Crescita: un confronto fra Germania e Italia

(…direi che del MES e dei ppdm ne abbiamo parlato fin troppo. Visto che quello che ci ha permesso di tirar giù la (H)MES Valiant è stato uno sforzo didattico, in vista del prossimo obiettivo torniamo alle origini dando uno sguardo originale, di lungo periodo, e fondato sui dati, a fenomeni che ci toccano da vicino, come la crescita economica…)

Ho avuto la curiosità di andare a vedere i tassi di crescita di lungo periodo di Germania e Italia. Per “lungo periodo” qui intendo il secondo dopoguerra: un periodo segnato da tanti cambiamenti, ma relativamente più omogeneo, per dire, dell’ultimo secolo, se non fosse che per il fatto che quest’ultimo è stato appunto segnato da un conflitto importante. C’è poi il fatto pratico che per la Germania ho trovato dati solo dal 1950. Abbiamo quindi una serie storica di 73 osservazioni (i tassi di crescita dal 1951 al 2023), di cui almeno le ultime due, quelle riferite al 2022 e al 2023, non sono ancora definitivamente consolidate (ma possiamo presumere che siano stimate con relativa precisione). Le serie “lunghe” per la Germania sono sul sito Destatis, quelle per l’Italia le trovate sul sito Bankitalia. Per scrupolo sono andato a verificare che questi dati coincidano con quelli del World Economic Outlook del Fmi e dal 1980 in poi (cioè dalla data a partire dalla quale il Fmi rende disponibili i dati) è così. San Tommaso s’a mort (nel Tamil Nadu, ed è sepolto a Ortona), ma chi volesse seguirne le tracce e non sapesse usare Google trova qui i dati del Fmi.

Abbiamo già affrontato diverse volte il tema della crescita economica in chiave comparativa di lungo periodo. Non è un tema banale e anche i professionisti, o secredenti tali, spesso incorrono in scivoloni. I non professionisti ancora di più, se pensate che la maggior parte di loro proprio non ha idea di che cosa sia il Pil.

Ne volete un esempio fresco, quasi di giornata?

Guardate ad esempio che cosa trovo nei commenti del blog:

Gigi ha lasciato un nuovo commento sul tuo post “Spingitori di austerità: M.Buti, su Rieducational channel”:

Si può fare austerità anche riducendo la spesa, non bisogna per forza aumentare le tasse. Un po’ di spesa penso che si potrebbe tagliare senza impatti negativi sul PIL.

Pubblicato da Gigi su Goofynomics il giorno 16 dic 2023, 00:34

Comprendo il vostro sconcerto.

Anni passati a spiegarvi che cosa fosse il Pil (qui una spiegazione sempre utile di dieci anni fa), insistendo in particolare sull’identità reddito-spesa:

Y = C + G + I + X – M

quella che afferma che il totale dei redditi percepiti (cioè, appunto, il Pil) può essere scomposto nella somma della spesa in consumi privati (C), consumi collettivi (G), investimenti fissi lordi (I), esportazioni (X), da cui sottraiamo le importazioni perché sono reddito speso per l’acquisto di beni esteri, vi avranno reso evidente che se si tagliano i consumi collettivi o la parte di investimenti pubblici che confluisce in I (negli investimenti fissi lordi), insomma, se si taglia la spesa pubblica, si taglia ipso facto il Pil. Un banale fatto di definizioni, che però, come vedete, ai più continua a sfuggire.

Che poi possa esistere lo spreco, e soprattutto la castacriccacoruzzzione, e chi lo mette in dubbio!? Se lo dicono i giornali (gli stessi che ci raccontano del Bagnai di Schroedinger, quello che al tempo stesso non conta un cazzo ma influenza le decisioni della maggioranza!) sarà senz’altro così, no? Adoriamo la vena letteraria dei migliori amici dell’uomo che si vuole informare! Purtroppo però esiste anche la noiosa contabilità, e questa ci dice che se dall’identità del Pil sottrai qualcosa a destra lo stai sottraendo anche a sinistra: non dico che sia un’operazione da non fare mai, dico che va sempre fatta con molta cautela!

Ecco: questa è una delle difficoltà che si incontrano nel parlare della crescita del PIL: il fatto che la gente non sa che cosa sia il Pil (e a parte Goofynomics nessuno la aiuta a capirlo).

Poi ce n’è un’altra, di livello, se vogliamo, superiore: il fatto che la gente (inclusi i miei ex colleghi economisti) non sappia che cos’è la crescita, non solo e non tanto in termini banalmente definitori (sì, è  o dovrebbe essere chiaro: una cosa cresce se ce n’è più di prima: vale per l’impasto del pane e vale per il Pil), quanto in termini scientifici, cioè quanto alla natura e alle cause del fenomeno crescita.

Ci siamo imbattuti in questa spiacevolissima verità diverse volte, ma in particolare parlando dei cialtroni del declino, quelli che, nel loro negazionismo degli effetti collaterali causati dall’unione monetaria, pontificavano vaniloquenti di un declino che sarebbe iniziato già negli anni ’80, o ’70, o addirittura ’60, argomentando, come ricorderete, che siccome già negli anni ’70, per dire, il tasso di crescita medio dell’economia italiana era inferiore a quello degli anni ’60, che era a sua volta inferiore agli anni ’50, quando l’euro non c’era, allora l’Unione monetaria non c’entrava nulla. Negazionismo a parte (gli ex colleghi, poverini, tengono famiglia…), questo modo di ragionare è incredibilmente dilettantesco, perché, come abbiamo spiegato diffusamente, non tiene conto del noto fenomeno della convergenza (catch-up) verso lo stato stazionario: un Paese relativamente arretrato crescerà ceteris paribus più di un Paese relativamente avanzato semplicemente perché nel primo esistono opportunità di impiego del capitale più fruttuose che nel secondo, dato che esso si trova ancora nella parte della curva di produzione in cui i rendimenti sono fortemente crescenti (l’idea insomma è sempre quella che i fattori di produzione siano più produttivi laddove sono più scarsi).

Ne consegue che in effetti in tutti i Paesi europei, usciti per lo più frantumati dalla Seconda guerra mondiale, con un deficit infrastrutturale enorme da colmare, i tassi di crescita sono partiti molto alti negli anni ’50 e sono poi andati convergendo verso valori più bassi. Ma questo i cialtroni del declino non lo sapevano: glielo facemmo vedere noi utilizzando i dati a partire dagli anni ’60.

Questa analisi aveva due conseguenze: la prima è che l’autorazzismo idiota di quelli che volevano raccontarci un’Italia marcia già al tempo del boom economico era leggermente fuori fuoco. In altre parole: i pirla del castacriccacoruzzione o del familismo amorale:

erano grossolanamente fuori strada. Non che nei loro argomenti non potesse esserci un qualche elemento di verità. Oggi si parla tanto di ciclo del carbonio, ma anche il ciclo dell’azoto ha un’importante lezione da offrirci: dal letame si dica che possano nascere fiori e sicuramente nascono funghi, quindi prima di scartare l’altrui letame bisogna purtroppo dargli un’occhiata, perché ci si potrebbe pur sempre trovare qualcosa di utile. Era però del tutto idiota sostenere la tesi di una presunta inferiorità ontologica italiana utilizzando una simile linea argomentativa, basandosi cioè sul pattern decrescente del tasso di crescita del nostro Paese, perché questo era perfettamente coerente col modello di crescita standard e quindi si ripresentava in tutti i Paesi europei (lo vedremo anche qui sotto)!

Insomma: l’eccezionalità (negativa) italiana non poteva essere individuata in una cosa che non era né eccezionale (perché prevista dal modello standard) né italiana (perché riscontrata in tutti dicasi tutti i Paesi europei).

La conseguenza in termini metodologici era piuttosto ovvia: qualsiasi ragionamento sulla performance dell’economia italiana (o di qualsiasi altro Paese), per avere un minimo di consistenza scientifica e di utilità pratica, va condotto in termini comparatistici e relativi, non in termini assoluti, e preferibilmente scegliendo termini di paragone che abbiano un senso!

Noi qui lo facemmo rapportando la crescita del reddito pro capite italiano a quello medio degli altri Paesi dell’Eurozona. Qualcuno se lo ricorderà: credo che fummo noi i primi a costruire, otto anni fa, quello dopo avremmo chiamato il “grafico della vergogna”, e che vi illustrai nella mia prolusione al #goofy4:

(se non avete tempo da perdere, ne parlo dal minuto 24:40; per inciso, apprezzerete come già nel 2015 ci fosse chiaro quello che nel 2023 è impossibile ignorare, ovvero il fatto che fossimo e siamo nella crisi più grave della nostra storia).

Il grafico che vedete qui, a 24:46:

faccio prima a ricostruirvelo che a ritrovarlo nel bordello del mio Pc. All’epoca avevo utilizzato i dati AMECO, che però arrivano fino al 1960. Per partire dal 1950 si possono usare i dati del Maddison Project, che trovate qui, ma il quadro è sostanzialmente identico:

Con qualche oscillazione il rapporto fra reddito pro capite italiano e reddito pro capite del resto dell’Eurozona cresce dall’87% del 1950 al 106% del 1995, poi dal 1997 inizia un ripido, inesorabile declino che lo riporta all’85% nel 2018. Ovviamente, come ben sapete, non c’è nessuna correlazione (come oggi si suol dire) con questo evento (non fatemi fare brutta figura, mi raccomando: sappiate comportarvi bene in società!).

(…nota tecnica: per costruire il grafico ho ricostruito il Pil pro capite dell’Eurozona esclusa l’Italia sommando i Pil e le popolazioni degli altri 10 Paesi dell’Eurozona iniziale, e poi facendo il rapporto di queste somme, cioè del Pil totale e della popolazione totale dei 10, che equivale alla media ponderata dei Pil pro capite dei rispettivi Paesi…)

Ecco: questo grafico qualcosa da pensare ce l’ha data e continua a darcela.

Oggi, come vi dicevo, volevo soffermarmi sul rapporto fra Germania e Italia, le due potenze manifatturiere dell’Eurozona. I rispettivi tassi di crescita dal 1951 a oggi li vedete qui:

e come vedete, e come vi avevo spiegato ne “I cialtroni del declino”, hanno un andamento prima facie abbastanza simile: alti negli anni ’50, poi via via più bassi. Non che non ci siano scostamenti: ci sono, e come. Ma in media il rallentamento della crescita ha avuto intensità assolutamente analoga. Una semplice interpolazione lineare (che utilizzo, avverto i puristi, esclusivamente come statistica descrittiva) ci mostra che in Germania è andata così:

e in Italia così:

quindi mentre l’Italia in media ha perso, arrotondando, 0.11 punti percentuali di crescita l’anno (che si 53 anni fanno 5.83 punti di crescita), la Germania, sempre arrotondando, ne ha perso 0.10 (che in 53 anni fanno 5.3 punti di crescita). Non è una differenza così drammatica, in media.

Tuttavia, è interessante vedere come questa differenze si è sviluppata nel tempo, e per questo vi propongo di analizzare lo scarto fra la crescita tedesca e quella italiana, e la sua somma cumulata, che vedete qui:

Le barre blu sono la differenza fra il tasso di crescita tedesco e quello italiano. Quando sono sopra lo zero la Germania cresce di più. Questo accade, ad esempio, negli anni ’50. Per facilitarvi la lettura vi aiuto così:

Così dovrebbe essere chiaro che quello lo stesso fenomeno (crescita tedesca più rapida di quella italiana) nel grafico superiore lo vedete come spezzata blu sopra la spezzata arancione, e in quello inferiore lo vedete come barre blu sopra lo zero.

Ma allora, visto che ci danno la stessa informazione, a che ci serve fare due grafici?

Perché quello di sotto ci dà anche la somma delle barre blu: i valori cumulati ci fanno capire quanto terreno guadagna (se salgono) o perde (se scendono) in totale la Germania rispetto all’Italia. E vista così la storia ha degli elementi di interesse, a mio parere.

Intanto, si vede bene che dal 1960 al 1987 la Germania ha perso costantemente terreno rispetto all’Italia, o, se vogliamo, l’Italia ha recuperato rispetto alla Germania: un processo in qualche modo fisiologico di catch-up, secondo quanto ci dicevamo sopra, che vi evidenzio con una freccia tratteggiata:

Poi si vede che l’esperienza dello SME credibile, cioè del regime di cambio fisso ma aggiustabile, con bande di oscillazione ristrette in vigore per l’Italia dal 1987, determinò un forte recupero della Germania, fino alla crisi del 1992, quando l’Italia si trovò costretta ad abbandonare lo SME svalutando:

(sono le dinamiche che vi descrissi qui, lamentando il resoconto grossolano che ne facevano certi mezzi di stampa). 

La cosa più interessante però la vediamo dopo. Una volta riaggiustati i rapporti di cambio, la Germania ricomincia a perdere lentamente ma inesorabilmente terreno fino al 2005:

In quel periodo la Germania veniva chiamata (qualcuno se lo ricorderà) “il malato d’Europa”, e da quel periodo la Germania uscì truccando le carte, cioè praticando una riforma del mercato del lavoro finanziata in deficit, che le fece sforare i parametri di Maastricht, come spiegammo qui (fra tagli di cunei, politiche attive, ecc., ci misero quasi 90 miliardi…). Ovviamente, con un simile megasussidio, l’economia tedesca decollò nuovamente, anche perché oramai eravamo dentro, ed era impensabile compensare un simile aiuto di Stato con una rivalutazione del marco:

Infine, e qui la chiudo per oggi, è interessante notare che dopo una battuta d’arresto determinata dalla crisi del 2009, che in effetti aveva colpito la Germania in modo marginalmente più grave dell’Italia (-5.9% rispetto a -5.7%), quello che dà un decisivo slancio all’economia tedesca rispetto a quella italiana, ovviamente perché spezza le gambe all’economia italiana, è la stagione dell’austerità:

Ecco: sono quelli gli anni in cui si approfondisce il divario fra il Pil italiano e la sua tendenza storica, come abbiamo visto a Montesilvano:

Dovremo tornare su quel grafico, cioè questo, che vedete al minuto 17:16:

e rileggerlo con attenzione, alla luce di tutto quanto ci siamo detti e delle molte, forse troppe informazioni che vi ho proposto e riproposto oggi.

Non credo che sia oggi possibile fare politica in Italia senza offrire una spiegazione coerente e credibile di questa visibile anomalia. Per comprenderla, bisogna inquadrarla bene storicamente, considerando l’evoluzione delle istituzioni europee, dei mercati internazionali, ecc. La domanda sul perché non ci siamo mai veramente ripresi dopo il 2009 non può essere elusa. La risposta, credo, la intuiamo tutti, ma va argomentata bene, perché abbiamo perso troppo tempo, e non possiamo più permetterci inconsapevolezza. Eppure, come credo immaginiate, non è per niente semplice, neanche dalla mia posizione vicina ai vertici, far capire che abbiamo un serio problema.

Ragioniamo insieme su come far ragionare chi di tempo per ragionare ne ha poco, anche perché sospinto dall’impazienza di chi, come voi, ora vuole una soluzione immediata, magari dopo aver votato per anni per chi era parte del problema!

So che come sempre le vostre considerazioni mi aiuteranno ad affilare la mia dialettica, quindi dichiaro aperta la discussione generale (astenersi gianninizzeri, però: il 21 avete perso, e quindi per un po’ muti e rassegnati)!

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“Crescita: un confronto fra Germania e Italia” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.