Storia di farfalle e altre metamorfosi di Chiara Pellegrini – recensione

di Silvia Morotti 

 

Storia di farfalle e altre metamorfosi di Chiara Pellegrini (Robin, 2020)

 

“A Vincenzo Consolo, maestro di voce, maestro di memoria”: Chiara Pellegrini esordisce con un romanzo, Storia di farfalle e altre metamorfosi, che si apre nel segno di un’educazione letteraria e morale. Un libro polifonico e stilisticamente curato, con una lingua limpida, incisiva e al tempo stesso capace di abbandonarsi al “messaggio celeste” (p.9) della natura, di scendere in profondità, anzi, come scrive lo stesso Consolo, di “verticalizzare il linguaggio, spostarlo verso la zona della poesia”. Il romanzo inizia con una data fortemente simbolica: 8 marzo mattino. Si tratta di una lettera, la prima di un lungo carteggio: l’autrice è una delicatissima adolescente che ricorda Katherine Mansfield nel nome e, soprattutto, nel sentire, nel suo trovare da subito, più o meno consapevolmente, la propria religione e il proprio mondo nella scrittura. 8 marzo mattino: di quale anno? Non importa. Il tempo del romanzo si dilata: l’adolescente scrive alla se stessa che sarà, domanda alla donna se potrà finalmente, un giorno, “riempire fino in fondo ogni spazio” o se resterà per sempre “un angolo di vuoto” (p.7). Ed ecco che la donna risponde: non vuole illudere, non vuole nascondere alla se stessa del passato le ferite “che gocciano per molto tempo” (p.17), vuole che la ragazza impari ad appartenere, a “rimanere diversa” (p. 23).

La ragazza di ieri e la donna di oggi appaiono al lettore racchiuse in una stanza ideale, riunite in un miracoloso dialogo, ma il romanzo non è privo di un aggancio con l’esterno: possiamo immaginare che nella stanza ci sia una grande finestra, una di quelle finestre che tanto amava anche un’altra adolescente, Emma Bovary; lo sguardo delle due donne si posa quindi fuori: non è solo uno sguardo sognante, è anche lo sguardo di chi contempla il mondo, un mondo che si lascia cogliere nel momento in cui la primavera si schiude, fino a quando matura, alle soglie dell’estate. Una primavera e un’estate di qualsiasi anno, una primavera e un’estate di una vita che fiorisce e si trasforma, come ogni vita in ogni tempo.

La metamorfosi è talvolta espiazione e percorso di salvezza: “si resta diversi”, si deve attraversare il dolore, perdere il sé per poi riconoscersi (o almeno ricomporre qualche frammento). Tra i tanti riferimenti letterari possibili, l’immagine della farfalla non può che ricordare Guido Gozzano, l’entomologo, chiuso nel suo eremo, dove silenziose e in attesa dormono le crisalidi. Nel romanzo di Chiara Pellegrini, l’attesa è sicuramente un tema chiave, come è naturale in pagine scritte in gran parte da un’adolescente; l’adolescenza è l’età dell’attesa ed anche l’età in cui la vita ti si offre come un ventaglio di infinite possibilità: attesa, quindi, ma anche scelta. Storia di farfalle e altre metamorfosi non è un romanzo crepuscolare: è più forte, alla fine, la voglia di bruciare nella luce, dopo aver passato la vita a evitare di scegliere. Quando la metamorfosi avviene, quando Caterina si scopre farfalla, porta impresso, come l’Acherontia di Gozzano, un segno spaventoso, qualcosa a cui non è riuscita a dar nome per molto tempo, un trauma che ha condizionato, sotterraneo e prepotente, tutta la sua esistenza. Se le voci maschili sono evanescenti – l’amore non goduto della giovinezza o l’amore della maturità- c’è invece personaggio maschile che, pur restando sullo sfondo, domina l’intera esistenza di Caterina: è la vera ferita, il dolore rimosso, l’incarnazione del male che non ha voce ma ha “mani”, “mani calde”, odiose e brutali, il cui ricordo ossessiona Caterina. Il trauma avviene quando Caterina sta per sbocciare. La farà sentire “fuori posto” (p.7) nella sua primavera e nella sua estate. Le renderà indispensabile trovare una strada per “restare diversa”, per fiorire, nonostante tutto. Un varco per Caterina sono le piante e i fiori che lei ama. Le piante non possono muoversi, non possono parlare. Le piante le somigliano ancora di più dopo quel trauma che l’ha inchiodata e le ha tolto la voce. Eppure, lei continua a fiorire, consapevole di quanto dolore richieda il mutare forma. “Fiorire non è uno scherzo”, scrive Caterina adulta (cfr. lettera del 23 marzo, notte di stelle):

 

Fiorire non è uno scherzo. È necessario spaccarsi ed è doloroso. La gemma riposa nella fibra del ramo tutto l’inverno. Quando primavera entra e, come sappiamo, non bussa e ha passo sicuro, la gemma erompe dalla scorza ed è una spaccatura. Le fibre si sono tese allo spasimo dentro il ramo per far posto all’ingrossarsi di quel grumo composito e duro di vita e quando questo è gonfio abbastanza, ecco che la sua eruzione lacera e apre il varco. Primavera entra e non bussa e ha passo sicuro. Ieri il verde non c’era, oggi vibra a ogni soffio sulle punte dei rami. Ma questa esplosione, che sembra avvenuta stanotte, chiamata dal silenzio delle stelle, ha impiegato mesi per aggregarsi, comporsi, strutturarsi, e lo ha fatto a spese delle fibre dell’albero, piegate, ritorte, compresse e infine strappate, lo ha fatto succhiando, mungendo, spremendo linfe e umori vitali alla pianta tutta. Tutto quel che cresce fa male a tutto ciò che racchiude. Tutto ciò che cresce lacera tutto ciò che lo vorrebbe avvolgere e contenere. Crescere e racchiudere, coraggio e paura. Il movimento della vita. La vita e la morte. Coraggio e paura.

 

Anche la letteratura, come la natura, è cosa viva. In un universo frammentato e sfuggente, l’io si perde in un gioco di specchi: Caterina si ritrova nel mondo vegetale e nei libri, in altre voci di donne, poetesse, scrittrici o protagoniste di pagine narrative. Tra le molte storie citate, nel romanzo si ricorda il racconto Rose rosse, della siciliana Maria Messina, una storia dura e violenta: “sostieni anche tu, se ne hai coraggio, che è la solita scrittura femminea”, afferma la voce narrante, parlando a se stessa, ma rivolgendosi in realtà a un uditorio più vasto, al pubblico che ancora dibatte sull’annosa questione se esista o meno una scrittura femminile. A tale riguardo, l’autrice di Farfalle e altre metamorfosi rivendica l’esistenza di quello che Sandra Petrignani (Laterza, 2019) chiama “lessico femminile”: una lingua diversa, espressione di un “pensiero naturalmente autocritico” e spesso “inascoltato” (ibidem, p.7), una lingua che sa trattare con leggerezza temi pesanti, proprio come avviene per Maria Messina e per la stessa Pellegrini.

Caterina diviene farfalla e, in parte, si libera e si riconosce; non smette di confrontarsi con il dolore che l’ha resa quello che è, ma trova una strategia per “restare diversa”. Come Marcel, alla fine della Recherche, si scopre scrittore, così Caterina comprende che ciò che l’aspetta, da sempre, è “un volo di parole” (p. 217). Le due donne, la ragazzina e la donna matura, trovano un varco e balzano fuori, fuggono, in un luogo dove non è necessario scegliere. E passare quel varco “è rimanere diversi”, “trasfigurare” (cfr. p. 21):

 

No, non è una contraddizione: rimanere diversi è un trasfigurare. Sei ancora tu, ma indossi una veste nuova, come dopo una risurrezione, una volta che la pietra del sepolcro è rotolata di lato e si esce dalla tomba come dal grembo materno, scintillanti di luce e rinati.

 

Scrivere non imprigiona, scrivere è “restare diversi”: Caterina, come Katherine, trova nella scrittura la sua religione, il suo mondo, la sua vita.

 

Silvia Morotti


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“Storia di farfalle e altre metamorfosi di Chiara Pellegrini – recensione” è stato scritto da giuseppe schillaci e pubblicato su Nazione Indiana.