Remoria mutagenica

di Stefano Bonifazi

Sono a scrivere i primi appunti per questo testo nel luogo in cui ho conosciuto Valerio Mattioli, la libreria-caffè La Citè di Firenze. Qualche tempo fa era qui a presentare i primi tre volumi dell’editrice Nero a cui collabora. Ero curioso d’incontrarlo, da tempo avevo iniziato a unire i puntini e notare come il nome di questo autore/musicista/critico/editore tornasse a palesarsi in situazioni che ogni volta avevano attratto il mio interesse. Senza sapere chi ci fosse dietro, dapprima incontrai un disco di un misterioso duo romano, gli Heroin in Tahiti, poi scoprii Prismo, un magazine online in cui scrivevano Raffaele Alberto Ventura, Vanni Santoni e anche un certo Valerio Mattioli, caporedattore, che nella bio si palesava come co-autore di quello strano surf rallentato e vagamente sinistro che avevo tanto apprezzato. Prismo aveva rappresentato una ventata di freschezza e introdotto ad un pubblico più vasto un ampio spettro di temi come l’accelerazionismo, certi videogiochi, fumetti, musiche ed estetiche contemporanee che nessun altro sembrava avere nel radar. In seguito un libro intitolato Superonda –  storia segreta della musica italiana, un’enciclopedia di stranezze che tralasciava il mainstream dei cantautori per concentrarsi sulla library music, il prog, la musica da film, con una conoscenza dei fatti tale da sembrare una testimonianza diretta, sebbene la storia si concluda un lustro prima della nascita dell’autore.

L’esperienza di Prismo finisce procurando spaesamento tra i lettori, tra cui me, ma qualche tempo dopo nasce Nero e la sua finestra nel web, Nero On Theory. Nero è la prima editrice in Italia a tradurre Mark Fisher, Realismo Capitalista, per opera dello stesso Mattioli, da allora con cadenza mensile procura diversi altri testi di culto tra cui la prima edizione italiana di un libro di Timothy Morton, Iperoggetti; Ballardismo applicato di Simon Sellars, altri recuperi e scoperte per cui ringrazio sentitamente i due.

Per tutto questo, in quell’occasione non potei trattenermi dall’essere invadente e approfittare della sua presenza per cercare di capire chi ci fosse dietro a questa messe di materiale interessantissimo. Arrivai a tampinarlo fin sulla porta dell’albergo dove alloggiava (scusa ancora, Valerio) e negli ultimi istanti a mia disposizione gli chiesi se era giusto sostenere che certe musiche hanno un messaggio politico anche se sono astratte e senza testo. [E’ più forte di me, alle volte penso che molti dei supposti messaggi risiedano soprattutto nelle note rilasciate dalle etichette, più che nel contenuto.]

Lì si vide Valerio Mattioli finalmente interessato. Sfilò la chiave dalla toppa e si girò verso di me inspirando profondamente per trovare le forze di rispondere. Cambiò poi idea, disse che si era fatto tardi e che avremmo continuato alla prossima occasione.

REMORIA

Non ci siamo più incontrati, ma una parte della risposta l’ho intravista nel testo del suo ultimo libro, intitolato Remoria:

“Però la techno era una faccenda diversa. Non c’era solo il fatto che piaceva ai fascisti, c’era anche il particolare che, in quanto musica non verbale, non conteneva alcun messaggio. Era un contenitore di pura superficie. Esperienza edonistica senz’altro scopo che il piacere stesso. Il fatto è che il piacere era stato la stella polare della bohème proletaria sin dai tempi del ’77 e che il coatto sintetico Ranxerox era figlio del proletariato giovanile tanto quanto i Centri Sociali che del proletariato giovanile si pretendevano eredi ufficiali […]. Svaitz nel rave aveva scoperto una dimensione finalmente liberata, e trasferire quella dimensione negli unici posti che in borgata intonavano a voce alta la litania dell’emancipazione gli sembrava non solo legittimo, ma anche perfettamente logico. E cazzo, a pensarci bene aveva ragione.”[1]

A tre o quattro anni dall’ultima festa illegale a cui abbia partecipato, Il genere di ascolto che faccio adesso di queste musiche è solitario e forse ho perso il senso della dimensione collettiva ed emancipatoria. Remoria, fra le altre cose, è qui per ricordare il tempo in cui la ricerca della festa era “una deriva psicogeografica di massa”.

L’antefatto di questa storia è l’atto di commiato degli Heroin In Tahiti, intitolato anch’esso Remoria, che si chiude con un campione del reading di Aldo Piromalli sul palco del festival di poesia giovanile di Castel Porziano nel 1979, anche titolo della poesia Affanculo.

La musica sembra quasi un lavoro preparatorio al libro, contiene in nuce le idee che sono confluite nel testo ed è come se l’autore e il suo sodale Francesco De Figuereido avessero composto una colonna sonora per un libro ancora da scrivere, in cui proprio Aldo Piromalli è contenuto, parte di una genia di attori molto eterogenea, un pantheon con il suo corollario di semidei e creature fantastiche: c’è Summano, dio romano della folgore notturna, figure mitologiche più recenti come Ranxerox, c’è il transessuale Porporia Marcasciano, Lautreamont, un ignoto tossico della Romanina e William Blake, con il supporto teorico di Luciano Parinetto e altri, tutti a rinforzare una grande metafora di partenza, che è Remoria stessa, la città che sarebbe nata se fosse stato non Romolo bensì Remo a vincere la lotta fratricida.

Mentre Mattioli palleggia con l’idea che Remoria esista realmente, usando più di una forma artistica per esprimerla nel modo più incisivo, sembra avvenire in lui sia la necessità di un avvicinamento a casa che un passaggio di consegne dalla musica alla scrittura, a giudicare anche dai titoli dei dischi che sforna con HiT, dalla Polinesia degli inizi sbarcano sulla Casilina.

Nel libro, fin dall’incipit, Mattioli racconta di come è tornato nella casa dove è cresciuto, delle peregrinazioni per la Casilina, ma non si spende in descrizioni da flâneur, il suo non è un testo di urbanistica, le case sono descritte almeno un paio di volte come “tirate su col culo” e in modo altrettanto sbrigativo si concentra altrove. Il ruolo che recita è quello dello stregone che svela dapprima l’atto fondativo magico di Remoria per poi raccontarne gli sviluppi nei decenni successivi. Tale causa scatenante avviene nel 1946 con il progetto e la successiva costruzione del grande raccordo anulare. Il GRA è l’incantesimo che divide l’anima di Roma in due: la Remoria delle borgate (borgatasfera, la chiama) è fondata da un grande cerchio magico, la Romulia del centro storico dal quadrato ordinatore, le due città/forma sono da allora in lotta.

Così inizia quel che l’autore ha soprannominato “Malleus Borgatarum”, ipotizzando che quella non fosse solo un’autostrada e rinforzando tale ipotesi tramite il racconto dei decenni successivi, nei quali nascono interi immaginari che per noi non romani sono cristallizzati in figure ormai stereotipiche, qui organizzate in un continuum le cui evoluzioni sono occasioni per rinforzare e svolgere nuovi aspetti della metafora iniziale. Così l’immaginario generato dal Pasolini di Accattone si salda tramite la sua morte violenta a Ostia con il film Amore tossico di Caligari, che riparte dall’Idroscalo mutando gli accattoni e i ragazzi di vita in proletariato giovanile (tossico), poi nei coatti, poi nei punk, infine nei ravers, tutte mutazioni di quelli che in esergo vengono appunto chiamati “mutanti”. Tutti i passaggi tra una muta e l’altra sono accompagnati da una profusione di approfondimenti che spesso fanno ricorso a Lovecraft, a Star Trek, ma soprattutto a maghi, streghe e occultisti vari: la Ostia in cui muore Pasolini è anche l’omonima canzone che al poeta hanno dedicato i Coil, grandi appassionati e collezionisti del pittore e occultista Austin Osman Spare, fautore di un approccio alla magia tramite il sesso. L’omoerotismo legato all’occulto è diffuso nel racconto, dato che non solo il GRA è l’atto fondativo di Remoria ma lo è proprio in quanto la sua forma rappresenta un enorme ano, sia la scatologia che la sessualità sterile sono parte del rito magico di fondazione, infatti Remoria è stata “partorita”, ma come dire, non in un modo tradizionale.

E’ interessante proporre un parallelo con alcune opere di Alan Moore scrittore, che ha usato la sua Northampton per ambientare due romanzi, La voce del fuoco e Jerusalem, ma soprattutto del Moore mago, che ha prodotto riti dal vivo, una tantum, con musica, voce recitante, danza e proiezioni, tutti sviluppati a partire da luoghi simbolici di Londra. Legati ad esempio alla storia della società magica Golden Dawn, Moore ha poi svolto le performance negli stessi luoghi usando una propria versione della deriva psicogeografica, intrecciando la ricerca storica con l’immaginario occulto della capitale inglese. Remoria disco e Remoria libro sembrano debitori di questo approccio, con i dovuti distinguo: il più evidente è che se i riti di Moore sono magici in senso psichedelico e l’intenzione dichiarata è creare stati di coscienza alterati nello spettatore per aprirgli la mente “a nuove idee e nuovi modi di vedere l’universo”, l’intento di Mattioli è più nascosto; la mia opinione è che il disvelamento di Remoria serva a stimolare una rinascita, una nuova mutazione.

Il merito più grande di Mattioli, almeno ai miei occhi, è di aver ricostruito una storia delle mutazioni precedenti, di aver chiarito i passaggi di testimone tra l’una e l’altra, di averlo fatto con una metafora iniziale potente, usata come principio ordinatore e condita di alto e basso come il linguaggio che usa, confezionando nel contempo la sistematizzazione di un sistema affettivo oltre ad un lavoro d’invidiabile complessità e coerenza.

I Coil, Lautreamont, William Blake, Stefano Tamburini e molti altri sono anche uno sguardo alla mia storia, ho la stessa età dell’autore e questi nomi sono tappe della mia crescita. Infatti, quel che forse Mattioli non immagina è che Remoria non si ferma ai confini della città di Roma ma esonda in tutte le direzioni, almeno fino a Firenze, dove ero a comprare Torazine proprio mentre usciva.

Per quale motivo portammo in processione una statua di metallo alta sei metri, la Venere Biomeccanica, per le strade del centro di Firenze? Perché nella sua pancia traslucida amoreggiavano due ragazze con i bulloni nei dreadlock? Com’è che la processione è finita in un gigantesco rave durato tre giorni al parco delle Cascine? Ma soprattutto come mai, reso ipersensibile da più di venti sound system che suonavano contemporaneamente da tre giorni, io che mi occupavo della chill out scelsi di mettere nel piatto proprio i Coil e ascoltarli infilando la testa nel woofer?  Perché da questo è scaturito uno spazio come l’elettro+, che con il Fintech di Roma ha condiviso la sorte? E ancora, per quale motivo anni dopo siamo ancora qui a voler usare la techno per cercare di generare uno spazio diverso, collettivo, desiderante e ci sentiamo un po’ soli?

In analogia con quanto avveniva nella capitale, anche nella Firenze che si è sempre sentita erede designata erano presenti un bel numero di coatti e di ravers, eppure è difficile sostenere che abbia avuto anch’essa un doppio rimosso. Qualche anno prima di Porta Pia, Giuseppe Poggi fece abbattere il grosso delle mura cittadine per costruire viali sulla falsariga di quelli di Haussmann per Parigi, che grosso modo sarebbero anche circolari e avrebbero potuto rappresentare l’atto magico simbolico di opposizione alla Firenze quadrata, esattamente come secondo Mattioli è avvenuto a Roma decenni dopo. Tuttavia l’Antifirenze che avrebbe potuto sorgere è stata cauterizzata già alla fine dell’ottocento, quando Poggi sistematizzò lo stile italico desumendolo dal costruito storico perché fosse usato come manuale di stile, al fine di consentire alla città di esondare ordinatamente dalle sue mura senza corrompersi.

Se si guarda a certe periferie non ha funzionato fino in fondo, ma per un po’ è andata. Per dire che l’affabulazione dell’autore non funziona oltre il soggetto a cui è dedicata, lungi dall’essere un limite tale fatto rivela ancora una volta che si sta trattando di una questione personale tra un romano e la sua città. Tuttavia per me è importante sottolineare anche che non è solo Roma a non essere più capace di generare nuovi immaginari, e nuove mutazioni. Un’Antifirenze non c’è mai stata, eppure entrambe hanno una Romulia che vorrebbe essere una vetrina asettica a pagamento da cui tutti i fastidi sono allontanati e una Remoria di campi Rom, vigili dei nuclei antidegrado dalle mani pesanti, attacco agli spazi sociali, sfratti immotivati, restrizione dei diritti e conflitto diffuso, senza che in Toscana ci sia mai stata alcuna magia nera operata attraverso una grande infrastruttura.

È chiaro dunque che Remoria mescola la fiction con la saggistica e che lo sforzo dell’autore consiste nel raccontare una storia usabile e trasmissibile della Roma postbellica, usando una premessa fantastica: una tensione ad interpretare tutti i fenomeni citati come segni dell’esistenza dell’anticittà di Remoria, senza scarti o contraddizioni in seno al suo coacervo eterogeneo. E’ invidiabile ma a volte l’autore si tradisce, specialmente quando qualche parte del suo racconto non richiede troppo commento. In tal caso sceglie una formula: “erano bè… coatti” e “erano bè… fascisti”, sembra una excusatio non petita. A parte questo, Remoria è un testo che trasuda fascino perché vissuto come un fatto personale, dovuto interamente all’osservazione diretta, anche per quei periodi in cui l’autore neanche era nato. Racconta una storia di affetti e disgusti che neanche richiedono di essere stati a Roma in quegli anni per essere considerati come un’esperienza che ci riguarda, anche per l’enorme potenza narrativa che Roma, anzi Remoria stessa ha avuto per la cultura popolare italiana, ben più di quanto non abbia saputo fare Romulia.

Theory fiction e rigore metodologico

Un altro personaggio a cui sono legato che mi sovviene ragionando su questo testo è Werner Herzog, il regista sciamano che immagina una nave sopra una montagna, crede sia una metafora estremamente importante e quindi realizza, a rischio della vita, un film tutto intorno a una visione fugace e potentissima. Lo accomuna a Valerio Mattioli un certo grado di pervicacia, ma c’è dell’altro, l’insistenza del regista tedesco a confondere le acque, ad opporsi al cinéma vérité per fornire invece una fiction con elementi di realtà così come documentari con elementi di fantasia, che giunge ad affibbiare sue frasi a personaggi storici, stando molto spesso inquadrato nella ripresa. Mi ricorda un po’ quel che è stato fatto con Remoria, un esempio pienamente compiuto di theory-fiction italiano, applicazione ad un tema domestico di un modo di scrivere e pensare che come ebbe a dire Mark Fisher mostra una compiuta dissoluzione della differenza tra teoria e fiction, spalanca quindi delle porte e pone delle domande sulla metodologia a cui siamo abituati, se interessati o coinvolti negli studi sociali o nell’urbanistica. Il grande fascino con cui Mattioli incanta il lettore mi fa chiedere se, oltre alla suggestione, sia buono e giusto che il successo del suo approccio, la sostituzione del flaneur con lo stregone, non porti magari ad un futuro ciclo di saggi scadenti, in cui la porzione di racconto fantastico rischia d’inficiare il rigore della ricerca. Per fortuna nella lista di testi appartenenti a questo genere stilata da Gregory Marks, compare anche il Walter Benjamin di Strada senza uscita, il che fa pensare che il flâneur è in fondo sempre stato uno stregone.

Remoria è un’iperstizione?

Compare più volte nel testo una parola, coniata dal filosofo Nick Land, “iperstizione”, ossia il potere che la fiction ha di generare una realtà futura. Concetto fondamentale di molta teoria di questi ultimi due decenni, è una chiave per comprendere le intenzioni di un testo come Remoria, anche perché è intimamente legato sia alla magia che all’arte, da i Canti di Maldoror in poi, quindi ben prima che Land inventasse il termine. Mattioli se ne serve per spiegare a posteriori la potenza di visioni come quella del Tamburini di Ranxerox, che nei primi anni ’80 immagina il “coatto sintetico” e che si rivela nei decenni successivi nel modo di vestire e nelle pratiche di una generazione. Il concetto sembra essere alla base anche delle motivazioni di fondo del libro: Remoria è un’iperstizione, nel senso che raccontare i quaranta o cinquant’anni dell’altra Roma, ammantarli di magia nera, rappresenta il desiderio di ulteriori mutazioni, di nuove feste, di nuova psicogeografia di massa, di nuova musica e spazi per viverla, piuttosto che il panorama odierno desolante di una Roma in cui, legali o illegali che siano, gli spazi in cui tutto questo potrebbe avvenire si restringono inesorabilmente, il Pasolini di Accattone si trasforma in una nuova oleografia a uso e consumo della rendita e quasi tutto sembra ormai perduto.

Land ha descritto quattro caratteristiche peculiari di un’iperstizione: essere un elemento della cultura che diventa reale, un dispositivo di viaggio nel tempo, un intensificatore di coincidenze e una chiamata ai grandi antichi. È presto per dire se Remoria è un’iperstizione pienamente compiuta, ce ne accorgeremo all’arrivo della nuova mutazione e dell’immane festa che verrà con essa.

 

[1] Remoria, pag. 202 203.

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