Crescita e apertura

Vi sottopongo un problema di metodo e un problema di merito.

Nel metodo, come sapete io sarei per riaccorciare la filiera, riportando qui il dibattito che da quando sono in Parlamento è stato delocalizzato nel cesso ora nero (e prima azzurro) per una serie di motivi oggettivi (principalmente la mancanza di tempo, da cui consegue la necessità di interlocuzioni rapide, e il bisogno di monitorare in modo snello i temi del giorno).

Nel merito, come studio di un caso (cioè come quella cosa che gli aziendalisti chiamano caso di studio, perché in inglese case viene prima di study), vorrei parlarvi della relazione fra apertura al commercio e crescita economica.

Che cosa lega due argomenti così distanti? Li lega l’osservazione interessante fatta a un precedente post di #goofynomics da un utente Twitter (sì, lo so, il brand è cambiato, ma il mio educated guess è che a differenza di Röntgen, che lo fece per umiltà, Musk non riuscirà a imporre questo brand al mercato…):

Parto dal metodo.

Un vantaggio del cesso nero è che consente di interagire fornendo, quando lo si desidera (cioè quando non si è Critica Climatica, per capirci) fonti e soprattutto rappresentazioni dei dati con una certa scioltezza. Su questa piattaforma, viceversa, per i commentatori inserire link attivi è un’operazione un po’ laboriosa (molti non la sanno fare, anche se è spiegata nella sezione “Per cominciare”), e inserire grafici è impossibile. Peccato però che alla facilità di introdurre materiale non corrisponda la possibilità di analizzarlo in modo approfondito. La sintesi è che io preferisco che commentiate qui, nella misura del possibile, e che se dovessi imbattermi in qualcosa di interessante lì lo riporterò comunque qui per discuterne, laddove necessiti di una discussione strutturata.

Veniamo al merito.

fabio fa un’affermazione e una domanda: l’affermazione è che il drammatico rallentamento della crescita sperimentato dal nostro Paese è correlato al rallentamento del grado di apertura; la domanda, che in realtà è un diverso modo di proporre l’affermazione, è come mai, nonostante un atteggiamento da tempo piuttosto restrittivo della politica fiscale, il crollo del Pil si sia verificato solo dopo la GFC (per i laici: Global Financial Crisis).

Anche se per voi ci deve essere un solo hashtag: #goofynomics, il ragionamento di fabio può essere condensato in un diverso hashtag: #hastatolapertura. Nel ragionamento di fabio non c’è praticamente nulla che funzioni, ma siccome è proposto in modo civile ed è argomentato vale la pena di discuterlo in dettaglio.

Parto dai fondamenti.

L’ideologia della globalizzazione, cioè, ricordiamolo sempre, l’ideologia che propugna la necessità di assicurare una incondizionata libertà di movimento internazionale ai capitali (la globalizzazione questo è), viene sostenuta nel dibattito pubblico e in quello scientifico con alcuni fatti o fattoidi. Due fattoidi ricorrenti sono che una maggiore apertura commerciale porti la pace (un esempio qui), e che porti la crescita (una rassegna qui).

Quindi: viva la globalizzazione (anche se pressoché ovunque gli elettorati, consciamente o meno, la respingono)!

Su “Lapace” (nota per i nuovi del blog: da sempre noi qui, e quindi a valle nel dibattito social gli altri, usiamo la crasi fra articolo e sostantivo per sottolineare i luoghi comuni, o comunque l’usura di certi termini), su Lapace, dicevo, le evidenze sembrano relativamente univoche, ma questo non vuol dire che siano particolarmente convincenti. Confesso di essere radicalmente allergico a qualsiasi ragionamento irenico, perché la rimozione (psicanalitica) del conflitto generalmente è l’arma usata da chi pensa di avere la forza di imporre la propria soluzione del conflitto. La desiderabilità di un mondo senza conflitto viene infatti argomentata sulla base, appunto, dell’assenza di conflitto e basta, mentre sarebbe utile saperne un po’ di più: ad esempio, quale sarebbe la distribuzione del reddito in questo Paradiso terrestre? Prendete ad esempio Leuropa che ci dà Lapace: dobbiamo commentare ulteriormente? La vita, quella biologica come quella sociale, è conflitto. La democrazia è gestione, non rimozione, del conflitto. Chi ignora questo dato a me appare subito un po’ losco, e infatti, tornando al punto, la “convincente evidenza” sul fatto che l’apertura commerciale (o più in generale l’integrazione economica) porti Lapace sconta una serie di problemi logici non da poco: il fatto che per definizione si confligge con quelli con cui si hanno relazioni, non con quelli con cui non se ne hanno; il fatto che ovviamente il conflitto deprime l’attività economica e le relazioni commerciali, il che però non significa che lo sviluppo delle relazioni commerciali riduca la probabilità di conflitti; e via dicendo, attraverso una serie infinita di problemi di endogenità e causalità inversa su cui peraltro si sono addentrati tanti studiosi: strano come una “convincing evidence” vista dal lato della letteratura spesso sembri un problema aperto! Alla fine, in questa letteratura domina la legge di Murphy: guardate ad esempio com’è andata fra Germania e Russia, due Paesi che erano così legati! La mia conclusione provvisoria, anche alla luce di quanto ci siamo detti qui, è che non è detto che un aumento dei volumi del commercio porti Lapace, mentre è abbastanza inevitabile che uno squilibrio di questi volumi porti a un conflitto.

Sulla relazione fra apertura al commercio e crescita in qualche modo partiamo avvantaggiati, nel senso che neanche il mondo degli yes men accademici riesce a proporne una visione univoca. La risposta in media è “più sì che no”, ma molti studi evidenziano una relazione bidirezionale (un esempio è qui), per cui sarebbe la crescita a causare l’apertura commerciale tanto quanto questa causerebbe la crescita, e  altri studi si chiedono addirittura se una simile relazione esista (e rispondono: più no che sì).

A questo punto, forse, sarebbe opportuno, per aiutare il lettore, chiarire di che cosa stiamo parlando. Stiamo parlando di un indicatore secondo me abbastanza inutile che differisce di pochissimo da quella che forse è la variabile più importante per attestare lo stato di salute di un’economia (secondo me e The Economist), cioè il saldo delle partite correnti (qui per semplicità consideriamo il saldo commerciale):

Mentre il saldo commerciale CA è dato dalla differenza fra esportazioni e importazioni, il grado di apertura O è dato dalla loro somma. Normalmente queste variabili vengono normalizzate rapportandole al Pil, come nelle due formule qua sopra.

Ora, voi capite che già qui c’è un problema.

Infatti, da un lato le esportazioni aggiungono domanda (estera) all’economia nazionale, tant’è che entrano nella definizione del Pil con segno positivo, dall’altro le importazioni sono per definizione domanda nazionale che se ne va all’estero, che crea posti di lavoro e reddito all’estero, tant’è che entrano con segno negativo nella definizione del Pil:

Y = C + G + I + X – M.

Questa non è né un’esaltazione dell’autarchia né un manifesto a favore del mercantilismo: è un mero fatto contabile ed economico, da cui non si devono trarre conclusioni idiote. Ad esempio, non avrebbe alcun senso dire che “siccome le importazioni sottraggono reddito, allora per promuovere la crescita bisogna azzerarle”, semplicemente perché un Paese come il nostro, che è (o in alcuni casi vuole essere) privo di materie prime, se non importasse dovrebbe chiudere i battenti! Tuttavia, nonostante alcuni generosi ed estremi tentativi condotti su casi disperati, l’idea che siano le importazioni di per sé a promuovere la crescita nessuno l’ha mai presa veramente sul serio, mentre l’idea che debbano essere le esportazioni a promuovere la crescita è iscritta, come abbiamo visto, perfino nei Trattati europei.

Il minimo che si possa dire quindi del grado di apertura O (come openness) è che somma mele e lavatrici, e infatti esiste un’ampia e dettagliata letteratura su possibili misure più adeguate dell’integrazione economica fra Paesi, letteratura promossa dal fatto che la variabile O ha un solo pregio: è facile da calcolare, ma per il resto presenta diverse criticità (vedetevele nell’articolo). Intanto però una cosa va detta, perché è immediatamente evidente all’occhio esperto: fabio questa variabile la calcola nel modo sbagliato, considerando le grandezze espresse in termini reali, mentre è uso calcolarla partendo da dati a valori correnti (in termini nominali). Per la precisione, la situazione è questa:

(tratta da qui): le statistiche ufficiali sul grado di apertura pubblicate dalla Banca Mondiale (e disponibili qui), che poi sono quelle generalmente utilizzate, si basano su grandezze nominali, mentre solo Alcala e Ciccone (2004), sul prestigioso QJE, usano una misura calcolata con variabili reali per argomentare un impatto positivo sulla produttività: un esempio prestigioso ma isolato, di cui fabio non so quanto fosse consapevole.

La questione non è di lana caprina.

Io non credo che fabio abbia agito con malizia, ma il fatto è che se invece della sua originale misura di apertura (calcolata con variabili reali) si usa quella consueta (calcolata con variabili nominali) il suo ragionamento (il disastro del Pil italiano post-2009 è dovuto al rallentamento dell’apertura) va in cocci subito:

basterà osservare che dal 1981 al 1991, quando il Pil cresceva del 2.3% in media all’anno (spezzata grigia), la misura di apertura corretta (spezzata arancione) diminuiva dal 45% al 33%. Difficile quindi argomentare che sia stato il ben più lieve rallentamento dell’apertura dopo la crisi globale a causare o concausare il disastro del Pil italiano dopo il 2009.

Se invece usiamo la misura “fabio”, cioè quella calcolata in termini reali, il ragionamento di fabio va ugualmente in cocci, ma dopo un po’. Basta osservare che questa misura non aumenta molto più negli anni ’80 (quando il Paese cresceva) di quanto aumenti dopo la GFC: fra l’81 e il ’91 passa dal 26% al 32% (sei punti), esattamente come fra il 2007 e il 2017 passa dal 53% al 59% (sei punti). Abbiamo avuto quindi due rallentamenti nella crescita del grado di apertura in presenza di due contesti di crescita molto diversi, il che avvalora l’ipotesi che questa variabile non c’entri molto con il disastro illustrato dal post di San Silvestro e che riporto qui per vostra comodità:

Alla domanda “perché, pur avendo fatto avanzo primario positivo per 30 anni, solo dopo la GFC si sono avuti effetti devastanti sul Pil?” non è difficile rispondere. Certo, avanzi primari importanti sono stati realizzati ben prima della crisi e senza effetti immediatamente apparenti sulla traiettoria del Pil:

Al massimo dell’avanzo primario, attorno al 6% nel 1997 (questa fonte riporta il 6.5%, mentre questa il 5.6%), non corrisponde un minimo del tasso di crescita. Il problema non è il saldo del bilancio pubblico, ma la sua composizione. Quello che ha fatto male ai piddini, che infatti su Twitter non riescono a trovare di meglio che farfugliare idiozie sul fatto che i miei dati sarebbero falsi (sono a prezzi costanti, come deve essere quando si analizzano fenomeni come la crescita dell’economia in termini reali!), è stato farsi sbattere in faccia il loro taglio degli investimenti pubblici:

Questo ha fatto la differenza. L’openness non c’entra niente, e le dimensioni del saldo primario c’entrano, ma poco.

A me sembrava di averlo chiarito, e quindi l’obiezione di fabio rientra nel novero di quelle fatte da chi il post di San Silvestro forse dovrebbe rileggerlo. Però, ripeto, avendo portato dei dati, poteva valere la pena di esaminarne il merito, e così abbiamo fatto.

E ora torniamo a divertirci su Twitter coi piddini smarriti per essere stati messi di fronte alla catastrofe che hanno combinato…

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“Crescita e apertura” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.