Delors e Schäuble

Due giorni fa ci hanno lasciato Jacques Delors e Wolfgang Schäuble, personaggi noti, soprattutto il secondo, ai lettori di questo blog.

Non mi sono particolarmente addentrato nella rassegna stampa (magari lo farò dopo) per consultare le editorialesse, che immagino copiose, stimolate da questa singolare coincidenza. L’unico articolo che ho letto mi è arrivato per Whatsapp, è di uno di noi (Durezza del vivere), e posso facilmente presumere che sia l’unico a dire qualcosa di sensato. Sergio attira l’attenzione su una semplice verità: tutti imputano  a Schäuble il macello della Grecia, su cui esiste dovizia di dati statistici e di evidenza aneddotica, più o meno romanzata, ma i più sorvolano sui guai che ha causato alla Germania. Se la Germania è, di nuovo, il malato d’Europa, questo dipende dal fatto che le politiche mercantiliste promosse da Schäuble negli otto anni in cui è stato in carica come ministro delle finanze (dal 2009 al 2017) conducevano naturalmente a un livello di investimenti fissi lordi inferiore alle necessità del Paese. L’illustre scomparso era in carica da quattro anni come ministro delle finanze del suo Paese quando facemmo notare che l’idea di una Germania competitiva, che esportava molto “perché investe molto” fosse radicalmente errata: la Germania esportava molto perché investiva poco. Il dato facilmente era desumibile, anche prima di consultarlo, dalla semplice identità di contabilità nazionale X – M = S – I. Se vuoi un X (esportazioni) maggiore di M (importazioni), devi avere un I (investimenti) inferiore a S (risparmi), e visto che la competizione con le economie emergenti comprime verso il basso i redditi, e quindi i risparmi, l’unico modo per avere un saldo attivo è comprimere di pari passo gli investimenti, fino all’implosione.

Inutile sottolineare che le difficoltà (autoinflitte) della Germania non devono rallegrarci.

Posso quindi immaginare che le editorialesse della sinistra “de sinistra” traggano spunto dall’infausta coincidenza per articolare un confronto fra le due Europe: quella dei “padri fondatori” (espressione da non usare mai!), cioè quella di Delors, e quella dell’austerità, cioè quella di Schäuble, annaffiando il tutto col solito pianterellino sull’austerità brutta e cattiva. Schäuble il fisico del cattivo ce l’aveva, non certo per sua colpa, ma per le conseguenze di un tragico evento di cui era stato vittima, e così veniva in qualche modo incontro a questa puerile personificazione dei processi in atto, a quella tabe del pensiero che consiste nel rifiutarsi di ragionare in termini di dinamiche oggettive, derubricandole a complottismo: una tara mentale che fin da subito abbiamo individuato come tomba del pensiero di sinistra. Fatto sta che non solo le analisi di studiosi autorevoli come Giandomenico Maione, non solo quelle di politici di rilievo come Vaclav Klaus, ma anche la cronaca quotidiana, ci illustrano come in realtà un’altra Unione Europea non sia possibile: la prevalenza, nei fatti, del “cattivo” Schäuble sul “buono” Delors, cioè la prevalenza della logica dell’austerità su quella degli investimenti, non dipende dalla sfortuna, dal destino cinico e baro, ma dal fatto che, per il mero dato contabile che abbiamo ricordato qua sopra, un’Europa mercantilista non può e non potrà mai essere un’Europa degli investimenti, quella vagheggiata da Delors. Ripeto: se vuoi un grande X – M devi avere un basso I e conseguentemente una bassa crescita (e infatti, come ricorderete, a dispetto del coro unanime dei cretini mediatici, la Germania non era stata, fino alla crisi, la locomotiva dell’Eurozona)!

La domanda quindi diventa, necessariamente: è possibile un’Unione Europea non mercantilista?

La risposta è abbastanza chiaramente no. L’Unione Europea non può non essere mercantilista. Il mercantilismo è saldamento iscritto fra i suoi principi costitutivi, che parlano di “economia sociale di mercato fortemente competitiva“, ponendo a fulcro della costituzione economica il concetto di competitività, cioè di saldo commerciale attivo, e questo non è certo un caso. L’idea che la competitività, e non, poniamo, la crescita, debba essere al centro del progetto ha radici culturali profonde, sulle quali Orizzonte48 si è lungamente esercitato.

Una di esse risiede nell’arretratezza culturale del modello di sviluppo della potenza egemone. Come ci ha spiegato Wolfgang Münchau a Montesilvano, la Germania si basa ancora oggi su un modello di crescita più consono al XIX che al XXI secolo, un modello che insiste su un settore secondario ipertrofico e ipersussidiato, su una manifattura che, in un contesto di repressione strutturale della domanda interna, è perennemente in caccia di mercati di sbocco, un modello che necessariamente conduce a un’antropologia rudimentale e perdente, in cui l’umanità è divisa in due: gli Übermenschen che vendono, e gli Untermenschen che comprano. Non che questa distorsione sia da imputare esclusivamente alla Wille zur Macht connaturata ai nostri fratelli tedeschi. In qualche modo essa è iscritta nel (dis)funzionamento del sistema monetario internazionale così come si è sviluppato dagli accordi di Bretton Woods in avanti. In questo sistema prevale una destabilizzante asimmetria tale per cui il Paese esportatore, che è parte degli squilibri tanto quanto il Paese importatore, viene visto come vincente e meritevole, a differenza dell’importatore visto come perdente e biasimevole. Che un minimo di simmetria vada ristabilito è cosa nota e accettata perfino dalle istituzioni europee, tant’è che una parte generalmente disapplicata della governance economica europea prevede sanzioni per Paesi che hanno surplus esteri eccessivi (è la cosiddetta MIP, Macroeconomic Imbalances Procedure, di cui abbiamo parlato qui e altrove). Perfino l’UE sa che il mercantilismo è autodistruttivo, e cerca di porvi rimedio: ma non ha la forza politica per sostenere coi fatti questa intuizione, per motivi su cui tornerò più avanti,

Non ce l’aveva nemmeno l’Inghilterra al tempo di Bretton Woods, e infatti la proposta di Keynes uscì sconfitta (ne abbiamo parlato  tra l’altro qui e qui): in estrema sintesi, Keynes proponeva un sistema di regolazione degli scambi internazionali in cui i Paesi in persistente surplus estero venissero penalizzati come quelli in persistente deficit, ovvero in cui vi fosse un incentivo simmetrico alla composizione degli squilibri commerciali internazionali. Fatto sta che il mercantilismo l’Europa (non l’Unione Europea: l’Europa) poteva permetterselo quando lo concepì, nel XVII secolo, e questo per un banale dato geografico: c’erano ancora tanti Paesi che potevano essere utilizzati come sbocco. Il serbatoio degli Untermenschen, o presunti tali, era o sembrava inesauribile. Già nel XX secolo, però, a terre emerse praticamente tutte scoperte e repertoriate, l’applicazione di questa filosofia politica conduceva inevitabilmente a spiacevoli inconvenienti: gli Untermenschen bisognava fabbricarli, in qualche modo. Nel XXI secolo, poi, la cosa si mette anche peggio, perché c’è un forte rischio che gli Untermenschen siamo noi! Non noi italiani, come ancora raglia qualche macchiettistico editorialista tedesco: noi europei, che ci siamo resi irrilevanti economicamente e geopoliticamente dopo esserci suicidati con l’austerità, diventando così mercato di sbocco e parco a tema degli Übermenschen emergenti.

Una simmetria degli aggiustamenti non è proponibile, però, nel microcosmo europeo, come abbiamo visto, perché non è proponibile nel macrocosmo globale. Non è poi così strano, né particolarmente originale: quando si parla di riformare in senso simmetrico il circuito monetario internazionale c’è sempre qualcuno contrario, ed è, ovviamente, il Paese, o il blocco di Paesi, che si aspetta di essere esportatore netto nel prossimo futuro. A Bretton Woods furono gli Stati Uniti, oggi potrebbero essere alcuni emergenti, quelli che detengono le materie prime strategiche. A noi europei manca ormai non solo la supremazia economica e politica, ma anche, per quanto non ce ne rendiamo conto, quella culturale per poter proporre alcunché.

Non è però solo questo tipo di cortocircuito a impedire che l’Europa “buona”, quella dei “padri fondatori”, quella di Delors, della crescita, degli investimenti, prevalga su quella “cattiva” dell’austerità. Ci sono anche dei cortocircuiti di carattere più squisitamente “politico”. Due giorni fa ricordavo che:

e questo è ovviamente uno fra i principali motivi per cui in un Paese come l’Italia l’appartenenza a un sistema di governance sovranazionale è disfunzionale e può mettere a rischio la democrazia in un modo particolarmente insidioso, cioè rendendola odiosa! Ma a questa patologia, che da quanto so dell’Europa è specifica del nostro Paese, se ne affianca un’altra: la tendenza dei politici del Nord ad additare ai loro elettorati i popoli del Sud come cause delle difficoltà in cui le economie del Nord si trovano (difficoltà che invece, da lì siamo partiti, sono prevalentemente autoinflitte)!

Anche qui, spiace per i cretini (le maggioranze vanno tutelate!), ma il discorsetto “i vostri amici sovranisti in Europa sono ostili al nostro Paese gnegnegnè” non funziona: i governi “frugali” sono o socialdemocratici (come in Germania) o di ispirazione popolare (come era Rutte in Olanda prima di cadere), quindi il discorso non tiene. Non c’entra il sovranismo. C’entra la disfunzionalità di una costruzione sovranazionale disallineata con un qualsiasi “demos”, che è quindi costretta a mantenere il circuito della legittimazione democratica a livello delle sue componenti, gli Stati membri. Questi, in un contesto simile, ben lungi dal dissolversi, acquisiscono solo un maggior potere di ricatto, con in più un’aggravante: l’interesse immediato dei Governi nazionali è quello di essere rieletti, non quello di alimentare la solidarietà fra i popoli europei. Se indicare un nemico ha un valore elettorale, alimentare la diffidenza, l’inimicizia, l’odio fra i popoli europei diventa uno sbocco naturale. E non lo fanno i cattivi sovranisti: lo fanno anche e soprattutto i buoni socialdemocratici e gli ottimi popolari. Non è niente di personale: funziona semplicemente così.

Del resto, ce lo siamo detto e vale la pena di ripeterlo: l’Europa delle regole è sostanzialmente l’Europa del sospetto, l’Europa della diffidenza degli elettorati del Nord verso i cittadini del Sud, una diffidenza alimentata da un resoconto mediatico della realtà che non è molto più equilibrato di quello che riceviamo qui, a casa nostra, dai nostri media. State pur tranquilli che una sparutissima minoranza a una cifra in Germania sa che l’Italia è un contribuente netto al progetto europeo, e che per finanziare il loro connaturato e reiterato Drang nach Osten noi ci abbiamo smenato un bel po’ di soldi che avremmo potuto utilizzare meglio a casa nostra (invece di finanziare Paesi che ci fanno concorrenza sleale mantenendo sovranità monetaria e ricevendo sussidi da noi)!

Alla fine, questo è il motivo per cui la parte più sensata della governance macroeconomica europea, la MIP di cui parlavamo sopra, non ha mai trovato concreta attuazione. Un’Europa della crescita sarebbe possibile: basterebbe sostituire al fiscal compact un external compact, ovvero misurare lo spazio fiscale non sul saldo del bilancio pubblico, ma su quello della bilancia dei pagamenti, incentivando i Paesi in surplus estero a espandere i propri investimenti pubblici. Una proposta vecchissima, che feci nel Tramonto dell’euro (è descritta qui), e che già all’epoca non era nemmeno particolarmente originale: più o meno nello stesso periodo ne parlava anche Stiglitz, per quanto in modo poco strutturato, cioè non ponendosi la questione di tradurre questo suggerimento in un insieme di regole (visto che l’UE non può essere che una UE delle regole, data la diffidenza verso il Sud alimentata dai politici “solidali & inclusivi” del Nord). Nessuno lo ha mai fatto, in effetti, questo esercizio di immaginare un diverso insieme di regole, neanche quando è stato chiaro che la crisi dell’Eurozona non fosse una crisi di debito pubblico ma di debito estero (cosa che qui sapevamo dall’inizio): abbiamo continuato a utilizzare la politica fiscale in modo asimmetrico, per attenuare i deficit di bilancia dei pagamenti, senza sfruttarla per attenuare i surplus. Tecnicamente, si tratterebbe di dare alla MIP la centralità che oggi ha lo SGP. Ma ovviamente non se ne parla! Lo sappiamo tutti che la soluzione in cui, fin che era in tempo, la Germania avesse fatto investimenti, sarebbe stata una soluzione superiore per tutto il sistema: a chi piacciono le equazioni differenziali può interessare questo, ma anche gli elettori tedeschi che votano per AfD lo hanno capito senza scomodare la scienza! Fatto sta che ora siamo andati un po’ troppo oltre. Insidiati dai cattivi “populisti”, i governi del Nord si arroccheranno nella loro fortezza di teorie economiche vetuste e di proclami demagogici. Marceremo così al passo dell’OCA (optimum currency area) verso la prossima crisi, che risolveremo coi soliti strumenti: austerità per i perdenti, Banca centrale per i vincitori.

Intuirete l’importanza di essere dalla parte dei vincitori!

Insomma, e in sintesi: due giorni fa non sono morti due interpreti di due diverse Unioni Europee. Sono morti due protagonisti dell’unica Unione Europea possibile. Sappiamo come funziona, sappiamo che non può funzionare che così: sta a noi evitare che ci massacri, rovesciando i rapporti di forza.

(…il 31 parliamo con calma del grafico della vergogna: ci sono un po’ di cose che vorrei farvi vedere…)

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“Delors e Schäuble” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.