Unione o transizione? La radice del fallimento europeo.

Dieci anni fa tentammo per la prima volta l’esperimento del #midterm, e ci radunammo a Roma per parlare di Un’Europa senza euro. Dieci anni, e due elezioni europee, dopo, ci ritroveremo a Roma il 13 aprile prossimo per parlare di Un’Europa senza Euro 6.

I tempi cambiano, ma, come vedrete, non cambiano i temi. Semplicemente, la loro lista si allunga perché ad essa si aggiungono ulteriori declinazioni di un tema, quello della transizione, che è il tema fondante e cruciale del progetto europeo.

Su questo vorrei condividere qualche riflessione con voi, anche per raccogliere vostri stimoli e suggerimenti.

Giandomenico Maione, che abbiamo avuto ospite nove anni fa,  nel suo libro del 2014, Rethinking the Union of Europe post crisis, fa un’osservazione determinante, che deve essere compresa bene, nelle sue implicazioni, se si vuole capire in che razza di vicolo cieco ci siamo cacciati. Osserva Maione che la costruzione europea si caratterizza, più esattamente che i Trattati la caratterizzano, come un processo di transizione perenne verso una “unione sempre più stretta” (ever closer union, art. 1 secondo comma del Trattato sull’Unione Europea). Non è però chiaro quando questa unione potrà essere considerata abbastanza stretta da sancire il compimento di questo processo, di questa transizione, né, correlativamente, che forma dovrebbe prendere un’unione per essere considerata abbastanza stretta.

Basta un collier o occorre proprio una garrota?

Questo essere un processo di eterno avvicinamento asintotico ad un asintoto che non c’è, o non si vede, è un elemento particolarmente tossico per la conduzione di un ordinato dibattito democratico sulla costruzione europea. L’inesistenza di un chiaro obiettivo, che, se ci fosse, andrebbe iscritto nella Costituzione che non c’è (quella europea), genera vari livelli di problemi di delega e in particolare di moral hazard, quella forma di comportamento opportunistico del delegato (il politico) che sorge, appunto, quando il delegante (l’elettore) è nell’impossibilità di accertare la negligenza, o addirittura il dolo, del delegato nel definire il suo compito. Se questo compito è indefinito, è definito come una transizione, non come un obiettivo, accertare l’impegno di chi dovrebbe realizzarlo, accertare se e quanto si sia avvicinato al risultato, diventa intrinsecamente impossibile.

Il problema è duplice. Da un lato, evidentemente, il non sapere verso dove, verso cosa, si stia andando, rende impossibile giudicare se ci si stia andando. Di conseguenza, la concettualizzazione del progetto come eterna transizione rende logicamente impossibile valutare la qualità della leadership europea, e quindi la deresponsabilizza. Qualsiasi cosa essa faccia è sottratta alla critica, pour la simple et bonne raison che se si ignora l’obiettivo se ne ignorano distanza e direzione, e quindi resta impossibile valutare se chi è in quel momento al governo abbia compiuto passi nella direzione di guida e con la giusta velocità. Si aggiunga che questa radicale indeterminatezza apre alla possibilità  che la definizione dell’obiettivo finale sia dettata da umori estemporanei, come quelli determinati dallo stato di eccezione implicitamente causato da eventi eccezionali (non a caso, secondo Jean Monnet, l’Unione Europea sarebbe stata “la somma delle soluzioni trovate alle crisi”: perché queste soluzioni, dettate dalla violenza dei fatti, avrebbero imposto la concretezza di un obiettivo definito: risolvere, appunto, la crisi. Inutile dire, e lo si sta vedendo ora col PNRR, che una panoplia di strumenti creati in condizioni di emergenza non necessariamente costituisce l’ossatura di una Costituzione in grado di assicurare i necessari pesi e contrappesi in condizioni di normalità). L’obiettivo volta a volta perseguito, o presentato come perseguendo, poi, è anche alla mercé di rapporti di forze altrettanto estemporanei e transitori fra i singoli Stati membri, rapporti soggetti all’alea dei singoli processi politici nazionali.

Si trova forse scritto da qualche parte che l’obiettivo sia l’elezione diretta del Presidente degli Stati Uniti d’Europa? No. Però se ne sente parlare come di un obiettivo legittimo, lo si dà per assodato e pacifico, ignorando che un simile obiettivo non è stato né sottoposto a un vaglio democratico né, quindi, tantomeno iscritto in un Grundgesetz condiviso.

D’altra parte, il fatto che non si sappia e non si voglia, in fondo, sapere, che cosa l’Unione Europea debba essere, il fatto che non si sappia a che cosa debba condurre questa transizione, rende non solo impossibile valutare se ci si stia avvicinando all’obiettivo finale (e su questo ci siamo intrattenuti fin qui), ma anche se questo obiettivo sia sensato. Se non sai dove stai andando, ovviamente non puoi sapere se ci vuoi andare. Nel dibattito hanno corso solo le valutazioni implicite e scombiccherate di natura comparativa, riferite a esperienze federali sul cui successo ci si potrebbe interrogare da diversi punti di vista (come più volte ricordato, nella creazione degli Stati Uniti d’Europa a noi sarebbe riservata la sorte non brillante dei nativi) e il cui percorso storico è comunque stato totalmente diverso dal nostro, procedendo, per lo più, da una operazione di tabula rasa delle popolazioni o comunque delle culture autoctone che qui in Europa non c’è stata, nemmeno con tutto il male che ci siamo inflitti, e difficilmente ci potrebbe essere. Questa indeterminatezza del punto di arrivo apre allo sgradevole fenomeno per cui, nel momento in cui i cittadini si accorgono che le cose non stanno funzionando come promesso, che la transizione verso una Unione sempre più stretta non sta “deliverando”, come dicono quelli bravi, basta dirgli che se il processo non funziona è solo perché non è ancora compiuto, cioè che ci vuole più Europa. Naturalmente ciò che rende possibile argomentare impunemente il progetto non sia ancora compiuto è il semplice motivo che nessuno sa quale dovrebbe esserne il compimento! In altre parole, la natura di eterna transizione verso l’ignoto del progetto europeo è esattamente ciò che fornisce un fondamento logico all’argomento che altrimenti apparirebbe fallace, ma che tante volte sentiamo ripetere con apoditticamente: quello che attribuisce i fallimenti dell’Europa al fatto che ce ne vorrebbe di più!

Incidentalmente, questo schema logico, lo schema del “ci vuole più”, nato e messo in campo nel dibattito sull’Unione europea, è poi stato applicato anche ad altre situazioni di transizione verso l’ignoto. Pensate ad esempio alla gestione della pandemia! Quando era assolutamente acclarato che un certo approccio terapeutico non aveva le proprietà che gli erano state date attribuite, cioè quelle di immunizzare e sterilizzare i pazienti (nel senso di: renderli incapaci di contagio), la risposta, come ricorderete, è stata che ce ne voleva di più (“ci vogliono più dosi” era la declinazione sanitaria del “ci vuole più Europa”).

Essendo l’Unione Europea ontologicamente una transizione, non stupisce che la transizione sia la cifra della sua azione politica. Nei fatti, quello che l’Europa ci propone oggi è un florilegio di transizioni: la transizione ecologica (o ambientale, o energetica, che si voglia); la transizione digitale; il sostegno a una serie di altre transizioni di cui l’Unione si fa paladina, nella dimensione che ha assunto di stato etico, e che riguardano la sfera più intima di ogni singolo individuo. L’importante è il processo, la fluidità, e non il punto di arrivo, l’identità. Questo, se ci pensate, è il motivo per cui identità e democrazia sono logicamente connesse. Naturalmente un pezzo di questa storia è che è il processo, e non il punto di arrivo, a giustificare l’esistenza di un clero sterminato e opaco di burocrati, il cui compito è appunto quello di farci transitare, di farci transumare. Sono loro i Pastori di questa eterna e indefinita transumanza, e come tutti i Pastori essi rivendicano un ruolo di guida e pretendono un rispetto sacrale.

Restano da mettere a fuoco alcune visibili asimmetrie, o incoerenze che dir si voglia.

Ad esempio, perché per ogni singola transizione al dettaglio (ecologica, ambientale…) la governance europea ci propone obiettivi quantitativi e tempi specifici, veri e propri benchmark in base ai quali si riserva il diritto di dichiarare il successo o l’insuccesso dei suoi singoli Stati, mentre per la sua propria transizione, quella verso unione sempre più stretta, l’Unione Europea non si propone né un obiettivo definito né dei tempi precisi, sottraendosi quindi alla possibilità di vaglio democratico degli elettori? I politici, e i burocrati, europei non possono sbagliare, non sono accountable, non tanto perché sono loro a fissare a se stessi l’asticella, quanto perché questa asticella è evanescente, non c’è! Sì, certo, Ursula, che sia stata o meno corrotta dai cinesi, con il “grande balzo green” ci ha mandato a sbattere, esattamente come 65 anni fa il compagno Mao mandò a sbattere la Cina, e questo lo pagherà, gli elettori avranno voce in capitolo. Un errore simile, però, alla fine è meno disastroso del non sapere dove si stia andando e in quanto ci si debba arrivare. Alla fine, aldilà di tutti i fronzoli e gli accidenti o incidenti di percorso (come quelli che hanno colto impreparati i poveri punturini, ma non che, come noi, li aveva visti arrivare), al di là quindi di epifenomeni come la censura, il controllo manu militari dei social, lo sforzo profuso per condizionare l’opinione pubblica, ecc., più di tutto questo (che è comunque “tanta roba”), la natura antidemocratica, anzi direi ademocratica del progetto europeo risiede in questo: nel suo essere un processo ontologicamente refrattario alla valutazione da parte di un qualsiasi circuito democratico per il semplice fatto di essere un processo verso l’ignoto, verso un obiettivo non specificato se non come work perennemente in progress.

Questo in qualche modo è anche l’aspetto più nuovo e più inquietante. La censura è sempre esistita, il potere ha sempre ristretto con violenza più o meno esplicita il diritto di critica (e qui ne sappiamo qualcosa: ricordate quando ci negavano le aule a Tor Vergata, per dirne una (l’incontro annunciato qui non si è svolto, e non perché io avessi judo)? Ricordate come è nato questo blog?). Il controllo sociale è sempre esistito anche quando non veniva esercitato in forma digitale: può piacere o dispiacere come considerazione, ma si può ragionevolmente argomentare che alcuni aspetti del fenomeno religioso siano stati agiti con funzioni di controllo sociale, un controllo forse più pregnante di quello esercitato dall’Unione europea ma, attenzione, basato sostanzialmente sugli stessi meccanismi simbolici e archetipici. Vogliamo parlare, ad esempio, del tema della colpa, agilmente sostituito da quello del debito pubblico, o della redenzione, che nella religione europea conserva la “r”, quella di “riforme”? La mistica dell’espiazione, della purificazione, del percorso verso la redenzione, insomma: di quella transitio Crucis che sono “le riforme” (altro concetto indefinito, peraltro…), permea tutto il discorso politico europeo, per il semplice motivo che chi lo gestisce ha avuto la scaltrezza di fare proprio un armamentario archetipico che in tutti noi, atei compresi, tocca corde profonde. Censura, controllo sociale, compressione del dibattito, linguaggio sacrale, però sono sempre esistiti: fanno un po’ tenerezza i punturini che se ne accorgono oggi, e che forse, per accorgersene prima, invece di leggere per finta Orwell, avrebbero dovuto leggere sul serio Balzac. Il dato radicalmente nuovo, e quindi difficilmente gestibile, del momento storico in cui viviamo è che oggi essi vengono esercitati in nome di un’autorità che non si sa cosa sia, e quindi che cosa possa garantire in cambio (a parte il ciarpame propagandistico sui decenni di pace e di prosperità). Chi ci restringe non è “lo imperatore”, non è un monarca vestfaliano, non è una Repubblica liberale borghese: è un po’ di tutte queste cose, senza essere in realtà nessuna di esse.

Ed è appunto questo l’elemento che dovrebbe allarmarci.

Oggi le miserevoli vicende della rivoluzione “green” lo hanno fatto capire ad una certa fascia di pubblico, quello particolarmente attaccato al proprio autoveicolo: a Bruxelles ti dicono di andare da una parte prima di aver capito, e senza avere la volontà di capire, da che parte ti stanno dicendo di andare.  Al #midterm ne parleremo con Riccardo Ruggeri, un altro amico che ci ha accompagnato nel nostro percorso (lo ricorderete al #goofy9 parlarci di CEO capitalism). Purtroppo, se l’automobile è un concetto concreto, tangibile, esattamente come lo era il dischetto di metallo chiamato euro, la libertà, la democrazia, l’ordinamento giuridico, la legge fondante di uno Stato o di una comunità, peggio ancora la necessità che una comunità si aggreghi attorno a una norma fondante, sono concetti molto più impalpabili ed evanescenti, appartengono a quella categoria di concetti che nella mente del grande pubblico possono essere definiti solo per negazione. Ci sono infatti cose che, per qualche strano meccanismo di psicologia delle masse (materia a me totalmente ignota), i popoli tendono a rimpiangere quando li hanno persi, molto più che a difenderli quando li hanno ancora. Questo significa che la battaglia che qui da tempo stiamo compiendo per destare a razionalità il maggior numero di interlocutori possibili è oggettivamente una battaglia ardua.

Alle difficoltà appena enunciate se ne aggiunge una fondamentale, di metodo, consistente nel fatto che dobbiamo tutti chiederci quanto il fare il bene degli altri contro la volontà degli altri non coincida poi esattamente col ributtante paternalismo dei Padoa Schioppa, dei Ciampi, e via discendendo.

Bisognerebbe insomma chiedersi che senso abbia lottare per la libertà e l’autodeterminazione di persone che forse preferirebbero restare schiave! Non è un tema secondario, tutt’altro. Il fatto che in Italia esista ancora uno zoccolo duro, apparentemente inscalfibile, di persone che si riferiscono al partito che ha fatto un investimento politico massiccio su questo progetto di “depowerment” e di “unaccountability“, cioè il PD, ci deve incutere non solo e non tanto scoraggiamento, quanto rispetto. Non è escluso, e comunque non va escluso, che siamo noi dalla parte del torto e che invece le magnifiche sorti e progressive di questo processo storico rettilineo verso lo stringersi sempre di più intorno a una cosa che non si sa cosa sia, possa essere effettivamente l’uovo di Colombo, quello che ci mancava e ci manca per ottenere pace e prosperità (e quindi che ce ne voglia “di più”). Certo, la posta in gioco è elevatissima, e quindi ognuno di noi ha il diritto di portare avanti una visione alternativa rispetto a quello che scarnificato dai cascami di una propaganda lezza e putrida ci appare come un’ossatura logicamente incoerente. In questa, come in tante altre cose, si potrebbe argomentare che la gravità delle conseguenze sia tale da determinare una sorta di stato di eccezione, ma qui si entra in una circolarità che è etica prima ancora di essere logica: non possiamo combattere quelli che legittimano se stessi affermando di essere migliori di noi, affermando a nostra volta di essere migliori di loro. Questo modo di fare si attaglia a un un asilo infantile, ma se applicato al mondo degli adulti è, come infiniti esempi anche recenti dimostrano, il germe di sanguinosi e sterili conflitti.

Nel nostro appuntamento di metà anno ci occuperemo quindi non tanto della transizione dell’Unione, del suo punto di arrivo (Stati Uniti d’Europa? Confederazione?… per citare due degli slogan che in modo ricorrente vengono riproposti a vanvera nel dibattito), quanto delle transizioni che l’Unione ci propone, e in particolari di due di esse: quella digitale, di cui la transizione monetaria è un sottoprodotto, e quella ecologica. Due transizioni, si badi bene, che oltre ad avere delle rilevanti contraddizioni interne, tant’è che la transizione ecologica si sta già accartocciando su se stessa, sono anche contraddizione reciproca. La transizione digitale infatti, come del resto la stessa transizione ecologica, richiede una enorme quantità di energia e di materie prime, che non possono essere estratte dalle viscere della terra senza causare un impatto ambientale. Esiste quindi un trade off piuttosto evidente fra digitale e green, e la narrazione che dice di voler portare avanti in parallelo queste due rivoluzioni è un’altra narrazione intrinsecamente truffaldina. Oggi, per fare un esempio, il Bitcoin è uno stato grande quanto la Malesia, e una singola transazione in Bitcoin impiega tanta acqua da riempire una piscina da giardino. L’energia necessaria per alimentare la tecnologia a registri distribuiti sottostante al Bitcoin assorbe una quantità di energia stimata attorno ai 159 TWh (a mezza strada fra i consumi elettrici dell’Egitto e della Malesia: l’Italia è a circa 296 TWh). Non tutte le tecnologie digitali sono così impattanti, naturalmente. Ma l’idea che il “digital” sia amico dell’ambiente perché sostituirebbe la carta che è cattiva perché uccide i nostri amici alberi è totalmente infondata e caricaturale! Non è certo per merito del “diggital” che la superficie dei boschi italiani è in aumento. Un’idea che appartiene appunto a quell’argomentario demagogico, emotivo, basato su sollecitazioni archetipiche, cui ricorre sapientemente il clero europeo per giustificare le proprie decisioni, concepite astrattamente nelle stanze di Bruxelles, tanto impermeabili alla democrazia quanto permeabili dalle lobby. Questo è tanto più vero in un paese in cui, come ben sa chiunque faccia qualcosa, qualsiasi cosa, e da questa eletta schiera tiriamo ovviamente fuori i commentatori televisivi e i giornaloni, in un paese in cui ogni processo amministrativo digitale deve essere replicato in cartaceo perché tale è la volontà della pubblica amministrazione.

Del fondamento, della natura, e delle contraddizioni di queste rivoluzioni parleremo con due esperti che avete conosciuto all’ultimo goofy, dove hanno avuto uno spazio troppo ristretto: Gianluca Alimonti e Michele Governatori. A commentare il loro confronto, e questa è una novità metodologica che sottopongo alla vostra sagace attenzione, avremo un panel di amministratori di società del settore, cioè di uomini pratici, quelli di cui Keynes un po’ diffidava, ma senza i quali, vi garantisco, non sarebbe possibile mandare avanti la baracca. Sarà utile per voi capire se e quanta consapevolezza dei limiti di certe retoriche esista nelle classe dirigente, come sarà utile per la classe dirigente capire quanto interesse esiste per certi temi, e quanta attenzione le ordinary uninstructed persons pongono al loro lavoro.

E questi sono solo alcuni dei temi che tratteremo. Per gli altri (euro incluso), ci leggiamo domani (cioè oggi), o forse dopodomani, cioè a Pasquetta. Il link per la registrazione è qui.

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“Unione o transizione? La radice del fallimento europeo.” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.