Il Requiem di Bob Dylan per Bob Dylan

Per molto tempo mi sono dispiaciuto di non saper cantare né suonare, dopo aver sentito Rough and Rowdy Ways, l’ultimo disco di Bob Dylan, ringrazio il cielo di essermi dedicato ad altro. Nel cantautorato può succedere che un signore che in quel campo ha lo spessore di Dante Alighieri arrivi, ottantunenne, con un capolavoro in grado di annichilire chiunque altro provi a scrivere musica d’autore. Non dico che non possa accadere niente del genere in letteratura, ma per ora nessuno scrittore vivente mi ha mai comunicato un’impressione tanto abbacinante.

Come sta Bob Dylan? A giudicare da come suona la voce nel disco si direbbe in buona forma, altro non so, la domanda però è lecita perché Rough and Rowdy Ways è un articolatissimo Requiem a se stesso, un testamento musicale e poetico in cui il Premio Nobel gioca una lunghissima partita a scacchi con la morte, con cui decide di fare i conti in modo anche rude (come dice il titolo) traccia dopo traccia, da ogni punto di vista possibile – più di una volta ridendo sotto i baffi.

Rough and Rowdy Ways è così anche un album concettuale, essendo presente una tematica fortissima a innervarne ogni sussulto. Prima di affrontare il disco – e credo che il modo migliore per farlo sia ripercorrerlo traccia per traccia – può essere interessante appuntarsi la quantità di personaggi che Dylan ha deciso di evocare, in modo più o meno esplicito, al suo metafisico capezzale (sono più o meno in ordine di apparizione, e considerate che potrei dimenticarne qualcuno): Edgar Allan Poe, Anna Frank, Indiana Jones, i Rolling Stones, William Blake, Beethoven, Chopin, David Bowie, Al Pacino, Marlon Brando, Dante, Shakespare, Giulio Cesare, Leon Russell, San Giovanni Apostolo, San Pietro, Jerome K. Jerome, Freud, Marx, Jimmy Reed, Calliope, Elvis Presley, Martin Luther King, Georgij Konstantinovič Žukov, George Smith Patton, lo Spirito Santo, William McKinley, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Jack Kerouac e Harry Truman.

Nella prima traccia, la stupenda I contain multitudes (il titolo è una citazione dalle Song of Myself di Walt Whitman), Bob Dylan si presenta, gli serve per far capire chi è che sta per sedersi di fronte alla scacchiera. In appena tre versi è già tracciata la direzione che prenderà il disco:

Today, tomorrow, and yesterday, too
The flowers are dyin’ like all things do
Follow me close, I’m going to Bally-na-Lee

 Il tempo, che fluisce impassibile, è al centro delle riflessioni sulla morte che seguiranno e l’accenno è seguito da un invito, il menestrello è diretto verso un locus amoenus, mettendola in prospettiva dantesca potremmo considerare la sua Bally-na-Lee un dilettoso monte: siamo pronti a seguirlo? Chi parla ha un’anima di cantastorie o ancor più precisamente di narratore (Got a tell-tale heart, like Mr. Poe) ma è anche in grado di dipingersi in appena due pennellate:

I paint landscapes, and I paint nudes

I’m a man of contradictions, I’m a man of many moods

(Con splendida allitterazione sulla m). Ci viene qui messo in chiaro che abbiamo a che fare con un poeta morale, di quelli che vanno in giro con la spada (I carry four pistols and two large knives), non con la lira. E con un uomo ormai fragile – sono molto toccanti i rapidi riferimenti ai passi da compiere, sempre pochi, sempre cauti – un uomo che deve fare i conti con la morte e che credo abbia deciso di farli quando era ancora certo di essere nel pieno delle sue facoltà (I sleep with life and death in the same bed). Un uomo che nel percorso che sta per intraprendere tiene aperte tutte le strade davanti a sé:

I’ll keep the path open, the path in my mind

 La seconda traccia, False prophet, è un blues ruvido che evoca sin dal titolo una delle figure classicamente associate a Bob Dylan, quella del profeta. Si dichiara dunque in questa canzone un falso profeta? Non proprio, continua tuttavia in questo brano la definizione di sé e la messa a fuoco della quête che avviene in tutto il disco (I search the world over / For the Holy Grail). Avendo promesso un articolo per quanto possibile corto restiamo sui temi che caratterizzano la poetica dell’intero discorso, senza perderci tra gli infiniti possibili dettagli, di cui naturalmente queste canzoni traboccano. Anche qui la meta del viaggio resta più che esplicita:

Oh you poor devil look up if you will
The city of God is there on the hill

Bob Dylan è mercuriale, certo, e questo è un blues picaresco, tuttavia il menestrello è anche persona riservata e solinga, che non si scomoda – se non con molta calma – neppure per ritirare un Premio Nobel (ma siamo sicuri che Dante si sarebbe regolato diversamente?) Dicevamo, qui Dylan si dichiara un falso profeta? Non esattamente, e nel farlo ribadisce ancora una volta quale sia l’oggetto della sua ultima profezia:

I ain’t no false prophet
No I’m nobody’s bride
Can’t remember when I was born
And I forgot when I died

Fatte le dovute premesse (e come abbiamo letto Dylan inquadra la prospettiva del suo trapasso al passato, e il percorso della vita ormai compiuto) con My Own Version Of You può finalmente cominciare la partita con la morte, che inizia con una delle canzoni musicalmente più ritmate dell’album, un’alchimia talmudica che mi riporta a certa simbologia escatologica presente in alcuni suoi vecchi classici come Isis, e con cui il poeta intende valutare la possibilità di prendersi gioco della mortalità stessa creando nientemeno che un Golem (I’ve been visiting morgues and monasteries / Looking for the necessary body parts). A cosa serva la nuova creatura, al momento non è ancora chiaro:

I’ll bring someone to life – in more ways than one
Don’t matter how long it takes – it’ll be done when it’s done

 Il Frankenstein che Bob Dylan intende mettere insieme ha tuttavia dei tratti strepitosi, impressa nei quali si può vedere “l’intera storia della razza umana”:

I’ll take Scarface Pacino and the Godfather Brando
Mix ‘em up in a tank and get a robot commando
If I do it upright and put the head on straight
I’ll be saved by the creature that I create

È da notare che siamo a due capolavori su tre tracce, il compito del Golem sembra via via chiarirsi: dovrà affrontare la morte in vece (o solo prima?) del cantautore. La prima cosa da fare è soffiargli dentro l’impulso vitale:

Can you look in my face with your sightless eye?
Can you cross your heart and hope to die?

 Il testo di My Own Version Of You è punteggiato di riferimenti sepolcrali, quando l’ho letto la prima volta mi è venuto da ridere dall’ammirazione, è cupo e comico insieme. Il posto in cui il menestrello dà appuntamento alla Mietitrice è niente meno che la Black Horse Tavern in Armageddon Street – se volete un autografo andateci nel Giorno del Giudizio. Nel frattempo scopriamo le domande a cui il Golem è chiamato a rispondere:

Can you tell me what it means to be or not to be?
You won’t get away with fooling me
[…]
Is there light at the end of the tunnel – can you tell me please?

 La successiva I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You è una commovente ballata in cui, accompagnato dalle “chitarre tristi”, seduto sulla sua terrazza “lost in stars”, il cantante fa i conti stavolta con l’amore, decidendo di dedicare il resto della sua vita alla donna che ama, cioè a quella con cui vive in questo momento. Sembra finito il tempo degli infiniti pellegrinaggi, così come quello dell’irrequieto Neverending Tour (almeno simbolicamente, non mi stupirei tra qualche mese di scoprire sul suo sito nuove date europee). Chi è costei? Non è importante. Bob Dylan ha avuto molte mogli ma qui mi viene in mente una cosa che mi dice sempre la mia, di moglie, che un compagno serve più da vecchi che da giovani. Non resta che farsi accompagnare così da questa dichiarazione d’amore di un anziano, che mentre fa vibrare l’eco dell’antica Lay Lady Lay – stavolta senza tracce di erotismo – ci dice di aver scelto l’ultima compagna, altre non ce ne saranno:

My heart’s like a river – a river that sings
It just takes me a while to realize things
I’ll see you at sunrise – I’ll see you at dawn
I’ll lay down beside you, when everyone is gone

I traveled from the mountains to the sea
I hope that the gods go easy with me
I knew you’d say yes – I’m saying it too
I’ve made up my mind to give myself to you

Chi è il cavaliere nero della traccia seguente, Black Rider, che ci interroga caricata del mistero di lenti arpeggi gypsy? La canzone, come intagliata nel legno, rimanda in qualche modo alle atmosfere di John Wesley Harding, e all’enigma da Vecchio Testamento tipico di quell’album. Chi è il Black Rider, dicevamo? Notiamo intanto che ne avevamo già incontrato l’ombra nella Black Horse Tavern appena un paio di tracce fa. È difficile rispondere, credo che il cavaliere oscuro sia una proiezione di una parte dell’anima dello stesso Dylan (quella stessa frazione che il cantautore mostra nell’ultima strofa di I Contain Multitudes: You greedy old wolf, I’ll show you my heart / But not all of it, only the hateful part), una faccia dell’anima tuttavia combattuta e forse stanca:

The road that you’re on – same road that you know
It’s just not the same as – it was a minute ago

Quello che c’è da fare va fatto ora, dice il narratore all’ignoto cavaliere, il tempo delle peregrinazioni è finito, l’ora è giunta (Some enchanted evening I’ll sing you a song / Black Rider Black Rider you’ve been on the job too long), è arrivato il momento delle preghiere e se c’è un destino da compiere è bene che si compia:

Be reasonable Mister – be honest be fair
Let all of your earthly thoughts be a prayer
[…]
Black Rider Black Rider tell me when – tell me how
If there ever was a time then let it be now
Let me go through – open the door
My soul is distressed my mind is at war

Il brano successivo, Goodbye Jimmy Reed, è un requiem nel requiem dedicato a Jimmy Reed, un cantante blues noto per aver introdotto varianti elettriche nel genere di riferimento (vi ricorda qualcuno?). Rivolgendosi a lui Dylan introduce il tema della musica, che a un certo punto della sua ricerca mistica aveva individuato come suo vero credo:

Give me that old time religion, it’s just what I need

Buttiamo pure via quei vecchi testi sacri, dice il menestrello invocando lo spirito del collega, abbracciamo la nostra vera fede:

Thump on the Bible – proclaim the creed

Il terreno è pronto per la successiva, toccante, Mother of Musesuna vera e propria invocazione a Calliope, musa della poesia, etimologicamente la dea dalla bella voce, una divinità ormai dimenticata, perché non lasciarla a un poeta laureato? Dylan lo chiede espressamente: She doesn’t belong to anybody – why not give her to me? La lunga invocazione si sofferma sui percorsi formativi di generali e combattenti, e di come abbiano compiuto le loro imprese, cantate dal menestrello di Duluth da ormai più di 60 anni: Man, I could tell their stories all day. Tuttavia qui Dylan sembra tirare le fila e chiudere le somme anche di questa fondamentale parte della sua vita:

Mother of Muses wherever you are
I’ve already outlived my life by far

Nell’invocazione c’è anche una richiesta, quel che è stato è stato ma serve il coraggio per percorrere in piedi l’ultimo miglio:

Show me your wisdom – tell me my fate
Put me upright – make me walk straight
Forge my identity from the inside out
You know what I’m talking about
[…]
Wake me – shake me – free me from sin
Make me invisible like the wind
Got a mind to ramble – got a mind to roam
I’m travelin’ light and I’m slow coming home

Appena cinque versi prima della fine di Mother of Muses il cantastorie si trova sulla riva di un fiume tra le braccia della sua amata Calliope:

Take me to the river and release your charms
Let me lay down in your sweet lovin’ arms

Nel brano successivo scopriamo quale sia il fiume che abbiamo appena visto in quello scorcio bucolico, si tratta del Rubicone. La metafora portante di Crossing the Rubicon è talmente scoperta che non occorre spiegarla:

The Rubicon is the Red River, going gently as she flows

Alla fine di ogni strofa, ciclicamente, il poeta regola dei conti e senza guardarsi alle spalle attraversa il fiume, compiendo il suo destino:

I pawned my watch and I paid my debts and I crossed the Rubicon
I poured the cup and I passed it along and I crossed the Rubicon
I strapped my belt and buttoned my coat and I crossed the Rubicon
I lit the torch and I looked to the east and I crossed the Rubicon

Ricordate al terzo verso di I Contain Multitudes quell’ameno miraggio (Follow me close, I’m going to Bally-na-Lee)? Vi dicevo che nell’attacco di quella canzone c’era un biglietto da visita di tutto il disco, ed eccoci arrivati alla fine quando, passato il fiume, un paradiso inaspettato e forse anche un po’ strano si dischiude di fronte ai nostri occhi in un altro pezzo straordinario: Key West (Philosopher pirate). La canzone comincia con “la morte sul muro”: scorgiamo infatti McKinley, il 25° presidente della storia USA, sul suo letto di morte, ma messa da parte questa fugace evocazione ci troviamo in realtà in quello che mi pare di poter dire che Bob Dylan consideri un paradiso destinato a sé stesso. Un paradiso forse singolare, siamo in quelle isole che si spingono a sud della Florida, tenute insieme da un lunghissimo terrapieno, in una sorta di estrema ricerca di Cuba. Una terra che lotta col mare ma che è un miraggio di luce sull’orizzonte. Per sintonizzarsi sulle frequenze diafane di quell’empireo inaspettato il poeta si affida all’udito, a una musica quindi, che cerca di captare attraverso l’ectoplasma di uno sfuggente segnale radio, che giunge da lontano, non si capisce neanche esattamente da dove:

I’m searchin’ for love and inspiration
On that pirate radio station

Una volta arrivato in questo piccolo eden da pensionati Dylan sembra a suo agio, ci dà dei consigli su come vestirci, addirittura su come acconciarci i capelli con i fiori che crescono ovunque:

Hibiscus flowers grow everywhere here
If you wear one put it behind your ear
[…]
Bougainvillea bloomin’ in the summer and spring
Winter here is an unknown thing

Riflettendo sul suo passato il menestrello – che del resto è sempre stato un giusto – sembra tutto sommato assolversi:

I’ve never lived in the land of Oz
Or wasted my time with an unworthy cause

Merita dunque questa visione estatica e rarefatta, il paradiso è un giardino tropicale immerso in una luce accecante, accarezzato da un vento balsamico, posto esattamente nel punto dove terra e mare si incontrano in una prospettiva infinita:

Key West is the place to be
If you’re lookin’ for immortality
Key West is paradise divine
Key West is fine and fair
If you lost your mind you’ll find it there
Key West is on the horizon line

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Questa è l’ultima traccia di Rough and Rowdy Ways ma su Spotify, dove sto ascoltando il disco, dopo un breve spazio, compare Murder Most Foul, la straordinaria suite dedicata alla morte di John F. Kennedy, che credo dunque sia da considerare il lato B (o la bonus track?) di questo album; il cui lato A è così composto da un requiem-testamento dedicato a se stesso, e il B da quello per l’ex presidente. Come collocare dunque Rough and Rowdy Ways nella sterminata discografia dylaniana? È il suo primo album di tracce originali degli ultimi sette anni, ma guardando indietro il primo disco a cui lo si può accostare è il bellissimo Modern Times del 2006, tuttavia quest’ultima prova lo sovrasta per compattezza tematica e per la toccante riflessione poetica da cui è sostenuto. Il conto è presto fatto dunque, per trovare qualcosa allo stesso livello dobbiamo tornare fino agli anni ’70. Per quanto riguarda infine la ricchezza e la profondità di Murder Most Foul (e anche per la sua lunghezza) ci sarebbe bisogno di un altro articolo, di cui se volesse potrebbe occuparsi ad esempio Adriano Ercolani.

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“Il Requiem di Bob Dylan per Bob Dylan” è stato scritto da Federico di Vita e pubblicato su minima&moralia.