Sotto il mirrorball: una storia della disco music

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di Simone Bachechi

Quando la disco music spopolava nelle sale da ballo di tutto il pianeta, nei secondi anni 80, chi scrive era ancora bambino. Il boom della disco c’era già stato e in ogni caso quel bambino, allora adolescente, aveva fatto suo lo slogan “Grazie a Dio è venerdì”, come il titolo del film del 1978 prodotto da Neil Bogart, uno dei mostri sacri della disco music, il produttore della Casablanca Records, casa discografica che ha allevato tanti dei cavalli di razza del genere, film che parla proprio di disco music. Quell’adolescente a quel tempo non aspettava altro che scatenarsi in discoteca, pur avendo ascoltato come primo disco in assoluto pochi anni prima “Dressed to Kill” dei Kiss ed essendosi lasciato contagiare dal glam rock, mentre successivamente andrà in fissa per The Smiths e farà da lì in avanti suo l’inno della band capitanata di Morrissey quando in Panic del 1986 canterà  “burn down the disco, hang the blessed DJ”, scatenando le polemiche di chi vedeva in questo brano un attacco di tipo razzistico verso la musica black, vera fonte di ispirazione del fenomeno disco.

Forse quell’adolescente non ne poteva già più di tutta quella musica da ballo che “non dice niente della sua vita” parafrasando il testo stesso di Panic. Forse fu lo stesso tipo di atteggiamento che portò alla Disco Demolition Night del 12 luglio del 1979 al Comiskey Park, lo stadio del baseball di Chicago, quando davanti a una folla di bianchi inferociti e intolleranti, in osservanza di una presunta superiorità del rock, vennero dati alle fiamme caterve di vinili di musica disco. Chissà che tipo di nemesi avrà portato quell’adolescente nato nei 70, quindi al giorno d’oggi si suppone adulto, lui che ha anche amoreggiato con  il punk e il post punk nato proprio  in quello stesso periodo, a rivalutare un genere, la disco music appunto, molti anni dopo, tramite un prezioso libro dalla forma di una vera e propria enciclopedia del genere.

Il libro in questione è “La Storia della Disco Music” di Andrea Angeli Bufalini e Giovanni Savastano edito da Hoepli, il primo giornalista, critico musicale e scrittore, con alle spalle pluriennali collaborazioni con varie testate musicali oltre a essere funzionario Rai nel settore radiofonico musicale, il secondo psicoterapeuta, docente e scrittore, nonché appassionato e studioso di musica.

Dal volume scritto a quattro mani dai due cultori (si deve supporre) del mirroball (la sfera a specchio che troneggiava alle origini sulle piste da ballo), scopriremo infatti anche che lo stigma verso la disco music, tramandato negli anni in molti casi,  non è dovuto a mere considerazioni musicologiche e artistiche, ma a una più meno esplicita forma di razzismo bianco e più in generale a discriminazioni verso minoranze come quelle omosessuali, latine, nere e ispaniche (soprattutto all’inizio dell’epopea disco), quelle stesse minoranze che sono state le interpreti e divulgatrici del fenomeno su scala mondiale. Vale ricordare che l’ambiente disco degli esordi è dichiaratamente omosessuale mentre quello genericamente contestatario proveniente dagli anni 60, dagli hyppie e fino a tutta la generazione post 68 è prevalentemente etero e in alcuni casi tratteggiato da tinte omofobe.

Sulla scia del successo planetario de La febbre Del Sabato Sera uscito negli Stati Uniti nel dicembre del 1977, la disco music è sdoganata a livello globale. Il Tony Manero del film, un John Travolta eccelso ballerino nonché scopriremo dal volume agli esordi anche mancato interprete musicale da discofloor, diviene un’icona e il simbolo stesso di quell’energia e voglia di riscatto della quale il ballo si fa da tramite, mentre travoltino diviene un termine dispregiativo per indicare una persona disimpegnata, superficiale, fagocitata dall’edonismo della società dei consumi, immagine esso stesso di quella società del “riflusso” di fine anni 70 e con uno strano sillogismo quindi un’amante della disco music. Da considerare invece quanto detto da Vince Aletti, giornalista del Rolling Stone che evidenzia come la musica bianca,  genericamente il rock, considera la disco music banale e artefatta perché loro, i bianchi, si sentono esclusi dal suo rituale e dal suo discorso, cioè non sono pronti a ballare e sono intenti a far passare il genere del beat in 4/4 a sottocultura, quando invece come puntualizza giustamente nella postfazione del volume Mario Biondi, esponente nostrano del soul jazz, dal quale la disco music ha tratto molto, questa non è stata sottocultura ma “una lunghissima storia di bellezza e democratizzazione della società”. Il nostro “Re” Giorgio Moroder, il musicista, produttore, vera leggenda vivente, il genio della disco e del moog, l’altoatesino che ha compiuto da poco 80 anni,  scopritore tanto per dire della “Queen of the disco” Donna Summer, ha da dire in proposito: “La disco è stata un fenomeno sociale, di costume, oltre che musicale. Anche più del rock, ma non tutti lo sanno”.

Spostandoci oltre oceano invece, dove la disco music del resto è nata, Joe Tex, veterano del soul e del R&B, il quale cavalca l’onda disco di Miami chiede ironicamente:  “Di che colore è il R&B, di che colore è il country e il soul? E il jazz e il funk? Il gospel e il rock? E l’opera? E la disco? Il reggae e il mambo?” Lo stesso Joe Tex che dirà: “Ho letto che i Bee Gees si sono arricchiti facendo musica nera, questo mi ha reso triste, molto triste e ho letto che Dionne Warwick è diventata ricca facendo pezzi bianchi: ciò mi fa diventar  pazzo, la musica non ha colore”. La musica non ha confini e non ha colori, la musica è il più bel contagio.

Il volume di Bufalini e Savastano è un bellissimo viaggio e avventura in 3D nel mondo della disco music, un vero e proprio lavoro enciclopedico e una precisa e dettagliata guida frutto di un certosino lavoro di indagine biblio e discografica, con attente e puntuali analisi musicologiche  grazie a un costante lavoro sul campo come testimoniato dalla bibliografia e dalla  lunga serie di interviste di Andrea Angeli Bufalini ai grandi interpreti del mirrorball, un lavoro svolto per la prima volta in Italia, una storia completa narrata scandagliando le sue origini afro, dal soul, al funk, al R&B, una mappa fondamentale ricca anche di curiosi e divertenti aneddoti per orientarsi nel vasto mondo della musica da ballo, focalizzandosi sul periodo 1974-1980. “Never Can Say Goodbye” del 1974 di Gloria Gaynor ne sancisce idealmente la sua nascita ufficiale, il suo sviluppo fino al suo acme e successiva disseminazione nei nuovi generi musicali fino ai giorni nostri.

Il consiglio, per godere al meglio di questo viaggio potrebbe essere quello di tenersi lo smartphone magari con cuffie inserite nella mano sinistra e il  libro da leggere nella mano destra: di modo che sfogliando le pagine, man mano che ci imbattiamo nei protagonisti della magnifica stagione del mirrorball e nei loro brani, possiamo ascoltarli o riascoltarli; e posso assicurare che si tratta di un bellissimo viaggio nel tempo al ritmo di un 4/4, immaginando magari di trovarsi allo Studio 54 di New York, la mecca della disco music degli anni 70, oppure su qualche grande pista da ballo di casa nostra, quelle nate come funghi fra fine 70 e primi anni 80 sulla scia della travoltina febbre del sabato sera, tutto questo almeno per uno come quel lui di cui parlavo nato nei 70, mentre per gli altri potrebbe essere un modo per scoprire un tipo di musica che tanta influenza ha avuto anche su quello che viene prodotto e ascoltato oggi.

Scopriremo così le sue origini a inizio anni 70 nei locali dei bassifondi di New York frequentati da neri, omosessuali, ispanici, una musica contro il machismo del rock e capiremo quale rivoluzione quel costante thump-thump, il battito cardiaco universale come lo definirà Donna Summer, avrà portato all’interno dei plumbei 70.

Scopriremo l’evolversi delle stesse dinamiche che ineriscono alla fruizione della musica partendo dal juke box, una sorta  di proto discoteca, un nuovo luogo di socializzazione. Mentre nei 60 e nei 70 la socialità legata alla musica era confinata in un certo modo sacrale e passivo ai primi concerti rock come quelli dei Grateful Dead o dei Jefferson Airplane, davanti  a un juke box si mette un gettone e si può ballare diventando protagonisti e fautori dell’evento, così come più tardi avverrà nelle discoteche dove l’azione, il movimento, il ballo, l’interazione diremmo oggi, diventa parte integrante della musica che è sparata dalle casse. Scopriremo quindi la nascita della figura del DJ, vero e proprio deus ex-machina. Il DJ diviene lo psicologo delle masse di quasi un ventennio di cultura giovanile, eppure figura ancora oggi resistente seppure sempre più di nicchia nel panorama musicale attuale. Scopriremo le grandi discotheque newyorchesi, dal mitico Studio 54 al Paradise Garage di Barry Levan, con le loro luci stroboscopiche, i pavimenti delle piste illuminati e i loro eccessi. Scopriremo anche l’evolversi del fenomeno e la nascita delle stesse sale anche nel nostro paese, oltreché il suo dilagare su scala europea con il fenomeno della cosiddetta eurodisco.

Scopriremo anche del primario ruolo rivestito dalle donne all’interno dell’esplosione della disco music. Infatti  oltre al movimento omosessuale che trova la sua espressione nella disco c’è anche un “woman power”, sempre con radici ben piantate nella black music, potere femminile che finalmente la disco music può permettere di esprimere a dispetto delle critiche provenienti da ambienti radicali che si soffermavano solo sull’aspetto esteriore dei corpi in mostra, visti come oggetti e prodotti del mondo consumistico, misconoscendo l’importanza della donna che per  la prima volta faceva irruzione in un mondo maschile, salendo sul proscenio con tutte le provocazioni e ammiccamenti sessuali più o meno espliciti, con tutta la sua forza e corporeità e non rimanendo come da sempre un defilato riflesso delle voglie e delle narrazioni maschili. Con brani come “Love To Love You Baby” e “Love Hanghover” di Donna Summer è direttamente l’orgasmo femminile a entrare in scena, per non dimenticare la sensualità lasciva delle LaBelle di “Lady Marmelade” e la Chaka Khan, già musa dei Rufus che rappresenta la parte dissacrante, profana e erotica del canto nero con il suo vero e proprio inno disco femminista di “I’m Every Woman”, un classico rilanciato nel 1992 da Whitney Houston, tutte cose in ogni caso stigmatizzate dall’oltranzismo femminista e più in generale progressista.

Scopriremo soprattutto i grandi protagonisti di quella stagione, partendo dalle due note introduttive di  Gloria Gaynor e Amii Stewart, altre due  “Disco Queens”. Scopriremo le varie tendenze all’interno del pianeta disco music, dall’orchestrale PhiIly Sound che gravita attorno alla P.I.R. (Philadelphia International Records) all’elettronica del Munich Sound di Giorgio Moroder assieme a Pete Bellotte, passando dalle origini con l’afro beat di Fela Kuti, Manu di Bango alle grandi star del discofloor: Donna Summer a partire dalla sua rivoluzionaria “I Feel Love”, l’hit planetario del quale  Brian Eno e David Bowie ebbero a dire che quello era il suono del futuro; la stessa Gloria Gaynor;   la Diana Ross di  “I’m coming out” che diventerà un vero inno gay e usata per la prima volta in un lontanissimo gay pride a New York;  e ancora T Connection; Kool & The Gang; i Trammps di “Disco Inferno”  la disco hit  ispirata al celeberrimo film “Inferno Di Cristallo” dove una discoteca posta in cima a un grattacielo prende fuoco; Asha Puthli; Abba; Barry White; Boney M, gli Chic dell’intramontabile e iconica “The Freak” e naturalmente  i Bee Gees con i loro inconfondibili falsetti e unanimemente ritenuti i veri “responsabili” della febbre del sabato sera. Oltre a questi molti altri protagonisti e combos che magari come meteore hanno occupato lo spazio di un solo 45 giri per essere presto riconsegnati all’anonimato, nomi che magari non diranno molto come Martha & The Vandellas, Rose Royce, Barrabas (da ascoltare la travolgente “Wild Safari”) e molti altri, tutti da ascoltare e ballare.

Conosceremo le grandi etichette discografiche che hanno fatto la storia della disco music, dalla Motown di Detroit alla Casablanca Records di Neil Bogart, etichetta disco per antonomasia, dalla West End alla Tk Records del cosiddetto Miami sound, tutte fucine di talenti.

Conosceremo i grandi produttori di musica disco come Norman Whitfield, Tom Moulton, l’inventore del disco in vinile da 12 pollici, poi conosciuto come Disco-Mix.

Conosceremo anche i grandi DJ che diventano un fondamentale strumento promozionale per l’industria discografica, oltre naturalmente che delle discoteche che li ospitano determinandone la loro fortuna insieme ai  soundsystem all’avanguardia e le trovate sceniche spettacolari, come i trapezisti seminudi che si agitavano sopra le teste della gente in pista, installazioni a forma di pene e la celeberrima luna dello Studio 54. Saranno loro gli altri protagonisti del successo della disco e della fortuna degli artisti. Non si spiega altrimenti il successo di Gloria Gaynor che non veniva nemmeno passata in radio. Conosceremo figure come quella dell’ italoamericano David Mancuso che riconvertirà un magazzino in disuso a sud di Manatthan in quello che diventerà uno dei templi della disco, The Loft, una vera party house alla quale si accedeva solo su invito del padrone di casa che sceglieva anche la musica. Oltre a lui nel gotha di quelle figure che determineranno il successo delle varie sale dove spesso si consuma droga e sesso ininterrottamente vale ricordare Gibbons del Galaxy, Franckie Knuckles, Larry Levan, vero deus ex-machina del Paradise Garage dove era capace di passare un brano anche sei volte di fila anche se il feedback non era buono, questo pur di imporlo al pubblico danzante, e il quale trasportava i suoi adepti nella sala da ballo come in un rito condito spesso con sostanze stupefacenti ma anche dalla voglia di stare assieme in un clima pacifico di aggregazione, senza dimenticare i DJ italiani Savarese e Guttaduro, quest’ultimo riconosciuto artefice del successo della hit di Barry White “Love’s Theme”. Più tardi,  anche dopo il boom, saranno sempre i DJ con i loro vinili, vere e proprie “orchestre portatili concentrate in solchi ruotanti” a sancire nelle discoteche il passaggio dalla disco alla dance, fino al rap, all’hip hop e alle più recenti forme di crossover.

Doveroso spazio è dato anche alla ricezione che ha avuto nel nostro paese la musica dal beat in 4/4 , la nostra Italia dove il groove incontra la melodia, dove tuttavia occorrerà più tempo perché la disco music possa essere sdoganata, salvo poi salire tutti sul carro del vincitore, artisti e interpreti a vario titolo, con esiti spesso discutibili soprattutto se raffrontati a quelli dei colleghi di oltreoceano. Notevole è stata la disattenzione e superficialità italiana anche da parte dei maggiori intellettuali che quando anche sporadicamente se ne sono occupati, lo hanno fatto solo dal punto di vista di fenomeno massmediologico, trascurando o misconoscendo le matrici socio culturali e quindi anche un degno approfondimento musicale del melting pot sonoro che è stata la musica disco. Intellettuali politicamente schierati come Gaime Pintor che liquidano il fenomeno disco come un fenomeno appunto, simbolo stesso della generazione del disimpegno e del divertimento, frutto avvelenato della deriva edonistica della società del cosiddetto “riflusso”, quando in realtà le discoteche il sabato sera o la domenica pomeriggio pullulavano di proletari che ballavano, le discoteche viste come covi di reazionari e fascisti e attaccati dai rivoluzionari della sinistra extra-parlamentare.

Con l’eccezione di alcuni intellettuali di razza quali Arbasino, Moravia e Gian Maria Volontè che spenderanno parole a favore del popolo danzante, a predominare sono il dileggio, lo sfottò e l’intolleranza più o meno manifesta, fino a che la disco non potrà essere sdoganata anche nel bel paese spesso tramite programmi di intrattenimento televisivi dove la disco music si insinua sotto varie forme: sigle stacchi; esibizioni varie; programmi cult come Discoring, Non Stop, Luna Park, Fantastico, Alto gradimento e Hit Parade, oltre grazie a figure che qua è sufficiente limitarsi a citare e che nel corso degli anni hanno alimentato la italodisco, per il resto si rimanda alla ricchezza del volume: Raffaella Carrà; Amanda Lear, il cui fascino androgino e i suoi esordi disco, prima di virare verso altri lidi,  verranno a scompaginare il paludato e ingessato aplomb del panorama culturale e musicale italiano; la compianta Stefania Rotolo; Heather Parisi; i siciliani fratelli La Bionda (One For You, One For Me); Viola Valentino; Giuni Russo; il Renato Zero di “Zerofobia” del 1977; Donatella Rettore, ineguagliata e avanguardistica esponente della disco italica; Ivan Cattaneo del quale nel volume è presente la postfazione, senza dimenticare la  genialità di Lucio Battisti che negli ultimi album del suo sodalizio con Mogol, a partire da Lucio Battisti, La batteria, Il Contrabbasso, Eccetera del 1976 è stato capace in alcuni casi di rivisitare il genere in un modo del tutto personale grazie alle sue formidabili antenne, fino all’irregolare Rino Gaetano che si domandava ironicamente se il suo Nuntereggaeppiù fosse ballato in discoteca. E ancora l’elettro sinth pop di Alberto Camerini di Rock ‘N’ Roll Robot e Tanz Bambolina, i Krismas, l’avvento alle nostre latitudini nel 1977 dei “Rockets”, i quattro alieni piombati da oltralpe con le loro teste rasate e argentate e con le voci  robotiche, segno anche da noi qualcosa stava cambiando e infine tutta una schiera di cantautori e nuove leve del decennio 70 che hanno trovato un loro sentiero musicale anche balzando sul discotrain, oltre a molte altre star e starlette che si affacceranno sulla scena spesso come vere meteore, sfruttando la ribalta televisiva, anche se con esiti spesso discutibili.

Tutto questo in La Storia della disco music di Andrea Angeli Bufalini e Giovanni Savastano è esposto e illustrato (la bellezza delle immagini e delle copertine dei dischi che si trovano disseminate nel volume è un valore aggiunto) con trafiletti e la cronologia di eventi e date che hanno segnato la storia del genere, come quella del 28 novembre del 1975 quando il Madison Square Garden di New York si trasforma nella discoteca più grande del mondo per un grandioso disco party con fra gli altri Trammps e Gloria Gaynor, una specie di Woodstock della disco music, e ancora concerti, uscite di album e hit di successo, come in una vera enciclopedia.

C’è futuro per la disco, si domandano gli autori nell’epilogo? I risultati delle nuove tendenze degli anni seguenti hanno dato la risposta. Le sue tracce si trovano nella new wave, nel synth pop, nella house, nella techno, nell’HI-NRG, nell’hip pop e nel rap, nell’acid house di matrice britannica, per non parlare dei Daft Punk eredi incontrastati dell’eurodisco, ma qui siamo già ai giorni nostri che ci dicono che la disco music non morirà, a dispetto dei suoi detrattori, ma si trasformerà, si dissolverà nei nuovi generi disseminando tracce ovunque, con prestiti, travasi e ibridazioni che in questo inesauribile crossover porteranno con sé l’intramontabile groove e il battito che scavalca i generi e invita a ballare e ci dice che forse il mondo sarebbe perfetto se scorresse a tempo di musica  disco.

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