Ibn Khaldun, l’islam e la proprietà privata

di REDAZIONE

“La rovina economica della civiltà islamica era da imputare al fatto che i diritti di proprietà erano metodicamente calpestati dai governanti, i quali ritenevano di poter disporre ad libitum dei beni dei sudditi, con l’inevitabile conseguenza di soffocare sul nascere ogni motivazione a lavorare e intraprendere”.

Così sostiene lo scomparso professor Luciano Pellicani, nel suo libro “Dalla società chiusa alla società aperta”, risalente ad una ventina di anni fa. A tal proposito, citava le parole di Ibn Khaldun, risalenti a fine del 1300 e tratte da Muqaddimah:

  • “Vessare la proprietà privata significa uccidere negli uomini la volontà di guadagnare di più, riducendoli a temere che la spoliazione è la conclusione dei loro sforzi. Una volta privati della speranza di guadagnare, essi non si prodigheranno più. Gli attentati alla proprietà privata fanno crescere il loro avvilimento. Se essi sono universali e se investono tutti i mezzi di esistenza, allora la stagnazione degli affari è generale, a causa della scomparsa di ogni incentivo a lavorare.
  • Al contrario, a lievi attentati alla proprietà privata corrisponderà un lieve arresto del lavoro. Poiché la civiltà, il benessere e la prosperità pubblica dipendono dalla produttività e dagli sforzi che compiono gli uomini, in tutte le direzioni, nel loro proprio interesse e per il loro profitto. Quando gli uomini non lavorano più per guadagnare la loro vita e cessa ogni attività lucrativa, la civiltà materiale deperisce e ogni cosa va di male in peggio. Gli uomini per trovare lavoro di disperdono all’estero. La popolazione si riduce. Il paese si svuota e le sue città cadono in rovina. La disintegrazione della civiltà coinvolge quella dello Stato, come ogni alterazione della materia è seguita dall’alterazione della forma”.

Così parlava Ibn Khaldun nel XIV secolo, che metteva il dito nella piaga del dispotismo che ha sempre avuto casa in terra islamica.

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