de espadas tiene el aire
equidistantes distancias desnudas
perdidas devoluciones indolentes
ceremoniosos cerebros lejanos
condiciones condicionándome
un giro bancario intemporal
con números extranjeros
la palabra es una goma de mascar
cuando pierde la menta se escupe

recogeme en las estaciones
de tu noviazgo

yo me oigo en las cerbatanas
allá en las ápsides
arabescas descomposiciones
donde no llega la mandrágora
y mi sueño despierta en el sueño

no me mirés más
dejá tu semilla en mis ojos

yo hago agujeros a los héroes
pinto anteojos a los ídolos
y sé reír mis soledades
frente a la derrota glandular de mañana

llevame en tus veleros
bajo el santo y seña de tu noche

yo redondamente calendario
panal de bronce sin bridas
desbocado en lo cotidiano
emboscado en brazas y ritos

fijate en mis síntomas y enfermame más

yo con mis amargas aduanas
con mis letanías majaderas

quiero temblar en tu regazo

yo con mis amarres de momia
en el caos del polvo y del yodo

tu memoria es un escaparate
donde puse un bibelot

 

*

 

 

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“Lettera all’indirizzo degli uccelli” è stato scritto da renata morresi e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Dal parco Don Bosco al Festival di Letteratura Working Class, il nemico si sfoga, sabota, massacra

Stanotte, nei pressi del parco don Bosco di Bologna, un attivista diciannovenne, studente del liceo Da Vinci, è stato inseguito, bloccato e pestato da un folto gruppo di carabinieri. Su di lui si sono accaniti non soltanto col manganello, ma anche con taser e spray al peperoncino. Gli è stato rotto un polso. È stato […]

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“Dal parco Don Bosco al Festival di Letteratura Working Class, il nemico si sfoga, sabota, massacra” è stato scritto da Wu Ming e pubblicato su Giap.

Benway Series

[Continua quella che vorrebbe essere non tanto un’indagine, ma una ricognizione ragionata e dialogata dell’editoria indipendente di poesia. Abbiamo già parlato di Le Mancuspie, una collana di poesia diretta da Antonio Bux per le edizioni Graphe.it e di Adamàs, per La vita felice editore, diretta da Tommaso Di Dio, Vincenzo Frungillo, Ivan Schiavone. a. i.]

Risposte di Mariangela Guatteri e Giulio Marzaioli

 

Che cosa ti ha spinto a fare l’editore e quale obiettivo ti poni con il tuo lavoro?

Come curatori del progetto Benway Series, la motivazione iniziale è da ricondurre alla nostra dimensione di “autori”: in quanto tali, all’epoca dell’ideazione del progetto (che inizialmente era curato anche da Marco Giovenale e Michele Zaffarano) ci concedemmo la possibilità di cercare altre scritture c.d. “di ricerca” consimili, soprattutto al di là della lingua italiana, e di pubblicarle in Italia in un contesto che non era così ricettivo rispetto a tali opere. Il vettore esplorativo si configurò come un progetto più che altro intellettuale e artistico aperto anche a opere in lingua italiana (rigorosamente tradotte a loro volta per consentire sempre un dialogo più ampio) e a proposte non strettamente legate alla scrittura, o solo ad essa, intendendo l’opportunità che ci siamo concessi come una sorta di factory in continua via di definizione.

Che regime di produzione hai? Ti soddisfa quello che riesci a mettere in opera (numero di titoli all’anno)?

Non abbiamo necessità e vincoli di produzione. Realizziamo i progetti che ci piacciono e ci convincono nei tempi e nei modi di cui siamo capaci, con tutti i limiti e le disponibilità che si possono immaginare per quanto riguarda un progetto indipendente e non finanziato.

Come è nata l’idea di questa nuova collana di poesia?

Vedi sopra.

Come scegli i libri che vuoi pubblicare? Quali sono i criteri che ti guidano? Sei interessato a difendere aree poetiche o correnti specifiche all’interno del panorama contemporaneo?

Fino ad oggi ogni libro è nato dall’appassionamento ad un’idea e alla condivisione di questa idea tra noi (M. Guatteri e G. Marzaioli), l’autore o gli autori e tutti color che possono e/o vogliono collaborare alla realizzazione dell’opera finale. Chiaramente sappiamo di avere un orientamento e di avere in qualche modo segnato un percorso di cui è giusto tener conto, ma non siamo affezionati a scuole o dottrine specifiche. Per quanto la storicizzazione sia inevitabile e anche imprescindibile, riteniamo che sia prematuro farne parte, sempre che qualcuno consideri in tal senso degno il percorso di Benway Series.

Cosa pensi dell’oggetto libro e dell’esperienza di lettura che veicola? È una forma di conoscenza in grado di distinguersi da quelle che circolano attraverso altri media e altri supporti? Come vedi la sua articolazione di vecchio media con i media attuali? Come ti poni nei confronti delle correnti convenzioni editoriali (tipografia, impaginazione, formato)?

Sicuramente il libro è una forma di offerta e di condivisione di idee che si distingue da altri, altrettanto degni. Per quanto in via di estinzione non sarà mai estinto, probabilmente riconfigurerà il proprio posizionamento nella vita quotidiana, al pari della lettura. Per quanto ci riguarda consideriamo che ogni limite è un’opportunità, e per quanto riguarda la minor diffusione del libro cartaceo, l’assenza di eccessive sponde di confronto e dimensionamento consente maggior libertà: siamo sempre più propensi a considerare l’oggetto libro come una vera e propria opera d’arte le cui potenzialità possono essere continuamente definite e ridefinite.

Quali sono i punti critici che impediscono alla tua azione di essere più efficace?

Non pensiamo in questi termini al nostro impegno di editori. Per quanto ci riguarda ciò che facciamo traccia un cammino da fare assieme agli autori con i quali collaboriamo e ai lettori che ci seguono, che siano 1, 10 o 100. La cosa più importante è stare in movimento e farlo assieme ad altri.

Che visione hai dell’editoria media e grande in Italia, soprattutto per quello che riguarda la poesia?

Ci sono e ci saranno sempre fasi e cicli. Alle volte proliferano collane di poesia, alte volte si celebra il funerale del genere. Potremmo enumerare varie e numerose teorie ed opinioni ben note a che si interessa di scritture diverse dalla narrativa, ma sarebbe di scarso interesse per chi legge ripetere quanto già ampiamente dibattuto. Forse una valutazione che potrebbe risultare utile sia per chi scrive che per chi si impegna a promuovere la scrittura, è che bisognerebbe sempre misurarsi con tre dimensioni temporali: quella attuale, quella di domani e quella di sempre. Scrivere, e promuovere scrittura, considerando che ciò che si fa dovrebbe valere per un tempo presente, un futuro e per l‘eternità.  Anche solo l’illusione di bilanciare in un’opera le tre misure temporali può essere una prospettiva nella quale inquadrare la propria attività, al di là delle circostanze del caso o dei casi che occupano la vita letteraria.

*

da Louis Zukofsky, 80 Flowers / 80 fiori
Traduzione di Rita R. Florit, Postfazione di Paul Vangelisti
Colorno: Tielleci,  2024. (Benway Series; 16). 
First Edition: Louis Zukofsky, 80 Flowers, Stinehour Press, Lunenburg, Vermont, 1978.


Aster
A star tow ash stow
rote crowd mickle mass daisy
frostflower lazytongs lightning aster risk
your fire anneal generous gentle
baited shadow some moss-burn’d summer
evergreen-winter connect a cut clay
aurous quick gnomon he’ll mellow
lucre head purple black study

* * *

Astro
Un astro traino cenere serba
ripetizione moltitudine mucchio ammasso margherita
fiordibrina pinzestesa luminescente astro rischio
tuo fuoco tempri magnanimo mite
adescata ombra qualche muschio-bruciato estate
sempreverde–inverno unisce un taglio creta
aureo rapido gnomone si calmerà
lucro testa viola nero studio



Daisy
Bellis perennis daisy of history
ing lace water-formed a hid
pin-eyed thrum-eyed brehon-rule eve adam
adam eve meadows birth-hymn drupe-studded
strawberry oversell spring-freeze whipperwill storm
pied-daisy rays vogue green-erin discs
may not excel white double-ray largess
sails-gold-discs heritage fort at Montauk

* * *

Margherita
Bellis perennis margherita della storia
merletto forma d’acqua un nascosto
perno-occhiuto sibilo-occhiuto legge-brehon eva adamo
adamo eva pascoli inno-originario drupa-punteggiata
fragola incensata sorgente-ghiacciata succiacapre bufera
margherita-variopinta raggi in-voga dischi verde-irlanda
forse non eccelle bianco doppio-raggio generoso
vele-oro-dischi eredità forte di Montauk

*

da Marlene NourbeSe Philip, ZONG! Come narrato all’autrice da Setaey Adamu Boateng.
Traduzione: Renata Morresi. Traduzione di «Notanda» e di «Gregson vs Gilbert»: Andrea Raos. 
Traduzione di «Ẹbọra»: Mariangela Guatteri.
Colorno: Tielleci, 2021. (Benway Series; 14).



*

da Forrest Gander, Essere con / Be With. Con 6 fotografie di / With 6 photographs by Michael Flomen
Traduzione di Alessandro De Francesco.
Colorno: Tielleci, 2020. (Benway Series; 14).

A few days later
their bliss grew
an impenetrable
skin. Then dissolved
itself completely, 
the liquid content of
that skin turning
to a sort of jelly
from which erupts
a new creature
whose organs
lack any identity
with what came
before.



Have I lived
something stupid?
Am I the coward
responsible for 
nothing?

* * *

Qualche giorno dopo
la loro felicità sviluppò
una pelle
impenetrabile. Poi si
dissolse completamente,
e il contenuto liquido di
quella pelle si trasformò
in una sorta di gelatina
da cui emerge
una nuova creatura
i cui organi
mancano di identità
con quanto era venuto
prima.



Ho vissuto
qualcosa di stupido?
Sono il codardo
responsabile di
niente?

–––––––
da Ron Silliman, Il quaderno cinese / The Chinese Notebook
Traduzione: Massimiliano Manganelli.
Colorno : Tielleci, 2019. (Benway Series; 13).

*
*




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“Benway Series” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

La minuscola

di Marta Barattia

La minuscola precipita nel tubo. Gli arti appena accennati protesi verso l’alto, una scia di cometa; la schiena curva – saranno non più di due centimetri totali – quasi solo una sottile catena di vertebre, come perline d’avorio. Cade senza un grido, trascinata in un abisso di vortice scuro che confluisce in un tubo più grande e poi in un altro e un altro ancora. E poi – si suppone – nel mare.

Non è un brutto posto il mare. Per finirci. E la minuscola è ancora una specie di pesce, dopotutto, un pesce abissale dagli occhi ciechi e dalle branchie amaranto. Fluttuerà sotto alla superficie per qualche giorno, dissolvendosi lentamente, trasportata dalle correnti in un ammasso di pulviscolo simile a plancton in cui altri minuscoli esseri bioluminescenti le viaggeranno accanto, protetti dai loro esoscheletri trasparenti, pronti a impigliarsi nei fanoni di balena.

Dentro a una balena, pensa Eva, la minuscola potrebbe anche viverci.

E la balena non ci farebbe nemmeno caso; non la sentirebbe crescere, non ne sopporterebbe il peso estraneo. Dev’esserci molto spazio, dentro a una balena, tanto che la minuscola potrebbe starsene lì per sempre e questo non modificherebbe la vita della balena, né la sua forma, né la sua libertà.

Eva abbassa la tavoletta e si costringe a restare ancora un poco, finché il carico dell’acqua è completo e il galleggiante galleggia e torna il silenzio. È tempo di andare.

Il corridoio fuori appare luminoso e sgombro.

Dieci passi.

Il parquet è lucido come una lastra di ghiaccio. Si potrebbe camminare velocemente, così velocemente da non rischiare di cadere, di precipitare in un ipotetico sottostante qualora la superficie dovesse creparsi all’improvviso.

Il pericolo ha odore di cera per pavimenti.

Conviene strisciare lungo le pareti, la schiena appoggiata all’intonaco fresco, le mani aperte. A guardare verso l’alto il corpo si fa più leggero, si solleva, il baricentro fluttua senza proiezione terrestre. I piedi scalzi, le dita allargate in raggi divergenti. Le pareti del corridoio trattengono la penombra. Eva desidera rimanere lì, sospesa tra il dentro e il fuori. Da lì potrebbe respirare senza sentire la fame, toccare senza dover vedere.

Un crampo la stringe sotto l’ombelico e d’istinto raddrizza la schiena: è una sensazione passeggera e la conosce da quando aveva undici anni. È cresciuta in fretta, Eva, il suo corpo è cresciuto in fretta, ma tutto il resto, il bisogno di non fermarsi, il disordine dei vestiti indossati un solo giorno e poi accatastati sullo schienale della sedia, i calzini spaiati nel cassetto, i compiti non fatti, i contratti a termine, lo smalto blu sulle unghie. Tutto il resto non cresce. È fatto di una sostanza instabile che non proietta ombre.

Sulla destra, al centro della camera, oltre la cornice della porta, si spande la chiazza bianca del letto sfatto. Eva è tentata di tornare a immergersi nelle lenzuola di cotone, di avvilupparsi in un bozzolo e riavvolgere i giorni fino al suo stato di crisalide, di sentirsi protetta dall’odore di crema idratante, sudore e ammorbidente, di farsi tagliare dalle lame di luce che filtrano attraverso le tapparelle appena sollevate. Ma sa che è venuto il momento di uscire allo scoperto e che c’è ancora modo di programmare gli eventi per far sì che tutto continui a riguardare soltanto lei. E che quel modo è sfilare con passo leggero sopra la superficie cerata del corridoio, zittire il tintinnio delle chiavi infilandole nella tasca interna della borsa, proteggersi con gli occhiali da sole dalla luce feroce del giorno che incombe, trattenere il fiato mentre il gomito cigola abbassando i finestrini a manovella e l’aria rovente dell’abitacolo scivola per convezione all’esterno. Se la vecchia carretta non fosse soltanto un 800 di cilindrata il rombo del motore coprirebbe la pulsazione ritmica dentro le orecchie con un fragore continuo e costante, invece si innesta sul battito del cuore.

Tutummmrrrr-tutummrrr-tutumrrrr.

L’auto è un piccolo parallelepipedo rosa: scorre all’interno delle arterie grigie che si snodano giù per la collina, appare e scompare sotto le fronde dei castagni, ed Eva sa che anche minuscola, nel frattempo, sta viaggiando in direzione del blu come se fosse compressa in una capsula di plexiglass. Eva non è certa di conoscere il funzionamento dei depuratori ma si immagina che siano una specie di enorme filtro, un colino gigantesco dentro cui si incagliano assorbenti, sacchetti di plastica, tappi di bottiglia, e attraverso il quale invece spera che la minuscola possa filtrare proprio grazie al suo essere soltanto in potenza. La minuscola arriverà al mare per prima, superato il Grande Colino e le rapide del Po e i banchi di alghe aggrovigliate e i becchi lunghi e sottili degli aironi e le bocche piatte e senza denti dei pesci gatto e le pale rotanti dei motori delle chiatte, o sarà prima Eva ad arrivare là dove qualcuno possa dichiarare la minuscola definitivamente scomparsa?

Non c’è più nulla qui, le diranno con voce soffice, accarezzando con la sonda fredda di gel il triangolo sotto l’ombelico. Ci dispiace.

A me non dispiace, penserà Eva, ma non potrà dirlo. Potrà solo tentare di calcolare il tempo impiegato dalla capsula di plexiglass per scivolare attraverso la pianura fino al delta. Anche il delta è un triangolo. Anche il santuario dei cetacei del Mediterraneo, dove ora probabilmente nuota la balena dentro cui la minuscola sta trasferendo il suo essere in potenza.

L’arteria grigia, dentro cui scorre la scatoletta rosa contenente il corpo di Eva da poco espulso dalla casa, confluisce in un’arteria più grande dove altre scatolette viaggiano su più corsie parallele. Dai finestrini si riversa nel fuori il rumore battente del motore in sincrono con la pulsazione vitale di Eva.

Tutummmrrrr-tutummrrr-tutumrrrr.

Sul sedile una piccola chiazza di bava umida e rosea si allarga in un’impronta che sarà quasi cento volte la minuscola. Il segno che lasciamo spesso non è proporzionato alla nostra dimensione. Siamo più grandi di quello che pensiamo, abbiamo più contenuto. Per questo la minuscola starà ormai scivolando tra i giunchi e i pontili, dalle parti di Chioggia, perché il suo potenziale di galleggiamento è molto superiore alle sue dimensioni apparenti, anzi con le sue dimensioni non c’entra nulla: c’entra più con il peso del liquido spostato e la minuscola sta spostando un enorme volume, costituito dalla somma di quello del corpo di Eva – benché privato della minuscola stessa e della sua bavosa scia residua che si allarga come chiazza sul sedile – e da quello della Cinquecento rosa più, in aggiunta, il mazzo di chiavi nella tasca interna della borsa.

Tutummmrrrr-tutummrrr-tutumrrrr. Tum.

La pulsazione si interrompe all’improvviso.

Proprio ora che mancano poche decine di metri allo sbocco nell’ultima via, al traguardo. Eva considera l’ipotesi di chiudere i finestrini e restare lì finché la temperatura salirà così tanto da perdere conoscenza, fino a sublimare in un passaggio di stato, e quando tutto diventerà reale Eva non ci sarà più, sarà evaporata e sorvolerà le risaie tra i gracidii delle rane e nugoli vibranti di moscerini. E della minuscola non avrà più notizie e nemmeno ne potrà avere perché le nubi di vapore non sanno e non si pongono domande.

Oppure.

Eva potrebbe telefonare e chiedere aiuto, ma ciò significherebbe ammettere la sua discesa lungo le arterie grigie e che la casa l’abbia costretta ad affrontare, con solo un mazzo di chiavi tintinnante, il bagliore da cui le lenti scure degli occhiali non riescono a proteggerla; ammettere che la minuscola sta viaggiando in direzione opposta in una capsula di plexiglass e che non ci sarà modo di avere sue notizie e che peraltro lei non desidera averne, preferendo di gran lunga scivolare sul parquet sollevata dal peso della minuscola e poi schiudere la propria crisalide di lenzuola, uscire e discendere la collina sotto l’ombra dei castagni senza avvisare nessuno, senza telefonare a nessuno. Senza far caso alla pulsazione regolare.

Tum.

La morte della pulsazione coincide, per un caso fortuito, con il luogo deputato ad accogliere ogni trapasso, giacché avviene esattamente in corrispondenza degli ingressi delle camere mortuarie che spalancano le loro bocche quadrate sul retro del Grande Ospedale.

Il Grande Ospedale sta a una via di distanza dal Piccolo Ospedale (anche detto Ospedale dei piccoli) che è là dove Eva sta andando e dove sarebbe andata comunque, anche nell’eventualità in cui la minuscola avesse deciso di non precipitare nel tubo in direzione della balena. In quel caso la minuscola sarebbe rimasta dentro Eva ed Eva avrebbe dovuto trovare un modo per farla uscire, a un certo punto, prima o dopo, ma dopo quanto sarebbe dipeso anche dal fatto che Eva decidesse di condividerne o meno l’esistenza. Esistenza che Eva non poteva fare a meno di identificare con la propria scomparsa.

Così Eva, che finora ha scelto di nascondere la minuscola dentro sé stessa, non è capace di fare altro se non ristagnare nel proprio silenzio. Apre la portiera e scende. Lì intorno non c’è nessuno. Sopra l’asfalto è sospeso uno strato mobile di calore tremolante. Eva appoggia la schiena alla lamiera rosa e calda e non guarda mentre la luce feroce asciuga la bava umida che è l’ultima impronta della minuscola; sente con piacere che la stretta sotto l’ombelico è più morbida e che ai lati della strada non ci sono letti sfatti con lenzuola morbide che sanno di crema idratante e sudore in cui desiderare di tornare a imbozzolarsi. Se sapesse come strizzare le palpebre potrebbe sollevare con due dita le lenti scure, appoggiare la montatura di tartaruga come un diadema tra le ciocche di capelli e mettere a fuoco un profilo umano a cui rivolgere un gesto qualsiasi. Allora l’estate entrerebbe nei suoi polmoni chiusi e lei piangerebbe e tutto, intorno a lei, inizierebbe a muoversi e dalle macchine in fila, bloccate in quell’imbuto a senso unico dietro alla sua Cinquecento rosa, davanti alle camere mortuarie del Grande Ospedale, scenderebbero persone urlanti, persone con una ragione per andare di fretta: un appuntamento, un compito, un lavoro. E quelle persone pretenderebbero da lei lo spostamento immediato della macchina dalla strada, pur non avendo lei idea di come si potrebbe spostare una macchina la cui pulsazione vitale si è interrotta così improvvisamente.

Tum.

A meno che l’auto non potesse precipitare in un tombino, incastonata in una capsula di plexiglass, e procedere dal tombino originario a un successivo tubo e poi in un tubo più grande e in un altro e un altro ancora. Fino al mare, pensò Eva. Impossibile. La Cinquecento è una macchina piccola ma non abbastanza piccola da passare tra le maglie del Grande Colino. Si incaglierebbe assai prima, tra il ghiaione del fondo, mischiata a legni grigi e altri rottami. Diventerebbe ruggine e non plancton, scheletro e non balena.

Ma.

Potrebbe andare così.

Eva potrebbe dire addio alla macchina, di colpo silenziosa e improvvisamente ferma e poi precipitata, e prendere un autobus. E andare in un posto che non è casa sua ma potrebbe presto diventarlo. Un posto dove ci sarebbe un fiume ghiacciato su cui pattinare e pavimenti di pietra e aria gelata. In ogni caso sarebbe meglio che raccontare della minuscola. Che ammetterne l’esistenza prima e la scomparsa poi.

Se andasse così sarebbe sostenibile.

Invece va che quattro uomini nerovestiti di tutto punto, becchini professionisti in pausa tra un funerale e l’altro, con passi simultanei e facce allenate a una seria e distaccata compassione, si accorgono del silenzio improvviso, dello sgomento di Eva e della sua apnea mentre la schiena frigge contro la lamiera e le braccia sono appese lungo i fianchi. E hanno la sensazione che le labbra serrate di Eva e le sue braccia appese lungo i fianchi non siano un buon segno e che non lo sia nemmeno il colorito bluastro che screzia il suo decolleté e che invece è soltanto il riflesso lucido del sudore più due gocce di inchiostro di penna a sfera che Eva ha trasferito toccandosi il petto con la punta delle dita. E per evitare il peggio – ma senza panico – con gesti fluidi e calmi scostano Eva e la posano sul marciapiede nell’ombra scura di un balcone, afferrano ai quattro angoli i paraurti della piccola automobile, la sollevano incredibilmente in alto, fin sopra le spalle, e muovendosi in una coreografia simmetrica e perfetta la inseriscono in un parcheggio appena poco più avanti, uno spazio ritagliato su misura, un loculo quadrato disegnato dalla striscia bianca della segnaletica orizzontale. Lì la macchina potrebbe riposare per sempre e venire dimenticata, sepolta sotto strati sovrapposti di polveri sottili.

Quando le sospensioni cigolano per l’ultima volta, nell’istante in cui l’auto viene depositata a terra, Eva schiude le labbra e l’aria rovente entra nella sua cassa toracica e insieme vi entra anche l’ombra scura del balcone. Come un grido.

Perché le grida silenziose entrano nei corpi invece di uscire.

Gli uomini nerovestiti salutano con un cenno del capo. Eva galleggia. Anche la minuscola.

Sono sospinte verso l’alto, entrambe.

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“La minuscola” è stato scritto da mariasole ariot e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

La banda Hood, le cariche e le ruspe

Oggi La vera storia della Banda Hood esce nelle librerie… e noi ci ritroviamo a subire le cariche con cui polizia e carabinieri tentano di sgomberare il presidio del comitato Besta in difesa di 42 alberi al parco Don Bosco di Bologna. Dal primo mattino, sul nostro canale Telegram, abbiamo reso conto degli eventi man […]

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“La banda Hood, le cariche e le ruspe” è stato scritto da Wu Ming 4 e pubblicato su Giap.

L’università dia il diritto totale di parola a tutti

Davvero c’è un’emergenza nell’università italiana? Se c’è, è nella mancanza di un sostanziale diritto allo studio in termini di alloggi e servizi. È nella minaccia mortale che l’autonomia differenziata rappresenta per la libertà dell’università sancita dalla Costituzione. È nella costante intromissione di una politica che interviene sulle idee e sulle parole dei docenti chiedendo dimissioni, o censure. È nell’interferenza inaudita di ambasciate di Stati esteri che contattano direttamente i rettori con richieste e moniti.
È nella crescita abnorme delle università telematiche, macchine di profitto capaci di assicurarsi l’indulgenza della politica verso l’applicazione di controlli e valutazioni ai quali sono invece sottoposti gli atenei pubblici: con la conseguenza che Pegaso sta superando la Sapienza per iscritti, diventando il primo ateneo d’Europa, in un ben triste primato italiano.

Non vedo, invece, alcuna emergenza nelle manifestazioni per Gaza che in queste settimane attraversano le nostre comunità accademiche. Le studentesse e gli studenti dicono, anzi gridano, cose che si possono condividere o meno. Io, per esempio, non condivido affatto la richiesta di boicottare le università israeliane, come non condivisi (e non applicai) quella governativa di fare altrettanto con le università russe. Ma non perché abbia alcuna simpatia per i governi di Netanyahu e di Putin: al contrario, perché le università di quei Paesi sono fra i pochi luoghi in cui si coltiva un vitale dissenso. Condivido, invece, la richiesta di ‘smilitarizzare’ le università italiane. In conferenza dei rettori votai contro la collaborazione con MedOr (la fondazione di Leonardo presieduta da Marco Minniti), e credo che nessun rettore dovrebbe sedere nel suo consiglio scientifico. Nell’aula magna della mia università abbiamo scritto una frase di Virginia Woolf: “E poi, cosa si dovrà insegnare nell’università nuova? Certo non l’arte di dominare sugli altri… di uccidere… ma l’arte dei rapporti umani, l’arte di comprendere la vita e la mente degli altri”. E il nostro Codice Etico dice che “nessuna ricerca di chi lavora e studia all’Università e nessun posto di insegnamento possono essere finanziati da imprese o fondazioni legate alla produzione e vendita di armi”.

Ma il punto non è essere d’accordo o meno con ciò che dicono le studentesse e gli studenti: è permettere loro di dirlo. I governi delle università devono avere l’intelligenza di costruire più spazi di libertà, in modo che a nessuno (con l’eccezione, imposta dalla Costituzione, di chi si professi fascista) venga negato il diritto di parlare, ma anzi tutti possano farlo: esemplare, in questo senso, il Senato accademico aperto voluto dal rettore di Pisa Riccardo Zucchi, che in otto ore ha dato tribuna e ascolto alle più diverse opinioni su Gaza e Israele. Quando le studentesse e gli studenti provano (sbagliando) a togliere la parola a personaggi mediatici invitati nelle università (secondo una prassi sulla quale dovremmo interrogarci), come si fa a non vedere che una generazione senza voce sta contestando chi, invece, può parlare ovunque? Perché è in fondo questo che chiedono: poter parlare, essere ascoltati. Dovremmo preoccuparci se non lo facessero, di fronte all’enormità del massacro di Gaza e alle complicità ipocrite dell’Occidente. Semmai, dovremmo interrogarci sui limiti della capacità di argomentare che vengono dolorosamente a galla in questa ondata di proteste: ma qui siamo noi professori a doverci battere il petto, per aver supinamente accettato un modello universitario assai più dedito a formare un disciplinato ‘capitale umano’, che non ad alimentare un solido e attrezzato pensiero critico.

Le università devono rimanere luoghi in cui si garantisce a tutti e a tutte la massima libertà di parola. E bisogna resistere al rischio (o al disegno) per cui la creazione a tavolino di una emergenza sia pretesto e legittimazione di qualunque forma di irregimentazione poliziesca, o di controllo politico. Perché è dall’alto, e non già dal basso, che sono sempre arrivate, in ogni Paese, le vere e più concrete minacce alla libertà delle università: la quale è uno dei termometri più sensibili della libertà tutta di un Paese.

Di fronte alla repressione giudiziaria delle proteste studentesche della metà degli anni Sessanta, quell’uomo misurato e mite che era Alessandro Galante Garrone scrisse: “Cerchiamo un po’ tutti di non inaridire, alla fonte, la sincerità dei nostri giovani, di rispettarne la dignità, di non indurli a una opportunistica cautela, di cui hanno già fin troppi esempi intorno a sé. Lasciamoli dire, senza veli, quello che pensano. Le manette, le museruole, le vessazioni grandi o piccole (come un tempo i biglietti della confessione) non possono che fare del male”. Parole sagge: ancora oggi perfetto manifesto di una università veramente libera.

(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano)

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“L’università dia il diritto totale di parola a tutti” è stato scritto da Tomaso Montanari e pubblicato su ROARS.

Il vecchio col bastone

di Giorgio Mascitelli

In occasione del centenario della nascita dello scrittore, la Fondazione Arnaldo Pomodoro pubblica un inedito di Francesco Leonetti (Il vecchio col bastone, a cura di Marco Rustioni, Milano, 2024, euro 10). Il volume è aperto da un’introduzione del curatore, si chiude con una postfazione dell’antropologa Aurora Donzelli, nipote di Leonetti, e riporta una copia fotostatica del quaderno originale da cui è stato tratto l’inedito. Il testo è un racconto incompleto suddiviso in tre paragrafi del quale abbiamo un io narrante di età avanzata, che dovrebbe rispondere al nome di Franco Bissone, il quale si rivolge a un amico coetaneo di nome Leonetti per interpretare la realtà in cui viviamo e quest’ultimo gli fa dono di alcune poesie dedicate a Eleonora Fiorani, che effettivamente  seguono e si inseriscono nella terza sezione del testo.

Tema principale della scrittura è lo stretto legame tra lo sfacelo del corpo e quello della società o piuttosto del mondo, con le movenze stilistiche tipiche dell’idioletto leonettiano, nel quale una sintassi ipotattica che descrive il quotidiano straniandolo viene illuminata da improvvise formule di rigorosa definizione o, addirittura, autopercezione teorica. Del resto questa stretta connessione tra dato biografico e riflessione teorica generale è una delle cifre anche delle opere più importanti di narrativa e poesia. Qui è evidente il tema ecologico: la sconfitta del progetto rivoluzionario della modernità non è semplicemente la sconfitta di un modello società, ma della specie stessa (“rendiamoci conto di tutti gli aspetti allegri, vitali, solo suoi ( del mondo), pur se siamo falliti come specie: si va in auto, non coi piedi;” p.37). Analogamente nelle poesie domina il rimpianto per l’albero (“Perché non sono un albero nel bosco?”, p.39) e l’orrore per la città, ma anche tale contrapposizione è sempre declinata leonettianamente con rigore materialistico, senza nessuna indulgenza all’idillio.

Marco Rustioni colloca il testo in questione, con argomenti inoppugnabili, nel 2007 circa quindi durante l’ultima fase della vita dell’artista che è mancato nel 2017 e ne riscontra affinità con la produzione di poco anteriore, in particolare “l’invariante del sogno” volta a “stabilire un contatto con la dimensione storico-sociale” e “la natura miscellanea ed enciclopedica della narrazione, che appare destinata più a una funzione paradigmatica che finzionale”. Di grande interesse anche le considerazioni che Aurora Donzelli rivolge alla scelta di riprodurre fotostaticamente i quaderni di Leonetti, che diventano una riproduzione almeno parziale del “ritmo del suo pensiero”, e in qualche modo ci impongono una riflessione di fronte allo scarto tra materialità dell’atto scrittorio e sua normalizzazione tipografica, divenuta seconda natura.

Più in generale questo volume ha il merito di riproporre alla nostra attenzione la figura di uno dei più interessanti e radicali interpreti del secondo Novecento, che ha rappresentato un modo di intendere la funzione intellettuale e letteraria come pungolo al dibattito culturale e alle critica sociale e politica; del resto quando la critica parla di Leonetti come l’uomo delle riviste (da Officina negli anni Cinquanta fino a Campo negli anni Novanta), allude con altre parole alla realizzazione tramite la sua lunga esperienza di redattore di riviste di questa prassi, che diventa parte concreta della sua opera letteraria. Il fatto che oggi una tale traiettoria di vita e di opere, se paragonata alle prescrizioni standard odierne per l’attività letteraria, possa sembrare esotica, è una misura eloquente della provincializzazione della nostra cultura.

 

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“Il vecchio col bastone” è stato scritto da Giorgio Mascitelli e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Tre teste

di Max Mauro

Come si fa a tagliare una testa?

Vorrei porgli questa domanda, ma dubito avrebbe una risposta da darmi. No, una risposta probabilmente l’avrebbe, ma sarebbe un’invenzione, un crudele gioco di immaginazione. Lui non ha mai tagliato una testa, ne sono sicuro. Come potrei essere seduto al tavolo con un tagliatore di teste? Così voglio credere, ma chi può assicurarmi del contrario?

La sua è una storia inventata, almeno in parte, come tutte quelle che raccolgo. Anche la mia lo è, ne sono cosciente. Tutti raccontiamo qualcosa che non ci appartiene, ricordi di altri, parenti, amici o perfetti sconosciuti incontrati sul tram o scoperti nei libri. Ricordi così limpidi e intensi da offuscare i nostri. Raccogliamo emozioni con un setaccio bucherellato e le attacchiamo malamente una all’altra come pezzi di plastilina rinsecchiti illudendoci di farne dei ricordi personali. Qual è la parte inventata e qual è quella vera?

Però la testa tagliata.

Non posso fare a meno di pensare a quelle tre teste allineate sul terrazzo del carcere a pochi metri di distanza da dove si trovava la mia, di testa, con annesso il corpo, appena alcuni giorni prima. Tre teste. Sono allineate in bella vista come fossero torte a un concorso di cucina. Tre terrificanti torte tonde.

Il viso, gli occhi, la bocca, non c’è bisogno di altro. Il resto è accessorio. E’ sparso sul terrazzo, un carnaio alla rinfusa. Due braccia, o spezzoni di braccia. Una scarpa. Una scarpa da trekking alta, di piede destro, come se ne vedono tante sui marciapiedi di Caracas, di gente frettolosa e distante. La scarpa è macchiata di sangue e contiene un piede attaccato a un pezzo di tibia. Accanto alla scarpa col piede dentro c’è un corpo, un corpo morto, ovviamente, quasi intero. Quasi. La testa è altrove. E sangue ovunque. Ma non attorno alle teste. Quelle no. Sono esposte in un angolo. Ripulite.

Gli occhi di tutte e tre le teste sono semichiusi. In una, la prima a destra, un viso tozzo, tondo e carnoso con capelli radi e ciglia folte, mi pare di scorgere uno sguardo di rassegnazione. E’ solo un’impressione. Che sguardo è possibile in una testa mozzata? Cosa avranno visto gli occhi in quell’attimo che hanno smesso di vedere? Forse hanno visto il vuoto, magari un soffitto, perché chi ha tagliato la testa agiva da dietro e voleva evitare di essere visto, come in quel quadro di Caravaggio, non quello con la testa del pittore, un altro, memoria aiutami tu.

E’ stato un machete vero o un coltellaccio ottenuto dalle gambe del letto di ferro affilato sul muro? Probabilmente le teste sono state tagliate dopo che gli uomini erano stati uccisi. Chi le ha allineate per fotografarle sapeva che qualcuno, un me qualsiasi, un me sconvolto, vedendo la foto ne sarebbe stato turbato al punto da non poter pensare ad altro e si sarebbe fatto molte domande.

Come si fa a tagliare una testa? Non come avviene il taglio, un atto di banale macelleria di cui non sono completamente ignaro, colmo dei ricordi di polli, tacchini e maiali visti uccidere a casa dei nonni durante la mia lontana infanzia. No, mi chiedo, perché avviene il taglio? Cosa spinge qualcuno a tagliare una testa, e ad esporla alla macchina fotografica, invece di accontentarsi della semplice, banale, uccisione di un essere umano?

La testa a sinistra è quella di un ragazzo, un giovane uomo coi capelli rasati e i tratti meticci. Ha un taglio profondo sulla fronte, poco sotto l’attaccatura dei capelli. Il taglio sembra di plastica perché è intonso come un marchio disegnato. Dove è finito il sangue? Comincio a ragionare come se tutto questo fosse normale e una testa mozzata potesse essere analizzata come si fa con un’immagine tratta da un film. O un’opera d’arte.

Il taglio mi ricorda un quadro. Di chi era? La mia memoria è fratta. Lucio Fontana, ecco, era lui. Il taglio di Lucio Fontana visto al museo di arte contemporanea, proprio quello di Caracas, questa mia città transeunte. Ecco cosa mi ricorda il taglio sulla fronte di quel ragazzo, anzi della sua testa. Un taglio chiaro, preciso, pulito. Ma quelli di Fontana erano tagli fatti sulla tela di quadri destinati a un museo o una galleria d’arte, e chi li osserva oggi si chiede cosa vogliono dire, perché li avrà fatti. Questo taglio è fatto sulla carne, su di un corpo spezzato, svuotato, spento. Eppure le domande per me sono le stesse. Cosa vorrà dire, perché l’hanno fatto.

Le tre teste ora, nella foto, sono solo un ornamento sulla terrazza che fa da tetto al carcere. Anche se non si trovano più lì e sono state portate altrove, la foto le rende parte integrante di quello spazio. Dopo quella foto non c’è più una terrazza senza teste. Non esiste più quel luogo che io ho visitato in incognito, ignaro di quello che vi sarebbe accaduto poco dopo, quando la rivolta sarebbe scoppiata.

“Copia queste foto nel tuo computer e poi ridammi la pendrive, è l’unica che ho”. Così mi disse il mio interlocutore al nostro primo incontro. E ora lo rivedo per restituirgli la pendrive. Mi sembra coli sangue, la pendrive. Le mie mani sono sporche, sporche di sangue. Mi sento stupido, ho paura di me stesso.

L. parla come se volesse aiutarmi, aiutarmi a capire in che luogo sono finito. Ha un modo nervoso di raccontare e raccontarsi. Io non so cosa vuole in cambio da me, credo sia solo bisogno di attenzione, la sua, o forse la ricerca di un contatto che potrebbe servirgli, prima o poi. Ho imparato dal prof K che in questa città senza contatti sei perduto. Io raccolgo storie e le scrivo, finché me lo permettono. I contatti sono importanti anche per me e L. è un contatto prezioso perché mi porta dentro alla storia che più di altre cerco di ca(r)pire, quella del senso del mio trovarmi in questo luogo, così diverso da ogni altro in cui ho messo piede prima.

L. ha poco più di quarant’anni, gran parte dei quali li ha trascorsi in Italia, dove ha dei lembi di famiglia con i quali fatica a mantenersi in contatto. Un fisico snello e solido, il viso affusolato, i tratti scavati abbrustoliti dal sole. Con la cravatta e un vestito adatto potrebbe reggere la parte del direttore di banca, una piccola filiale di un piccolo centro di provincia del centro-Italia. Da alcuni anni la sua vita è il carcere in Venezuela, da poco è stato inserito in un regime di semi-libertà che gli permette di lavorare fuori per alcune ore al giorno e di rientrare solo per dormire. Il carcere non è un luogo separato dalla vita reale. E’ un crocevia di contraddizioni dove il fuori e il dentro si confondono negli spazi vissuti e nelle storie individuali dei detenuti. La violenza del carcere è solo una versione lievemente amplificata di quella che anima e travolge le vite reali. E’ questo che mi tormenta. Cosa mi dicono le teste mozzate sulla mia scelta di vita? Ma è una la scelta, la mia?

“Le decapitazioni sono frequenti. Ogni rivolta in carcere, che poi rivolta magari non è ma semplice guerra tra bande per il controllo del carcere, può finire così. Le guardie non intervengono perché tutto avviene nel carcere interno, un territorio ‘auto-gestito’ dai detenuti, dalle bande. Le guardie lasciano che i detenuti si scannino, che ci sia un vincitore, perché un vincitore c’è sempre, ed è quello che rimane in vita. Quando tutto è finito, loro entrano e scattano le foto, prima che arrivino gli inquirenti. Alcune le scattano anche i vincitori e le conservano per far vedere chi comanda. Le guardie le scattano per aver qualcosa da mostrare ai colleghi che non erano in turno quel giorno, o solo per farsi grandi davanti alle donne. Vogliono far vedere che quello è veramente un carcere violento e che gli assassini sono dei veri assassini pronti a tutto e loro sono i guardiani di questo mattatoio”.

Allungo la schiena per stendere i muscoli contratti dal racconto e dalla memoria delle immagini viste sul computer alcune ore prima e fissate a lungo, troppo a lungo. Le sedie di plastica unta su cui siamo seduti da più di un’ora non sono fatte per conversazioni prolungate. Sono sedie da campeggio, come del resto i tavolini coperti malamente con una tovaglia gommata a quadretti, con macchie sparse qua e là. Il bar si chiama Inter ma non ha nulla di calcistico. Quando venne aperto probabilmente in questa zona vivevano degli immigrati italiani, ma negli anni si sono spostati altrove, in zone più “sicure” della citta, o sono rientrati in Italia. Qualcuno mi ha detto che i gestori del bar sono portoghesi, ma altri mi hanno detto di non credergli. Più d’uno mi ha detto di dubitare di tutto, sempre, è la regola per sopravvivere in questa città, ma non so se sono in grado, se sono all’altezza di questo compito. Sono nato innocente.

Dietro il banco della panetteria-bar si affollano varie giovani figure e mi paiono indistinguibili dalle migliaia che incrocio nelle strade. Se qualcosa di europeo, un’idea ingenua e balorda di alterità continentale, c’era in loro, è andato perso qualche decennio fa. Nulla è rimasto nei movimenti e negli sguardi di questi ragazzi che possa ricordarmi l’Europa.

Il tavolino è all’interno della sala ma la parete che dà sulla strada è una semplice saracinesca che è aperta. E’ sempre aperta, almeno fino alle cinque, cinque e mezza, quando il bar chiude, e con esso ogni attività nei dintorni. A quell’ora tutti spariscono rapidamente perché si avvicina il tramonto.

Sul tavolo, una birra, la mia, bevuta per metà e ormai calda, e una coca cola, quella di L.. “Non bevo alcolici durante il giorno, cerco di bere meno possibile”. Forse in lui c’è un passato di dipendenza.

“Io tra un po’ devo andare”, aggiunge tradendo una certa ansia. “Ho il rientro alle sette e prima devo passare a prendere una borsa da casa della mia donna”. Invece continuiamo a parlare e il racconto si ripete, come se ci fosse un bisogno catartico di liberarsi del vissuto e rincorrerlo a parole fosse l’unica soluzione.

Ha scontato tre anni e gliene restano altri sei, ma grazie ai contatti che ha creato fuori e dentro il carcere conta di averne abbuonati alcuni. Sogna l’estradizione in Italia, ma quella è più difficile da ottenere. Come lui, condannati per traffico di droga, ce ne sono a decine di italiani nel paese caraibico. E tutti hanno ottime ragioni per dirsi innocenti. Tutti viaggiavano per piacere o vacanza e si sono ritrovati, a loro insaputa, con qualche chilo di cocaina nella valigia.

Io credo a tutti, ho sempre creduto a tutti, fin da bambino. Il mondo adulto a cui appartengo mi vuole convincere a diffidare delle storie, soprattutto di quelle straordinarie. Eppure io non ce la faccio, continuo a credere alle persone. Chi sono io per dubitare delle loro vite? Io sono solo un umile raccoglitore di storie. Non sta a me giudicarle.

Ma le teste mozzate?

Mentre L. ripete per l’ennesima volta il racconto della sua vita io penso alle teste mozzate. Non sono invenzioni. Ho salvato le foto sul mio computer, che ora è sporco di sangue. Fisso chi me le ha date, quelle foto; la sua mano destra sfiora il bicchiere di coca cola quasi vuoto, il dito indice si avvicina al bordo, un movimento incosciente. E’ forse lo stesso dito che ha premuto il tasto della macchina fotografica sul tetto del carcere? Non oso chiederglielo. Una domanda di troppo. Fuori fa buio ed è meglio che mi avvii verso casa.

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“Tre teste” è stato scritto da davide orecchio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Acque alte

di Cristiano Dorigo

Il pezzo che segue è tratto da “Acque alte” (Meligrana Editore, 2024), di Cristiano Dorigo, per maggiori informazioni si veda la nota alla fine (NdR)

Come e quando ho imparato il prima e il dopo”
“Quando ero bambina mi divertivo tanto con mamma e papà, avevo una spensieratezza infinita, come tutti i bambini. Quello per me è il periodo dell’innocenza, delle corse nei campi, lungo l’argine del fiume, dello sguardo pieno di stupore dinnanzi alla natura: ero libera come un cucciolo d’animale, in sintonia con l’ambiente che mi circondava.
Questa era la mia vita finché stavo nei paraggi di casa, nella cittadina che mi pareva grande come un universo.
A volte mi capitava di accompagnare mamma giù al Sud dai suoi parenti. Mio padre, per una storia che non si è mai capita – so solo che riguardava una sorta di pegno con amici degli amici con i quali aveva un debito di qualche tipo – era andato a prendersela, l’aveva poi sposata pur non essendo più illibata, un’onta non rimediabile in quegli anni, in certo meridione rurale. Su al Nord invece, ci si poteva già chiudere un occhio su queste faccende d’altri tempi e latitudini, in cambio di lauta mancia al reverendo parroco.
Quelle incursioni, oltre ai viaggi interminabili mi piacevano, come fossero un momento tra parentesi fra due mondi così diversi. Li percorrevamo a volte in auto con papà, ma più spesso in treno, e mi rimaneva sempre impresso qualcosa, particolari a volte insignificanti: ricordo, ad esempio, la prima volta che vidi le vecchie andare in giro vestite tutte di nero, col caldo che faceva in paese, come condannate a un eterno lutto.
Solo le donne, gli uomini no.
Mia madre giù cambiava tono, umore, modo di esprimersi, come avesse introiettato un precetto che le imponeva di stare il più possibile in silenzio. Quando apriva bocca era per rispondere a una domanda, e lo faceva con quel dialetto faticoso, che quasi non capivo; ci ho messo diversi viaggi a digerirlo, ma non sono mai riuscita a parlarlo, se non qualche parolaccia, frequentando bambini e ragazzi, che poi sentivo ripetere a mia madre, una volta tornati a casa, esclamare ad alta voce quando si arrabbiava.
Al ritorno il viaggio sembrava più breve, come se andata e ritorno corrispondessero a salita e discesa; notavo in mia madre una certa frenesia di allontanarsi da quei luoghi, e al contempo mi sembrava che una malinconia sottile le velasse gli occhi, che cercava di nascondere al mio sguardo.
Tornate a casa con papà ricominciava a ridere, a usare il solito linguaggio sguaiato, a guardare quei film che a me all’inizio parevano strani, che facevano vedere anche a mia sorella e ai miei fratelli, tutti insieme, e che soltanto da grande sono riuscita a distinguerli da quelli normali.
E c’era anche lui, il figlio di mamma nato al sud, molto più grande di noi, lo stigma della vergogna.  Dopo quei film veniva sempre a trovarci, e a pretendere qualcosa che da bambina mi era sembrato normale benché fosse una scocciatura, una consuetudine noiosa come pettinarsi o farsi la doccia o prendere un ceffone dopo una marachella; a scuola mi ero confrontata con le compagne di classe e avevo capito che per le mie amiche non era normale, anzi, era proibito anche soltanto parlarne. Mentre io raccontavo, mi guardavano a occhi spalancati, chi con curiosità, chi con smorfie di sgomento, chi ancora con la mano davanti alla bocca a coprire spavento o ridarella, e io ancora non capivo, all’inizio: mi dicevo ma cosa ci sarà mai di strano? boh.
Mia madre rideva sempre, anche quando andavo a dirglielo: ah ah perché non è divertente Dalia? Ma dài, se proprio non ti piace, pensa che è solo un gioco, e che dopo lui se ne va e ti lascia stare. 
Mamma non capiva che a me non piaceva, anzi non sopportavo il prima di quel dopo, o se lo capiva, lo riteneva una tara ereditaria che tocca a ogni femmina, benché lei fosse riuscita, con ogni evidenza, a farseli andar bene entrambi: il prima e anche il dopo. .
E poi col tempo era diventata abitudine. E che sarà mai, mi dicevo: basta concentrarsi, convincersi che il dopo arriva sempre.
Ed è così che si fa con gli uomini, no? Se durante il prima si pensa che poi c’è il dopo, il gioco è fatto.
Ed è così che tanti uomini mi volevano un poco di bene ciascuno, e tanti poco, sommati, magari potevano diventare tanto; ho imparato così l’aritmetica, che pure mi confondeva: mettendo insieme tante cose, tante era più di poche.  
Tanto affetto formato da tanti piccoli poco affetti. Come nelle canzoni, nei film dove due si amavano tanto, solo in modo diverso, variabile: là era tutto in blocco, un amore grande; nel mio caso era una somma di piccoli amori.
Ma nessuno mi capiva e tutti pensavano male di me, mi giudicavano; e allora io andavo in confusione e facevo più guai – guai non per la considerazione che ne avevo io, ma per quelli che giudicavano: io mi ponevo sempre dopo con il pensiero, il quale veniva prima anticipato dall’azione.
Sapessi quanto mi è costato tutto questo: nessun uomo restava con me, le ragazze mi disprezzavano, dicevano che io la davo via a tutti.
Ma solo in questo modo mi sentivo viva.
Il resto del tempo era solo confusione.

Quando Dalia era arrivata in appartamento andava ancora a scuola, non aveva mai esperito un rapporto con un uomo adulto che non fosse come quelli che aveva raccontato.
Ma una volta capito che qui non serviva il prima e il dopo, che io non giudicavo, che rispondevo quando chiamava, che potevo ascoltare quasi tutto anche se certe volte mi faceva tremare di tenerezza e di rabbia, che potevo aiutarla a spingere la fatica durante quelle salite, siamo riusciti a fare un pezzo di strada insieme.
Prima da vicino vicino, poi un po’ più lontano.
Poi c’è stato il periodo intercorso tra la fine della scuola, i tirocini, le giornate di prova, i tentativi vari ed eventuali.
Quando finalmente è arrivato il lavoro vero, quello con uno stipendio, tutto è cambiato.
Allora era vero che lei e la normalità potevano stare insieme, o almeno provare a convivere per un po’.
Ancora tanti alti e bassi, rotonde, incroci, passaggi a livello; respira Dalia, prendi fiato.
Ok, si riparte.
Ci riprova, ce la mette tutta: anche per lei arriva un ragazzo che le offre una vita normale, mettono al mondo una bambina, tutto fila liscio.
Per un po’.
Poi ricomincia a fare quello che Dalia ha sempre fatto: scusa, scusa non lo farò più.
E si prova a ripartire.
Il tira e molla però ora non è più solo tra adulti, c’è una bambina, una suocera, incomprensioni, agiti, tradimenti, scontri, lotte.
Che fatica la vita.
Sempre in salita.
Chissà cosa ci sarà dietro quella curva a gomito.
C’è un prima, poi ci sarà un dopo.
Prima o dopo ci si rivede, Dalia.

 

NdR Questo pezzo è tratto da “Acque alte” edito nella collana “Priamo” di Meligrana Editore (2024), di Cristiano Dorigo, che si ispira alla sua lunga esperienza di operatore sociale a Venezia. Questa la presentazione nel risvolto dicopertina del libro:

Venezia è invasa dall’acqua alta. Le previsioni dicono che potrebbe durare ininterrottamente per giorni e notti. Il protagonista, chiuso in casa, isolato, decide che la clausura potrebbe essere l’occasione per scrivere il libro che troppo a lungo ha trascurato. Avrebbe voluto raccontare le storie delle ragazze incontrate durante la sua esperienza professionale di educatore, ma la chiusura forzata lo trasforma, anche, in un diario intimo dei giorni e delle notti trascorse nel suo piccolo appartamento. Il libro è formato da sette parti, suddivise a loro volta fra “giorno” e “notte”, che contengono ciascuna un racconto della giornata, un episodio delle “sue ragazze” – tutte chiamate con un nome di fiore per mantenerne l’anonimato –, e una notte in cui rievoca episodi della propria vita emotiva. I temi affrontati sono quelli del disagio sociale, della morte, dell’introspezione e elaborazione del lutto. E della possibilità di rinascere, ricominciare, per come si è, per come si può.

 

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“Acque alte” è stato scritto da giacomo sartori e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Fuori è un bel giorno di sole

di Roberto Addeo

con una introduzione di Antonio Spagnuolo

[Sul piano espressivo una frantumazione del reale, in cui si accumulano i simboli, le immagini, le folgorazioni, i germogli tratti dal subcosciente ed emergenti con una certa violenza, improvvisa e spesso affascinante. Il vissuto personale del poeta diventa il mormorio con voce pacata, morbida, suadente. “Annusa una disciplina” per comprendere tutto ciò che accade nella storia, qualcosa che attacca la corteccia nell’ansia di saziare il sogno, che civilmente si collega ad eventi imprevisti. Richiama alla ribalta personaggi che hanno lasciato un segno tra la cornice di un confronto o degli automatismi istintivi che riparano le crepe del conflitto. Roberto cuce e ricuce incandescenze adagiando il suo intimo sospiro allo sguardo dell’io teso verso il razionale, e governa le leggi del linguaggio con una maestria tutta personale, da scrittore avvezzo al colloquio, al confronto, all’immaginazione. A volte alla ricerca del motto filosofico, del dolciastro
imperscrutabile, dell’azzardo verso il dicibile, della rapacità memoriale, come un raffinato che vede la propria persona riflessa in uno specchio, che è verso la consunzione, come una campana lesionata che batte ancora i suoi colpi senza indugi.
Lavorare per la poesia è scavare nel patrimonio culturale, per cercare di aggregare sentimenti e fulminazioni, decantando emozioni e vincolandosi alle articolazioni linguistiche, nel tempo e nell’affanno. E la parola cerca di contenere il tutto, sufficiente a definire compiutamente la massa delle emozioni che un artista ha dentro. “oggi mi troveranno disponibile/ come il rasoio del barbiere/ sarà una cosa piacevole, altroché/ spalancherò le forze e ridurrò in granelle/ tutti i loro sottopancia/ stirpi di mezzi uomini che hanno fatto bingo/ il giorno in cui vennero al mondo/ mentre a me tocca la sorte del cane in chiesa/ il mio odio per loro è il lenzuolo di Laerto/ (Laerte o come si chiama)” Nella solitudine si insinua una luce solare che offre una euritmica musicalità dei nessi una combinazione che simboleggia il percorso di una via accidentata verso la ribellione per la sorte o le sorti che ci accompagnano. La rappresentazione del dolore, o dell’angoscia, anche se calati in una precisa realtà contingente, diventa molto efficace con la descrizione di scene esaltative, anche se sfiorando di sorpresa lo sfondo politico. Ad un tratto del libro la versificazione improvvisamente diviene quasi prosa, in pagine che hanno l’aspetto del racconto, introducendo avvenimenti o situazioni “nel breve tempo di uno specchietto acqueo” o per “una forza nell’imbastitura del ghiaccio”. Compare un certo De Girolamo senior che “faceva sul serio” tra magagne ed intrallazzi, realizzando una narrazione a saltelli nella quale si svincola una fusione di simbolo e mottetto. Non c’è confusione negli incarnati legata ai meri interessi di un elemento sociale, ma una consapevole identificazione del canto per esaltazione enfatica o retorica. “Anche se De Girolamo junior fu tra le grandi sorprese della mia vita,/ l’avevo sempre visto come uno di quelli che se la tirano e poi la sua voce/ in lega metallica credo per via dell’apparecchio non mi aiutava nella stima,/ e invece si dimostrò la personcina più attaccata e servizievole che ricordi,/ un’ora prima mi ero fermato sotto l’attaccapanni con la sorellina…” Descrizioni che accarezzano la semplicità tipica di tanta accortezza, che da concezionale si piega ad un brusco risveglio, rivelatore di un quotidiano tutto da scoprire. La fiducia accarezza quei momenti in cui traballa il senso di equilibrio, tale da esprimersi in pacate combustioni di accelerazione. Tutto ciò che in poesia è sospeso tra l’emozione e l’intesa di attualità, tra le compromissioni possibili del divenire e la sintesi di manifestazioni fenomenologiche, tra i moduli razionalizzati e la rappresentazione dello spirituale, si concentra con grande vigore nella disponibilità di dialogare con il lettore. Questi a sua volta ascolta e cerca di inseguire quelle emozioni che il verso riesce a suscitare. Snodo decisivo di questo linguaggio è, per Roberto Addeo, la capacità di modulare i limiti della chiarezza e l’eccezionalità delle variegate suggestioni, tra sezionamento sperimentale e autentica rilevanza di certezze da consolidare.

A.S.]

Testi scelti

può darsi che il peggio sia già caduto
il suo spirito ha gravato su così tante emersioni
specchiato in un cerchio d’acqua
mi disse che avrebbe ereditato il mondo reale
e con l’ombra delle braccia, coperto ogni sogno
che avremmo dissotterrato un cuore tra le ceneri della verità
e che il vuoto è un fermaglio dietro l’orlo degli occhi
per fissare a ogni palpebra la sua ciocca di pianto
quando le infezioni galleggiano sulla marea diurna
attirate dall’ossame della purezza
e i muri del silenzio crollano
cola da una spina, la dolcezza del mio sguardo
dalle stagioni di caccia, la sessualità del sangue
e nelle macchie di memoria, così piovo dal nulla
ho ingoiato tutto il fragore di una tragedia
e lo stesso stato d’animo che fa marcire questo Paese
faccio il bagno in una tomba calda e dopo
mi vestirò a lutto sotto mentite spoglie
l’occhio puntato agli stormi in lega metallica
che fanno da guida a ciascun petalo buio
– poi mirerò la mia ombra di stella mai sorta
so unificare gli spasimi tra i denti
e annodare piccioli di speranza con la lingua
non sono nato dagli stessi drappi
avvelenato dalle loro canzonette
mi dimeno come un selvaggio ferito
in cerimoniali di suppurazione
la voce sepolta nella fanghiglia, leso
da tanta comicità
tutte le regge guardinghe intorno
e tavole botaniche a biasimarmi
analizzo vecchie pellicole incatenato al sofà
mentre sgranocchio detriti d’infinito
fasciato dalla stessa caligine che ingrossa le velature
del mio percorso ciondolante sull’abisso
fino alla resa dei conti
più dolce di un tormento
meno dura della coscienza
nel bene dei defunti, tra le menzioni perdute
porterò in pugno una fiaccola e un piede di porco
una causa comune
e sottobraccio, la mia coda di lacrime
imparando che ogni passo
è calpestare un sogno altrui
e che le fronde sui tralci sapevano dirmi perché
le aspirazioni vengono giù così trasparenti
ebbro di carenze
abbraccio gli altri fra i bordi di questa lesione
nei reclusori illuminati da feste
e rituali in cui non sarò mai benvenuto
colmerò bocche di fascino agli schiavi più remissivi
berrò pioggia gialla da mani bucate
preda dei sobborghi non ancora smossi
e l’inganno originale
parlerà di me alla frescura di un desiderio mai patito
alle corolle di prestanze sciolte
alle luci oltre la catena dei tetti
canterà le mie ossa
alle parole rinvenute sotto un manto di foglie

* * *

la diceria che più circolava in città
era quella di una mia presunta relazione
con una girovaga di nome Antonellina
consacrata alle spade e nelle notti di magra
massaggiatrice per addetti ai servizi di pulizia
impiegai una cosa come tre secondi
per risalire alla foce delle maldicenze
vale a dire uno sconosciuto dagli occhi bellissimi
che possedeva un fabbricato in riva al Trasimeno
il padre insegnante in diciassette corsi a ciclo unico
e che prima d’incontrarmi aveva avuto occhi bellissimi
nei giorni seguenti m’incaponii nella scrittura isterica
di un tomo da trecento e passa cartelle a duplice spazio
che una sera finì per sfuggirmi dalle dita
l’ho ritrovato un anno e mezzo fa tra i medicinali di Antonellina
e dopo averle chiesto cosa ne avesse fatto
capii che la sua calma non doveva essere solo il prodotto
della combustione di quei momenti, ma anche la fiducia
di persuadermi a non fare più cose del genere

* * *

benedici il sangue
che non hai perso.
bacia la bocca
che non ti risponde.
hai dato poco.
avuto meno.
traccia un lampo
sulla parete
che la tua vista
possa seguire
e chiamarlo subito
destino.
non hai amici
ma conosci un dolore.
non dare consigli
ma fa’ che le tue orme
brillino
come stelle polari.
benedici ogni lacrima
venuta giù
per dissetare
la tua natura
e offrire al tuo viso
la carezza
delle nubi.
benedici gli sguardi
che ti hanno scusato

___________

“Fuori è un bel giorno di sole” è stato scritto da daniele ventre e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Soldi soldi soldi

di Romano A. Fiocchi

Andrea De Alberti, La rimozione del conflitto, Industria & Letteratura, 2024.

A Pavia c’è una libreria speciale. Si chiama Il Delfino. Speciale perché è diventata il punto di ritrovo – oltre che dei lettori, come è logico che sia – di poeti, romanzieri, novellisti, giallisti. Non è una magia, è il risultato dell’impegno trentennale di tre librai (Andrea Grisi, Guido Affini, Andrea Bordone) che sono riusciti a creare una comunità di ‘amici dei libri’. Accanto agli scaffali, mescolati tra i frequentatori abituali, trovi a chiacchierare poeti come Andrea De Alberti e Dario Bertini, narratori come Piersandro Pallavicini e Giorgio Scianna, giallisti come Alessandro Reali, autori eclettici come Walter Vai e Davide Ferrari (tra l’altro attore e regista). Trovavi, prima della sua recente e prematura scomparsa, appena cinquantasettenne, anche la bravissima scrittrice italo-somala Kaha Mohamed Aden.

È dunque in questo ‘habitat librario’ che Andrea De Alberti ha presentato, il 17 febbraio scorso, la sua ultima raccolta di liriche La rimozione del conflitto. Diciamolo subito: la rimozione psicologica e il conflitto sociale con i soldi. Si tratta di un libretto di trenta composizioni, suddiviso in cinque parti, a loro volta costituite da un numero variabile di liriche. Tecnicamente si sviluppa come un poema sinfonico con motivi che si rincorrono, ossia con immagini che affiorano e riaffiorano a distanza di pagine, che passano da una lirica all’altra, il tutto ‘narrato’ per lo più in terza persona senza esplicitare il nome del soggetto. Ed è incredibile come De Alberti riesca ad amalgamare ironia e visione poetica, concetti filosofici e semplicità lessicali. Il suo è un linguaggio che si affina sempre di più da una pubblicazione all’altra, a cominciare dalle prime raccolte: Solo buone notizie, 2007, Basta che io non ci sia, 2010, Litalìa, 2011, sino al balzo di qualità delle sillogi Dall’interno della specie (Einaudi, 2017) e La cospirazione dei tarli. L’universo di Don Chisciotte (Interlinea, 2019).

Poema sinfonico, suggerivo, inteso quale intreccio di liriche di varie misure dove le parole si ripetono come motivi musicali, ogni volta modellati diversamente e sempre più vicini al perfezionamento dell’immagine. Ad esempio l’esergo «Avrei potuto fare di più nella vita / che portare persone su un carretto di legno» in una lirica successiva diventa «Un carretto di legno a volte ci svela / il nostro posto nel mondo». Oppure l’espressione «Il denaro è un incidente» ritorna più avanti come «Il denaro è un incidente di percorso che mina la speranza». O addirittura, ci sono versi che si ripetono inizialmente pari pari e poi evolvono in ramificazioni impreviste:

L’adolescenza è in parte economica e in parte emotiva,

ci ricordiamo l’odore dei soldi

e l’effettiva disuguaglianza tra un abbraccio e una mancia.

La profondità dell’abitare è perlustrata da un detective,

la trincea da una talpa.

Nella penultima lirica si ripropone in questo modo:

L’adolescenza è in parte economica e in parte emotiva,

ci ricordiamo l’odore dei soldi,

l’effettiva disuguaglianza tra un abbraccio e una mancia.

L’adolescenza rappresenta la profondità del nostro abitare,

la trincea, l’attaccamento alla danza mascherata;

Oppure ancora, procedendo sempre per allusioni, De Alberti incastra pezzi di associazioni di idee:

Ha paura a guidare,

odia le code delle mucche,

gli piacciono le facce delle banconote,

il muso del maiale.

Tutto ciò per dire della tecnica poetica. Che un verso semplifica così: «Probabilmente una di queste cose è collegata a un’altra». Non senza ironia: «Probabilmente».

De Alberti nomina Freud, Auden, sant’Agostino, Hegel, Céline, il «carissimo» Hölderlin, allude a Leopardi scrivendo «L’immaginazione poteva superare una siepe / o un esame di coscienza», evoca il verso di Montale «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» attraverso una citazione velata: «ciò che vogliamo ma non ciò che sarà». Citazioni colte, dunque, che fanno da contrasto al mondo semplice e primitivo della campagna e dell’osteria-trattoria dei nonni dove De Alberti ha trascorso l’infanzia: i pesci nei fossi, i grilli, le libellule, le lumache, la «castità disarmante» delle nuvole, le mucche, il maiale, la stalla, l’orto, la legnaia, il fienile, i campi, le marcite, le risaie con l’acqua verdastra. Un mondo dove «tutto era gratis». Ma anche citazioni ironiche, come «strofina una lampada con un calzino», perché sa che il genio non uscirà mai. Citazioni che, grazie a una scrittura stratificata, non devono essere necessariamente decodificate: la lettura di queste poesie è su più piani, come se fosse un misto di poesia colta e di cronaca da giornale.

Andrea De Alberti e Flavio Santi

Che conta, in fondo, è l’argomento che De Alberti vuole trattare: i soldi in quanto fenomeno sociale. I soldi in quanto componente inevitabile del carattere dell’Homo sapiens, perché è lo stesso che abitava le grotte e le decorava. I soldi nella visione di un poeta. De Alberti non giudica, tutt’al più fa dell’ironia sul conflitto soldi-individuo, soldi-società, soldi-potere. Lui stesso è consapevole di vivere un rapporto conflittuale con i soldi sin dall’infanzia («Usciva dal cassetto odore di caffè, minestrone e mille lire, tutto insieme»). Ma né li ama né li odia, cerca semplicemente di capirli esaminando ogni loro sfumatura: «I soldi fanno la bava», «I soldi invece attraversano la vita», «I soldi fanno l’infanzia luminosa», «la mancanza di soldi come un attacco di angina», «Tutto ha propriamente inizio / quando per la prima volta ci danno i soldi per le caramelle», «Con i soldi il nulla viene incessantemente / convertito in tutto, / per trasformare il bene nel niente che ci serve».

Il concetto dei soldi intensifica la sua presenza (anche con la formula «denaro») nella terzultima e nella penultima lirica: Il denaro trasfigura le cose e Da ragazzi pensiamo le cose in grande, che per certi aspetti, dal punto di vista tematico, rappresentano il fulcro della raccolta. Di seguito un frammento, tra i passi più suggestivi:

I matti non pensano mai al denaro

anche se lo trovano e lo raccolgono sul marciapiede;

il denaro in questi casi può essere un mozzicone

di sigaretta usata,

una cosa da riciclare;

è la cosa che nessuno vede perché evidente,

perché ci si deve inginocchiare per raccoglierla.

Le persone chiedono in ginocchio il denaro;

quando vediamo una persona

che s’inginocchia ci viene pietà.

La pietà è nemica del denaro

perché ci fa perdere l’obiettivo della nostra ricerca

facendoci guardare verso il basso la persona

che abbiamo davanti;

per avere denaro bisogna sempre guardare in alto,

ma in alto crescono i frutti dell’albero della cuccagna.

Le parole «soldi» e «denaro» si trasformano talvolta in «Banca» (spesso scritto con l’iniziale maiuscola), che ha un valore semantico non dissimile. Ma la banca di De Alberti è anche un luogo della mente, fantastico e mitologico: «La Banca era la nostra grotta di Altamira», «L’osteria era la Banca dell’infanzia».

C’è poi il motivo della scomparsa del padre, il suo ricovero al Policlinico, che alla fine ci riconduce al tema dei soldi: «La Banca gli fa interrogare il malato / controlla gli stati epilettici del denaro, / la distanza che separa un avvenimento / da un versamento». La figura paterna torna dopo una decina di pagine in una bellissima lirica:

Scrive di notte una lettera:

Caro papà,

forse ti sei perso il mio periodo migliore,

è cambiato tutto quel giorno in cui alla televisione,

per caso, passarono la finale dei duecento,

Mennea a Mosca nel 1980 e la voce del telecronista:

recupera recupera recupera recupera.

In questi anni per me tu sei stato

quel telecronista.

(La raccolta La rimozione del conflitto è uscita per i tipi di Industria & Letteratura, qui il sito Internet)

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“Soldi soldi soldi” è stato scritto da gianni biondillo e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

La follia dei numeri #2

di Antonio Sparzani

Un buon numero di “radici” poco matematiche

La follia dei numeri, frutto forse dei deliri o forse delle intelligenze dei matematici, non è certo tutta qui. Perché una volta che si è capito che esistono – sempre in quel senso speciale del verbo “esistere” – dei numeri decimali che hanno infinite cifre non nulle dopo la virgola, che però hanno la caratteristica che la parte dopo la virgola è formata, da un certo punto in poi, solo da gruppetti ripetitivi di cifre, cioè i numeri decimali periodici, la domanda che arriva ovvia è: ma se io scrivo un numero decimale che ha dopo la virgola infinite cifre senza alcun gruppetto che si ripeta, cosa ottengo? Intanto ho fatto male a dire “scrivo” perché nessuno al mondo è in grado di far ciò; diciamo invece “penso”? Peggio ancora, come faccio a pensare infinite cifre, neppure Zeus Olimpio ne sarebbe stato capace, e allora? Perché ci sembrava possibile pensare a un numero decimale infinito periodico? Perché sapevamo la regoletta per andare avanti, bastava continuare a ripetere lo stesso gruppetto di cifre. E allora anche qua: se conosco una regoletta che mi permette di andare avanti all’infinito perché mi spiega come calcolare in ogni punto la cifra successiva, allora posso dire di conoscere il numero almeno nello stesso senso in cui conoscevo quelli periodici. Certo, ma ci sono delle regolette così? Ebbene sì che ci sono, soprattutto una, una di quelle che avete imparato alle medie e che avete subito dimenticato: la famosa estrazione di radice quadrata √ . Come mai è saltata fuori quest’altra operazione di “radice quadrata”? Tutta colpa di Pitagora.

Dico subito che non intendo impelagarmi nella faccenda del teorema di Pitagora, sul quale fiumi d’inchiostro sono stati spesi, se qualcuno è interessato si legga ad esempio il bel libro di Paolo Zellini, Il teorema di Pitagora, Adelphi 2023 e si ascolti su youtube una sua bella lezione qui . Aggiungerò solo che la storia di questo teorema e di problemi simili, comprende antichi testi babilonesi, indiani (vedici), cinesi ed egiziani nel I° millennio prima di Cristo (Pitagora, che in greco ha l’accento sulla “o”, visse nel VI° secolo a.C.).
Forse l’enunciato del teorema non l’avete tutti dimenticato perché rimane impresso più facilmente, essendo legato ad una figura geometrica semplice: il triangolo rettangolo, ovvero che ha un angolo retto. Ricorderete che il suo lato più lungo (quello opposto all’angolo retto) viene chiamato ipotenusa e che gli altri due vengono detti cateti. Bene, il teorema dice che l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma delle aree dei due quadrati costruiti sui cateti, Se chiamiamo a e b le misure dei cateti (in una qualsiasi unità di misura di lunghezza) e c la misura dell’ipotenusa, il teorema assicura che a^2 + b^2 = c^2. E allora, se conosco le misure a e b dei cateti e voglio conoscere quanto misura l’ipotenusa, devo eseguire il quadrato di a e di b, facile, poi sommare i due quadrati, facile, e così ottengo c^2, ma poi? Facile? No certo. Devo trovare un numero il cui quadrato conosco. Cioè devo eseguire l’operazione inversa dell’elevamento al quadrato. Se il numero di partenza è un numero speciale, tipo 1, 4, 9, 64, e infiniti altri, allora è facile, come credo tutti vediate, ma se il numero da cui parto è 2? Per esempio se i due cateti misurano entrambi 1, la somma dei loro quadrati è 2 e non conosco alcun numero che abbia come quadrato 2; e allora si sarà trovata la famosa regoletta di cui dicevo, che permette di ottenere cosa? Permette di costruire, passo passo, un numero decimale il cui quadrato si avvicina sempre più a 2. Così come, quando volevo dividere 1 per 3 ottenevo 0,3333. . ., cioè dei numeri che, moltiplicati per 3 davano 0,9 , 0,99 , 0,999 , 0,9999 , che si avvicinavano a 1 ancorché senza mai raggiungerlo davvero.
Forse Aristotele avrebbe detto che questa è una conoscenza del numero non in atto ma in potenza? Non so, meglio chiedere a un esperto aristotelico.
Questo numero il cui quadrato è 2 si chiama la radice o, più precisamente, la radice quadrata di 2; e conosciamo la regoletta per calcolarlo, sì, per calcolare cosa esattamente? Per calcolare una fila – si dice una successione – di numeri i cui quadrati si avvicinano quanto si vuole a 2. Dunque anche qui: la nostra conoscenza della radice quadrata di 2 consiste esattamente in un modo per andarle vicino quanto si vuole. Cosa significa esattamente “quanto si vuole”? Significa che, se immaginate un numerino piccolo ad arbitrio, del tipo 0,0000001, chiamatelo ε come spesso si fa in matematica, allora se andate abbastanza avanti nel calcolo con la regoletta, arrivate certamente a un numero n il cui quadrato differisce da 2 per meno di ε. E così tutti quelli che vengono dopo n: si avvicinano finché si vuole. Si scrive bellamente √(2). E dico “bellamente” perché la nostra conoscenza è quella che avete capito: astrattamente la radice esiste perché noi decretiamo che siano numeri reali tutti i numeri che si possano scrivere anche con un numero infinito di cifre dopo la virgola, anche se nessuno lo può “vedere” o “pensare” tutto in una volta. E, qui viene un punto importante, questo numero certamente non è periodico, perché se fosse tale, allora ci sarebbe una frazione che lo rappresenta (la ricordata frazione generatrice) e si dimostra in due righe che la radice di due non può essere messo sotto forma di frazione (se qualcuno/a mi chiede la dimostrazione gliela metto in un commento). Dunque non è un numero razionale, e quindi lo chiamiamo irrazionale. Che sembra paradossale, ma il punto è che i numeri razionali si chiamano così, non perché ubbidiscono alla ragione, ma proprio perché possono essere messi sotto forma di frazione (ratio), e quindi per questo tutti gli altri devono esser chiamati irrazionali.
Dove siamo arrivati con la follia dei numeri: siamo arrivati a costruire una classe di numeri che sembra li contenga tutti, visto che possiamo scrivere un numero qualsiasi di cifre prima della virgola e una successione qualsiasi di cifre dopo la virgola, anche una qualsiasi successione infinita, cosa vogliamo di più folle ancora? Non si sa mai, vedremo.

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“La follia dei numeri #2” è stato scritto da antonio sparzani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Contratti trasformativi: una lettera aperta alla CRUI

Dal 2020 in Italia si sottoscrivono i cosiddetti contratti trasformativi, cioè contratti in cui transitoriamente le istituzioni sostengono la trasformazione delle riviste scientifiche da ibride ad accesso aperto, pagando sia per leggere che per pubblicare. Un report fatto molto di recente dal JISC (che contratta gli accordi trasformativi per il Regno Unito) ha mostrato, dati alla mano, che questa costosissima trasformazione è ben lungi dall’avvenire. 70 anni il tempo stimato perché gli editori possano trasformarsi. Il JISC ha ritenuto fondamentale fare una analisi delle politiche di finanziamento implementate soprattutto in relazione ai risultati attesi e ai fondi impegnati e alla sostenibilità nel lungo (anzi lunghissimo) periodo.

La Associazione italiana per la scienza aperta (AISA) si è posta gli stessi quesiti del JISC e li ha posti a CRUI CARE che gestisce la contrattazione per conto delle istituzioni italiane. La risposta a queste domande, urgente e ineludibile,  può aiutare le istituzioni a capire se la direzione presa con i contratti trasformativi sia l’unica possibile, se sia effettivamente sostenibile e fino a quando,  o se invece non si debbano cercare già da ora strade alternative o complementari. Ma servono i dati.

Riportiamo qui sotto il testo della lettera aperta a CRUI CARE

La CRUI, associazione privata dei rettori italiani, offre alle università un servizio non gratuito, noto come CRUI-CARE, per la negoziazione di contratti consortili con gli editori scientifici commerciali.

Dal 2020 CRUI-CARE ha cominciato a stipulare una serie di contratti in virtù dei quali gli editori sono pagati non solo per leggere, cioè per far accedere a banche dati ad accesso chiuso, ma anche per scrivere, cioè per pubblicare ad accesso aperto. Questi contratti sono detti trasformativi perché sono stati pensati non per istituzionalizzare la pratica, deprecata, del cosiddetto double dipping, bensì come mezzi di transizione per incoraggiare gli editori a trasformare le loro riviste in riviste interamente ad accesso aperto.

Secondo quanto registrato in ESAC, i contratti trasformativi con controparte italiana sono 17, di cui 13 sotto la responsabilità di CRUI-CARE. Sebbene sia difficile evincerlo dal suo sito, non aggiornato nel momento in cui scriviamo, alcuni contratti sono in corso di rinnovo  (Wiley, ACS) o scadono alla fine del 2024 (Emerald, IEEE, RSC, Springer e Kluwer).

Come mai, di spese così imponenti in termini di impegno del denaro amministrato da pubbliche istituzioni, esito di un “processo negoziale” che “si svolge alla luce del rispetto della normativa fissata in tema di contratti pubblici”, non esiste un rendiconto pubblico? Per dare un’idea delle cifre in gioco, l’ultimo contratto con Wiley ammonta a più di 36 milioni di euro, quello in corso con Springer a più di 45 milioni di euro, e quello rinegoziato lo scorso anno con Elsevier a più di 167 milioni di euro.

La Reference Guide to Transformative Agreements suggerisce che le istituzioni, prima di negoziare contratti trasformativi, raccolgano dati sia sulle pubblicazioni dei loro autori, sia sulle spese sostenute per pagare APC a editori che li richiedono come prezzo dell’accesso aperto. In base a quali informazioni CRUI-CARE ha concluso i suoi 13 contratti trasformativi? CRUI-CARE ha raccolto qualche dato in autonomia, o si è limitata a prestar fede a quelli forniti degli editori?

In Italia, la mancanza – o la segretezza – di questo ipotetico studio preliminare rende impossibile misurare l’efficacia degli interventi e la sostenibilità della spesa. Dopo 4 anni di accordi trasformativi non sappiamo come si siano articolati i costi nelle università pubbliche italiane e quali vantaggi o svantaggi abbiano prodotto. In particolare non sappiamo (i) quanto abbiamo pagato in questi quattro anni per i contratti trasformativi; (ii) quanto pagheremo nei prossimi anni; (iii) come i contratti trasformativi si distribuiscono fra le istituzioni italiane; (iv) quante di esse hanno aderito a ciascun contratto, se ne hanno tratto vantaggio e nel caso in che misura; (v) quanta letteratura scientifica prodotta in Italia rimane accessibile solo ad abbonamento; (vi) quanto la ricerca italiana ha contribuito all’open access a livello globale con articoli pubblicati in open access a pagamento.

Non abbiamo, in altri termini, dati la cui analisi permetta alle istituzioni di impostare linee di condotta non estemporanee per gli anni futuri, e a studenti e contribuenti di comprendere come e perché il loro denaro viene speso. Continueremo a firmarli, anche se chi – come Coalition S – registra, studia e pubblica i dati sta abbandonando l’idea di pagare per scrivere per orientarsi verso il Diamond Open Access?

Alcuni sostengono che i contratti trasformativi italiani siano giustificati perché in grado di indurre gli editori commerciali a passare all’accesso aperto. Senza i dati di cui sopra, non è però possibile valutare se lo fanno effettivamente, o se invece, come concluso in paesi come la Svezia, meritano di essere superati.1

I resoconti e le presentazioni britanniche, olandesi e tedesche sembrano suggerire che i contratti trasformativi non solo hanno imposto un sovraccarico di lavoro amministrativo, ma hanno prodotto fallimenti annunciati e conseguenze indesiderate.

Era prevedibile che solo una percentuale bassissima di riviste sarebbe passata all’accesso aperto, come documentato da Coalition S: perché un editore commerciale, con un vincolo contrattuale temporaneo, e in grado di spuntare prezzi altissimi sia per leggere sia per scrivere grazie a una valutazione bibliometrica della ricerca in Italia imposta anche amministrativamente, dovrebbe aver interesse a passare all’accesso aperto? Fra le conseguenze indesiderate si annovera, invece, una ulteriore concentrazione dell’editoria e delle relative piattaforme, una netta diminuzione del numero di articoli depositati negli archivi aperti e un aumento, proprio nelle riviste cosiddette trasformative, degli articoli ad accesso chiuso.2

Sui contratti trasformativi del Regno Unito, Jisc ha composto una revisione critica approfondita e anzi doverosa per un paese che vi ha speso in questi anni 137 milioni di sterline, pubblicando 39.163 articoli.3 I revisori britannici hanno lavorato su questioni riproponibili anche per l’Italia.

  1. Quale percentuale della letteratura accademica è ad accesso aperto?
  2. Quale impatto hanno avuto gli accordi trasformativi negoziati a livello consortile sull’accesso aperto delle pubblicazioni scientifiche a livello nazionale?
  3. Che effetto hanno avuto gli accordi trasformativi sui costi per le istituzioni di ricerca?
  4. In che misura gli accordi trasformativi hanno facilitato la conformità con i requisiti degli enti finanziatori?
  5. In che misura gli accordi trasformativi hanno consentito una maggiore trasparenza dei processi di accesso aperto degli editori scientifici?

Il rapporto britannico, sebbene molti dati di cui ha fatto uso siano soggetti a clausole di segretezza, riferisce che la spesa per i contratti trasformativi rappresenta più di un terzo dell’esborso delle biblioteche del Regno Unito per materiale librario. Riconosce, inoltre, che, a dispetto del dispendio di denaro pubblico, lo scopo di indurre le riviste scientifiche commerciali degli editori più grandi a passare all’accesso aperto pieno si realizzerà, a questo passo, fra 72 anni,4 quando saremo tutti morti. Ci si è chiesti, inoltre, se render pubblici a carico del contribuente articoli su riviste amministrativamente prestigiose indurrà mai i ricercatori a comprendere che la pubblicità a cui l’accesso aperto mirerebbe è quella della scienza e non quella del prestigio.

Disporre di informazioni pubbliche, nazionali e internazionali, sull’ammontare della spesa e su quanto se ne è ricavato è fondamentale per capire si ci siamo approssimati ai risultati attesi, ammesso e non concesso che risultati si attendessero. A ridosso dell’eventuale riapertura dei negoziati per il rinnovo di contratti ormai trasformativi solo in un senso ironico, sarebbe cruciale discutere della loro efficacia anche nel medio e nel lungo termine, e sui possibili modelli alternativi. E sarebbe anche utile sapere se, ai sensi dell’articolo 45 comma 2 del nuovo codice dei contratti pubblici, i negoziatori CRUI-CARE ricevono, a titolo di incentivo, una percentuale dell’importo complessivo, o se la CRUI ha un regolamento specifico in merito, essendo fatta salva “la facoltà delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti di prevedere una modalità diversa di retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti”.

Non basta raccontare che gli articoli ad accesso aperto, così generosamente finanziati con denaro altrui, sono, non sorprendentemente, aumentati di numero. Sarebbe importante avere anche le informazioni di contesto ricavabili dalla risposte alle cinque domande dei revisori Jisc.

E non sarebbe difficile ottenerle, se CRUI-CARE rendesse disponibili alle istituzioni e ai cittadini i dati necessari a decidere con cognizione di causa, a sviluppare politiche sulla scienza non estemporanee e a permettere al ministero dell’università e della ricerca di rispondere alle richieste dell’Unione Europea, popolandone i rapporti sulla scienza aperta che al momento, per quanto concerne l’Italia, rimangono desolatamente vuoti.

Chiediamo dunque a CRUI CARE di render pubblici tutti i dati sui contratti trasformativi di cui dispone. Se, per la causa dell’accesso aperto, sono stati un cosi brillante successo dovrebbe essere anche nel suo interesse.

This text is licensed under a CC BY-SA 4.0 license

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  1. Il gruppo di lavoro svedese suggerisce di: (a) concludere accordi con editori che pubblicano solo riviste ad accesso aperto; (2) offrire una piattaforma nazionale di pubblicazione indipendente; (3) aiutare le testate di proprietà dei ricercatori ad abbandonare gli editori commerciali; (4) continuare a lavorare per adeguare il copyright legato all’accesso aperto.
  2. Si veda Jisc, A review of transitional agreements in the UK, 2024, p. 47.
  3. Secondo i dati raccolti da SCONUL nel 2021/22 le spese totali per il sistema bibliotecario britannico ammontano a £ 374.273.000.
  4. Jisc, A review of transitional agreements in the UK 2024, p. 47.

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“Contratti trasformativi: una lettera aperta alla CRUI” è stato scritto da ROARS e pubblicato su ROARS.

Fuorilegge! Iniziative a sostegno della cassa di solidarietà “La lima”

Sabato 13 aprile
c/o Circolo ARCI “Al Bafo”
Piazza Bolognini, Seriate (BG)

Ore 17:30: presentazione dell’opuscolo di autodifesa legale: “Fuorilegge”

Ore 20:00: apericena Benefit a sostegno della Cassa di solidarietà “La lima”

L’iniziativa si inserisce in un giro di presentazioni dell’opuscolo in Lombardia. Nel flyer sono indicate anche le presentazioni che si terranno a Brescia e Cremona.

Scarica il flyer in .pdf.

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“Fuorilegge! Iniziative a sostegno della cassa di solidarietà “La lima”” è stato scritto da underground e pubblicato su Underground.

La lettura narrativa come resistenza

di Paolo Morelli

Solo gli algoritmi salveranno la letteratura italiana

Ecco un esempio di frase ragionevole. Se guardiamo all’attuale produzione narrativa nostrale infatti, non si può fare a meno di notare quanto sia ormai esclusivamente frutto di un mero calcolo minimale, inconsapevole o meno non è questo il punto. Dimenticata la possibilità di affidarsi allo stato di affezione che possiedono le parole, ignari della malia delle frasi e della complicità di ogni conversazione fantastica vi si privilegia un più o meno accurato dosaggio dei contenuti alla moda, vi si legge solo il dominio della Ragione Calcolante, la famosa, la quale poi smunta ma sempre più assertiva pretende dal lettore una razionalizzazione totale, con un grado tale di determinismo che non lascia nulla al caso.
Tutto può essere oggi solo pensato come un racconto da consumare, che sia più o meno engagé non è questo il punto, ma scritto con regole ben riconoscibili, non seguire le quali è considerato un errore grave che vale la squalifica. E il calcolo deve essere ben riconoscibile appunto, altrimenti dimostrerebbe che un altro modo è possibile. Lo slancio, la dedizione, la nevrosi, la pausa, l’eccesso, la follia, perfino un brandello di originale o cosiddetto pensiero laterale sono banditi ormai da tempo in quanto ritenuti impossibili o indicibili. Mai e poi mai un dispositivo basato sulla saggezza dell’incertezza, solo il meccanismo appena sufficiente a confermare proprio ciò che bisogna dire. Persino quello che una volta si diceva stile sembra non contare più. “Tutto è irrimediabilmente trascorso”, come scrive un vincitore di premi, siamo al tempo di Oramai. Scrivere è solo un gesto stanco, ripetuto, automatico, uno dei tanti, programmato si ma in sistema che si vuole chiuso, e rigido poi nel far finta di no, che non è per niente così.
Un gesto muto, già programmato per sordi. Perché è innanzitutto la voce immanente al testo ad esser stata messa al bando, sostituita dal mutismo della pagina scritta, in base all’assunto che niente rafforza più l’autorità quanto il silenzio, e se ne sia o no consapevoli non è questo il punto.
Ecco come mai ci vengono in aiuto gli algoritmi: loro, quel lavoro, lo fanno più in fretta e, tra breve, anche meglio. Se consideriamo nei due soggetti generici la persistenza effettiva del cosiddetto pensiero emotivo, il cretino veloce in questo caso vince sul cretino lento.
Purtroppo, una sola cosa gli algoritmi non riusciranno mai a fare: riprodurre la voce di cui può essere intessuto un racconto, cosa ormai rara o pressoché sparita dall’orizzonte letterario, perché in essa si riascolta ogni volta, oltre al passato, anche il futuro di tutti.
La voce in un testo letterario o più specificamente narrativo è l’esperienza vissuta attraverso il corpo. Per questo Dostoevskij ad esempio cominciava a delineare i personaggi a partire dalle loro voci. In quanto concomitante insieme al linguaggio e al corpo la voce è il tramite possibile, la giunzione fra coscienza e sensazione cui ogni volta tende la narrazione. E, come aveva già individuato ad esempio Valery, ”il Linguaggio scaturisce dalla voce, piuttosto che la voce dal Linguaggio”, mentre il Mondo Nuovo che si impone ha proprio come nemica giurata l’esperienza diretta, di prima mano, oltre alla fantasia quando ha dignità conoscitiva, vale a dire carne e sangue della letteratura.
Siccome però fortuna vuole che le voci che ci vengono dal passato restano tuttora abbondanti, intrise e indelebili sulle pagine, c’è un archivio sonoro ancora a nostra disposizione e nulla vieta agli amanti delle cause perse di pensare alla lettura narrativa come un atto di resistenza, per riscoprire il piacere della lettura a voce alta così come dell’ascolto, per reinserire la narrazione nella nostra vita come pratica di socialità quotidiana. In un contesto in cui la socialità è concepita come remoto concetto della solitudine, riallacciarsi alla tradizione della dimensione narrativa delle parole e per ciò stesso curativa. Come sentire un testo. Mettersi a disposizione di una tonalità. Respirazione, intonazione, sprezzatura. Certo però del tutto laicamente, all’insegna dell’Orwell di 1984 quando dice che “in questo gioco che stiamo giocando, non possiamo vincere. Un certo tipo di insuccesso è preferibile a un certo altro tipo. Questo è tutto”.
Insomma per quello che vale.

 

L’arte della viva voce

Quindi un approccio intensivo alla lettura ad alta voce e, cosa altrettanto importante, all’ascolto di un testo letterario, più specificamente una prosa o una narrazione.
Come sappiamo della parola narrazione da qualche anno si sono impadroniti i politici, al solito per i loro interessi, a significare più che altro come riescono a riempire i canali di informazione con la versione dei fatti che gli fa più comodo. Noi invece ci riallacciamo alla tradizione della parola con le sue ampie sonorità, con tutte le sue ricchezze e le ambiguità, e della frase, alla sua malia, considerando prima di tutto la narrazione come un atto di socialità e normalità.
Già raccontare infatti è una cura, forse una delle poche possibilità che ci restano per far riacquistare alle nostre vite un certo qual senso di confidenza e normalità. Perché cosa possiamo chiamare normalità se non il tessuto quotidiano di racconti che ci facciamo, le piccole narrazioni che riempiono i nostri incontri, le circolazioni anche di ovvietà, quello che il filosofo Günther Anders diceva “un mero recitare insieme ciò che insieme si ascolta senza posa”? Alcuni, come il critico americano Richard Brooks hanno più volte ribadito la centralità della narrazione nello strutturare ogni esperienza umana: “Le nostre vite sono strettamente intrecciate alle storie che raccontiamo o che ci vengono raccontate”. Altri ancora si spingono fino al punto di dire che non siamo che le storie che abbiamo incontrato nelle nostre vite. A guardare bene, altro non possiamo chiamare normalità se non il nostro modo di raccontarci un certo corso di eventi, perché è attraverso i racconti, anche i più semplici, che organizziamo la nostra esperienza nel mondo. Se poi si tratta di un racconto letterario questo fare mondo, come si diceva una volta, vale a dire il provare a organizzare modelli di esperienza può assumere i crismi del rituale per sentirsi parte di una socialità, in quella specie di conversazione universale che è la letteratura, altrimenti vige la paura.
In un contesto in cui la socialità è concepita esclusivamente come somma di condizioni isolate (ed è un risultato poi che non viene mai), uno dei presupposti di tale isolamento è la presunzione. Il pensiero che ci viene imposto è tutto improntato sul fatto che c’è un passato, un prima ignorante e balbettante e un oggi che ne è il riscatto. Questo succede anche per ciò che riguarda la considerazione che si aveva dei libri nel passato, quando molti erano gli analfabeti e pochi i libri, rispetto all’oggi in cui l’analfabetismo è di ritorno o addirittura funzionale. Qualcuno vi potrà raccontare invece che i libri un tempo, almeno fino alla metà del secolo scorso erano trattati con ogni sorta di rispetto e timore reverenziale. I pastori ad esempio ci vengono tramandati come l’epitome, il massimo dell’ignoranza di quei remoti tempi, ed invece può capitare di scoprire che, in tutto il mondo, essi avevano a volte ricche biblioteche e soprattutto avevano un orecchio letterario finissimo. Cosa crediamo facessero la sera attorno al fuoco, durante le transumanze ad esempio, se non che chi sapeva leggeva a tutti gli altri, narrazioni prima di tutto in versi ma non solo? Vi sono squisite narrazioni in versi da leggere a voce alta, l’Ariosto lo si potrebbe mettere tra le sostanze psicotrope, per gli effetti, benefici, di destabilizzazione fantastica che provoca nella mente di chi lo legge. E, d’altra parte, se ci facciamo caso i libri una volta avevano una serie di accorgimenti, piccoli espedienti per invitare il lettore, metterlo a suo agio, come ci si tiene a mettere a suo agio un ospite.
È comunque la dimensione narrativa della parola ad animare un rapporto fantastico con il mondo, a catalizzare capacità percettive e riflessive esiliate.
Tutta la logica di un testo si trova nella voce che contiene, se la contiene, se ne ha una, tanto che anche i traduttori di recente hanno imparato a leggere ad alta voce il testo che devono tradurre. Facciamoci caso, i libri che non si possono leggere ad alta voce sono anche quelli in cui non si vede immediatamente quello che vi si descrive, bisogna rileggerlo e comunque a volte è inutile. La voce in una narrazione è quel congegno infallibile che ogni volta ci riporta al remoto, al condiviso, come se si trattasse dell’incontro con una mente molto simile. Se la poesia esiste da sempre nell’esigenza della mente di ricrearsi condizioni originarie per non perdere i propri strumenti cognitivi, la narrazione ha la sua funzione primaria come luogo di convergenza e condivisione, una specie di intimità allargata in cui si riconosce la propria voce in un’altra percependo il suo tono, e con sé porta l’esigenza della socialità.
“Leggere è ascoltare altri sé”, diceva Nietzsche, oppure “Leggere è soprattutto disposizione all’ascolto” sosteneva R.L. Stevenson. Ma soprattutto la voce viene a rammentarci come la narrazione sia un fatto culturale nel senso più ampio della parola, non un semplice orpello ma una necessità umana primaria come sostengono gli scienziati e quindi auspicabilmente di uso quotidiano come potrebbe essere l’amicizia, o il vino per la convivialità.
Quello che dobbiamo fare per leggere a voce alta una storia è passare da una lettura introspettiva e intellettiva, dal silenzio a volte ignavo della pagina scritta a un esercizio fisico, corporeo, fatto essenzialmente di vocalità, vale a dire espressione fisica della voce e di postura. Intonarsi sulle parole, non solo decifrarne i significati, sulla linea di quella che viene o meglio veniva chiamata prosodia, cioè l’insieme dei caratteri fonici – dinamici, melodici, quantitativi: accenti, tono, ritmo sul flusso sonoro del testo, perché le sonorità emotive sono il perno della narrazione, e non tanto lo sviluppo logico-semantico. E poi la voce, la traccia orale di un testo non è soltanto la parte corporea del linguaggio ma implica altresì  l’affettività, è nell’udito che sta racchiuso tutto il senso sociale di una storia. Proprio così l’oralità diventa esperienza vissuta, quella parte di vita che le pagine portano con sé.
Già nessun enunciato umano può darsi interamente senza emozione: i modi, i gesti, gli atteggiamenti sono patrimonio del discorso: questa la fonte primaria anche della narrazione scritta, dei libri che devono contenere una voce.
Nasce così una specie di slancio che viene a lasciarsi trasportare dalle parole, a sentire le parole che ci vengono dentro, diciamo così e risuonano sempre più familiari all’orecchio di ognuno.
In questa maniera è possibile fare della lettura narrativa non solo un atto di evocazione vero e proprio nei riguardi di un testo e del suo autore, ma una sorta di esercizio spirituale se non è parola brutta: una prova di socialità, amicizia, addirittura fraternità si potrebbe dire, se non è parola brutta anche questa.
Non stiamo qui cercando una concentrazione onerosa o un’attenzione forzosa, non nella lettura né tantomeno nell’ascolto. E neppure la bravura, quasi il contrario, ma di perdersi nel testo, di farsi guidare dalle tonalità, di affidarsi allo stato di affezione delle parole (ed è sempre nella prima frase di un testo che riconosciamo il suo tono). Non dobbiamo fare insomma come certi attori quando leggono una storia e si sente subito che non è in funzione delle parole che leggono, oppure che le recitano perché esse valgono assai per darsi dell’importanza. Si mettono in posa, si ascoltano mentre leggono (cosa dolorosa per chi legge e fastidiosa per chi ascolta), mentre qui intendiamo tentare un non-ascolto di sé, di fare soltanto da tramite al testo, che ogni volta si reinventa con la voce di ognuno, con le sue particolarità e complessità di tessitura.

Quindi immaginiamoci se fra i gesti quotidiani di condivisione ci inserissimo un: Ti leggo due pagine di questo libro che mi hanno commosso, o m’hanno fatto sganasciare… Facendogliele anche sentire bene. Significa riappropriarsi di un piacere sovrano, così come si chiama conversazione sovrana quando non tentiamo di imporre noi stessi, le nostre idee o la nostra visione ma invece cerchiamo risposte assieme all’interlocutore.
In conclusione, per ottenere il risultato non abbiamo bisogno di qualità particolari, tipo una cosiddetta bella voce, o una dizione perfetta, tanto meno di una voce impostata come quella di molti attori:
1) basta rinforzarsi con l’esercizio (oltretutto man mano si scoprirà che leggere per se stessi a voce alta è un cerimoniale assai piacevole, curativo, nutritivo oserei perfino dire), finché l’abitudine non diventi natura ma senza aver alcun obiettivo se non l’amore per le pagine che si leggono e il piacere di condividerle. Allora si situerà fra le tante cose importanti ma piacevoli, quelle che, come si dice ancora, rendono la vita degna di essere vissuta.
2) abbandonarsi, fidarsi di quelle pagine e di quell’amore, senza paura alcuna di sbagliare. Quindi ancora, il modo di estendere la pratica, per essere sicuri di comunicare sarà quello di esporsi così come si è, senza cercare di essere qualcun altro.

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“La lettura narrativa come resistenza” è stato scritto da giacomo sartori e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Collana Adamàs, La vita felice editore

[Continua quella che vorrebbe essere non tanto un’indagine, ma una ricognizione ragionata e dialogata dell’editoria indipendente di poesia. Abbiamo iniziato con Le Mancuspie, una collana di poesia diretta da Antonio Bux per le edizioni Graphe.it. a. i.]

La Collana Adamàs, La vita felice editore, è diretta da Tommaso Di Dio, Vincenzo Frungillo, Ivan Schiavone. Nel 2023 sono stati pubblicati i libri di Heiner Muller (settembre), Vito Bonito (maggio), Florinda Fusco (maggio), Franco Ferrara (dicembre), di cui presentiamo degli estratti. Nel 2024, sono usciti in febbraio Cinema di sortilegi di Tommaso Ottonieri e 06.010 di Sara Davidovics.

Risposte di Vincenzo Frungillo

Come è nata l’idea di questa nuova collana di poesia?

La collana Adamàs, diretta da Ivan Schiavone, Tommaso Di Dio, oltre che da me, nasce ufficialmente nel 2023 con i primi tre volumi pubblicati (Vito Bonito, Florinda Fusco e Heiner Müller), ma in realtà l’idea di un nuovo spazio per la poesia contemporanea era nei nostri pensieri già da un po’ di tempo. Dopo la scomparsa dell’editore Francesco Forte e la chiusura della casa editrice Oèdipus, era finita anche la meritoria collana Croma K, diretta da Invan Schiavone, quindi ci siamo ripromessi di continuare il lavoro di Ivan con un’altra casa editrice per non disperdere i progetti già in cantiere ed aggiungervi idee e proposte mie e di Tommaso. La vita felice e l’editore Gerardo Mastrullo ci hanno dato quest’occasione e l’abbiamo accolta con entusiasmo.

 

Che regime di produzione avete? Vi soddisfa quello che riuscite a mettere in opera (numero di titoli all’anno)?

Il regime di produzione è piuttosto intenso, in verità. Ci siamo ripromessi di pubblicare nove volumi all’anno con tre titoli in febbraio, tre in maggio e tre in novembre. Direi che siamo soddisfatti anche se la cura dei libri ci impegna abbastanza.

 

Come scegliete i libri che volete pubblicare? Quali sono i criteri che vi guidano? Siete interessato a difendere aree poetiche o correnti specifiche all’interno del panorama contemporaneo?

Nella terna di libri pubblicati abbiamo deciso di inserire un/una autore/autrice straniero/a, magari inedito/a in Italia, anche se abbiamo aperto con la ristampa di Heiner Müller, Non scriverai più a mano, tradotto da Anna Maria Carpi, già edito da Scheiwiller, ma non più disponibile; un/a autore/autrice italiano/a del recente passato che reputiamo importante per le nuove generazioni, ma che non ha ancora lo spazio editoriale che meriterebbe, ad esempio, insieme ad Argo edizioni si è avviato un progetto di ripubblicazione delle opere di Franco Ferrara; e infine un/a autore/autrice italiano/a che reputiamo importante per l’attuale panorama poetico nazionale: finora abbiamo pubblicato Vito Bonito, Florinda Fusco, Tommaso Ottonieri, Sara Davidovics. Il fatto che noi tre curatori siamo anche tre autori piuttosto diversi l’uno dall’altro per poetica, oltre che formatici in tre aree geografiche piuttosto diverse (Napoli, Roma, Milano), ci aiuta ad avere una visione piuttosto ampia dell’attuale panorama. Aiuta inoltre la possibilità che ognuno di noi ha di essere a contatto con contesti poetici internazionali: prossime uscite straniere previste provengono da aree linguistiche differenti (portoghese, tedesco, macedone, americano). Non abbiamo una linea o una corrente privilegiata, come dicevo, veniamo da ambiti differenti e cerchiamo di prendere il meglio di ciò ci sta intorno o che ci viene proposto. Abbiamo però stilato un piccolo testo programmatico in cui abbiamo cercato di dire qualcosa sulle nostre intenzioni. Ne riporta una parte qui di seguito:

“La parola [Adamàs] appare in una celebre poesia di Guido Guinizzelli («Com’adamàs del ferro in la minera») e porta con sé l’idea – che facciamo nostra – di una scrittura che non ponga l’alternativa oziosa fra pensiero e poesia, fra conoscenza, filosofia e arti del linguaggio e della scrittura, ma tenti di portare le prime e le seconde ad un punto di fusione che le renda coese e indistinguibili. E insieme duplice e una sola è la stessa parola “adamàs”: possiamo sì tradurla con “diamante”, ma anche con quella di “calamita”, perché si attribuiva a questo minerale il potere sia di risplendere e farsi trasparente e così rilanciare la luce che lo penetrava, sia quello di attrarre a sé per una forza invisibile e stupefacente il metallo ferroso, opaco, denso e pesante. Così pensiamo debba essere la poesia: da un lato deve portare il ricordo degli strati più sepolti di noi e saper trarre alla superficie il rimosso geologico del nostro vivere sul pianeta terra, dall’altro sapere raccogliere intorno alla propria luce una densità metallica e metamorfica di significati e di atmosfere, di visioni e cosmologie che possano sfuggire all’ipocrita semplicità della più trita comunicazione a cui il l’epoca dello spettacolo ci ha condannato e che sempre più sembra pervasiva, anche nelle scritture che si dicono letterarie”.

Non esiste quindi una corrente poetica di appartenenza ma l’attenzione ad autori e autrici autentici e autentiche che sappiano traferire in un libro di poesia quanto auspicato nel nostro manifesto.

*

Heiner Müller
Da Non scriverai più a mano, 2023

Pellicola nera
Il visibile
Si può fotografare
O PARADISO
DELLA CECITA’
Ciò che ancora si ascolta
È conservato 
TAPPATI GLI ORECCHI FIGLIO
I sentimenti
Sono di ieri Pensato
Non viene nulla di nuovo Il mondo
Si sottrae alla descrizione
Tutto l’umano
Diventa estraneo 
                            
                                     1993
*



Vito M. Bonito
Da Acrobeati, 2023



I


è come sui papaveri esausti
le zanzare
un deliquìo di morte
un iperìo senza più porte

una festa di sangui
di cirrose protervie
banalmente impervie

come a volte
quando scendi da le stelle
o mi del cielo
nel sì del mio sfacelo

tra li papavera belle

	oh! perché perché
	allor ti lingui?

oh! perché?
		ti esangui?

[…]

che? non ti piageva
la smisurata tua doglianza?
la buia lontananza?
la bua senza speranza?
il fior che fragile morì
tra gli usignuoli già in ardore?

non è abbastanza
questo papaverico tremore?

cos’è che non sai?
o è perché te ne vai e vai
e vai alfin laggiù
tra i rrasoi
che rrose non furono mai

luce morte dondolio
oh sine fine addio

beate rrime addio beate
mai state mai neppure nate

voi
spente lampadine
io fervente
senza mutandine


II


ergo la vita è un vuoto esergo
non scritto
		io porto il cimiero in segno di castità
		li nervi bianchissimi dei denti

io mi dentificavo ogni mese
poi mi cariavo
il cimiero non me lo sono tolto
nemmeno da morto

abbiamo tutti paura come i fioretti nel notturno
gelo solo che noi in noi chiudiamo lo sfacelo
ci fanno male gli arti le pupille l’infinita
solitudine prostatica

siamo solo un dolore impertinente
un reuma un’unghia che non cade tra le rrose
						o dove o niente


*


Florinda Fusco
Da Materia osservabile, 2023

1.
Leggera fluttuazione sulla gonna. La maglia fuxia. La chewing gum si gonfia tra le labbra. Piccola 
croce tatuata sulla spalla. Guarda in alto adesso. Verso nord-est. Sembrerebbe un nulla. Ma: una
leggera fluttuazione ha generato un’espansione che ha prodotto materia e ordine: galassie, stelle, 
pianeti.

2.

Ecco la lista delle cose presenti: 
diario, borsetta, cappello a falda ampia, smalto, pillole
Errato: sono cose del passato, di un miliardesimo di secondo fa, il tempo che la luce emessa 
dalle cose impiega a raggiungere gli occhi
Ecco la lista delle cose presenti: 
la luce

*

Franco Ferrara

Da Lettere a Natasha, 2024

 

[…]

il silenzio

ma l’audacia che pongo con questa parola

è (anche) annientamento dalla devastazione

del tempo.

 

(Perché non parli?

dovrebbe allora disorientarmi la solare incautela

cui affido la mia tendenza di essere?)

 

(Ricordi? lo abbiamo detto:

«la gioia è infinitamente ricca, dà, getta via;

la gioia è più assetata, più vigorosa,

più affamata, più terribile, più estrema

                                        di ogni dolore…

implora perché qualcuno prenda; vorrebbe

                                                  essere odiata

tanto è ricca la gioia

                    che è assetata anche di dolore!»)

Per questo, vedi?

sento di trarre nutrimento

anche da questa eccezione al silenzio

che ti offro come una focaccia

di datteri e d’orzo;

(e anche per questo

sento che non posso esimermi dal porre la mano

nella stimma di questa luce).

 

*



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“Collana Adamàs, La vita felice editore” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

The Top Italian Scientists and their Journal

Finally, the Top Italian Scientists have founded their own journal and called it the Top Italian Scientists Journal. But who are the Top Italian Scientists? They are the scientists who appear in a ‘do-it-yourself’ ranking called TIS. To be ‘accepted’ among the TIS you must have an h-index of at least 30 according to Google Scholar. The TIS Journal accepts only articles authored by at least a TIS. Its editorial board is extraordinary. There is Salvatore Cuzzocrea, who resigned in October as rector of the University of Messina and president of Conference of the Rectors of Italian Universities (CRUI) over a judiciary investigation into reimbursements for research activities. His articles have been the subject of 158 reports on pubpeer – mostly related to incorrect images- and he has recently gathered 3 retractions. There is Domenico Ribatti, co-author of one of the retracted articles by Paolo Macchiarini, the surgeon sentenced in Sweden “to two years and six months imprisonment after being found guilty of aggravated violence against three of his patients,” featured in the Netflix series Bad Surgeon. Also well represented are former members of the governing board of the national agency for evaluation of research (ANVUR): with a former president and two former board members. It is unfair, however, to dwell on unfortunate cases. Let us then look at the statistics: articles from TIS are retracted or put under scrutiny, for anomalies in images or otherwise, with a frequency far outside the norm. We read the first article published by the journal: more than 60 percent of it literally reproduces pieces of articles already published elsewhere and signed in the vast majority of cases by other authors. It is well known that citation doping is easy, through self-citations or citation exchanges. Even Clarivate has long claimed to exclude from its rankings those whose numbers are too big to be true, for example, those who are overproductive. In the last edition, it deleted the ranking of mathematicians, declaring that it was unable to distinguish between highly cited authentic and farcical ones. As if one year people no longer run the Tour de France because substances invisible to doping tests are circulating. We Italians have uncritically embraced these numerical criteria, making them the heart of the recruitment and promotion system, and the consequences are now visible. Moral of the story: given the company, does it suit one’s reputation to be on the TIS list?

Ringing of fanfares: just as in soccer, a new era is opening for the Italian academy. In soccer, green light for the super league of the strongest and most emblazoned teams that will no longer have to compete with mediocre national teams. In the Italian academy, the super journal of excellent Italian scientists has just arrived. Excellent in what sense? Nobel prizes? More medals? No, bibliometrically excellent. For decades there have been databases that take into account not only the articles published, but also who cites whom. A type of measure that has had many supporters in Italy and that for 10 years has been the basis for the recruitment of professors, regulated by Anvur, the national agency for university and research evaluation. A true panacea to restore the academy of rigged recruitment procedures and nepotism.

Finally, the Top Italian Scientists have founded their own journal and called it the Top Italian Scientists Journal. But who are the Top Italian Scientists? They are the scientists who appear in a ‘do-it-yourself’ ranking called TIS. To be ‘accepted’ among the TIS you must have an h-index of at least 30 calculated on Google Scholar (which means: having written 30 articles that have each received at least 30 citations on Google Scholar).

1. The TIS ranking (and its history).

The Top Italian Scientists ranking was launched by Mauro degli Esposti and Luca Boscolo around 2010 [see here]. There is a public version based on Google Scholar data, and a restricted access version based on Scopus data (to which we do not have access). To date it appears that the sole maintainer is Luca Boscolo (here). The TIS ranking continues to be an entirely opaque object: it is not possible to know what server it is on (whois is covered by privacy), who puts up the resources, how the TIS club is formed, much less how the TIWS women’s club is run.

Parallel to the rankings, a VIA-Academy (Virtual Italian Academy) had been built, which had attempted the establishment of a telematics university [link to news at the time here], which failed before it was born [see here]. VIA-academy’s website has disappeared from the web, but you can visit it here. And you can see the only recent activity we found evidence of here.

Paolo Giudici, a statistician from the University of Pavia, obviously one of the TIS, and Luca Boscolo reconstruct the history of the TIS ranking with an old-fashioned narrative style (interested readers will enjoy the entire article here):

The Top Italian Scientists database started in 2010 when Luca Boscolo got
inspired by an article that gathered a list of 300 Italian academics in Italy and
abroad with the highest scientific impact in any area. To measure the scientific
impact they used the h-index. Luca had the idea to download the entire list of
the academics working for the Italian universities (about 54k people) and for
each of them calculated their h-index using Google Scholar as database. Luca
then extracted a list (about a 1k people) whose h-index was greater or equal
than 30. The result was called “list Top Italian Scientists” (TIS), and a paper
was published displaying a list of the Italian universities ordered by the number
of TIS. The paper was cited by some of the main Italian newspapers such as
La Stampa and it went viral scattering a huge interest in the academic world.
After that, Luca started to get flooded with emails congratulating the work or
indicating someone with h-index ¿= 30 [sic]. After more than 12 years the list has
grown up from a 1k to more than 5.5 k. Nowadays this list is known to all
Italian academics working in Italy or abroad.

If one does not stop at the self-apologetics of TIS, one can verify quite easily that when some politician or journalist has used the TIS ranking, he or she has gotten himself or herself into quite a bit of trouble.

The Lombardy Region used the TIS ranking to select jurors and prize-winners for the Lombardy Prize. Once again, creating bewilderment among journalists and scholars (for a summary see Tiziana Metitieri here and here).

The TIS ranking even elicits hilarity when observed by nonItalians. Here for example Leonid Schneider recalls the role in climbing the ranks of the Iranian paper-mills, organisations dedicated to the production of articles often associated with the sale of authorisations of convenience.

Roars also dealt with the TIS list in 2012 [here] with an article entitled Classifiche incredibili (Unbelievable rankings). The mathematician Alessandro Figà Talamanca caustically commented:

It should be added that as long as the decision on who signs a job is made by the bosses, we will continue to see scientifically disqualified characters on the list of top Italian scientists who are only capable of exploiting the work of young people.

2. Il nuovo Top Italian Scientists Journal

At the beginning of 2024, the Top Italian Scientists Journal appeared on the web [here]. In recent weeks we have saved a few versions on the wayback machines because the site appears to be constantly changing].

The journal purports to be an open access journal (no payment is required to read the articles published there), multidisciplinary (covering all areas of human knowledge except, as I understand it, the humanities). It declares that it adopts a single-blind peer review model: articles before being published are read by anonymous reviewers who are aware of the authors of the articles. To adhere to the principles of the Committee for Ethis in Publications (COPE).

And to adopt an Open Access Gold model: authors of accepted articles pay for publication.

There are, however, several quirks.

Let’s start with the formal ones. The website states that ‘TISJ is not currently live yet’. Who knows what that means. The articles do not have DOIs, but the site informs us that they are pending. There is no indication of when the articles were submitted to the journal and how long the review process took for each one. The articles were all published at very short intervals in the first 15 days of the year and then the publications came to a standstill. The server on which the journal resides is not known. It is not known who the publisher of the journal is, or at least it is not known who and under what legal form holds the ownership rights to the journal and the site. This is information that we do not doubt will be promptly disseminated.

Other oddities are less difficult to remedy. As we anticipated, ‘gold open access’ means that it is the authors who pay so-called APCs (article processing charges) for the publication of their articles. The TIS journal does not charge APCs, but when an article is accepted, authors can make a donation to the journal.

Nowhere could we find any indication of who receives the donation on behalf of the journal or TIS. It costs money to publish a journal (even to acquire DOIs). Who pays for TIS?

But the strangest oddity is that the magazine only publishes articles signed by at least one author who is listed on the TIS list. A kind of golf club magazine in which only members of the club can write. 

To find out that only TIS members can write in the journal, you have to go to the page about formatting papers (!):

3. The editorial board of the TIS Journal

Like any self-respecting journal, the TIS Journal also has an editorial board, composed of course only of members in the Top Italian Scientists classification. The list of board members is constantly growing and changing.

The changes are not insignificant. Suffice it to say that on 8 January, as can be seen here, the journal had an editor in chief: Vito D’Andrea. A week later, the journal no longer had an editor in chief, to date the editor in chief is TIS Enrico Gherlone.

But who are the TISs crowding the editorial board?

There is Salvatore Cuzzocrea, who resigned in October as rector of the University of Messina and as president of the Conference of the Rectors of Italian Universities because of a judicial investigation into reimbursements for research activities (see here). Cuzzocrea holds the record, among board members, for the number of 167 reports on pubpeer. PubPeer is a web platform that allows users to discuss and review scientific research after publication. The site is mainly used as a whistleblowing platform to report misconduct and fraud in scientific literature. In Cuzzocrea’s case, the reports mainly concern incorrect images in articles. His first retracted article

, followed by two others, is dated 18 January 2024.

In second place among board members in terms of the number of pubpeer reports is Alessandra Bitto of the University of Messina, who counts 79, mostly for incorrect images in articles. Alessandra Bitto is co-author of 9 articles that have been retracted. Leonid Schneider wrote about the University of Messina group here and there. Francesco Margiocco wrote about it in the Italian newspaper SecoloXIX.

Members of the editorial board include Roberto Bolli, co-author of Pietro Anversa -also TIS – for whom Harvard University, in 2018 at the end of an investigation asked for the retraction of 31 articles on the use of stem cells for the regeneration of heart tissue . Bolli is co-author of 3 articles retracted by Anversa. (Retraction Watch reports that “Bolli was recently [2019] fired as editor of a journal for making homophobic comments“).

There is Domenico Ribatti one of the co-authors of Paolo Macchiarini, the surgeon sentenced in Sweden ‘to two years and six months imprisonment after being found guilty of aggravated violence against three of his patients’, starring in the Netflix series Bad Surgeon. Ribatti shares with Macchiarini an article in Nature that has been retracted (see here and here), and other 3 flagged on pub pubpeer (over a total of 18 flagged papers).

There is Francesco Trapasso one of the co-authors of cancer researcher Carlo M. Croce who now has at least 14 retractions and lawsuits to his credit, including with his lawyers (see here and in Italiano here and here). Croce, according to the TIS ranking, is the best of the best. Trapasso shares two retractions with Croce. And he also shares two with Alfredo Fusco (see here) .

Among the board members is Arrigo Cicero, who has at least 6 retractions to his credit due to multiple publication of the same paper (see here).

And also Pier Paolo Pandolfi (see here) who has 36 flagged papers on pubpeer.

The board could not fail to include a qualified representation of former ANVUR officers. There is Paolo Miccoli, former president of ANVUR and, thanks to the revolving doors, newly appointed president of the association of telematic universities. Certainly readers of roars will remember the cut-and-paste affair of the ‘theme’ to become a member of the agency.

And there is also Daniele Checchi, a former member of the ANVUR board. He was selected among the TIS thanks to his performance on Google Scholar where he has, as is often the case for economists, 500% more citations than those recorded on Scopus (which would not have allowed him to exceed the mythical threshold of 30!).

4. Rule or exception?

A handful of unfortunate incidents cannot undermine the goodness of an objective criterion such as the one underlying the TIS ranking. You don’t have to look at individual incidents, you have to look at the statistics, and the statistics say TIS is TIS.

We too looked at some statistics for the members of the TIS Journal editorial board. We focused in particular on the reports on pubpeer and in the Retraction Watch database, which contains the metadata of articles that have been subject to retraction, expression of concerns by editors, and corrections.

We photographed the board as of 8 January 2024 and cross-referenced the board members with the data available on the Retraction Watch database and the pubpeer platform. As of 8 January, 157 board members were listed.

Of these, 24 (15.3%) have at least one report on Retraction Watch. The total number of articles reported on Retraction Watch for TIS journal’s board members is 59. This means an average of 0.38 reports per capita. The 157 TIS board members account for 6.2% of Italian reports on Retraction Watch.

To get a more precise idea, let us take the full and associate professors of Italian universities on the same date (10.726+19.616=30.342) and assume that they have an average of 0.38 reports per capita on Retraction Watch. Retraction Watch should contain a total of 11.530 reports from Italian authors. Instead, it contains only 949. This means that the number of reports per capita of Italian academics is 0.03, which is an order of magnitude less than the board members of the TIS journal.

Let us now take the pubpeer data. There are 47 (29.9%) board members who have at least one report in pubpeer. The total number of reported articles is 484: each board member has on average 3.1 reported articles. Again, if Italian ordinaries and associates had the same average, articles by Italian authors would be 93.453.

One possible objection to these figures is that because TIS are the best, they are more visible and therefore subject to more stringent controls. Besides, what counts for a journal is not who is on its editorial board, but the relevance of the articles it publishes.

5. A good morning: the first article in the TIS Journal
We read the first article published by the journal:
Corrado Angelini, Advances and new treatments are available for neuromuscular disorders and affect Quality of Life, Top Italian Scientists Journal 1(1), 2 January 2024

More than 60% of the article literally reproduces parts (mainly abstracts and conclusions) of articles already published in other journals and popular articles available on websites and signed in the vast majority of cases by other authors.

In the pdf below, you can compare the text in the TIS JOURNAL and the articles that have literally identical parts with it.

tis_first paper

6. The moral of the story

It seems to have told the academic world inside out. Those at the top are actually those who stumble the most. It is well known that citation doping is easy, through self-citations or citation exchanges. A problem of us anthropologically cunning Italians? Yes and no.

No, because internationally we have long been aware of the problems with the rankings of highly cited scientists (see here). By now, doping problems can no longer be swept under the carpet even by companies that make bibliometric statistics their main business. The most famous one (Clarivate), which is also decisive for the ARWU ranking, has long claimed to exclude those whose numbers are too big to be true, for instance those who are overproductive. Even, in the last edition, it deleted the ranking of highly cited mathematicians because it found no way to separate dopers from the rest (see here). A bit like not running the Tour de France one year because there are doping substances circulating that are impossible to detect by doping tests.

But it is also a problem for us Italians, because unlike other countries we have embraced these criteria and made them the core of our recruitment and promotion system. So much so that in international statistics the Italian anomaly is clearly visible and puts us on the same level as nations that have also encouraged doping.

Moral of the story. The TIS list is a hall of fame? It is a discreet sign of provincialism to boast of being part of the TIS and to launch a journal without harbouring the suspicion of arriving out of time, when the toy is broken. Whoever is really top, a little bit of a stink should have smelt it, if he or she follows the scientific debate and does not live on top of a pear tree.

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“The Top Italian Scientists and their Journal” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.

Cartoline dal Sud: scrivere l’abbandono

 

 

 

di Valeria Nicoletti

Spira il vento in queste pagine, quello che trasforma, che allontana, ma anche quello che riporta con sé profumi, suoni e memorie di quanto ci si lascia alle spalle. Sono storie “sciroccate”, quindi, in tutti i sensi, quelle che compongono la pregevole raccolta edita da Tamu, dove si radunano dieci penne, una diversissima dall’altra, che tuttavia condividono quel sentirsi scisse, a metà, un po’ tradite e un po’ traditrici della terra che le ha generate.

Nata dal laboratorio di scrittura curato da Ubah Cristina Ali Farah e Claudia Durastanti, che ne firmano anche la prefazione, questa antologia raccoglie storie di separazioni, di migrazioni, interne o internazionali, dove la differenza tra le due è dura da decifrare, narrate da una prospettiva contemporanea e inedita, grazie anche all’età degli autori, tutti tra i venti e i trent’anni, tutti a loro modo sperimentatori di nuove tendenze, forme ma anche contenuti della letteratura attuale. Storie sgualcite da lunghi viaggi e segnate da strappi, da tagli con quel cordone ombelicale che è spesso rappresentato dalla figura della madre, o ancor più, in molti casi, della nonna, dove riaffiora una malcelata ambiguità verso quel sentimento di appartenenza, a tratti ricercato, quasi sempre fuggito.

Memorie che, per scriverle, necessitano il ricorso a una lingua sepolta, abbandonata, a rinominare cose di cui, nel tempo, sembra essere sfuggito il nome. Riemerge allora un idioma sparito, a tratti anche anarchico, con parole materiche, corporee, intime, sgrammaticate sì ma subito riconoscibili nel loro senso più autentico. Ed ecco che, sullo sfondo di paesi appoggiati alla terra “come un neonato sul corpo della madre”, si consumano tragedie che feriscono a morte, nel senso in cui La Capria si faceva mortalmente colpire da quell’indolenza tutta meridionale, perché la terra, quella che si abbandona, è sempre al Sud, che sia quello italiano o quello di altre aree del mondo. Si ritorna e si riallena il corpo a misurarsi con raffiche di vento, cariche d’umidità e temperature dimenticate, ma anche ad affrontare chi, dal paese, se n’è andato pur essendovi rimasto. Un dolorosissimo ritorno al passato, oppure un curioso e originale immaginare un futuro in cui la “grande migrazione al Nord” si sia finalmente compiuta e il mezzogiorno, dopo essere stato discarica e terra dei fuochi, sia stato tramutato in un labirinto di radici, cunicoli sotterranei e rizomi, popolato solo da pochissimi sopravvissuti.

La scrittura diventa allora strumento per cimentarsi e trovare il coraggio di sfidare narrazioni stereotipate su uno strettissimo Sud da cartolina, rigettare finalmente quello scorfano di morantiana memoria, ma anche un modo per ritrovarsi, per rimettersi insieme, per accettare finalmente il fatto di essere tramontana e scirocco insieme, di sbraitare “contro la mia terra perché non mi riguarda più” ma anche di parlarle “sottovoce perché è l’unico posto a cui assomiglio e l’unico a cui so assomigliare”. Sono storie, queste, di chiusura del cerchio, ma anche, come dice Claudia Durastanti, di “schiusura”, dove il guscio finalmente si rompe.

Storie che “terminano esattamente quando devono iniziare”, come scrive una delle autrici, per lasciare al respiro altro tempo e altro spazio e continuare la ricerca. Per fare, di questa antologia, una compassionevole ed eterogenea “opera aperta” che il lettore, anch’egli, come tutti, sicuramente segnato dalle sue migrazioni, potrà completare.

AA.VV., Sciroccate, Tamu edizioni, 2023, 212 pagine, 16 euro.

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“Cartoline dal Sud: scrivere l’abbandono” è stato scritto da ornella tajani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

“Una fitta rete d’intrecci”: su “Agatino il guaritore” di Massimiliano Città

 

di Daniele Ruini

Si suol dire che tutte le cose, tutte le verità
hanno due facce diverse o contrarie, anzi infinite
(G. Leopardi)

Ad un certo punto, lungo la statale che collega Montepicozzo Marittima a Boschetto (frazione di Vallombrina), si può scorgere una biforcazione: due stradine subito nascoste da una vegetazione lasciata crescere nella più totale incuria, dove «la mano casuale della natura ha disegnato, nel corso degli anni, una fitta rete d’intrecci ascendenti tale da non permettere, neanche a un minimo bagliore del cielo, di filtrarci attraverso». Non che la prima stradina, che si conclude in una piazzola scenario di incontri notturni, non offra materiale da romanzo; ma il narratore ci avvisa che non è in quella direzione che gli interessa procedere: sarà invece lungo la seconda strada che accompagnerà il lettore, alla scoperta di una «modesta abitazione» in cui risiede il protagonista eponimo della sua storia.

Non sembri ozioso aver voluto dare rilevanza a tali dettagli; il fatto è che è proprio nella pagina iniziale che si manifestano alcuni dei tratti caratteristici dell’ultimo romanzo di Massimiliano Città, “Agatino il guaritore” (Il ramo e la foglia edizioni). L’opera si nutre infatti di un potenziale narrativo per così dire sempre aperto a nuove possibili aggiunte, in un intreccio di sviluppi e biforcazioni potenzialmente infinito. Quello di Città è un romanzo corale, in cui intorno al protagonista ­– un presunto santone su cui girano tante voci e che da anni presta i suoi servizi ai bisognosi della zona– ruotano i destini di vari personaggi che ad un certo punto si incrociano con il suo.

E nel raccontare tutto questo l’autore sembra porsi nella stessa prospettiva della chiacchiera paesana: quelle tramandate nella vallata erano infatti storie «intrecciate», tali per cui «iniziavi a parlare di qualcuno e finivi distante una decina di chilometri a parlare delle sventure di altri, da anni lontani dagli occhi».

Facendo continuamente avanti e indietro nel tempo, il narratore ci presenta una compagine di vicende che, sullo sfondo di una provincia siciliana tagliata fuori dalla modernità, descrivono esistenze sofferte: una donna, un tempo indipendente e ambita, costretta a cedere la nipote; un ludopatico pieno di debiti; una figlia che non può più sopportare le sofferenze del padre malato terminale; un giovane calciatore che si vende le partite e che, diventato avvocato e piccolo imprenditore, desidera intraprendere una carriera politica; due genitori disperati per la cecità del loro neonato; un ragazzo, senz’arte né parte, che desidera fare il giornalista. Sono miserie di varia natura rispetto alle quali Agatino agisce come una calamita: la sua specialità è proprio quella di districarsi «in quel crogiolo di voci, facce, nomi ed esperienze» dei suoi questuanti e di vendere loro una soluzione o anche solo un barlume di speranza.

L’aura di mistero intorno ad Agatino dipende anche dal vuoto di notizie sul suo passato: nessuno sa di dove sia originario, e assai poco si conosce della sua vita precedente. Il poco che emerge dalla sua infanzia, passata in balia di una madre prepotente che non lo ho mai desiderato e che lo ha presto allontanato da sé, basta però a farci comprendere come alla base della sua remunerativa attività, in cui convivono conforto e raggiro, vi sia proprio quell’abbandono sofferto da piccolo. In questo senso la citazione da Niels Bohr posta dall’autore in esergo al suo libro, in cui si dichiara che la coesistenza degli opposti è la cifra delle verità più profonde, rimanda all’ambiguità che circonda le imprese di Agatino. Non sorprende allora che a (s)travolgere il protagonista del romanzo sarà proprio l’occasione miracolosa in cui si rivelerà capace –con suo sorpreso sconcerto– di donare a qualcuno la gioia più grande della sua carriera.

Dimostrando un’ammirevole padronanza narrativa e stilistica, Massimiliano Città ci guida con la sua scrittura raffinata in un labirinto fatto di tante storie e molteplici personaggi (molti dei quali portano, come il protagonista, un diminutivo nel nome). “Agatino il guaritore” è l’esito felice di un narratore ispirato che descrive parabole umane disperate – parabole che conducono a un venditore di speranza il cui business si basa su un postulato difficile da contestare: «Pensiamo d’esserci evoluti per il fatto di conoscere causa ed effetto dei fulmini e dei tuoni che dall’orizzonte s’avvicinano alle nostre case, ma una paura ancestrale c’è rimasta dentro le ossa».

 

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““Una fitta rete d’intrecci”: su “Agatino il guaritore” di Massimiliano Città” è stato scritto da ornella tajani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.