Tra verismo e magia: intervista a Claudio Metallo

di Stefano Nava

Il genere letterario del racconto pone, a chi è disposto a raccoglierla, la più proverbiale delle sfide: quella di condensare, nel più breve degli orizzonti narrativi, un intreccio strutturato e personaggi consistenti. Un lavoro letterario di fino, per un processo di orologeria di precisione che è in parte artigiano e in parte artistico. Un lavoro che, in Comandare è meglio che fottere (CasaSirio, 2021), Claudio Metallo compie con sbalorditiva disinvoltura. Il giovane autore calabrese (ma orgogliosamente naturalizzato napoletano) è di professione documentarista e autore per diletto e vocazione. La sua prosa tradisce l’occhio verista del reporter, ma lo rielabora in suggestioni di volta in volta funzionali a focus narrativi sempre differenti. I racconti che compongono l’operazione editoriale Comandare è meglio che fottere sono legati da tre grandi leitmotiv: la criminalità, il calcio e la politica. Ognuno di questi fondali di scena è reso con una sensibilità personalissima e totalmente fuori dagli schemi. La penna di Claudio Metallo trasfigura la mafia, tratteggiandone una caricatura spietata ma tragicomica; nobilita il calcio a fenomeno dal portato storico, illumina scenari socio-politici dimenticati e iconici. Nella raccolta sfilano, contaminandosi, fatto storico e fatto sportivo, crime fiction e satira, cronaca e fantastico. Un caleidoscopio di elementi rispecchiato da una lingua talvolta limpidamente impeccabile, talaltra volutamente vernacolare ed estrapolata da quelle periferie malavitose che Metallo abbozza con il favore della totale verosimiglianza.
Per mettere ordine a questa pluralità di spunti, abbiamo chiacchierato direttamente con l’autore. Quest’intervista è il frutto del nostro confronto.

Claudio Metallo nasce documentarista e approda a metà della sua parabola alla narrativa. Che deformazioni positive e negative comporta un percorso di questo tipo?

Di professione resto un documentarista, vivere di sola scrittura sarebbe meraviglioso, ma è un po’ complicato. I miei documentari hanno sempre avuto un taglio sociale e di denuncia, essendomi occupato di temi come i danni creati dal TAV o la ‘ndrangheta. Lavorando a un genere documentaristico di questo tipo, è necessario mettersi moltissimo al servizio delle persone che si intervistano per realizzarlo. Nel farlo, ogni idea creativa o volontà del regista di incidere sulla narrazione è subordinata al lasciare spazio alle persone e ai contesti che si vuole mettere in scena. Con la scrittura riesco a compiere un lavoro completamente diverso, fatto di inventiva continua, anche se spesso prendo spunto da storie che ho raccontato in un documentario o, ancora più frequentemente, da vicende che non ho potuto raccontare. Non solo per ragioni di riservatezza o vincoli, ma anche solo per esigenze di produzione che non mi hanno permesso di approfondire alcuni spunti.
Se invece vogliamo fare un discorso più contenutistico sull’influsso del documentario sul mio stile, ammetto che c’è, e moltissimo. Io nasco oltretutto come montatore e il montaggio è un processo narrativo. Tramite il montaggio ci si ritrova spesso a dover incrociare le storie, selezionando il materiale e costruendo una narrazione. In fase di scrittura quest’approccio è preziosissimo, perché il montaggio è d’aiuto nello scrivere insegnando a togliere, a scremare. E questo, tanto nel montaggio quanto nella scrittura, è un processo vitale. Tutti i montatori si trovano a dover selezionare ciò che è interessante e funzionale a una storia tra centinaia di ore di girato, e questo, specie nello scrivere racconti, è fondamentale.

“Con un romanzo si può vincere ai punti, con un racconto solo per k.o”. Questa citazione di Julio Cortázar, in calce all’introduzione di Comandare è meglio che fottere, è il manifesto programmatico di una prosa che ha nei ritmi serrati il suo valore aggiunto. Come cercare, nella stesura di un racconto, quel k.o?

Si tratta di una domanda da un milione di dollari. Come processo di lavoro, tutto parte da un’intuizione che può venire da un’osservazione o da un ricordo. Nel racconto Italia ’90, per esempio, ho fatto ricorso alle memorie del primo mondiale che io ricordi nitidamente. Poi raccolgo moltissimo materiale e da qualunque fonte: articoli di giornale, libri, blog, riviste online, saggi, film e documentari. Una volta che ho chiari tutti i passaggi del romanzo o del racconto, butto giù una scaletta e mi metto a scrivere. Effettivamente, in Comandare è meglio che fottere, cerco degli elementi che mi portino a un finale d’impatto, ma è probabilmente un processo inconscio e non attuato sistematicamente. Inoltre, un elemento che amo introdurre nei racconti sono dei connotati molto immediati per i personaggi. Spesso lo faccio, ad esempio, coi soprannomi. Nel momento in cui creo un personaggio che si chiama Totonno ‘a Culercia, e spiego che la culercia è una formica disgraziata e aggressiva, aiuto il lettore a identificare subito quel personaggio in una certa maniera, memorizzarlo e continuare nella lettura avendo un riferimento preciso sul suo carattere.

Presente e passato, fatto storico e storia sportiva, il profondo sud, il Sudamerica, la Guerra Fredda. La raccolta è policentrica ed entusiasma il lettore, costringendolo a sintonizzarsi – racconto dopo racconto – su orizzonti sempre diversi. Questa struttura compositiva è un progetto narrativo preciso o si è stratificata casualmente?

Si tratta di un’impostazione casuale. Con CasaSirio abbiamo scelto tra una serie di racconti inediti, selezionandoli secondo macro-temi, in assenza di un unico fil rouge. Abbiamo scelto come cardini della raccolta il calcio, la criminalità e la politica. La passione per la politica, per esempio, mi ha portato a raccontare orizzonti davvero particolari. Bole e Folker, per citare un caso, è stato un pretesto per mettere il punto su una mia esperienza di viaggio nell’ex Germania comunista, dove ho avuto l’occasione di raccogliere materiale sulla Stasi e su Berlino Est. Puru cu simu fimmene è invece legato a un fatto realmente avvenuto, su cui avrei voluto realizzare un documentario senza riuscirci, perché non erano più rintracciabili i superstiti dello sciopero e i pochi parenti ancora in vita non ne volevano parlare. Questa struttura variegata, quindi, è lo specchio di quest’operazione di raccolta tematica.

La lingua di Comandare è meglio che fottere è cangiante, funzionale all’esigenza narrativa di ogni singolo scenario tratteggiato. Talvolta è un creolo d’italiano e dialetto, in cui narratore esterno e personaggi si muovono in una dimensione espressiva localistica. Talaltra, è un limpido italiano. Come motivi questa scelta?

Rispetto al dialetto posso dire che determinate storie non possono essere raccontate in italiano, almeno per me. Ricreare certi contesti e strutturare certi personaggi senza il dialetto sarebbe impossibile. A un certo punto esiste chiaramente un rischio, dettato dal fatto che mettere il dialetto per iscritto è una procedura complessa. Anche per quel lettore che magari lo conosce, ma che lo ha sempre sentito parlare e nello scritto si ritrova, fatalmente, meno. Però confermo: certi personaggi, soprattutto nei racconti ambientati nel Meridione, non avrebbero mai potuto esprimersi in perfetto italiano. Poi, l’uso del dialetto in letteratura a me diverte moltissimo, anche perché permette di riscoprire termini caduti in disuso, poiché anche nelle realtà in cui il dialetto è ancora dominante questo sta subendo l’influsso dell’italiano standard. Riuscire a preservarlo attraverso la scrittura mi dà grandi soddisfazioni.

Il calcio è il fondale costante, uno dei grandi leitmotiv della raccolta. Momenti e personaggi iconici si susseguono incorniciando la narrazione: Italia ’90, Maradona, il Maracanazo del mondiale brasiliano o lo storico goal di Jurgen Sparwasser a Germania Ovest ’74. Cos’è per Claudio Metallo il calcio e qual è il suo potenziale letterario?

Io sono appassionatissimo di calcio e lo seguo con grande trasporto. Sono tifosissimo del Cosenza, e sono quindi condannato alla sofferenza più totale dal lato del tifoso. Ma, non avendo mai tifato per una grande squadra, ho sempre potuto apprezzare i grandi campioni da una posizione super partes. Amo moltissimo grandi figure iconiche: Ronaldo il Fenomeno, Francesco Totti, o Maradona che per me è imprescindibile. Questo è chiaramente l’aspetto più personale e goliardico del mio rapporto col calcio. Da autore, posso invece dire che per me è un eccezionale aggregatore sociale e un filtro di osservazione attraverso cui guardare agli avvenimenti storici. Al contempo, tanti grandi avvenimenti sportivi nascondono retrospettive storiche. Pensiamo per esempio al Maracanazo. Dietro alla tragica sconfitta della nazionale brasiliana c’è un evento poco ricordato che ha a che fare con Getúlio Vargas, caudillo e proprietario terriero che governava il Brasile da decenni. Nel 1950, un gruppo di militari ordì un colpo di stato e indisse libere elezioni, convinto del fatto che le avrebbero vinte sull’onda della grande gioia per il primo titolo mondiale. Sappiamo com’è finita: il Brasile perse la finale con l’Uruguay e Vargas rivinse le elezioni. Una vicenda incredibile, che lega a doppio filo fatto storico e fatto sportivo.

L’oscillazione tra reale e fantastico è assoluta. Alcuni luoghi, come la Petrascatanta de Il pozzo del pescaro è un non luogo idealtipico, insieme di topos paesaggistici e sociali della Calabria d’altri tempi. Altri racconti hanno coordinate topiche e temporali assolutamente precise. Ti definiresti un realista o un narratore del fantastico?

Probabilmente nella scrittura cerco di dare più fiato alla creatività e alle sensazioni. Quindi, da un certo punto di vista, mi reputo un narratore del fantastico. Potremmo, in relazione al racconto che citi, parlare con un po’ d’ironia di “realismo magico calabrese”. A me piace moltissimo ascoltare le persone. Penso sia la parte più bella del lavoro di documentarista e spesso i racconti popolari e tramandati da anziani sono zeppi di elementi magici e fantastici, perlopiù divertenti e totalmente surreali rispetto all’immaginario gotico anglosassone che abbiamo come riferimento culturale di ciò che consideriamo appunto “fantastico”.

‘Ndrangheta e camorra prendono vita nella narrazione come maschere: raccontate quasi sempre dal di dentro, spietate ma connotate con tratti di assurdo. Quali sono i modelli letterari di Claudio Metallo per quanto riguarda la letteratura criminale?

Come punto di partenza, se devo identificare una scintilla che mi ha ispirato questo tipo di rappresentazione, questa è un film di Fernando di Leo, I padroni della città. In un dialogo tra Al Cliver, Harry Baer e Vittorio Caprioli, i due protagonisti cercano di truffare L’Americano, uno spietato e potentissimo criminale. Caprioli, nel ruolo del vecchio borseggiatore in pensione, mette in guardia i due giovani, dicendo loro che corrono un rischio enorme nel cercare di raggirarlo. Al Cliver, con tutta calma, risponde che un uomo è sempre più fesso di come lo si immagini. Questa visione mi ha aperto un mondo per quanto riguarda la rappresentazione del criminale. Leggendo la cronaca giudiziaria o i fascicoli processuali, spesso ci si rende conto che il malavitoso alle volte è tutto fuorché astuto.
Secondo me, cercare di sminuire la figura del mafioso, di privarla di quell’alone di mito, ha un’utilità sociale indubbia anche in virtù del fatto che molta televisione, molto cinema e anche molta letteratura puntano a fare del boss un personaggio leggendario. Inoltre, specie in Italia, la criminalità organizzata è “un coperchio per un sacco di pentole”. Spesso, dietro ai fenomeni mafiosi, c’è un intero sistema politico ed economico che fornisce alla mafia gli input d’azione e di cui ‘ndrangheta o la camorra non sono altro che la manovalanza bieca, mossa solo dall’avidità di denaro.

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