Loci soli. Macchine di morte di Raymond Roussel e Adolfo Bioy Casares

Andrea Cortellessa

Una trama perfetta. Di quanti romanzi si può dire lo stesso? A dirlo fu uno che di romanzi non ne scrisse mai uno, ma molti ne aveva letti: fu Jorge Luis Borges, infatti, a scriverlo dell’opera prima di un giovane scrittore suo conterraneo, che aveva conosciuto poco tempo prima e col quale si legherà, da allora in poi, di un’amicizia talmente stretta da potersi dire una simbiosi. Al punto che forse non si esagera se si dice che – con paradosso, a ben vedere, squisitamente borgesiano – «il romanzo di Borges» fu perfetto, a suo dire, solo perché non fu lui ad averlo scritto. L’altro scrittore è Adolfo Bioy Casares, e il romanzo in questione è L’invenzione di Morel: che Sur rimanda in libreria (l’ultima edizione risaliva al 1994 da Bompiani, che nell’occasione riproponeva la prima traduzione, di Livio Bacchi Wilcock, pubblicata nel ’66) con la nuova, incantata versione, e l’informatissima postfazione, di quella che è con ogni probabilità la nostra maggiore esperta di letteratura ispanoamericana, Francesca Lazzarato. La quale sottolinea come il «prologo» di Borges, in quel 1940, di quella trama non si mostrasse poi così fedele: se la riassumeva come quella d’un «romanzo d’avventure» (che, in quanto tale, «è un oggetto artificiale» – scriveva Borges, polemico col romanzo «psicologico» e quello «realista», ma prendendosela anche con Proust, ai cui capitoli «ci rassegniamo come a quanto c’è di insipido e di ozioso nella vita quotidiana» – e dunque non «soffre di alcuna parte ingiustificata»). Laddove, se di avventure si può parlare, sono quelle – quanto mai borgesiane – della mente, e del desiderio. Più che una volontà di appropriazione da parte sua, il «prologo» di Borges pare a me uno snobistico gioco coll’amico – col quale di lì a poco, infatti, prenderà a firmare (spesso sotto stravaganti pseudonimi) trattamenti cinematografici, racconti polizieschi e altri divertissements.

La trama dell’Invenzione di Bioy Casares è perfetta anche perché assai semplice. L’inizio è quello, canonico, del fuggiasco sull’isola deserta: sono le pagine del suo diario quelle che leggiamo. L’uomo senza nome è uno scrittore che, per qualche motivo altrettanto innominato, è stato condannato all’ergastolo nel suo paese, il Venezuela; trova rifugio su un’isola, che crede essere quella di Villings, in Polinesia, sulla quale un conoscente italiano gli ha detto che qualche tempo prima sono stati costruiti «un museo, una cappella, una piscina», edifici ora in abbandono. Nessuno vuole approdare laggiù, perché l’isola è infestata da una malattia «che uccide dall’esterno verso l’interno»: la speranza di sopravvivere, se se ne viene affetti, non supera i quindici giorni. Proprio per questo, però, al fuggiasco appare una destinazione perfetta. Ma pochi giorni dopo il suo arrivo si produce «un miracolo»: senza preavviso l’isola si «popola di persone che ballano, passeggiano e fanno il bagno in piscina, come villeggianti installati da tempo a Los Teques o a Marienbad». Il fuggiasco si vede così costretto a fuggire una seconda volta, nell’interno paludoso dell’isola. Poi però si avvicina di nuovo e comincia a spiare i «villeggianti»: i quali sono abbigliati come andava di moda qualche anno prima, ascoltano musica anch’essa un po’ passé, trasmessa da un fonografo, e soprattutto, inspiegabilmente, giorno dopo giorno compiono sempre le stesse azioni, in loop: il ciclo di una normalissima settimana di vita, senza che nulla manchi di quanto c’è di insipido e di ozioso nella vita quotidiana. Chiacchiere senza peso, partite a tennis, svogliati tentativi di corteggiamento. Un uomo il cui nome è Morel, con la barba e in tenuta da tennis, tenta ripetutamente l’approccio a una donna dalla «bellezza senza limiti», che porta il nome goethiano di Faustine. Giorno dopo giorno si ripetono gli approcci, le esitazioni, il nulla di fatto («attimo fermati, sei così bello!»). A un certo punto il fuggiasco esplora i sotterranei delle costruzioni, sull’isola, dove scopre dei macchinari, specchi mobili azionati dal vento e dalle maree; finalmente capisce la verità: le persone sull’isola in realtà sono morte da tempo e quelli che vede non sono altro che fantasmi, ombre artificiali proiettate appunto dalla macchina che è stato Morel a inventare (una virtual reality avanti lettera). Per questo ripetono sempre gli stessi gesti, in un «atroce eterno ritorno». Quello che l’arrogante Morel spaccia per un «paradiso privato» per lui, che non vi può accedere e non può toccare Faustine di cui s’è innamorato, è «un inferno». Allora il fuggiasco sceglie di esporsi a sua volta al registratore di Morel – pur sapendo che sono proprio i suoi specchi a produrre la malattia dell’isola – allo scopo di inserirsi in quell’«eternità a rotazione», e così «entrare nel paradiso della coscienza di Faustine» (un po’ come riesce a fare – non per l’eternità, purtroppo – il cacciatore di replicanti «K» colla sua fidanzata virtuale «Joi», nel Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve appena uscito in Italia).

«Romanzo algido, geometrico», «popolato di araldici emblemi più ancora che di simboli», definiva L’invenzione di Morel un giovane Michele Mari, introducendo la sua edizione precedente (in pagine raccolte nella sua inaggettivabile raccolta di saggi I demoni e la pasta sfoglia, riproposta in versione ampliata dal Saggiatore) ed evocandone alcuni precedenti letterari (L’isola del dottor Moreau di H.G. Wells e La nube purpurea di M.P. Schiel) e alcuni derivati cinematografici (a partire dall’Anno scorso a Marienbad di Robbe-Grillet e Resnais). Di questi se ne possono aggiungere altri, e maiuscoli: da Solaris (di Stanislav Lem e Andreij Tarkovskij) a Shining (di Stephen King e Stanley Kubrick), senza dimenticare la bella versione che appunto per il cinema, del romanzo, realizzò nel 1974 come sua opera prima il compianto Emidio Greco. Il quale, convinto – a differenza di Orson Welles e Bernardo Bertolucci – che il suo scrittore preferito, appunto Borges, fosse infilmabile, si rivolse a quanto, al suo mondo, riteneva fosse più vicino. E davvero, a quel mondo, l’Invenzione dell’amico deve molto: Morell si chiama un personaggio del suo primo libro di narrativa, Storia universale dell’infamia, ma soprattutto è alla Storia dell’eternità (uscita quattro anni prima dell’Invenzione, nel ’36) che deve, Bioy Casares, l’idea che la tecnologia moderna – Borges cita «il disco del grammofono di Berliner o il perspicuo cinematografo» – dell’eternità non possa produrre che dei surrogati. Proprio questo, secondo Borges, ci rende «fastidiosamente spettrali» (proprio come gli specchi: nella fantasmagoria più vertiginosa di FinzioniTlön, Uqbar, Orbis Tertius, uscito su rivista lo stesso anno dell’Invenzione – Borges si diverte ad attribuire proprio a Bioy Casares la sentenza per cui «gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini»). L’eternità tecnologica di Morel non può che deludere, e anzi alla lunga apparirci un inferno, perché non può produrre che fantasmi. Pretende di garantirci la vita eterna, ma della vita non fa che dissipare quel poco di cui siamo dotati in sorte.

Anche Borges, nel suo «prologo», evoca un possibile precursore di Bioy Casares, L’isola del dottor Moreau di quello che, per la verità, è un feticcio letterario suo: il pioniere britannico della fantascienza Herbert G. Wells. Fanucci ne ripropone in edizione economica una vecchia traduzione, col pregio però di una smagliante nuova prefazione di quello che della fantascienza è il nostro maggior studioso, Carlo Pagetti. Il romanzo, del 1896, ha un innesco pressoché identico a quello dell’Invenzione, con un naufrago che sbarca su un’isola misteriosa in mezzo al Pacifico, dove scopre una popolazione mostruosa di esseri a metà fra uomini e bestie: prodotti, scoprirà, di orribili esperimenti – di un’eugenetica pre-nazista – compiuti da un altro scienziato dal nome molto simile a quello di Morel, il dottor Moreau appunto. Il socialista Wells ha, della tecnologia moderna, un’idea ambivalente: come dice Pagetti, l’Isola rappresenta in questo senso un giro di vite rispetto all’immagine, già terrificante, del romanzo wellsiano dell’anno precedente, La Macchina del Tempo (a sua volta riproposto da Fanucci, sempre in una vecchia traduzione ma con prefazione dello stesso Pagetti, contemporaneamente alla nuova e ben più godibile versione consegnata dall’aficionado Michele Mari alla prestigiosa collana «Letture» di Einaudi), improntato a un’interpretazione negativa, distopica, delle concezioni di Darwin, ma anche a una loro parossistica applicazione alle idee marxiane (e infatti la Terra dell’anno 802.701 vede la razza umana distinta in due classi sociali che hanno subito un’evoluzione genetica distinta: lontani eredi della classe borghese sono gli aerei e spirituali Eloj, mentre dal proletariato industriale discendono i bestiali Morlock che, reclusi sottoterra, degli Eloj appaiono schiavi ma, in realtà, di essi orribilmente si nutrono). Il presunto «progresso del genere umano», conclude Welles La Macchina del Tempo, non è che «un ammasso scriteriato destinato inevitabilmente a crollare e distruggere i propri artefici».

È una morale che consuona con quello che si può considerare senz’altro, come fa Pagetti, il vero archetipo di questa filiera letteraria: La Tempesta. Qui lo «scienziato pazzo» che vuole farsi re della sua isola, Prospero, non usa la tecnologia bensì la magia. Ma, un secolo dopo l’Utopia di Sir Thomas More (altra ovvia allusione dell’onomastica di Wells e Bioy Casares), Shakespeare inaugura la visione ambigua, tutt’altro che utopistica, di questi dispositivi: alla fine Prospero sceglie di infrangere il suo incantesimo e spezza la sua bacchetta magica (lo stesso, per inciso, farà il fuggiasco sull’isola di Morel – con ciò capovolgendo il finale di Bioy Casares – nella versione di Emidio Greco).

Di colui che a Wells contende il ruolo di pioniere della fantascienza moderna, Jules Verne, era appassionato sino all’idolatria lo scrittore in assoluto forse più singolare ed enigmatico dell’intera storia della letteratura: quel Raymond Roussel del cui unico romanzo, Locus Solus del 1914, una giovane e raffinata casa editrice di Potenza, Grenelle, manda in libreria una nuova traduzione, di Susanna Spero (che si aggiunge così all’unica di cui si disponeva finora, quella di Paola Dècina Lombardi uscita da Einaudi nel ’75). Qui pazzo non è tanto il protagonista Martial Canterel, l’ennesimo scienziato che sceglie di isolarsi in uno spazio concluso (la villa nei pressi di Parigi che dà il nome al romanzo), bensì, direttamente e clinicamente, il suo autore: il quale concluderà i suoi giorni nell’estate del 1933, forse suicida, chiuso in una stanza dell’Hotel des Palmes di Palermo (sul suo paziente lo psichiatra Pierre Janet aveva pubblicato un libro qualche anno prima; un altro gliene dedicherà, a trent’anni dalla morte, Leonardo Sciascia). Costretto alla brevità mi limiterò a dire semplicemente pazzesca, in effetti, la trama (se così si può definire) di Locus Solus. Non a caso i surrealisti idolatrarono il suo autore: il quale, frustrato per non aver mai conseguito il successo «borghese» cui anelava, non si sottraeva al loro abbraccio ma, semplicemente, non ne capiva il motivo. Non capiva il loro Freud, né tantomeno il loro Marx. E sospetto che fosse proprio per quest’affiliazione, in termini ideologicamente loro repellenti, che né Borges né Bioy Casares vi fanno cenno: ma anche Locus Solus figura nell’affollato albero genealogico dell’Invenzione di Morel. D’altra parte la visione della tecnologia in Roussel, come nel «suo» Verne, nulla ha di ambiguo né tantomeno di infernale: con i propri inverosimili macchinari (perfettamente «celibi», cioè inutili: Marcel Duchamp non farà mistero di esservisi ispirato) il «Maestro» Canterel, come lo definisce il narratore, persegue davvero l’immortalità, l’unica che potesse concepire – nella sua «solitudine assoluta», «puerile e quasi sublime», per dirla con Sergio Solmi – Roussel. Mediante complicatissime macchine spesso fatte di specchi e azionate dal vento e dall’acqua, nelle quali splendida e irraggiungibile nuota una danzatrice di nome Faustine, Canterel riporta in vita i morti: li costringe – con quieta, serena, imperturbabile terribilità – a rimettere in scena gli attimi salienti della loro esistenza e fa udire di nuovo, con un brivido, la loro voce registrata. È un mondo davvero algido, quello di Roussel: un obitorio ornato dei materiali più preziosi, in cui sono il linguaggio, la scrittura – scrisse una volta Michel Foucault, dedicando un intero libro a Roussel, nel 1963 – la vera, la più terribile macchina di morte.

Adolfo Bioy Casares

L’invenzione di Morel

a cura di Francesca Lazzarato

Sur, 2017, 135 pp., € 15

Raymond Roussel

Locus Solus

traduzione di Susanna Spero, introduzione di Marco Pascarelli

Grenelle, 2017, 246 pp., € 18

H.G. Wells

L’isola del dottor Moreau

traduzione di Giuseppe Zito, introduzione di Carlo Pagetti

Fanucci, 2017, 183 pp., € 10

H.G. Wells

La macchina del tempo

traduzione di Giuseppe Zito, introduzione di Carlo Pagetti

Fanucci, 2017, 170 pp., € 10

H.G. Wells

La Macchina del Tempo

a cura di Michele Mari

«Letture» Einaudi, 2017, 129 pp., € 17


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“Loci soli. Macchine di morte di Raymond Roussel e Adolfo Bioy Casares” è stato scritto da maria teresa carbone e pubblicato su Alfabeta2.