La follia dei numeri #2

di Antonio Sparzani

Un buon numero di “radici” poco matematiche

La follia dei numeri, frutto forse dei deliri o forse delle intelligenze dei matematici, non è certo tutta qui. Perché una volta che si è capito che esistono – sempre in quel senso speciale del verbo “esistere” – dei numeri decimali che hanno infinite cifre non nulle dopo la virgola, che però hanno la caratteristica che la parte dopo la virgola è formata, da un certo punto in poi, solo da gruppetti ripetitivi di cifre, cioè i numeri decimali periodici, la domanda che arriva ovvia è: ma se io scrivo un numero decimale che ha dopo la virgola infinite cifre senza alcun gruppetto che si ripeta, cosa ottengo? Intanto ho fatto male a dire “scrivo” perché nessuno al mondo è in grado di far ciò; diciamo invece “penso”? Peggio ancora, come faccio a pensare infinite cifre, neppure Zeus Olimpio ne sarebbe stato capace, e allora? Perché ci sembrava possibile pensare a un numero decimale infinito periodico? Perché sapevamo la regoletta per andare avanti, bastava continuare a ripetere lo stesso gruppetto di cifre. E allora anche qua: se conosco una regoletta che mi permette di andare avanti all’infinito perché mi spiega come calcolare in ogni punto la cifra successiva, allora posso dire di conoscere il numero almeno nello stesso senso in cui conoscevo quelli periodici. Certo, ma ci sono delle regolette così? Ebbene sì che ci sono, soprattutto una, una di quelle che avete imparato alle medie e che avete subito dimenticato: la famosa estrazione di radice quadrata √ . Come mai è saltata fuori quest’altra operazione di “radice quadrata”? Tutta colpa di Pitagora.

Dico subito che non intendo impelagarmi nella faccenda del teorema di Pitagora, sul quale fiumi d’inchiostro sono stati spesi, se qualcuno è interessato si legga ad esempio il bel libro di Paolo Zellini, Il teorema di Pitagora, Adelphi 2023 e si ascolti su youtube una sua bella lezione qui . Aggiungerò solo che la storia di questo teorema e di problemi simili, comprende antichi testi babilonesi, indiani (vedici), cinesi ed egiziani nel I° millennio prima di Cristo (Pitagora, che in greco ha l’accento sulla “o”, visse nel VI° secolo a.C.).
Forse l’enunciato del teorema non l’avete tutti dimenticato perché rimane impresso più facilmente, essendo legato ad una figura geometrica semplice: il triangolo rettangolo, ovvero che ha un angolo retto. Ricorderete che il suo lato più lungo (quello opposto all’angolo retto) viene chiamato ipotenusa e che gli altri due vengono detti cateti. Bene, il teorema dice che l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma delle aree dei due quadrati costruiti sui cateti, Se chiamiamo a e b le misure dei cateti (in una qualsiasi unità di misura di lunghezza) e c la misura dell’ipotenusa, il teorema assicura che a^2 + b^2 = c^2. E allora, se conosco le misure a e b dei cateti e voglio conoscere quanto misura l’ipotenusa, devo eseguire il quadrato di a e di b, facile, poi sommare i due quadrati, facile, e così ottengo c^2, ma poi? Facile? No certo. Devo trovare un numero il cui quadrato conosco. Cioè devo eseguire l’operazione inversa dell’elevamento al quadrato. Se il numero di partenza è un numero speciale, tipo 1, 4, 9, 64, e infiniti altri, allora è facile, come credo tutti vediate, ma se il numero da cui parto è 2? Per esempio se i due cateti misurano entrambi 1, la somma dei loro quadrati è 2 e non conosco alcun numero che abbia come quadrato 2; e allora si sarà trovata la famosa regoletta di cui dicevo, che permette di ottenere cosa? Permette di costruire, passo passo, un numero decimale il cui quadrato si avvicina sempre più a 2. Così come, quando volevo dividere 1 per 3 ottenevo 0,3333. . ., cioè dei numeri che, moltiplicati per 3 davano 0,9 , 0,99 , 0,999 , 0,9999 , che si avvicinavano a 1 ancorché senza mai raggiungerlo davvero.
Forse Aristotele avrebbe detto che questa è una conoscenza del numero non in atto ma in potenza? Non so, meglio chiedere a un esperto aristotelico.
Questo numero il cui quadrato è 2 si chiama la radice o, più precisamente, la radice quadrata di 2; e conosciamo la regoletta per calcolarlo, sì, per calcolare cosa esattamente? Per calcolare una fila – si dice una successione – di numeri i cui quadrati si avvicinano quanto si vuole a 2. Dunque anche qui: la nostra conoscenza della radice quadrata di 2 consiste esattamente in un modo per andarle vicino quanto si vuole. Cosa significa esattamente “quanto si vuole”? Significa che, se immaginate un numerino piccolo ad arbitrio, del tipo 0,0000001, chiamatelo ε come spesso si fa in matematica, allora se andate abbastanza avanti nel calcolo con la regoletta, arrivate certamente a un numero n il cui quadrato differisce da 2 per meno di ε. E così tutti quelli che vengono dopo n: si avvicinano finché si vuole. Si scrive bellamente √(2). E dico “bellamente” perché la nostra conoscenza è quella che avete capito: astrattamente la radice esiste perché noi decretiamo che siano numeri reali tutti i numeri che si possano scrivere anche con un numero infinito di cifre dopo la virgola, anche se nessuno lo può “vedere” o “pensare” tutto in una volta. E, qui viene un punto importante, questo numero certamente non è periodico, perché se fosse tale, allora ci sarebbe una frazione che lo rappresenta (la ricordata frazione generatrice) e si dimostra in due righe che la radice di due non può essere messo sotto forma di frazione (se qualcuno/a mi chiede la dimostrazione gliela metto in un commento). Dunque non è un numero razionale, e quindi lo chiamiamo irrazionale. Che sembra paradossale, ma il punto è che i numeri razionali si chiamano così, non perché ubbidiscono alla ragione, ma proprio perché possono essere messi sotto forma di frazione (ratio), e quindi per questo tutti gli altri devono esser chiamati irrazionali.
Dove siamo arrivati con la follia dei numeri: siamo arrivati a costruire una classe di numeri che sembra li contenga tutti, visto che possiamo scrivere un numero qualsiasi di cifre prima della virgola e una successione qualsiasi di cifre dopo la virgola, anche una qualsiasi successione infinita, cosa vogliamo di più folle ancora? Non si sa mai, vedremo.

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“La follia dei numeri #2” è stato scritto da antonio sparzani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Contratti trasformativi: una lettera aperta alla CRUI

Dal 2020 in Italia si sottoscrivono i cosiddetti contratti trasformativi, cioè contratti in cui transitoriamente le istituzioni sostengono la trasformazione delle riviste scientifiche da ibride ad accesso aperto, pagando sia per leggere che per pubblicare. Un report fatto molto di recente dal JISC (che contratta gli accordi trasformativi per il Regno Unito) ha mostrato, dati alla mano, che questa costosissima trasformazione è ben lungi dall’avvenire. 70 anni il tempo stimato perché gli editori possano trasformarsi. Il JISC ha ritenuto fondamentale fare una analisi delle politiche di finanziamento implementate soprattutto in relazione ai risultati attesi e ai fondi impegnati e alla sostenibilità nel lungo (anzi lunghissimo) periodo.

La Associazione italiana per la scienza aperta (AISA) si è posta gli stessi quesiti del JISC e li ha posti a CRUI CARE che gestisce la contrattazione per conto delle istituzioni italiane. La risposta a queste domande, urgente e ineludibile,  può aiutare le istituzioni a capire se la direzione presa con i contratti trasformativi sia l’unica possibile, se sia effettivamente sostenibile e fino a quando,  o se invece non si debbano cercare già da ora strade alternative o complementari. Ma servono i dati.

Riportiamo qui sotto il testo della lettera aperta a CRUI CARE

La CRUI, associazione privata dei rettori italiani, offre alle università un servizio non gratuito, noto come CRUI-CARE, per la negoziazione di contratti consortili con gli editori scientifici commerciali.

Dal 2020 CRUI-CARE ha cominciato a stipulare una serie di contratti in virtù dei quali gli editori sono pagati non solo per leggere, cioè per far accedere a banche dati ad accesso chiuso, ma anche per scrivere, cioè per pubblicare ad accesso aperto. Questi contratti sono detti trasformativi perché sono stati pensati non per istituzionalizzare la pratica, deprecata, del cosiddetto double dipping, bensì come mezzi di transizione per incoraggiare gli editori a trasformare le loro riviste in riviste interamente ad accesso aperto.

Secondo quanto registrato in ESAC, i contratti trasformativi con controparte italiana sono 17, di cui 13 sotto la responsabilità di CRUI-CARE. Sebbene sia difficile evincerlo dal suo sito, non aggiornato nel momento in cui scriviamo, alcuni contratti sono in corso di rinnovo  (Wiley, ACS) o scadono alla fine del 2024 (Emerald, IEEE, RSC, Springer e Kluwer).

Come mai, di spese così imponenti in termini di impegno del denaro amministrato da pubbliche istituzioni, esito di un “processo negoziale” che “si svolge alla luce del rispetto della normativa fissata in tema di contratti pubblici”, non esiste un rendiconto pubblico? Per dare un’idea delle cifre in gioco, l’ultimo contratto con Wiley ammonta a più di 36 milioni di euro, quello in corso con Springer a più di 45 milioni di euro, e quello rinegoziato lo scorso anno con Elsevier a più di 167 milioni di euro.

La Reference Guide to Transformative Agreements suggerisce che le istituzioni, prima di negoziare contratti trasformativi, raccolgano dati sia sulle pubblicazioni dei loro autori, sia sulle spese sostenute per pagare APC a editori che li richiedono come prezzo dell’accesso aperto. In base a quali informazioni CRUI-CARE ha concluso i suoi 13 contratti trasformativi? CRUI-CARE ha raccolto qualche dato in autonomia, o si è limitata a prestar fede a quelli forniti degli editori?

In Italia, la mancanza – o la segretezza – di questo ipotetico studio preliminare rende impossibile misurare l’efficacia degli interventi e la sostenibilità della spesa. Dopo 4 anni di accordi trasformativi non sappiamo come si siano articolati i costi nelle università pubbliche italiane e quali vantaggi o svantaggi abbiano prodotto. In particolare non sappiamo (i) quanto abbiamo pagato in questi quattro anni per i contratti trasformativi; (ii) quanto pagheremo nei prossimi anni; (iii) come i contratti trasformativi si distribuiscono fra le istituzioni italiane; (iv) quante di esse hanno aderito a ciascun contratto, se ne hanno tratto vantaggio e nel caso in che misura; (v) quanta letteratura scientifica prodotta in Italia rimane accessibile solo ad abbonamento; (vi) quanto la ricerca italiana ha contribuito all’open access a livello globale con articoli pubblicati in open access a pagamento.

Non abbiamo, in altri termini, dati la cui analisi permetta alle istituzioni di impostare linee di condotta non estemporanee per gli anni futuri, e a studenti e contribuenti di comprendere come e perché il loro denaro viene speso. Continueremo a firmarli, anche se chi – come Coalition S – registra, studia e pubblica i dati sta abbandonando l’idea di pagare per scrivere per orientarsi verso il Diamond Open Access?

Alcuni sostengono che i contratti trasformativi italiani siano giustificati perché in grado di indurre gli editori commerciali a passare all’accesso aperto. Senza i dati di cui sopra, non è però possibile valutare se lo fanno effettivamente, o se invece, come concluso in paesi come la Svezia, meritano di essere superati.1

I resoconti e le presentazioni britanniche, olandesi e tedesche sembrano suggerire che i contratti trasformativi non solo hanno imposto un sovraccarico di lavoro amministrativo, ma hanno prodotto fallimenti annunciati e conseguenze indesiderate.

Era prevedibile che solo una percentuale bassissima di riviste sarebbe passata all’accesso aperto, come documentato da Coalition S: perché un editore commerciale, con un vincolo contrattuale temporaneo, e in grado di spuntare prezzi altissimi sia per leggere sia per scrivere grazie a una valutazione bibliometrica della ricerca in Italia imposta anche amministrativamente, dovrebbe aver interesse a passare all’accesso aperto? Fra le conseguenze indesiderate si annovera, invece, una ulteriore concentrazione dell’editoria e delle relative piattaforme, una netta diminuzione del numero di articoli depositati negli archivi aperti e un aumento, proprio nelle riviste cosiddette trasformative, degli articoli ad accesso chiuso.2

Sui contratti trasformativi del Regno Unito, Jisc ha composto una revisione critica approfondita e anzi doverosa per un paese che vi ha speso in questi anni 137 milioni di sterline, pubblicando 39.163 articoli.3 I revisori britannici hanno lavorato su questioni riproponibili anche per l’Italia.

  1. Quale percentuale della letteratura accademica è ad accesso aperto?
  2. Quale impatto hanno avuto gli accordi trasformativi negoziati a livello consortile sull’accesso aperto delle pubblicazioni scientifiche a livello nazionale?
  3. Che effetto hanno avuto gli accordi trasformativi sui costi per le istituzioni di ricerca?
  4. In che misura gli accordi trasformativi hanno facilitato la conformità con i requisiti degli enti finanziatori?
  5. In che misura gli accordi trasformativi hanno consentito una maggiore trasparenza dei processi di accesso aperto degli editori scientifici?

Il rapporto britannico, sebbene molti dati di cui ha fatto uso siano soggetti a clausole di segretezza, riferisce che la spesa per i contratti trasformativi rappresenta più di un terzo dell’esborso delle biblioteche del Regno Unito per materiale librario. Riconosce, inoltre, che, a dispetto del dispendio di denaro pubblico, lo scopo di indurre le riviste scientifiche commerciali degli editori più grandi a passare all’accesso aperto pieno si realizzerà, a questo passo, fra 72 anni,4 quando saremo tutti morti. Ci si è chiesti, inoltre, se render pubblici a carico del contribuente articoli su riviste amministrativamente prestigiose indurrà mai i ricercatori a comprendere che la pubblicità a cui l’accesso aperto mirerebbe è quella della scienza e non quella del prestigio.

Disporre di informazioni pubbliche, nazionali e internazionali, sull’ammontare della spesa e su quanto se ne è ricavato è fondamentale per capire si ci siamo approssimati ai risultati attesi, ammesso e non concesso che risultati si attendessero. A ridosso dell’eventuale riapertura dei negoziati per il rinnovo di contratti ormai trasformativi solo in un senso ironico, sarebbe cruciale discutere della loro efficacia anche nel medio e nel lungo termine, e sui possibili modelli alternativi. E sarebbe anche utile sapere se, ai sensi dell’articolo 45 comma 2 del nuovo codice dei contratti pubblici, i negoziatori CRUI-CARE ricevono, a titolo di incentivo, una percentuale dell’importo complessivo, o se la CRUI ha un regolamento specifico in merito, essendo fatta salva “la facoltà delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti di prevedere una modalità diversa di retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti”.

Non basta raccontare che gli articoli ad accesso aperto, così generosamente finanziati con denaro altrui, sono, non sorprendentemente, aumentati di numero. Sarebbe importante avere anche le informazioni di contesto ricavabili dalla risposte alle cinque domande dei revisori Jisc.

E non sarebbe difficile ottenerle, se CRUI-CARE rendesse disponibili alle istituzioni e ai cittadini i dati necessari a decidere con cognizione di causa, a sviluppare politiche sulla scienza non estemporanee e a permettere al ministero dell’università e della ricerca di rispondere alle richieste dell’Unione Europea, popolandone i rapporti sulla scienza aperta che al momento, per quanto concerne l’Italia, rimangono desolatamente vuoti.

Chiediamo dunque a CRUI CARE di render pubblici tutti i dati sui contratti trasformativi di cui dispone. Se, per la causa dell’accesso aperto, sono stati un cosi brillante successo dovrebbe essere anche nel suo interesse.

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  1. Il gruppo di lavoro svedese suggerisce di: (a) concludere accordi con editori che pubblicano solo riviste ad accesso aperto; (2) offrire una piattaforma nazionale di pubblicazione indipendente; (3) aiutare le testate di proprietà dei ricercatori ad abbandonare gli editori commerciali; (4) continuare a lavorare per adeguare il copyright legato all’accesso aperto.
  2. Si veda Jisc, A review of transitional agreements in the UK, 2024, p. 47.
  3. Secondo i dati raccolti da SCONUL nel 2021/22 le spese totali per il sistema bibliotecario britannico ammontano a £ 374.273.000.
  4. Jisc, A review of transitional agreements in the UK 2024, p. 47.

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“Contratti trasformativi: una lettera aperta alla CRUI” è stato scritto da ROARS e pubblicato su ROARS.

Fuorilegge! Iniziative a sostegno della cassa di solidarietà “La lima”

Sabato 13 aprile
c/o Circolo ARCI “Al Bafo”
Piazza Bolognini, Seriate (BG)

Ore 17:30: presentazione dell’opuscolo di autodifesa legale: “Fuorilegge”

Ore 20:00: apericena Benefit a sostegno della Cassa di solidarietà “La lima”

L’iniziativa si inserisce in un giro di presentazioni dell’opuscolo in Lombardia. Nel flyer sono indicate anche le presentazioni che si terranno a Brescia e Cremona.

Scarica il flyer in .pdf.

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“Fuorilegge! Iniziative a sostegno della cassa di solidarietà “La lima”” è stato scritto da underground e pubblicato su Underground.

La lettura narrativa come resistenza

di Paolo Morelli

Solo gli algoritmi salveranno la letteratura italiana

Ecco un esempio di frase ragionevole. Se guardiamo all’attuale produzione narrativa nostrale infatti, non si può fare a meno di notare quanto sia ormai esclusivamente frutto di un mero calcolo minimale, inconsapevole o meno non è questo il punto. Dimenticata la possibilità di affidarsi allo stato di affezione che possiedono le parole, ignari della malia delle frasi e della complicità di ogni conversazione fantastica vi si privilegia un più o meno accurato dosaggio dei contenuti alla moda, vi si legge solo il dominio della Ragione Calcolante, la famosa, la quale poi smunta ma sempre più assertiva pretende dal lettore una razionalizzazione totale, con un grado tale di determinismo che non lascia nulla al caso.
Tutto può essere oggi solo pensato come un racconto da consumare, che sia più o meno engagé non è questo il punto, ma scritto con regole ben riconoscibili, non seguire le quali è considerato un errore grave che vale la squalifica. E il calcolo deve essere ben riconoscibile appunto, altrimenti dimostrerebbe che un altro modo è possibile. Lo slancio, la dedizione, la nevrosi, la pausa, l’eccesso, la follia, perfino un brandello di originale o cosiddetto pensiero laterale sono banditi ormai da tempo in quanto ritenuti impossibili o indicibili. Mai e poi mai un dispositivo basato sulla saggezza dell’incertezza, solo il meccanismo appena sufficiente a confermare proprio ciò che bisogna dire. Persino quello che una volta si diceva stile sembra non contare più. “Tutto è irrimediabilmente trascorso”, come scrive un vincitore di premi, siamo al tempo di Oramai. Scrivere è solo un gesto stanco, ripetuto, automatico, uno dei tanti, programmato si ma in sistema che si vuole chiuso, e rigido poi nel far finta di no, che non è per niente così.
Un gesto muto, già programmato per sordi. Perché è innanzitutto la voce immanente al testo ad esser stata messa al bando, sostituita dal mutismo della pagina scritta, in base all’assunto che niente rafforza più l’autorità quanto il silenzio, e se ne sia o no consapevoli non è questo il punto.
Ecco come mai ci vengono in aiuto gli algoritmi: loro, quel lavoro, lo fanno più in fretta e, tra breve, anche meglio. Se consideriamo nei due soggetti generici la persistenza effettiva del cosiddetto pensiero emotivo, il cretino veloce in questo caso vince sul cretino lento.
Purtroppo, una sola cosa gli algoritmi non riusciranno mai a fare: riprodurre la voce di cui può essere intessuto un racconto, cosa ormai rara o pressoché sparita dall’orizzonte letterario, perché in essa si riascolta ogni volta, oltre al passato, anche il futuro di tutti.
La voce in un testo letterario o più specificamente narrativo è l’esperienza vissuta attraverso il corpo. Per questo Dostoevskij ad esempio cominciava a delineare i personaggi a partire dalle loro voci. In quanto concomitante insieme al linguaggio e al corpo la voce è il tramite possibile, la giunzione fra coscienza e sensazione cui ogni volta tende la narrazione. E, come aveva già individuato ad esempio Valery, ”il Linguaggio scaturisce dalla voce, piuttosto che la voce dal Linguaggio”, mentre il Mondo Nuovo che si impone ha proprio come nemica giurata l’esperienza diretta, di prima mano, oltre alla fantasia quando ha dignità conoscitiva, vale a dire carne e sangue della letteratura.
Siccome però fortuna vuole che le voci che ci vengono dal passato restano tuttora abbondanti, intrise e indelebili sulle pagine, c’è un archivio sonoro ancora a nostra disposizione e nulla vieta agli amanti delle cause perse di pensare alla lettura narrativa come un atto di resistenza, per riscoprire il piacere della lettura a voce alta così come dell’ascolto, per reinserire la narrazione nella nostra vita come pratica di socialità quotidiana. In un contesto in cui la socialità è concepita come remoto concetto della solitudine, riallacciarsi alla tradizione della dimensione narrativa delle parole e per ciò stesso curativa. Come sentire un testo. Mettersi a disposizione di una tonalità. Respirazione, intonazione, sprezzatura. Certo però del tutto laicamente, all’insegna dell’Orwell di 1984 quando dice che “in questo gioco che stiamo giocando, non possiamo vincere. Un certo tipo di insuccesso è preferibile a un certo altro tipo. Questo è tutto”.
Insomma per quello che vale.

 

L’arte della viva voce

Quindi un approccio intensivo alla lettura ad alta voce e, cosa altrettanto importante, all’ascolto di un testo letterario, più specificamente una prosa o una narrazione.
Come sappiamo della parola narrazione da qualche anno si sono impadroniti i politici, al solito per i loro interessi, a significare più che altro come riescono a riempire i canali di informazione con la versione dei fatti che gli fa più comodo. Noi invece ci riallacciamo alla tradizione della parola con le sue ampie sonorità, con tutte le sue ricchezze e le ambiguità, e della frase, alla sua malia, considerando prima di tutto la narrazione come un atto di socialità e normalità.
Già raccontare infatti è una cura, forse una delle poche possibilità che ci restano per far riacquistare alle nostre vite un certo qual senso di confidenza e normalità. Perché cosa possiamo chiamare normalità se non il tessuto quotidiano di racconti che ci facciamo, le piccole narrazioni che riempiono i nostri incontri, le circolazioni anche di ovvietà, quello che il filosofo Günther Anders diceva “un mero recitare insieme ciò che insieme si ascolta senza posa”? Alcuni, come il critico americano Richard Brooks hanno più volte ribadito la centralità della narrazione nello strutturare ogni esperienza umana: “Le nostre vite sono strettamente intrecciate alle storie che raccontiamo o che ci vengono raccontate”. Altri ancora si spingono fino al punto di dire che non siamo che le storie che abbiamo incontrato nelle nostre vite. A guardare bene, altro non possiamo chiamare normalità se non il nostro modo di raccontarci un certo corso di eventi, perché è attraverso i racconti, anche i più semplici, che organizziamo la nostra esperienza nel mondo. Se poi si tratta di un racconto letterario questo fare mondo, come si diceva una volta, vale a dire il provare a organizzare modelli di esperienza può assumere i crismi del rituale per sentirsi parte di una socialità, in quella specie di conversazione universale che è la letteratura, altrimenti vige la paura.
In un contesto in cui la socialità è concepita esclusivamente come somma di condizioni isolate (ed è un risultato poi che non viene mai), uno dei presupposti di tale isolamento è la presunzione. Il pensiero che ci viene imposto è tutto improntato sul fatto che c’è un passato, un prima ignorante e balbettante e un oggi che ne è il riscatto. Questo succede anche per ciò che riguarda la considerazione che si aveva dei libri nel passato, quando molti erano gli analfabeti e pochi i libri, rispetto all’oggi in cui l’analfabetismo è di ritorno o addirittura funzionale. Qualcuno vi potrà raccontare invece che i libri un tempo, almeno fino alla metà del secolo scorso erano trattati con ogni sorta di rispetto e timore reverenziale. I pastori ad esempio ci vengono tramandati come l’epitome, il massimo dell’ignoranza di quei remoti tempi, ed invece può capitare di scoprire che, in tutto il mondo, essi avevano a volte ricche biblioteche e soprattutto avevano un orecchio letterario finissimo. Cosa crediamo facessero la sera attorno al fuoco, durante le transumanze ad esempio, se non che chi sapeva leggeva a tutti gli altri, narrazioni prima di tutto in versi ma non solo? Vi sono squisite narrazioni in versi da leggere a voce alta, l’Ariosto lo si potrebbe mettere tra le sostanze psicotrope, per gli effetti, benefici, di destabilizzazione fantastica che provoca nella mente di chi lo legge. E, d’altra parte, se ci facciamo caso i libri una volta avevano una serie di accorgimenti, piccoli espedienti per invitare il lettore, metterlo a suo agio, come ci si tiene a mettere a suo agio un ospite.
È comunque la dimensione narrativa della parola ad animare un rapporto fantastico con il mondo, a catalizzare capacità percettive e riflessive esiliate.
Tutta la logica di un testo si trova nella voce che contiene, se la contiene, se ne ha una, tanto che anche i traduttori di recente hanno imparato a leggere ad alta voce il testo che devono tradurre. Facciamoci caso, i libri che non si possono leggere ad alta voce sono anche quelli in cui non si vede immediatamente quello che vi si descrive, bisogna rileggerlo e comunque a volte è inutile. La voce in una narrazione è quel congegno infallibile che ogni volta ci riporta al remoto, al condiviso, come se si trattasse dell’incontro con una mente molto simile. Se la poesia esiste da sempre nell’esigenza della mente di ricrearsi condizioni originarie per non perdere i propri strumenti cognitivi, la narrazione ha la sua funzione primaria come luogo di convergenza e condivisione, una specie di intimità allargata in cui si riconosce la propria voce in un’altra percependo il suo tono, e con sé porta l’esigenza della socialità.
“Leggere è ascoltare altri sé”, diceva Nietzsche, oppure “Leggere è soprattutto disposizione all’ascolto” sosteneva R.L. Stevenson. Ma soprattutto la voce viene a rammentarci come la narrazione sia un fatto culturale nel senso più ampio della parola, non un semplice orpello ma una necessità umana primaria come sostengono gli scienziati e quindi auspicabilmente di uso quotidiano come potrebbe essere l’amicizia, o il vino per la convivialità.
Quello che dobbiamo fare per leggere a voce alta una storia è passare da una lettura introspettiva e intellettiva, dal silenzio a volte ignavo della pagina scritta a un esercizio fisico, corporeo, fatto essenzialmente di vocalità, vale a dire espressione fisica della voce e di postura. Intonarsi sulle parole, non solo decifrarne i significati, sulla linea di quella che viene o meglio veniva chiamata prosodia, cioè l’insieme dei caratteri fonici – dinamici, melodici, quantitativi: accenti, tono, ritmo sul flusso sonoro del testo, perché le sonorità emotive sono il perno della narrazione, e non tanto lo sviluppo logico-semantico. E poi la voce, la traccia orale di un testo non è soltanto la parte corporea del linguaggio ma implica altresì  l’affettività, è nell’udito che sta racchiuso tutto il senso sociale di una storia. Proprio così l’oralità diventa esperienza vissuta, quella parte di vita che le pagine portano con sé.
Già nessun enunciato umano può darsi interamente senza emozione: i modi, i gesti, gli atteggiamenti sono patrimonio del discorso: questa la fonte primaria anche della narrazione scritta, dei libri che devono contenere una voce.
Nasce così una specie di slancio che viene a lasciarsi trasportare dalle parole, a sentire le parole che ci vengono dentro, diciamo così e risuonano sempre più familiari all’orecchio di ognuno.
In questa maniera è possibile fare della lettura narrativa non solo un atto di evocazione vero e proprio nei riguardi di un testo e del suo autore, ma una sorta di esercizio spirituale se non è parola brutta: una prova di socialità, amicizia, addirittura fraternità si potrebbe dire, se non è parola brutta anche questa.
Non stiamo qui cercando una concentrazione onerosa o un’attenzione forzosa, non nella lettura né tantomeno nell’ascolto. E neppure la bravura, quasi il contrario, ma di perdersi nel testo, di farsi guidare dalle tonalità, di affidarsi allo stato di affezione delle parole (ed è sempre nella prima frase di un testo che riconosciamo il suo tono). Non dobbiamo fare insomma come certi attori quando leggono una storia e si sente subito che non è in funzione delle parole che leggono, oppure che le recitano perché esse valgono assai per darsi dell’importanza. Si mettono in posa, si ascoltano mentre leggono (cosa dolorosa per chi legge e fastidiosa per chi ascolta), mentre qui intendiamo tentare un non-ascolto di sé, di fare soltanto da tramite al testo, che ogni volta si reinventa con la voce di ognuno, con le sue particolarità e complessità di tessitura.

Quindi immaginiamoci se fra i gesti quotidiani di condivisione ci inserissimo un: Ti leggo due pagine di questo libro che mi hanno commosso, o m’hanno fatto sganasciare… Facendogliele anche sentire bene. Significa riappropriarsi di un piacere sovrano, così come si chiama conversazione sovrana quando non tentiamo di imporre noi stessi, le nostre idee o la nostra visione ma invece cerchiamo risposte assieme all’interlocutore.
In conclusione, per ottenere il risultato non abbiamo bisogno di qualità particolari, tipo una cosiddetta bella voce, o una dizione perfetta, tanto meno di una voce impostata come quella di molti attori:
1) basta rinforzarsi con l’esercizio (oltretutto man mano si scoprirà che leggere per se stessi a voce alta è un cerimoniale assai piacevole, curativo, nutritivo oserei perfino dire), finché l’abitudine non diventi natura ma senza aver alcun obiettivo se non l’amore per le pagine che si leggono e il piacere di condividerle. Allora si situerà fra le tante cose importanti ma piacevoli, quelle che, come si dice ancora, rendono la vita degna di essere vissuta.
2) abbandonarsi, fidarsi di quelle pagine e di quell’amore, senza paura alcuna di sbagliare. Quindi ancora, il modo di estendere la pratica, per essere sicuri di comunicare sarà quello di esporsi così come si è, senza cercare di essere qualcun altro.

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“La lettura narrativa come resistenza” è stato scritto da giacomo sartori e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Collana Adamàs, La vita felice editore

[Continua quella che vorrebbe essere non tanto un’indagine, ma una ricognizione ragionata e dialogata dell’editoria indipendente di poesia. Abbiamo iniziato con Le Mancuspie, una collana di poesia diretta da Antonio Bux per le edizioni Graphe.it. a. i.]

La Collana Adamàs, La vita felice editore, è diretta da Tommaso Di Dio, Vincenzo Frungillo, Ivan Schiavone. Nel 2023 sono stati pubblicati i libri di Heiner Muller (settembre), Vito Bonito (maggio), Florinda Fusco (maggio), Franco Ferrara (dicembre), di cui presentiamo degli estratti. Nel 2024, sono usciti in febbraio Cinema di sortilegi di Tommaso Ottonieri e 06.010 di Sara Davidovics.

Risposte di Vincenzo Frungillo

Come è nata l’idea di questa nuova collana di poesia?

La collana Adamàs, diretta da Ivan Schiavone, Tommaso Di Dio, oltre che da me, nasce ufficialmente nel 2023 con i primi tre volumi pubblicati (Vito Bonito, Florinda Fusco e Heiner Müller), ma in realtà l’idea di un nuovo spazio per la poesia contemporanea era nei nostri pensieri già da un po’ di tempo. Dopo la scomparsa dell’editore Francesco Forte e la chiusura della casa editrice Oèdipus, era finita anche la meritoria collana Croma K, diretta da Invan Schiavone, quindi ci siamo ripromessi di continuare il lavoro di Ivan con un’altra casa editrice per non disperdere i progetti già in cantiere ed aggiungervi idee e proposte mie e di Tommaso. La vita felice e l’editore Gerardo Mastrullo ci hanno dato quest’occasione e l’abbiamo accolta con entusiasmo.

 

Che regime di produzione avete? Vi soddisfa quello che riuscite a mettere in opera (numero di titoli all’anno)?

Il regime di produzione è piuttosto intenso, in verità. Ci siamo ripromessi di pubblicare nove volumi all’anno con tre titoli in febbraio, tre in maggio e tre in novembre. Direi che siamo soddisfatti anche se la cura dei libri ci impegna abbastanza.

 

Come scegliete i libri che volete pubblicare? Quali sono i criteri che vi guidano? Siete interessato a difendere aree poetiche o correnti specifiche all’interno del panorama contemporaneo?

Nella terna di libri pubblicati abbiamo deciso di inserire un/una autore/autrice straniero/a, magari inedito/a in Italia, anche se abbiamo aperto con la ristampa di Heiner Müller, Non scriverai più a mano, tradotto da Anna Maria Carpi, già edito da Scheiwiller, ma non più disponibile; un/a autore/autrice italiano/a del recente passato che reputiamo importante per le nuove generazioni, ma che non ha ancora lo spazio editoriale che meriterebbe, ad esempio, insieme ad Argo edizioni si è avviato un progetto di ripubblicazione delle opere di Franco Ferrara; e infine un/a autore/autrice italiano/a che reputiamo importante per l’attuale panorama poetico nazionale: finora abbiamo pubblicato Vito Bonito, Florinda Fusco, Tommaso Ottonieri, Sara Davidovics. Il fatto che noi tre curatori siamo anche tre autori piuttosto diversi l’uno dall’altro per poetica, oltre che formatici in tre aree geografiche piuttosto diverse (Napoli, Roma, Milano), ci aiuta ad avere una visione piuttosto ampia dell’attuale panorama. Aiuta inoltre la possibilità che ognuno di noi ha di essere a contatto con contesti poetici internazionali: prossime uscite straniere previste provengono da aree linguistiche differenti (portoghese, tedesco, macedone, americano). Non abbiamo una linea o una corrente privilegiata, come dicevo, veniamo da ambiti differenti e cerchiamo di prendere il meglio di ciò ci sta intorno o che ci viene proposto. Abbiamo però stilato un piccolo testo programmatico in cui abbiamo cercato di dire qualcosa sulle nostre intenzioni. Ne riporta una parte qui di seguito:

“La parola [Adamàs] appare in una celebre poesia di Guido Guinizzelli («Com’adamàs del ferro in la minera») e porta con sé l’idea – che facciamo nostra – di una scrittura che non ponga l’alternativa oziosa fra pensiero e poesia, fra conoscenza, filosofia e arti del linguaggio e della scrittura, ma tenti di portare le prime e le seconde ad un punto di fusione che le renda coese e indistinguibili. E insieme duplice e una sola è la stessa parola “adamàs”: possiamo sì tradurla con “diamante”, ma anche con quella di “calamita”, perché si attribuiva a questo minerale il potere sia di risplendere e farsi trasparente e così rilanciare la luce che lo penetrava, sia quello di attrarre a sé per una forza invisibile e stupefacente il metallo ferroso, opaco, denso e pesante. Così pensiamo debba essere la poesia: da un lato deve portare il ricordo degli strati più sepolti di noi e saper trarre alla superficie il rimosso geologico del nostro vivere sul pianeta terra, dall’altro sapere raccogliere intorno alla propria luce una densità metallica e metamorfica di significati e di atmosfere, di visioni e cosmologie che possano sfuggire all’ipocrita semplicità della più trita comunicazione a cui il l’epoca dello spettacolo ci ha condannato e che sempre più sembra pervasiva, anche nelle scritture che si dicono letterarie”.

Non esiste quindi una corrente poetica di appartenenza ma l’attenzione ad autori e autrici autentici e autentiche che sappiano traferire in un libro di poesia quanto auspicato nel nostro manifesto.

*

Heiner Müller
Da Non scriverai più a mano, 2023

Pellicola nera
Il visibile
Si può fotografare
O PARADISO
DELLA CECITA’
Ciò che ancora si ascolta
È conservato 
TAPPATI GLI ORECCHI FIGLIO
I sentimenti
Sono di ieri Pensato
Non viene nulla di nuovo Il mondo
Si sottrae alla descrizione
Tutto l’umano
Diventa estraneo 
                            
                                     1993
*



Vito M. Bonito
Da Acrobeati, 2023



I


è come sui papaveri esausti
le zanzare
un deliquìo di morte
un iperìo senza più porte

una festa di sangui
di cirrose protervie
banalmente impervie

come a volte
quando scendi da le stelle
o mi del cielo
nel sì del mio sfacelo

tra li papavera belle

	oh! perché perché
	allor ti lingui?

oh! perché?
		ti esangui?

[…]

che? non ti piageva
la smisurata tua doglianza?
la buia lontananza?
la bua senza speranza?
il fior che fragile morì
tra gli usignuoli già in ardore?

non è abbastanza
questo papaverico tremore?

cos’è che non sai?
o è perché te ne vai e vai
e vai alfin laggiù
tra i rrasoi
che rrose non furono mai

luce morte dondolio
oh sine fine addio

beate rrime addio beate
mai state mai neppure nate

voi
spente lampadine
io fervente
senza mutandine


II


ergo la vita è un vuoto esergo
non scritto
		io porto il cimiero in segno di castità
		li nervi bianchissimi dei denti

io mi dentificavo ogni mese
poi mi cariavo
il cimiero non me lo sono tolto
nemmeno da morto

abbiamo tutti paura come i fioretti nel notturno
gelo solo che noi in noi chiudiamo lo sfacelo
ci fanno male gli arti le pupille l’infinita
solitudine prostatica

siamo solo un dolore impertinente
un reuma un’unghia che non cade tra le rrose
						o dove o niente


*


Florinda Fusco
Da Materia osservabile, 2023

1.
Leggera fluttuazione sulla gonna. La maglia fuxia. La chewing gum si gonfia tra le labbra. Piccola 
croce tatuata sulla spalla. Guarda in alto adesso. Verso nord-est. Sembrerebbe un nulla. Ma: una
leggera fluttuazione ha generato un’espansione che ha prodotto materia e ordine: galassie, stelle, 
pianeti.

2.

Ecco la lista delle cose presenti: 
diario, borsetta, cappello a falda ampia, smalto, pillole
Errato: sono cose del passato, di un miliardesimo di secondo fa, il tempo che la luce emessa 
dalle cose impiega a raggiungere gli occhi
Ecco la lista delle cose presenti: 
la luce

*

Franco Ferrara

Da Lettere a Natasha, 2024

 

[…]

il silenzio

ma l’audacia che pongo con questa parola

è (anche) annientamento dalla devastazione

del tempo.

 

(Perché non parli?

dovrebbe allora disorientarmi la solare incautela

cui affido la mia tendenza di essere?)

 

(Ricordi? lo abbiamo detto:

«la gioia è infinitamente ricca, dà, getta via;

la gioia è più assetata, più vigorosa,

più affamata, più terribile, più estrema

                                        di ogni dolore…

implora perché qualcuno prenda; vorrebbe

                                                  essere odiata

tanto è ricca la gioia

                    che è assetata anche di dolore!»)

Per questo, vedi?

sento di trarre nutrimento

anche da questa eccezione al silenzio

che ti offro come una focaccia

di datteri e d’orzo;

(e anche per questo

sento che non posso esimermi dal porre la mano

nella stimma di questa luce).

 

*



___________

“Collana Adamàs, La vita felice editore” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

The Top Italian Scientists and their Journal

Finally, the Top Italian Scientists have founded their own journal and called it the Top Italian Scientists Journal. But who are the Top Italian Scientists? They are the scientists who appear in a ‘do-it-yourself’ ranking called TIS. To be ‘accepted’ among the TIS you must have an h-index of at least 30 according to Google Scholar. The TIS Journal accepts only articles authored by at least a TIS. Its editorial board is extraordinary. There is Salvatore Cuzzocrea, who resigned in October as rector of the University of Messina and president of Conference of the Rectors of Italian Universities (CRUI) over a judiciary investigation into reimbursements for research activities. His articles have been the subject of 158 reports on pubpeer – mostly related to incorrect images- and he has recently gathered 3 retractions. There is Domenico Ribatti, co-author of one of the retracted articles by Paolo Macchiarini, the surgeon sentenced in Sweden “to two years and six months imprisonment after being found guilty of aggravated violence against three of his patients,” featured in the Netflix series Bad Surgeon. Also well represented are former members of the governing board of the national agency for evaluation of research (ANVUR): with a former president and two former board members. It is unfair, however, to dwell on unfortunate cases. Let us then look at the statistics: articles from TIS are retracted or put under scrutiny, for anomalies in images or otherwise, with a frequency far outside the norm. We read the first article published by the journal: more than 60 percent of it literally reproduces pieces of articles already published elsewhere and signed in the vast majority of cases by other authors. It is well known that citation doping is easy, through self-citations or citation exchanges. Even Clarivate has long claimed to exclude from its rankings those whose numbers are too big to be true, for example, those who are overproductive. In the last edition, it deleted the ranking of mathematicians, declaring that it was unable to distinguish between highly cited authentic and farcical ones. As if one year people no longer run the Tour de France because substances invisible to doping tests are circulating. We Italians have uncritically embraced these numerical criteria, making them the heart of the recruitment and promotion system, and the consequences are now visible. Moral of the story: given the company, does it suit one’s reputation to be on the TIS list?

Ringing of fanfares: just as in soccer, a new era is opening for the Italian academy. In soccer, green light for the super league of the strongest and most emblazoned teams that will no longer have to compete with mediocre national teams. In the Italian academy, the super journal of excellent Italian scientists has just arrived. Excellent in what sense? Nobel prizes? More medals? No, bibliometrically excellent. For decades there have been databases that take into account not only the articles published, but also who cites whom. A type of measure that has had many supporters in Italy and that for 10 years has been the basis for the recruitment of professors, regulated by Anvur, the national agency for university and research evaluation. A true panacea to restore the academy of rigged recruitment procedures and nepotism.

Finally, the Top Italian Scientists have founded their own journal and called it the Top Italian Scientists Journal. But who are the Top Italian Scientists? They are the scientists who appear in a ‘do-it-yourself’ ranking called TIS. To be ‘accepted’ among the TIS you must have an h-index of at least 30 calculated on Google Scholar (which means: having written 30 articles that have each received at least 30 citations on Google Scholar).

1. The TIS ranking (and its history).

The Top Italian Scientists ranking was launched by Mauro degli Esposti and Luca Boscolo around 2010 [see here]. There is a public version based on Google Scholar data, and a restricted access version based on Scopus data (to which we do not have access). To date it appears that the sole maintainer is Luca Boscolo (here). The TIS ranking continues to be an entirely opaque object: it is not possible to know what server it is on (whois is covered by privacy), who puts up the resources, how the TIS club is formed, much less how the TIWS women’s club is run.

Parallel to the rankings, a VIA-Academy (Virtual Italian Academy) had been built, which had attempted the establishment of a telematics university [link to news at the time here], which failed before it was born [see here]. VIA-academy’s website has disappeared from the web, but you can visit it here. And you can see the only recent activity we found evidence of here.

Paolo Giudici, a statistician from the University of Pavia, obviously one of the TIS, and Luca Boscolo reconstruct the history of the TIS ranking with an old-fashioned narrative style (interested readers will enjoy the entire article here):

The Top Italian Scientists database started in 2010 when Luca Boscolo got
inspired by an article that gathered a list of 300 Italian academics in Italy and
abroad with the highest scientific impact in any area. To measure the scientific
impact they used the h-index. Luca had the idea to download the entire list of
the academics working for the Italian universities (about 54k people) and for
each of them calculated their h-index using Google Scholar as database. Luca
then extracted a list (about a 1k people) whose h-index was greater or equal
than 30. The result was called “list Top Italian Scientists” (TIS), and a paper
was published displaying a list of the Italian universities ordered by the number
of TIS. The paper was cited by some of the main Italian newspapers such as
La Stampa and it went viral scattering a huge interest in the academic world.
After that, Luca started to get flooded with emails congratulating the work or
indicating someone with h-index ¿= 30 [sic]. After more than 12 years the list has
grown up from a 1k to more than 5.5 k. Nowadays this list is known to all
Italian academics working in Italy or abroad.

If one does not stop at the self-apologetics of TIS, one can verify quite easily that when some politician or journalist has used the TIS ranking, he or she has gotten himself or herself into quite a bit of trouble.

The Lombardy Region used the TIS ranking to select jurors and prize-winners for the Lombardy Prize. Once again, creating bewilderment among journalists and scholars (for a summary see Tiziana Metitieri here and here).

The TIS ranking even elicits hilarity when observed by nonItalians. Here for example Leonid Schneider recalls the role in climbing the ranks of the Iranian paper-mills, organisations dedicated to the production of articles often associated with the sale of authorisations of convenience.

Roars also dealt with the TIS list in 2012 [here] with an article entitled Classifiche incredibili (Unbelievable rankings). The mathematician Alessandro Figà Talamanca caustically commented:

It should be added that as long as the decision on who signs a job is made by the bosses, we will continue to see scientifically disqualified characters on the list of top Italian scientists who are only capable of exploiting the work of young people.

2. Il nuovo Top Italian Scientists Journal

At the beginning of 2024, the Top Italian Scientists Journal appeared on the web [here]. In recent weeks we have saved a few versions on the wayback machines because the site appears to be constantly changing].

The journal purports to be an open access journal (no payment is required to read the articles published there), multidisciplinary (covering all areas of human knowledge except, as I understand it, the humanities). It declares that it adopts a single-blind peer review model: articles before being published are read by anonymous reviewers who are aware of the authors of the articles. To adhere to the principles of the Committee for Ethis in Publications (COPE).

And to adopt an Open Access Gold model: authors of accepted articles pay for publication.

There are, however, several quirks.

Let’s start with the formal ones. The website states that ‘TISJ is not currently live yet’. Who knows what that means. The articles do not have DOIs, but the site informs us that they are pending. There is no indication of when the articles were submitted to the journal and how long the review process took for each one. The articles were all published at very short intervals in the first 15 days of the year and then the publications came to a standstill. The server on which the journal resides is not known. It is not known who the publisher of the journal is, or at least it is not known who and under what legal form holds the ownership rights to the journal and the site. This is information that we do not doubt will be promptly disseminated.

Other oddities are less difficult to remedy. As we anticipated, ‘gold open access’ means that it is the authors who pay so-called APCs (article processing charges) for the publication of their articles. The TIS journal does not charge APCs, but when an article is accepted, authors can make a donation to the journal.

Nowhere could we find any indication of who receives the donation on behalf of the journal or TIS. It costs money to publish a journal (even to acquire DOIs). Who pays for TIS?

But the strangest oddity is that the magazine only publishes articles signed by at least one author who is listed on the TIS list. A kind of golf club magazine in which only members of the club can write. 

To find out that only TIS members can write in the journal, you have to go to the page about formatting papers (!):

3. The editorial board of the TIS Journal

Like any self-respecting journal, the TIS Journal also has an editorial board, composed of course only of members in the Top Italian Scientists classification. The list of board members is constantly growing and changing.

The changes are not insignificant. Suffice it to say that on 8 January, as can be seen here, the journal had an editor in chief: Vito D’Andrea. A week later, the journal no longer had an editor in chief, to date the editor in chief is TIS Enrico Gherlone.

But who are the TISs crowding the editorial board?

There is Salvatore Cuzzocrea, who resigned in October as rector of the University of Messina and as president of the Conference of the Rectors of Italian Universities because of a judicial investigation into reimbursements for research activities (see here). Cuzzocrea holds the record, among board members, for the number of 167 reports on pubpeer. PubPeer is a web platform that allows users to discuss and review scientific research after publication. The site is mainly used as a whistleblowing platform to report misconduct and fraud in scientific literature. In Cuzzocrea’s case, the reports mainly concern incorrect images in articles. His first retracted article

, followed by two others, is dated 18 January 2024.

In second place among board members in terms of the number of pubpeer reports is Alessandra Bitto of the University of Messina, who counts 79, mostly for incorrect images in articles. Alessandra Bitto is co-author of 9 articles that have been retracted. Leonid Schneider wrote about the University of Messina group here and there. Francesco Margiocco wrote about it in the Italian newspaper SecoloXIX.

Members of the editorial board include Roberto Bolli, co-author of Pietro Anversa -also TIS – for whom Harvard University, in 2018 at the end of an investigation asked for the retraction of 31 articles on the use of stem cells for the regeneration of heart tissue . Bolli is co-author of 3 articles retracted by Anversa. (Retraction Watch reports that “Bolli was recently [2019] fired as editor of a journal for making homophobic comments“).

There is Domenico Ribatti one of the co-authors of Paolo Macchiarini, the surgeon sentenced in Sweden ‘to two years and six months imprisonment after being found guilty of aggravated violence against three of his patients’, starring in the Netflix series Bad Surgeon. Ribatti shares with Macchiarini an article in Nature that has been retracted (see here and here), and other 3 flagged on pub pubpeer (over a total of 18 flagged papers).

There is Francesco Trapasso one of the co-authors of cancer researcher Carlo M. Croce who now has at least 14 retractions and lawsuits to his credit, including with his lawyers (see here and in Italiano here and here). Croce, according to the TIS ranking, is the best of the best. Trapasso shares two retractions with Croce. And he also shares two with Alfredo Fusco (see here) .

Among the board members is Arrigo Cicero, who has at least 6 retractions to his credit due to multiple publication of the same paper (see here).

And also Pier Paolo Pandolfi (see here) who has 36 flagged papers on pubpeer.

The board could not fail to include a qualified representation of former ANVUR officers. There is Paolo Miccoli, former president of ANVUR and, thanks to the revolving doors, newly appointed president of the association of telematic universities. Certainly readers of roars will remember the cut-and-paste affair of the ‘theme’ to become a member of the agency.

And there is also Daniele Checchi, a former member of the ANVUR board. He was selected among the TIS thanks to his performance on Google Scholar where he has, as is often the case for economists, 500% more citations than those recorded on Scopus (which would not have allowed him to exceed the mythical threshold of 30!).

4. Rule or exception?

A handful of unfortunate incidents cannot undermine the goodness of an objective criterion such as the one underlying the TIS ranking. You don’t have to look at individual incidents, you have to look at the statistics, and the statistics say TIS is TIS.

We too looked at some statistics for the members of the TIS Journal editorial board. We focused in particular on the reports on pubpeer and in the Retraction Watch database, which contains the metadata of articles that have been subject to retraction, expression of concerns by editors, and corrections.

We photographed the board as of 8 January 2024 and cross-referenced the board members with the data available on the Retraction Watch database and the pubpeer platform. As of 8 January, 157 board members were listed.

Of these, 24 (15.3%) have at least one report on Retraction Watch. The total number of articles reported on Retraction Watch for TIS journal’s board members is 59. This means an average of 0.38 reports per capita. The 157 TIS board members account for 6.2% of Italian reports on Retraction Watch.

To get a more precise idea, let us take the full and associate professors of Italian universities on the same date (10.726+19.616=30.342) and assume that they have an average of 0.38 reports per capita on Retraction Watch. Retraction Watch should contain a total of 11.530 reports from Italian authors. Instead, it contains only 949. This means that the number of reports per capita of Italian academics is 0.03, which is an order of magnitude less than the board members of the TIS journal.

Let us now take the pubpeer data. There are 47 (29.9%) board members who have at least one report in pubpeer. The total number of reported articles is 484: each board member has on average 3.1 reported articles. Again, if Italian ordinaries and associates had the same average, articles by Italian authors would be 93.453.

One possible objection to these figures is that because TIS are the best, they are more visible and therefore subject to more stringent controls. Besides, what counts for a journal is not who is on its editorial board, but the relevance of the articles it publishes.

5. A good morning: the first article in the TIS Journal
We read the first article published by the journal:
Corrado Angelini, Advances and new treatments are available for neuromuscular disorders and affect Quality of Life, Top Italian Scientists Journal 1(1), 2 January 2024

More than 60% of the article literally reproduces parts (mainly abstracts and conclusions) of articles already published in other journals and popular articles available on websites and signed in the vast majority of cases by other authors.

In the pdf below, you can compare the text in the TIS JOURNAL and the articles that have literally identical parts with it.

tis_first paper

6. The moral of the story

It seems to have told the academic world inside out. Those at the top are actually those who stumble the most. It is well known that citation doping is easy, through self-citations or citation exchanges. A problem of us anthropologically cunning Italians? Yes and no.

No, because internationally we have long been aware of the problems with the rankings of highly cited scientists (see here). By now, doping problems can no longer be swept under the carpet even by companies that make bibliometric statistics their main business. The most famous one (Clarivate), which is also decisive for the ARWU ranking, has long claimed to exclude those whose numbers are too big to be true, for instance those who are overproductive. Even, in the last edition, it deleted the ranking of highly cited mathematicians because it found no way to separate dopers from the rest (see here). A bit like not running the Tour de France one year because there are doping substances circulating that are impossible to detect by doping tests.

But it is also a problem for us Italians, because unlike other countries we have embraced these criteria and made them the core of our recruitment and promotion system. So much so that in international statistics the Italian anomaly is clearly visible and puts us on the same level as nations that have also encouraged doping.

Moral of the story. The TIS list is a hall of fame? It is a discreet sign of provincialism to boast of being part of the TIS and to launch a journal without harbouring the suspicion of arriving out of time, when the toy is broken. Whoever is really top, a little bit of a stink should have smelt it, if he or she follows the scientific debate and does not live on top of a pear tree.

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“The Top Italian Scientists and their Journal” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.

Cartoline dal Sud: scrivere l’abbandono

 

 

 

di Valeria Nicoletti

Spira il vento in queste pagine, quello che trasforma, che allontana, ma anche quello che riporta con sé profumi, suoni e memorie di quanto ci si lascia alle spalle. Sono storie “sciroccate”, quindi, in tutti i sensi, quelle che compongono la pregevole raccolta edita da Tamu, dove si radunano dieci penne, una diversissima dall’altra, che tuttavia condividono quel sentirsi scisse, a metà, un po’ tradite e un po’ traditrici della terra che le ha generate.

Nata dal laboratorio di scrittura curato da Ubah Cristina Ali Farah e Claudia Durastanti, che ne firmano anche la prefazione, questa antologia raccoglie storie di separazioni, di migrazioni, interne o internazionali, dove la differenza tra le due è dura da decifrare, narrate da una prospettiva contemporanea e inedita, grazie anche all’età degli autori, tutti tra i venti e i trent’anni, tutti a loro modo sperimentatori di nuove tendenze, forme ma anche contenuti della letteratura attuale. Storie sgualcite da lunghi viaggi e segnate da strappi, da tagli con quel cordone ombelicale che è spesso rappresentato dalla figura della madre, o ancor più, in molti casi, della nonna, dove riaffiora una malcelata ambiguità verso quel sentimento di appartenenza, a tratti ricercato, quasi sempre fuggito.

Memorie che, per scriverle, necessitano il ricorso a una lingua sepolta, abbandonata, a rinominare cose di cui, nel tempo, sembra essere sfuggito il nome. Riemerge allora un idioma sparito, a tratti anche anarchico, con parole materiche, corporee, intime, sgrammaticate sì ma subito riconoscibili nel loro senso più autentico. Ed ecco che, sullo sfondo di paesi appoggiati alla terra “come un neonato sul corpo della madre”, si consumano tragedie che feriscono a morte, nel senso in cui La Capria si faceva mortalmente colpire da quell’indolenza tutta meridionale, perché la terra, quella che si abbandona, è sempre al Sud, che sia quello italiano o quello di altre aree del mondo. Si ritorna e si riallena il corpo a misurarsi con raffiche di vento, cariche d’umidità e temperature dimenticate, ma anche ad affrontare chi, dal paese, se n’è andato pur essendovi rimasto. Un dolorosissimo ritorno al passato, oppure un curioso e originale immaginare un futuro in cui la “grande migrazione al Nord” si sia finalmente compiuta e il mezzogiorno, dopo essere stato discarica e terra dei fuochi, sia stato tramutato in un labirinto di radici, cunicoli sotterranei e rizomi, popolato solo da pochissimi sopravvissuti.

La scrittura diventa allora strumento per cimentarsi e trovare il coraggio di sfidare narrazioni stereotipate su uno strettissimo Sud da cartolina, rigettare finalmente quello scorfano di morantiana memoria, ma anche un modo per ritrovarsi, per rimettersi insieme, per accettare finalmente il fatto di essere tramontana e scirocco insieme, di sbraitare “contro la mia terra perché non mi riguarda più” ma anche di parlarle “sottovoce perché è l’unico posto a cui assomiglio e l’unico a cui so assomigliare”. Sono storie, queste, di chiusura del cerchio, ma anche, come dice Claudia Durastanti, di “schiusura”, dove il guscio finalmente si rompe.

Storie che “terminano esattamente quando devono iniziare”, come scrive una delle autrici, per lasciare al respiro altro tempo e altro spazio e continuare la ricerca. Per fare, di questa antologia, una compassionevole ed eterogenea “opera aperta” che il lettore, anch’egli, come tutti, sicuramente segnato dalle sue migrazioni, potrà completare.

AA.VV., Sciroccate, Tamu edizioni, 2023, 212 pagine, 16 euro.

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“Cartoline dal Sud: scrivere l’abbandono” è stato scritto da ornella tajani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

“Una fitta rete d’intrecci”: su “Agatino il guaritore” di Massimiliano Città

 

di Daniele Ruini

Si suol dire che tutte le cose, tutte le verità
hanno due facce diverse o contrarie, anzi infinite
(G. Leopardi)

Ad un certo punto, lungo la statale che collega Montepicozzo Marittima a Boschetto (frazione di Vallombrina), si può scorgere una biforcazione: due stradine subito nascoste da una vegetazione lasciata crescere nella più totale incuria, dove «la mano casuale della natura ha disegnato, nel corso degli anni, una fitta rete d’intrecci ascendenti tale da non permettere, neanche a un minimo bagliore del cielo, di filtrarci attraverso». Non che la prima stradina, che si conclude in una piazzola scenario di incontri notturni, non offra materiale da romanzo; ma il narratore ci avvisa che non è in quella direzione che gli interessa procedere: sarà invece lungo la seconda strada che accompagnerà il lettore, alla scoperta di una «modesta abitazione» in cui risiede il protagonista eponimo della sua storia.

Non sembri ozioso aver voluto dare rilevanza a tali dettagli; il fatto è che è proprio nella pagina iniziale che si manifestano alcuni dei tratti caratteristici dell’ultimo romanzo di Massimiliano Città, “Agatino il guaritore” (Il ramo e la foglia edizioni). L’opera si nutre infatti di un potenziale narrativo per così dire sempre aperto a nuove possibili aggiunte, in un intreccio di sviluppi e biforcazioni potenzialmente infinito. Quello di Città è un romanzo corale, in cui intorno al protagonista ­– un presunto santone su cui girano tante voci e che da anni presta i suoi servizi ai bisognosi della zona– ruotano i destini di vari personaggi che ad un certo punto si incrociano con il suo.

E nel raccontare tutto questo l’autore sembra porsi nella stessa prospettiva della chiacchiera paesana: quelle tramandate nella vallata erano infatti storie «intrecciate», tali per cui «iniziavi a parlare di qualcuno e finivi distante una decina di chilometri a parlare delle sventure di altri, da anni lontani dagli occhi».

Facendo continuamente avanti e indietro nel tempo, il narratore ci presenta una compagine di vicende che, sullo sfondo di una provincia siciliana tagliata fuori dalla modernità, descrivono esistenze sofferte: una donna, un tempo indipendente e ambita, costretta a cedere la nipote; un ludopatico pieno di debiti; una figlia che non può più sopportare le sofferenze del padre malato terminale; un giovane calciatore che si vende le partite e che, diventato avvocato e piccolo imprenditore, desidera intraprendere una carriera politica; due genitori disperati per la cecità del loro neonato; un ragazzo, senz’arte né parte, che desidera fare il giornalista. Sono miserie di varia natura rispetto alle quali Agatino agisce come una calamita: la sua specialità è proprio quella di districarsi «in quel crogiolo di voci, facce, nomi ed esperienze» dei suoi questuanti e di vendere loro una soluzione o anche solo un barlume di speranza.

L’aura di mistero intorno ad Agatino dipende anche dal vuoto di notizie sul suo passato: nessuno sa di dove sia originario, e assai poco si conosce della sua vita precedente. Il poco che emerge dalla sua infanzia, passata in balia di una madre prepotente che non lo ho mai desiderato e che lo ha presto allontanato da sé, basta però a farci comprendere come alla base della sua remunerativa attività, in cui convivono conforto e raggiro, vi sia proprio quell’abbandono sofferto da piccolo. In questo senso la citazione da Niels Bohr posta dall’autore in esergo al suo libro, in cui si dichiara che la coesistenza degli opposti è la cifra delle verità più profonde, rimanda all’ambiguità che circonda le imprese di Agatino. Non sorprende allora che a (s)travolgere il protagonista del romanzo sarà proprio l’occasione miracolosa in cui si rivelerà capace –con suo sorpreso sconcerto– di donare a qualcuno la gioia più grande della sua carriera.

Dimostrando un’ammirevole padronanza narrativa e stilistica, Massimiliano Città ci guida con la sua scrittura raffinata in un labirinto fatto di tante storie e molteplici personaggi (molti dei quali portano, come il protagonista, un diminutivo nel nome). “Agatino il guaritore” è l’esito felice di un narratore ispirato che descrive parabole umane disperate – parabole che conducono a un venditore di speranza il cui business si basa su un postulato difficile da contestare: «Pensiamo d’esserci evoluti per il fatto di conoscere causa ed effetto dei fulmini e dei tuoni che dall’orizzonte s’avvicinano alle nostre case, ma una paura ancestrale c’è rimasta dentro le ossa».

 

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““Una fitta rete d’intrecci”: su “Agatino il guaritore” di Massimiliano Città” è stato scritto da ornella tajani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Premio Tirinnanzi 2024

Il Comune di Legnano e la Famiglia Legnanese, per ricordare il poeta Giuseppe Tirinnanzi (Firenze 1887 – Legnano 1976), indicono la quarantaduesima edizione del Premio di Poesia Città di Legnano – Giuseppe Tirinnanzi.

Il premio si divide in tre sezioni:

a) Lingua italiana

b) Legnano città 1924-2024

c) Premio alla carriera

La partecipazione è libera e gratuita.

a) Sezione Lingua Italiana. Solo per libri editi nell’ultimo biennio.

Si partecipa inviando quattro copie di un libro di poesia stampato tra il 1° gennaio 2022 e il 30 aprile 2024. I 4 volumi, corredati da breve biobibliografia, dati anagrafici e recapito dell’autore/autrice, nonché dalla dicitura “Partecipa al Premio Tirinnanzi 2024”, vanno inviati entro il 30 aprile 2024 (fa fede il timbro postale) al seguente indirizzo:

Segreteria Premio Tirinnanzi c/o Fam. Legnanese, C.P. 71 – 20025 Legnano Centro (Milano).

La Giuria Tecnica, composta da Franco Buffoni (Presidente), Uberto Motta, Fabio Pusterla e assistita dal Presidente della Famiglia Legnanese o da un suo delegato, dal Sindaco di Legnano o da un suo delegato, da un membro della Famiglia Tirinnanzi e dal Segretario Luigi Crespi ([email protected]), sceglie tre libri i cui autori/autrici saranno invitati alla cerimonia di premiazione che si terrà a Legnano sabato 23 novembre 2024 h 16.45 presso il Teatro Tirinnanzi, piazza IV Novembre 4, Legnano (Mi). Ciascuno/a dei tre finalisti riceverà un premio in denaro di euro 1.500. Non sono ammesse deleghe. In caso di forzata assenza il/la finalista rimarrà tale, ma non riceverà alcun premio in denaro. Alcuni testi di ciascun/a finalista saranno stampati nel programma di sala. Nel corso della cerimonia ciascuno/a dei/le tre finalisti/e sarà intervistato dal Presidente della Giuria e verrà invitato/a a leggere le poesie stampate nel programma di sala. Al termine, la Giuria Popolare esprimerà su apposita cartolina il proprio voto decretando il/la vincitore/vincitrice, che riceverà un ulteriore premio di euro 2.500.

Tra i libri pervenuti per la Sezione Lingua Italiana la Giuria premierà anche con euro 1.000 un’opera prima o comunque l’opera di un/una giovane poeta.

 

b) Sezione Legnano Città 1924-2024. Si partecipa inviando un solo testo di max 6mila battute spazi inclusi, in prosa o in poesia, edito o inedito, in italiano o in un dialetto di ceppo lombardo, in quattro copie, corredato da breve biografia, dati anagrafici e recapiti dell’autore, nonché dalla dicitura “Partecipa al Premio Tirinnanzi 2024”, entro il 30 aprile 2024 (fa fede il timbro postale) all’indirizzo sopraindicato. L’argomento è “Legnano Città” e può toccare tutti i possibili aspetti della storia di Legnano: storici, culturali, artistici, industriali, commerciali, naturalistici, ecologici ecc.

Tutti/e i/le partecipanti riceveranno un attestato commemorativo del Centenario della Città.

La Giuria sceglierà un/una vincitore/trice che sarà premiato/a alla cerimonia di premiazione presso il Teatro Tirinnanzi, piazza IV Novembre 4, Legnano sabato 23 novembre 2024 h 16.45, e riceverà un assegno di euro 2.000. Non sono ammesse deleghe. In caso di forzata assenza il vincitore/la vincitrice rimarrà tale, ma non riceverà alcun premio in denaro.

Seguirà una festa del dialetto milanese con il poeta e performer Davide Ferrari che reciterà testi della grande tradizione da Carlo Porta a Delio Tessa a Franco Loi.

c) Premio alla Carriera della Fondazione Tirinnanzi. Già assegnato nel 2010 a Luciano Erba, nel 2011 a Franco Loi, nel 2012 a Giampiero Neri, nel 2013 a Giorgio Orelli, nel 2014 a Vivian Lamarque, nel 2015 a Milo De Angelis, nel 2016 a Valerio Magrelli, nel 2017 a Maurizio Cucchi, nel 2018 a Biancamaria Frabotta, nel 2019 ad Antonella Anedda, nel 2020 a Giuseppe Conte, nel 2021 a Umberto Fiori, nel 2022 a Dacia Maraini, nel 2023 a Eugenio Finardi, il Premio alla Carriera di euro 4.000 verrà assegnato a un/una autore/autrice di chiara fama che si sia particolarmente distinto/a nella propria ricerca linguistica, tematica e nell’impegno civile. In caso di forzata assenza il/la vincitore/vincitrice rimarrà tale, ma non riceverà alcun premio in denaro.

Ai sensi del Regolamento UE 679/2016 e del D.Lgs. 196/2003 e s.m.i., i/le concorrenti autorizzano la Segreteria al trattamento dei propri dati personali forniti per la partecipazione al Premio, per tutte le finalità connesse alla gestione dello stesso. Con la partecipazione i/le concorrenti danno atto di aver letto l’informativa di cui all’art. 13 del citato Regolamento UE, pubblicata sul sito Internet www.premiotirinnanzi.it.

La partecipazione costituisce implicita accettazione delle norme del bando. Per quanto non previsto valgono le delibere della Giuria, il cui giudizio è insindacabile.

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“Premio Tirinnanzi 2024” è stato scritto da renata morresi e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Discorso di Capo Orso Scalciante

a cura di Silvano Panella

Introduzione

Versione di Silvano Panella del discorso che
Capo Orso Scalciante pronunciò nel 1890. Orso
Scalciante (1845-1904) fu un grande capo dei nativi
americani Miniconjou (Lakota Sioux). Il suo nome in
lingua lakota è Matho Wanahtaka.

Il discorso

Fratelli, vi prometto che un giorno nessun uomo
bianco poserà più la mano sui nostri cavalli. Vi
prometto che un giorno l’uomo rosso della prateria
dominerà di nuovo il suo mondo e nessuno lo
allontanerà più dai terreni di caccia. I fantasmi dei
vostri padri mi hanno detto che desiderano unirsi a voi
guidati dal messia che già venne una volta per vivere
su questa terra ma fu ucciso dagli uomini bianchi. Io
ho visto le meraviglie della terra degli spiriti. Ho
parlato con loro. Ho viaggiato a lungo. Ora sono
tornato per avvertirvi che presto ci ricongiungeremo
con i fantasmi dei nostri padri e con il messia.
Sedici lune fa uscii fuori dal mio tipì nella riserva
Cheyenne e mi preparai per il viaggio perché avevo
avuto una visione. Accadde subito dopo la semina del
grano. La voce nella visione mi aveva ordinato di
incontrare i fantasmi perché essi desideravano tornare.
Viaggiai sul treno dei bianchi fino al punto in cui la
ferrovia si interrompe. Qui incontrai due uomini rossi
che non conoscevo ma che mi salutarono come un
fratello. Mi offrirono carne e pane. Avevano tre
cavalli, uno era per me. Cavalcammo per quattro
giorni senza mai parlare, sapevo già che quegli uomini
sarebbero stati i testimoni della mia esperienza. Due
soli erano già tramontati, avevamo superato gli ultimi
segni della civiltà bianca quando incontrammo un
uomo nero d’aspetto fiero, vestito di pelli. Viveva da
solo e le sue medicine avevano un grande potere.
Agitava le mani e comparivano sacche di soldi,
agitava le mani e comparivano carri colorati, agitava le
mani e comparivano mandrie di bisonti. L’uomo nero
ci disse che era nostro amico, potevamo restare con lui
e prendere quel che volevamo, denaro, carri, bisonti.
Non restammo e proseguimmo per altri due giorni.
La sera del quarto giorno, sfiniti dal viaggio,
cercammo un luogo dove accamparci. Incontrammo
un uomo vestito come un indiano ma con i capelli
biondi. Aveva un volto piacevole e le sue parole mi
rallegravano e non pensavo più alla fame, non pensavo
più alla stanchezza. Egli disse che il nostro lungo
viaggio ci aveva condotti a lui e ora dovevamo lasciare
i cavalli e seguirlo a piedi. Così facemmo. Mentre
camminavo provavo un gran senso di serenità. A un
certo punto il sentiero in salita nella foschia divenne
proprio un sentiero di nuvole che ci portò in cielo.
Fratelli, la mia lingua è dritta e non riesce a rivelare
tutto quello che vidi, non sono più un oratore ma un
messaggero degli spiriti. L’uomo che seguimmo ci
portò al cospetto del Grande Spirito e di sua moglie.
Erano vestiti da indiani. Ci prostrammo e da una
apertura del cielo vedemmo tutte le terre e tutti gli
accampamenti dei nostri antenati. C’erano i tipì e
c’erano i fantasmi dei nostri padri, c’erano grandi
mandrie di bisonti e tutti erano felici perché l’uomo
bianco non era ancora arrivato. L’uomo che avevamo
seguito ci mostrò le sue mani ferite, i suoi piedi feriti,
erano i segni lasciati dagli uomini bianchi che lo
crocifissero. Ci disse che sarebbe tornato sulla terra
ancora una volta, ci disse che sarebbe rimasto a vivere
con noi, con gli indiani. Eravamo noi il popolo che
aveva scelto stavolta. Sedemmo davanti al tipì del
Grande Spirito, su pelli di animali a me sconosciuti. Ci
venne spiegato come recitare le preghiere ed eseguire
le danze. Vi mostrerò come si fa. Poi il Grande Spirito
parlò:

Porta questo messaggio ai miei figli rossi, ripetilo
parola per parola. Ho trascurato gli indiani per molte
lune, ora se mi obbediranno li renderò il mio popolo.
La terra sta invecchiando. La renderò nuova per voi,
per voi e per i fantasmi dei vostri padri, delle vostre
madri, dei vostri fratelli, dei vostri cugini, delle vostre
mogli. Lo farò per tutti quelli che accoglieranno le mie
parole. Coprirò la terra con nuova terra, coprirò i
bianchi malvagi e le cose malvagie, e tutto quel che
esiste di cattivo verrà sepolto. Sulle nuove terre ci
saranno prati, alberi, fiumi. Bisonti e cavalli
correranno liberi e gli uomini potranno bere, mangiare,
cacciare ed essere felici. Renderò invalicabili i mari
affinché le navi di chi intende conquistare le terre
altrui non potranno mai più passare. Mentre farò tutto
questo voi danzerete e pregherete, vi alzerete in cielo e
quando sarà tutto pronto tornerete sulla terra e sarete
assieme ai fantasmi dei vostri antenati. Chi dubiterà
del mio messaggio verrà lasciato in brutti luoghi dove
vagherà perdutamente finché non crederà e imparerà le
preghiere e le danze. Io sottrarrò agli uomini bianchi il
potere della polvere da sparo affinché quando
spareranno di nuovo su di voi le loro armi si
bruceranno. Soltanto chi crederà avrà armi che
funzionano, armi da usare sugli uomini malvagi. E se
pure un uomo rosso verrà ucciso mentre danza, il suo
spirito si unirà ai fantasmi dei suoi antenati e tornerà
sulla terra assieme a loro. Andate, ora. Dite a tutti di
prepararsi per la venuta dei fantasmi.

Ci venne offerto cibo dolce, squisito. Mentre
mangiavamo arrivò un uomo molto alto, molto magro,
con grandi denti, i capelli corti. Capimmo subito che
era uno spirito maligno. Questa creatura si rivolse al
Grande Spirito e disse: voglio metà degli abitanti della
terra. Il Grande Spirito rispose: no, non posso darteli,
li amo troppo. Lo spirito maligno ripeté la richiesta,
ma ottenne soltanto un altro rifiuto. Poi chiese una
terza volta. Il Grande Spirito disse che avrebbe potuto
lasciargli gli uomini bianchi. Noi no, oramai ci aveva
scelto come suo popolo. Lo spirito maligno scomparve
e io pensai che perfino lui non volesse avere niente a
che fare con gli uomini bianchi.

Ci furono mostrate le danze, ci furono insegnati i
canti. Poi fummo accompagnati giù. Ritrovammo i
nostri cavalli. Tornammo alla ferrovia. Il messia ci
seguì in cielo per insegnarci altri canti. Poi ci disse di
tornare dalla nostra gente, di riferire tutto quello che
avevamo visto, di insegnare quanto avevamo appreso.
Ci promise che sarebbe rimasto sulla terra per guidare
i fantasmi dei nostri padri fino a noi.

Questa versione si rifà alla trascrizione in lingua inglese che si trova nel volume di memorie My Friend the Indian (1910) dell’agente agli affari indiani James McLaughlin (1842-1923).

Foto di Eszter Miller da Pixabay

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“Discorso di Capo Orso Scalciante” è stato scritto da davide orecchio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Bioeconomics (Georgescu Roegen) vs bioeconomy: i miti del riciclo completo della materia e dell’onnipotenza delle tecnologie

di Alberto Berton

I passi che seguono sono tratti – per maggiori dettagli si veda la nota finale – da “La storia del biologico. Una grane avventura” di Alberto Berton, Jaca Book (NdR)

Nonostante alcuni deboli tentativi di fare della bioeconomics di Georgescu-Roegen la base teorica della bioeconomy[1], l’impostazione dell’economista rumeno resta fondata su una ‘visione del mondo’ che non ha nulla a che vedere con la bioeconomia com’è oggi comunemente intesa. Come si diceva all’inizio, un caso emblematico, quello della bioeconomia, in cui l’uso del suffisso bio genera grandi confusioni[2].
Per quanto riguarda l’agricoltura, ad esempio, la bioeconomics di Georgescu Roegen sviluppa delle analisi e conduce a valutazioni diametralmente opposte a quelle su cui si basa la bioeconomy. Vediamo in che senso.
Per prima cosa, in termini molto generali, per Georgescu-Roegen, nonostante l’importanza vitale di ogni forma di riciclo e di utilizzo di energia e materiale di origine rinnovabile, l’economia umana non riuscirà mai ad affrancarsi completamente dall’attività mineraria, anche solo per la nostra dipendenza dall’estrazione di minerali ad alto contenuto di metalli e di altri materiali utili, nonché per l’impossibilità del riciclo completo della materia. Matter matters too, anche la materia conta, amava scrivere Georgescu-Roegen per ricordare l’importanza del problema dell’esaurimento delle miniere di metalli e di rocce fosfatiche in un contesto dominato dall’problema dell’energia. In agricoltura questa dipendenza è divenuta sempre più evidente nel corso del tempo a causa della nostra evoluzione esosomatica che ci ha portato, ad esempio, dai primi falcetti in legno e selce alle gigantesche mietitrebbiatrici.
Proprio nella conferenza del 1972 alla Yale University a cui si faceva prima riferimento, Georgescu-Roegen affrontò il problema dell’analisi delle diverse forme di agricoltura da un punto di vista bioeconomico.  Secondo l’economista rumeno l’industrializzazione dell’agricoltura, basata sulla sostituzione del lavoro umano e di quello animale con i macchinari a motore termico, nonché con la sostituzione del letame e delle rotazioni con i fertilizzanti di sintesi e i pesticidi, ha effettivamente permesso un aumento significativo della produzione agricola mondiale, ma questo tipo di sviluppo agricolo, nel contempo, ha comportato la sostituzione di risorse rinnovabili di origine solare abbondanti con risorse non rinnovabili di origine terrestre, scarse ed esauribili.
Grazie all’agricoltura industriale, l’umanità è riuscita ad incrementare in modo rapido e considerevole la produzione di cibo su una data superficie agricola, ma questa intensificazione di un processo in ultima analisi fotosintetico, è stata raggiunta grazie ad un aumento più che proporzionale del consumo di risorse non rinnovabili, che sono quelle veramente critiche data appunto la loro scarsità, la loro non riproducibilità e la loro esauribilità.
Georgescu-Roegen, inoltre, considerando il fatto, accertato empiricamente, che tutti i fattori produttivi in agricoltura hanno rese fortemente decrescenti, ovvero che all’aumentare dei livelli di produzione l’incremento delle rese si ottiene solo grazie a un incremento sempre maggiore del consumo di risorse, giunge alla conclusione che l’agricoltura moderna, basata soprattutto  su fattori produttivi di origine terrestre piuttosto che su quelli di origine solare, è una energy squanderer, ovvero una sperperatrice di energia fossile. Per questa ragione, l’aumento delle produzioni agricole attraverso un’agricoltura sempre più meccanizzata e basata su un sempre maggiore uso di fertilizzanti e pesticidi di sintesi, rappresenta una strategia che in una prospettiva di lungo periodo va contro i più elementari interessi bioeconomici della specie umana.

La diseconomia dell’agricoltura industriale, orientata alla massima resa immediata, secondo Georgescu Roegen «è particolarmente pesante nel caso delle varietà a resa elevata che hanno fatto vincere al loro creatore, Norman E. Borlaug, il premio Nobel»[3]. Queste varietà sono capaci di produrre anche il doppio delle colture tradizionali, ma solo a condizione di un uso massiccio di fertilizzanti, pesticidi, diserbanti, sistemi di irrigazioni e macchine agricole, ovvero di un uso intensivo di fattori produttivi non rinnovabili. Sementi di varietà ad alta resa, fertilizzanti di sintesi, pesticidi e diserbanti chimici, macchine agricole, pompe idrovore e combustibili rappresentarono difatti il ‘pacchetto’ che venne promosso a livello globale dalla Fondazione Rockfeller e dalla Fondazione Ford per dare avvio alla Rivoluzione verde.
Quando Georgescu-Roegen espose pubblicamente queste sue argomentazioni (1972), a Norman Borlaug, padre riconosciuto della Rivoluzione verde, era stato da poco (1970) attribuito il Premio Nobel per la Pace grazie al suo impegno nella lotta contro la fame attraverso la creazione delle varietà di ‘grano nano’. Per certi versi simili alle ‘varietà élite’ create dal nostro Nazareno Strampelli durante l’epoca fascista, questi grani molto bassi sono capaci di crescere senza ripiegarsi su sé stessi, o, come si dice correttamente, senza allettare, pur utilizzando massicce dosi di fertilizzanti azotati. È probabile che le critiche dell’economista rumeno al lavoro di Borlaug non siano state recepite con piacere all’interno della Fondazione Nobel che mai, come ho anticipato, attribuì l’importante onorificenza a Georgescu Roegen, nonostante i suoi fondamentali contributi alla scienza economica standard e nonostante la sua originale visione della bioeconomia.
Secondo Georgescu-Roegen, riassumendo, l’agricoltura moderna è una sperperatrice di risorse e «se la produzione di cibo tramite complessi agro-industriali divenisse la regola generale, molte specie connesse con l’agricoltura organica all’antica potrebbero gradualmente scomparire, una conseguenza che forse condurrebbe il genere umano in un vicolo cieco ecologico senza possibilità di ritorno»[4] E’ quindi presente nel pensiero dell’economista rumeno la stessa preoccupazione che troviamo in Nikolai Vavilov e Girolamo Azzi per l’erosione genetica causata dalla diffusione delle nuove varietà ad alta resa.

Come vuole farci capire Georgescu-Roegen, l’eccezionale capacità fotosintetica dell’agricoltura industriale è raggiunta grazie ad un consumo ancor più eccezionale di risorse non rinnovabili (gas, petrolio, suolo fertile), risorse che sono scarse (e quindi oggetto di studio dell’economia) non solo in quanto limitate (come la superficie di terra arabile), ma anche in quanto esauribili e non riproducibili (come lo sono i giacimenti di petrolio, gas naturale e in parte anche il suolo).
Dato che il genere umano per ‘nutrire il pianeta’, o, più correttamente, per nutrire sé stesso, ha bisogno oggi – come avrà bisogno domani – anche delle risorse che giacciono sotto la crosta terrestre, l’’economia nel tempo’ dell’uso di queste risorse non rinnovabili è il problema bioeconomico più importante. Tale problema, che rappresenta anche un problema di giustizia intergenerazionale, tende ad essere normalmente aggirato sulla base di quelli che Georgescu-Roegen definì ‘miti economici’, quali il mito delle infinite possibilità della tecnologia, il mito della possibilità della sostituzione infinita di una risorsa esauribile con un’altra o il mito del riciclaggio completo della materia. In questo senso, anche la bioeconomia così come viene attualmente intesa, ovvero la prospettiva di una economia interamente basata sul flusso di risorse rinnovabili, sulle infinite possibilità dell’ingegneria genetica e sul riciclo completo delle risorse di origine terrestre, quindi un’economia perfettamente sostenibile, in grado addirittura di crescere indefinitamente nel tempo attraverso – nella sostanza – l’incremento dell’intensificazione dell’attività fotosintetica e della velocità di riciclo della materia organica, ha tutte le caratteristiche del  mito economico.
Per Georgescu-Roegen, una volta smascherati i vari miti economici, e preso atto dell’ineluttabile carattere entropico del processo economico, la questione cruciale per quanto concerne l’agricoltura, non consiste solo nel determinare quanto cibo può produrre un certo sistema agro-alimentare ma anche per quanto tempo questo può mantenere certi livelli di produzione.

È evidente, come è stato sottolineato da più parti, che l’obiettivo dell’ulteriore intensificazione produttiva, in assenza di un reale cambiamento nei modelli di produzione, di trasformazione, di distribuzione e di consumo, non può rappresentare la strategia più corretta, ai fini di raggiungere l’obiettivo, questo sì condivisibile, di una maggiore sostenibilità presente e futura dei sistemi agro-alimentari.
A livello di campo, non si tratta tanto di scegliere tra un’agricoltura intensiva ed un’agricoltura estensiva; quest’ultima tra l’altro, in molte situazioni, risulta oggi impraticabile dati i livelli di popolazione raggiunti e la conseguente pressione sulle terre coltivate. La scelta non potrà che essere tra un modello agro-industriale più intensivo di risorse non rinnovabili (macchine sempre più potenti ed energivore, fertilizzanti, pesticidi e erbicidi di sintesi) e un modello agro-ecologico più intensivo di risorse rinnovabili (macchinari e sistemi a energia rinnovabile, lavoro umano e animale, sostanza organica), avendo ben chiaro che il primo modello avrà sempre nell’immediato maggiori rese del secondo, ma alla lunga – dando a questo termine un’estensione necessariamente indeterminata –si rivelerà meno sostenibile, producendo complessivamente di meno.

[1] Cfr. M. Bonaccorso, Inside the World Bioeconomy. The Bio-revolution has just begun, Il Bioeconomista Publisher, Milano, 2014., p.15 e B. Croce, S. Ciafani e L. Lazzeri, Bioeconomia. La chimica verde  e la rinascita di un’eccellenza italiana, Edizioni Ambiente, Milano, 2015, p. 22
2] A. Berton e G. Nebbia, Dialogo sulla bioeconomia op. cit.
[3] Ibidem
4] Ibidem

 

NdR: i passi che precedono sono tratti dal sottocapitolo “Biologico e bioeconomia” del volume “La storia del biologico. Una grane avventura” dell’economista e grande esperto dell’agricoltura biologica Alberto Berton, pubblicato da Jaca Book (2023), e con una prefazione dello storico Piero Bevilacqua. L’autore si interessa da tempo all’opera di Georgescu Roegen, sul quale ha svolto una tesi. Più in generale questa sua storia del movimento biologico rappresenta il quadro più completo e approfondito sull’argomento ad oggi esistente, anche considerando il campo internazionale. Nella sua stringatezza e relativa brevità è quindi un lavoro molto importante, che consiglio a chi voglia farsi un’idea al di là di tutti i luoghi comuni e le controverità che circolano su questi temi. Mi piacerebbe comunque tornarci sopra.

 

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“Bioeconomics (Georgescu Roegen) vs bioeconomy: i miti del riciclo completo della materia e dell’onnipotenza delle tecnologie” è stato scritto da giacomo sartori e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

La vera storia della banda Hood: ecco il booktrailer

Quella di Robin Hood è senz’altro una delle leggende più longeve di ogni tempo. È intramontabile, perché la sua figura richiama subito la riparazione dei torti sociali, la vendetta di classe, la ridistribuzione della ricchezza, la reazione dei poveracci al dominio dei potenti, la creazione di una microsocietà autarchica, basata su regole proprie. Robin Hood […]

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“La vera storia della banda Hood: ecco il booktrailer” è stato scritto da Wu Ming e pubblicato su Giap.

Carlo Ragliani: “La carne”

 Intervista a Carlo Ragliani

a cura di Lucrezia Lombardo

 

L.L.:          È uscita a gennaio 2024, con l’editore Ladolfi, la raccolta “La carne”, un testo complesso, in cui il linguaggio pare oltrepassarsi di continuo, esprimendo – come in un dipinto – la fatica di corpi che combattono, sentono, cadono…
Questa restituzione del linguaggio poetico ad una dimensione materiale e incarnata è uno degli aspetti che più mi hanno colpito, leggendo il tuo testo.
Vorrei pertanto domandarti, com’è nato il titolo
“La carne”? Perché questa scelta visiva?

 

C.R.:          In un tempo come quello che ci tocca in sorte, in cui lo zeitgeist mostra il proprio strabismo nell’assolvere plenariamente e condannare senz’altro questa nostra materialità sia nel suo pudore che nel suo svelarsi, mi è sembrato sensato recuperare il senso carnale come destinazione della parola poetica. Moriremo tutti nella nostra cella.

Il titolo del testo mi si è mostrato alla luce dell’unica cosa che resti da fare: non più concedersi alla sterile contemplazione della parola in astratto, che mi sembra allontanare vita e viventi in una catarsi dalle volute tanto ampie da essere irrealizzabile; e nemmeno spendersi nell’ammirazione di un ambito più vago che si manifesta, per questo, incorporeo e deresponsabilizzante.

Nell’ora in cui di più l’umanità è separata dalla propria anima, il mio ploro è questo: si riscopra la profanazione. Si recuperi la sacertas che si fa nella parola come violazione della legge della bellezza, dell’eccelsa bellezza, e quella concretezza tremenda ed infesta che non può che materializzarsi nella tensione al basso, al ripugnante, all’immondo, all’indecente materia che sopporta e profetizza lo splendore mortale ed il suo cruccio.

Deinde la carne come centro di imputazione dell’oscenità, la carne come il corpo del reato, la carne come dimensione fisica in cui si agglutina l’esperienza del tragico sublime, la carne come scandalo del peccato, la carne del sovrano assediato, la carne del monarca detronizzato.

La carne del nazzareno in cui si manifesta come vergogna immensa la morte del dio che in questi si calava.

La carne rinnovata, la carne demonizzata. La carne ingannata, la carne tradita.

La carne eretica che partecipa alla dimensione del divino non più come mistica passiva e sterilizzata; ma come attante immediato dell’arcano, officiante alla cerimonia che si celebra ad Eleusi.

La carne sconsacrata, e vendicativa di sé stessa in un ganglio vitale denso di senso e significato, di cupore fondo e quindi tanto più intimo quanto più oscuro.

La carne inonorata, risemantizzata nella catabasi orfica finalmente esiziale, pregna della propria ombra autentica e concreta; di contro al dilagare di una luce immateriale, rarefatta, e priva di un senso che smargini l’autoreferenzialità.

Ecco, questo mi sembra interessante. Non un cielo che gira le spalle nel momento in cui gli si rivolga lo sguardo.

 

L.L.:          La silloge si apre con versi che trafiggono e che annunciano l’inammissibilità – dal punto di vista umano e, quindi, dal punto di vista della nostra carne – della morte. Scrivi infatti che “non saremo mai / muti quanto basta / per scendere / nel gorgo / per spingere / la carne / nel sepolcro…”. Possiamo dire che il motivo centrale della silloge è la contraddizione insanabile e inconcepibile del rapporto che lega vita e morte?

 

C.R.:          Io non penso che vi sia contraddizione fra morte e vita. Anzi, credo coscientemente che la prima sia la premessa, nonché prosecuzione naturale, della seconda; e mi riservo di poter dire che fra le due non possa coesistere altro che un rapporto di reciproca sineddoche.

Al più può presentarsi una incoerenza in astratto fra la vita redenta e la morte, perlomeno secondo me, e se si prende in esame la prospettiva religiosa cristiana, stante la salvezza. E tale è poi il dubbio che ha dato vita al testo, ossia quello riguardante ogni mia congettura alla teodicea.

Questo, e l’impossibilità concreta di raggiungere una conclusione che sia da ritenersi più attuale del dover pazientemente sopportare le angherie di una vita – evidentemente – irredimibile, in vista di una auspicata perpetuità.

Possiamo piuttosto dire che il motivo centrale dell’opera sia una rivalutazione della teoria chenotica, (come ne dirò a stretto giro), dal momento che ogni tentativo che faccia fronte al nulla che si staglia dal Golgota ricade necessariamente nella gabbia quinziana in cui si contorce il pensiero esistenzial-fideista.

Se la discesa del celeste nell’umano non conduce ad altro che alla carnalità, dunque è altrettanto vero che all’aspettativa secolarizzata si assomma la colpa serena di essere ciò che siamo, botri e vette comprese.

Ma che esista ancora il male, e la morte, a seguito della redenzione, e dopo la resurrezione, mi sembra più testimoniare un fallimento che un trionfo. Posto poi che lo scollamento fra vertigine e abisso sia il senso più intimo del testo che precede quest’ultimo, mi sembra di poter asserire coscientemente che “La carne” si concentri sulla dimensione visibilmente tangibile della nostra perimetrazione fisica, e non solo.

Ma, sia ammesso, in sei anni molte cose son cambiate e molte altre son state caducate. E l’incredulità alle promesse si è concentrata alla diffidenza, al dubbio, all’incapacità di poter desiderare altro che l’epilogo di attesa e felicità lusingate.

Per riprendere la questione dello stile oracolare, è mia convinzione che “La carne” rappresenti un momento stazionario, ancillare al complesso, di piena citrinitas; e successivo a quello di albedo che ho vergato nel libro precedente – ben conscio di invertire la mandatoria impostazione alchemica.

Di qui, dunque, credo si possa recuperare l’archetipo junghiano del Vecchio Saggio come modus, se potesse aiutare a contestualizzare meglio quanto ho appena detto; in vista della rubedo che avverrà, in vista dell’unione degli opposti, in vista del locus in cui ci si riappropria del materiale inconscio proiettato ingannevolmente all’esterno, per rielaborarlo consapevolmente a un livello superiore, aprendosi all’amore.

E dico questo perché se esiste anche un caso eccezionale per cui il sempiterno penetra nella carne per conoscerne tutta la natura mortale, dunque ci è anche dato di riflettere sull’inversione archetipica della struttura genetica di ogni cosa.

E se quindi ci è dato di riconsiderare tale paradigma, credo che si possano ribaltare pedissequamente tutti i modelli affini: l’orfismo e l’onirico, l’ascesi occidentale, il prototipo gnostico dell’aldilà positivo di contro all’aldiquà svilente della corporalità, et cetera res.

Sia questo perciò l’arcano con cui sondare l’umanità, e la sua anima bramosa, rea ed oscura; e quelle sue pulsioni animali quanto più fondanti che si materiano in un nucleo atro di desideri viscidi e passioni sùcide.

Parafrasando Montale de “Il fuoco e il buio”, credo sia possibile credere al buio innanzi ad una luce bugiarda. Questo, mi pare, sia il significato della mia opera.

 

L.L.:          Allacciandomi alla precedente domanda, vorrei chiederti, in che rapporto sta la tua ricerca poetica con la ricerca spirituale, ovvero con la ricerca di una dimensione metafisica – sia essa trascendente o immanente – che fonda l’esistenza su questa terra? Esiste – a tuo parere – qualcosa che sia in grado di restituire pienezza a una condizione di vulnerabilità qual è quella dell’intero universo vivente, ancorato alla carne, a qualcosa di talmente fragile da avere, infine, un destino che si conclude?

 

C.R.:          Premesso che non è assolutamente detto che metafisico e spirituale coincidano, il mio tentativo di informare un pensiero poeticamente rilevante riguarda l’evidenza per cui la divinità, incarnata nel corpo del cristo, muore con questo.

Sarebbe a dire che al di là di tutto il Padre, morendo nel/col Figlio, abdica al trono dell’onnipotenza e diviene il simbolo della mortalità.

La mia opinione (ma mi sembra cosa verificabile, tosto che una mera opinio) è che, seppur per poco, la morte inghiotta l’iddio; divenendo l’unica potenza assimilabile a quella altissima. In altre parole, la carne in cui si cala il divino perisce, come tutte le altre creature subordinate all’ordo naturalis. Il che significa che la salvazione non avverrà se non subordina al demerito insito nella conclusione di ogni cosa.

Per questi motivi vorrei inoltre dire che i versi citati, in verità, afferiscono al dogma della resurrezione; il che, dal lato mio e come ho scritto, comporta una (non solo mia) discordanza innanzi ad ogni verità imposta per articolo di fede ed imposizione.

In questo, dunque, alcuna verità o speranza è negata come confermata. Fermo restando, però, che la reintegrazione della potenza passi comunque per il gelo del sepolcro. Il che rende piuttosto amara ogni consolazione ipotetica.

In questo modo, non mi sento in grado di poter fornire una risposta che svincoli da questo fatto certo, come non mi si può addebitare la gioia o fragilità altrui: mi sento solo di dire che (nei limiti imposti) se deve esistere una benedizione che consoli, salvi e guarisca, essa non può che passare per quella maledizione che sussume in sé stessa ogni male.

Da qui parte ogni mia parola, ed ogni mio silenzio; perché innanzi alla morte absoluta cade ogni docetismo, e si svela più vicina ogni cosa. Ma preferirei parlare di poesia, per quel che mi è dato. Non di teologia, né di religioni. Ognuno di noi si sceglie il proprio veleno.

E non vedo nemmeno un motivo per farlo; o meglio: non vedo più né una ragione pregnante a sufficienza per discutere in maniera indebitamente aggiuntiva alle falle dell’esperienza teologica, né per entrare a piedi pari nell’argomento “poesia religiosa”, come se questa possa essere contrapposta o paragonata ad altro, ovvero se si potesse distinguere in generi di poesia.

E ritengo sia più difficile preferire di non vedere che la salvezza non abbia eliminato né la depravazione del male, né l’afflizione della morte; che accogliere questa condizione con la dignità con cui si dovrebbe accettare la malattia.

Come dicevo, innanzi alla morte si scioglie ogni dubbio si disfa. Perché quest’evidenza scabrosa non è che un inizio, un passaggio che conduce ad una identità senza ideologie e affini.

Di qui, francamente, credo si possa recuperare una condotta deontologica altroché bastevole. Al contrario mi sembra di capire che molti non desiderano comprendere che la croce sia divenuta l’effige di un dio che giunge alla propria miserabile conclusione.

Dal canto mio, non mi sembra che il crocifisso ritragga un’immagine di vittoria; più tosto, la croce effigia l’esatto opposto: l’umiliante momento culminale della vita, che sboccia nella morte.

Questa dovrebbe essere la verità del credente: l’accettazione del male, senz’altro, e la speranza di non dover soffrire inutilmente. E l’estasi dell’agonia, senza sconti di genere e senza codardia, baciando le piaghe sudice e fiorenti della morte che siamo.

Se questo mi configura come facente parte della categoria preposta alla cultuazione dei morti nell’Italia contemporanea, o della morte, ben venga. Non credo muterà molto, né anche credo che le mie parole cambieranno qualcosa.

 

L.L.:          Nella tua poetica si respirano i temi della grande riflessione filosofica moderna, in modo particolare, il tono – a tratti oracolare – che impieghi, mi riporta alla mente “Così parlò Zarathustra” di F. Nietzsche. Vorrei chiederti, in che rapporto stanno, a tuo parere, la filosofia (ovvero la riflessione razionale sulle questioni di senso) e la poesia? È possibile una poesia–filosofica?

 

C.R.:          Spero di non offendere nessuno nel dirlo, ma mi sembra che i poeti-filosofi siano già esistiti. E credo che la lista non possa partire che da Leopardi, se considerassimo un indice che proceda secondo un carattere sistematico. Ma ciò che rivela questa domanda è una preoccupazione legittima: quel che mi sembra essere il quesito vero riguarda l’inconsistenza del pensiero che si tramuta in versificazione.

A questo, temo di non saper fare fronte. Soprattutto perché una pubblica denuncia ad hominem mi sembra infruttoso, specialmente se riguardante la preparazione minima e raffazzonata, l’elezione/l’essere eletti da un maestro, la condensa degli elementi più svariati senza una adeguata preparazione e senza approfondimento per dimostrare ecletticità, la dimostrazione di una santimonia contraddetta alla minima occasione, il ritenere che il proprio istinto basti alla poesia in assenza della fatica dello studio, l’improvvisarsi, l’intruppare movimenti stretti da esaltazioni vicendevoli in assenza di una amicizia che permetta una critica cordiale, e chi più ne ha e più ne metta.

In effetti, non chiederei ai poeti di essere filosofi. Chiederei loro di essere sapienti, perché dopo tutti i relativismi di comodo, ogni minimo sforzo per tollerare il dolore scivola nello scolatoio di questo tempo.

In verità la questione da porre mi pare sia un’altra, e cioè domandarsi senza nascondimenti: “quanto spazio c’è nel nostro cuore? Ameremmo il profeta, perché egli ama il peccatore? Ameremmo ancora il peccatore, perché siamo noi?

Credo sia questa la risposta: amare ciò che vive perché morirà significa anche riqualificare la vita alla luce della morte, anche e soprattutto con il canto. E tornando all’ars poetica, mi sembra che nessun verso possa esistere se prima non si sia formato in un sentimento abbastanza consolidato sicché questo possa essere detto.

Se pensiamo al “cosa” ed al “come”, la poesia veicola entrambi; se, invece, il carmen sposta il proprio baricentro sui caratteri di opportunità della parola, senza passare la cruna della mortalità, sostengo che non si possa tacere che all’abbassarsi della qualità del pensiero segua l’abissarsi della qualità del poetare. Ma stiamo parlando di altro.

Ciò di cui son convinto consiste nel fatto che non si possa parlare di razionalità stretta nel caso della poesia, e forse lo schema razionale generico non è adeguato neanche alla vita umana. In linea di massima, sarebbe bello vi fosse un principio di non contraddizione fra forma e sostanza; ma chi può decretarlo, se non chi produce, vive, e respira?

La mia convinzione riposa nel fatto che la poesia sorga da una a-razionalità; sarebbe a dire che questo, seppur dotato di una certa logica, non pertenga ad un sistema ragionevole per cui vi sia una consequenzialità condivisibile. Ed è giustissimo che sia così!

Di più: mi sembra che i presupposti, ovvero le premesse, di ogni enunciazione dell’oggidì tendano non più a risolvere un argomento, ma a parlarne oltre il valore stimabile della parola.

Non penso sia sano chiedere ed ottenere dubbio su dubbio, dedurre noto dal noto sino a quando alla luce del sole ripartorito i nostri ori avranno reso sgombro lo specchio di Narciso. O sino a quando ogni cosa già detta sarà detta ancora, e meglio, e nuovamente uguale a sé stessa; rassomigliando colui che, specchiandosi in sé stesso, si riflette nell’animazione atroce dell’inanimato.

 

*       *       *

 

per essere

padri e madri

nell’inganno

mangeremo

la manna

di cui la materia

è spoglia

la lebbra

che spolpa

l’innocenza

nell’incanto che condanna

i vivi non possono

amare i morti

 

*

 

questa terra è nera e morta

come la mano

che scava nel fondo

del mondo

e non draga

il credo di risorgere

dalla motriglia

ma la morte divina

e l’arcano segreto

in cui entriamo

ed in quel fango

la salma è dono

alla gora in cui

si divora l’iddio

dal disgusto

alla devozione

versa vino e fiele

il bacio infedele

 

*

 

ciò che si compie

adempie la pretesa

e riempie la tomba

promessa

al limite del vaio

impassibile

i morti non possono

amare i vivi

 

*       *       *

 

Carlo Ragliani (1992), laureato in giurisprudenza presso l’ateneo rodigino dell’università di Ferrara. È redattore in “Atelier Cartaceo”, e caporedattore in “Atelier Online”. Ha pubblicato “Lo stigma” (italic, 2019), “La carne” (Ladolfi, 2024; Segnalazione speciale al premio Montano, ed. XXXVII).

 

Lucrezia Lombardo nasce ad Arezzo nel 1987. Dopo la maturità classica si laurea in Scienze Filosofiche, è redattrice di “Atelier Poesia”, scrive per “La Bibliothèque Italienne”, ed è responsabile del blog culturale del quotidiano ArezzoNotizie. Insegna Storia e Filosofia, e collabora con vari atenei privati come docente di Bioetica e Storia della filosofia. Per la poesia, ha pubblicato “La Visita” (L’Erudita, Giulio Perrone 2017), “La Nevicata” (Il Seme Bianco 2017), “Solitudine di esistenze” (L’Erudita, Giulio Perrone 2018), “Paradosso della ricompensa” (Eretica 2018), “Apologia della sorte” (Transeuropa 2019), “In un metro quadro” (Nulla Die 2020), “Amor Mundi” (Eretica 2021), “Cercando il mezzogiorno” (Helicon, 2021; vincitrice del primo premio, per la poesia inedita, al concorso “La Ginestra di Firenze”), “Elegia Ambrosiana” (Divergenze, 2021), “L’errore della luce” (Ensamble, 2022), “Il gelsomino indiano” (Cosmopoli, 2023), “La venditrice di menta” (Progetto cultura, 2023), e “L’approdo dei sogni” (Controluna, 2023). Per la saggistica, ha pubblicato “L’Alunno” (Divergenze 2019; vincitore del primo premio al concorso “Nuovi Saperi”), “Due saggi dirompenti. La Repubblica delle occasioni risolutive e il processo coscienziale” (Divergenze, 2022; finalista al Premio Carver 2022, sezione saggistica, Salone del Libro di Torino), “Una vita di lampo. Portraits de poètes” (Eretica edizione 2023, in collaborazione con la rivista letteraria internazionale italo-francese La Bibliothèque Italienne). Per la prosa, ha pubblicato “Scusate, ma devo andare” (Porto Seguro, 2020); “Kinder” (Augh! 2021, finalista al “Premio Santucce e Storm 2023”); “Un karma distratto” (Porto Seguro, 2021). È stata curatrice e autrice del secondo numero della rivista di scienze umane “Augeo”, titolo del numero “Oltre l’ideologia dell’emergenza”, Divergenze 2022 (hanno scritto nel numero i primari dei reparti di Malattie Infettive ed Ematologia della Asl 8, Ospedale S. Donato di Arezzo). Maggiori informazioni sull’autrice sono disponibili sul sito www.lucrezialombardo.com.

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“Carlo Ragliani: “La carne”” è stato scritto da Giorgiomaria Cornelio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Top Italian Scientists: buco nella classifica degli studi

TIS – Il sistema di valutazione delle ricerche scientifiche pesca nei dati di Google Scholar, ma i suoi risultati sono scarsamente attendibili

Esiste una classifica dei presunti “Migliori scienziati italiani” che non è riconosciuta da nessuno, salvo la Regione Lombardia che la usa per assegnare premi milionari. È la lista dei Top Italian Scientists (Tis) che ora pubblica anche una rivista nel cui board figurano accademici con problemi giudiziari o che hanno subito l’onta della ritrattazione da parte delle riviste scientifiche che avevano pubblicato i loro studi e poi hanno scoperto errori o presunte frodi.

Il padre della classifica Tis non è un accademico. È un informatico di un’azienda di Londra: Luca Boscolo. “Non è una classifica ufficiale e ha dei limiti – spiega al Fatto –. L’ho calcolata nel 2010 a partire dai punteggi assegnati da Google Scholar a 53 mila ricercatori.” Google Scholar è uno strumento gratuito che conta le citazioni degli articoli in rete, ma con scarso credito accademico. E però per entrare nella classifica Tis bastano solo 30 articoli indicizzati da Google Scholar, citati da almeno altri 30 autori.

TUTTI SANNO che la lista vale poco, ma a molti accademici piace riportarla nei curricula. La Regione Lombardia ci ha costruito addirittura il premio “Lombardia e Ricerca”: un milione di euro l’anno da dividere al massimo tra tre ricercatori scelti da 15 membri Tis. “Una dotazione superiore a quella dei premi Nobel”, dice la Regione. Ma chi seleziona i 15 giurati dalla lista Tis? La Regione spiega che usa solo la banca dati Scopus, più seria. Eppure sul sito del premio, la Regione riporta spesso l’uso della lista Tis. Nel 2017, una giuria di 14 Tis assegna il milione di euro a Giacomo Rizzolatti, neuroscienziato e Tis, scopritore dei neuroni specchio. L’anno dopo Rizzolatti sarà giurato per l’assegnazione dello stesso premio. “Sono la Regione e la Fondazione Umberto Veronesi a indicare i giurati”, spiega Rizzolatti. Così però sembra quasi che i Tis si premino l’un l’altro. “In parte è vero”, risponde al Fatto. “Fino quando ci sono stato io, il regolamento prevedeva che chi vinceva poi facesse il giurato”. Un mese fa, Boscolo ha fondato la rivista Journal of Top Italian Scientists. Ha deciso lui i criteri di pubblicazione: negli studi deve figurare almeno un autore Tis perché vengano presi in considerazione, un criterio mai visto al mondo.

Come nasce l’idea della rivista? “Un giorno – risponde Bo scolo – ho fatto un esperimento: mettere un articolo sul sito web della lista Tis . Ho visto che Google Scholar lo indicizzava anche se non era mai stato pubblicato (da una vera rivista, ndr) e aumentava i punteggi degli autori citati nell’articolo”. Quindi la rivista serve ad aumentare i punteggi bibliometrici dei Tis? “Sì, anche”, dice Boscolo. Citarsi l’un l’altro per gonfiare i punteggi è pratica considerata scorretta: alti indici bibliometrici possono orientare fondi e carriere.

A Boscolo serviva un board editoriale. Ben 346 accademici Tis hanno accettato di farne parte nonostante l’opacità dell’operazione. Nel board c’è anche Salvatore Cuzzocrea, farmacologo, ex rettore dell’Ateneo di Messina ed ex presidente della Conferenza dei rettori (Crui) dimessosi da entrambi gli incarichi a ottobre 2023 perché indagato per alcuni rimborsi milionari. Di recente, per un’altra vicenda, Cuzzocrea è stato rinviato a giudizio per turbativa d’asta. Studi di cui è autore sono stati oggetto di 158 segnalazioni su PubPeer, il sito che riporta potenziali frodi scientifiche o plagi. Il 18 gennaio 2024, per la prima volta, un suo articolo è stato ritrattato. “L’articolo non è mio”, dice Cuzzocrea, che pure figura come primo autore.

ANCHE ALESSANDRA BITTO, farmacologa clinica dell’Università di Messina, è nel board della rivista. Ha 79 segnalazioni su PubPeer ed è co-autrice di 9 articoli ritrattati. C’è poi Roberto Bolli, direttore del dipartimento di Chirurgia vascolare dell’Università di Louisville, Kentucky, per il quale l’università di Harvard, nel 2018, chiese la ritrattazione di 31 studi. E ancora, c’è Domenico Ribatti, coautore di Paolo Macchiarini, il chirurgo condannato in Svezia per violenze su tre pazienti, a cui è ispirata la serie Netflix Bad Surgeon. Ribatti condivide con Macchiarini un articolo su Nature che è stato ritrattato. Anche Paolo Miccoli, ex presidente dell’Agenzia nazionale di valutazione della ricerca (Anvur), è nel board. Aveva copiato il tema proprio nel concorso per entrare in Anvur. Oggi è presidente dell’Associazione delle Università telematiche. Nel board figura infine Ignazio Marino, ex senatore ed ex sindaco di Roma e chirurgo alla Thomas Jefferson University di Filadelfia (Usa). “Ho offerto una potenziale disponibilità condizionata a un approfondimento degli obiettivi e del ruolo – spiega al Fatto –. Ma dopo la mia email del 23 dicembre 2023 non ho più saputo nulla. Non so perché il mio nome sia sul sito della rivista”.

 

(Fonte: Il Fatto Quotidiano) 

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“Top Italian Scientists: buco nella classifica degli studi” è stato scritto da Laura Margottini e pubblicato su ROARS.

Rosa

di Laura Ramieri

Prima di questa storia, nessuno sapeva perché il Signor Rosa amasse quel colore. In tutte le sue sfumature, dal brillante al pastello, ma solo, rosa.

Il Signor Rosa, il cui vero cognome era proprio Rosa, era alto e sottile, più simile a un lampione che a un uomo, aveva i capelli scompigliati, nei toni di un pomeriggio bruciato, e i baffi: folti, pettinati con le punte all’insù, rosa. Splendidamente, perennemente, rosa.

Il Signor Rosa lavorava al Luna Park della città, un piccolo spazio fisso fatto di dolciumi invitanti, cartomanti in lustrini, giostrine luccicanti, pupazzi simpatici. Di giorno era frequentato da bambini golosi, ragazzini curiosi, addetti ai lavori indaffarati, e un pizzico di quel senso di abbandono caratteristico di un luogo di divertimento quando c’è troppa luce. La sera, si animava magicamente delle più strane creature. Persone sfortunate, animali perduti, e tutti quelli segnati da difetti inaccettabili alla perfezione del giorno: cicatrici spaventose, deformità tremende, arti mancanti, cecità crudeli, sorti maledette. Ma a cosa serviva, nascondersi, se le persone del giorno, chiamiamole così, non si accorgevano di quelle della notte, chiamiamole così?

Il Signor Rosa abitava entrambi i mondi, quello del giorno, e quello della notte, e non provava assolutamente nulla.

Il signor Rosa aveva ipnotici occhi azzurro piscina, e indossava sempre al polso destro un braccialetto di perline nere lucide, che sfavillavano enfatizzando ogni suo movimento, e che nascondevano una scritta tatuata all’interno dell’avambraccio, una scritta nera, appena percettibile, in una bella grafia dal tocco infantile: Rosa.

Dettagli del Signor Rosa che venivano notati, ammirati come fantasticherie, e poi, dimenticati insieme alle sue magie. Di giorno, gli sguardi che si rivolgevano a lui somigliavano a scherzi cattivi. Di notte, la sua figura diventava incanto: l’infinita altezza, gli intriganti baffi rosa, i capelli scintillanti come fiamme. Un sogno a occhi spalancati. Tutte le notti il sorriso del Signor Rosa illuminava di meraviglia l’intero Luna Park, e la sua fila lunghissima si snodava paziente ed emozionata: il Signor Rosa era il proprietario del banco dello zucchero filato, lo zucchero filato più buono del mondo, si sussurrava, dal tramonto all’alba. Uno zucchero filato che da lontano, dall’ingresso del Luna Park, riconoscevi come la più stupefacente delle visioni: formava una nuvola quasi trasparente che galleggiava poetica in aria, fino a disperdersi, lenta, in piccoli soffi. E poi ricominciava. Uno spettacolo da togliere il respiro, e il profumo, dolce, dolcissimo, ma dolce come una cosa squisita a cui ti devi avvicinare, che devi vedere, toccare, insomma quella sensazione lì, irresistibile. Tutti, si mettevano in fila. Ammaliati dalle nuvole danzanti, innamorati del profumo delizioso, prendevano il loro posto come piccoli giocattoli, in ordine, con cura, e così ciascun abitante della notte, seppur nella sua tragedia, pareva illuminato. Il magnifico carosello della sciagura, improvvisamente sorridente e felice, aspettava il momento di trovarsi di fronte al Signor Rosa, ammirarlo girare lo zucchero filato, e ricevere infine il suo tanto bramato sguardo, uno per ciascuno di loro, uno sguardo che regalava amore e perdono. Li stregava con fascino e compassione e tutti, davanti a lui, restavano in silenzio, osservavano la procedura che il Signor Rosa compiva meticolosamente, con gesti precisi, e poi, nel momento di porgere quel bastoncino di meraviglia, li guardava in faccia: tutti, tutti, tutti, si sentivano graziati, di più, benedetti. Senza vergogna. Il Signor Rosa era uno specchio che mostrava bellezza, e i più disperati si rivolgevano a lui desiderosi di comprensione, di conforto. Il Signor Rosa non giudicava, e guardava tutti con lo stesso identico, incontenibile, amore. Questo, accadeva solo la notte. Il Signor Rosa aveva un unico gusto di zucchero filato, e ovviamente, era rosa.

 

Il Signor Rosa non provava nulla, abbiamo detto. Come il più perfetto dei personaggi svolgeva un ruolo, non provava rammarico per le persone del giorno, e non provava affetto per le persone della notte, che pure sì, benediva, ma senza quell’amore spettacolare che pareva sprigionare dall’esterno. Il Signor Rosa non provava nessun sentimento. Il suo volto aveva due versioni, il giorno, e la notte, e finiva lì, come se non esistesse, fuori dal Luna Park. Le persone del giorno non avrebbero saputo dire di averlo visto in qualche altro luogo. Le persone della notte non si vedevano, di giorno, e forse vivevano solo al Luna Park, così che anche loro, il suo più fedele pubblico, non sapeva dire di averlo mai visto fuori dalla sua stessa magia.

Perché il Signor Rosa, che aveva una vita all’apparenza gratificante, di più, un uomo ammirato, non provava alcun sentimento? Qualcuno sapeva cosa significasse la scritta sul suo avambraccio?

 

Capitò che era Novembre, la notte nelle luci del piccolo Luna Park somigliava a un sogno fatato, tutto nebbia e brillii. Capitò nella fila senza movimento, senza accorgimento, come un’apparizione: occhiali dalla montatura rosa polvere, papillon rosa confetto, giacca rosa lecca-lecca, pantalone rosa bonbon, stivaletto rosa fucsia. Accanto a lui, un piccolo cane dallo sguardo triste. Il cane era tutto bianco, con una coda vaporosa tutta nera, e una macchia, anch’essa nera, attorno all’occhio destro. Il suo guinzaglio era colore rosa bambola. L’uomo rosa camminava a passi lenti, e il cane teneva la testa alta; i due personaggi seguirono la fila senza un respiro. Pur essendo adatti al contesto, stonavano terribilmente. L’uomo rosa era pallido, aveva gli occhi socchiusi come sottili fessure, e le rughe del suo viso si increspavano in infiniti disegni. Non parlò al cane. Forse qualcuno li guardò, meravigliandosi dell’abbondare di rosa, ma in quella fila erano nel posto giusto, e nessuno rivolse loro gesto, né salutò il cane: in quel bel colore sembravano nascondere qualcosa capace di allontanare anche le persone della notte. Qualcosa che non aveva nulla, di dolce, amorevole, rosa: qualcosa di freddo, di ingiusto. Qualcosa di orrendo.

L’uomo rosa e il cane bianco e nero raggiunsero il loro turno, e arrivarono davanti al Signor Rosa: ecco il momento. Il Signor Rosa divenne cereo, e si immobilizzò. Restarono a guardarsi, l’uomo rosa, il cane bianco e nero, e il Signor Rosa, rigidi come in un malvagio incantesimo. La lunga fila se ne accorse, ma rimase zitta, incapace di descrivere la scena, o di dire una parola. E poi, il cane abbaiò. Una volta, un verso delicato come un commosso saluto, da far battere lieto il cuore. Nell’improvvisamente silenzioso Luna Park una lacrima, dal rumore spettrale, agghiacciante, scese sulla guancia del Signor Rosa, perdendosi nei suoi bellissimi baffi rosa.

 

Una piccola croce costruita da due rametti giace in un campo di erba verdissima, protetta dal respiro di alberi felici. Vicino alla croce, una rosa dai petali lisci, rosa, perfetta. Accanto alla croce e alla rosa, tante altri croci, e tanti altri fiori. Al tramonto il cielo diventa rosa, e la luce, rosa, sembra guardare tutte le croci, abbracciandole con amore.

«Sei davvero tu?»

«Non hai più saputo amare, dopo di me.»

« Non volevo lasciarti sola.»

«Ma io sono in quel posto bellissimo. Tutto rosa.»

«Volevo restare con te, in quel rosa. In quella pace.»

«Non potevi. E adesso non vivi in nessun luogo.»

«Non è lo stesso rosa. Ma ti somiglia, Rosa, guarda.»

«Mi sei mancato.»

«Sei venuta a prendermi?»

 

L’uomo rosa alzò un mano e fece schioccare le dita, senza espressione. Lo schiocco sembrò velare il Luna Park di un cupo dolore, come se la morte in persona si fosse messa in fila, e avesse toccato tutti con il suo male. E quello, fu.

Per un solo primo e unico istante Il Signor Rosa, quella notte di Novembre di nebbia e brillii, perse misteriosamente il controllo del suo zucchero filato. Che devoto, non smise di continuare a filarsi, fino a invadere il banchetto, a ricoprire il Signor Rosa, per poi spargersi nel Luna Park che diventò tutto, tutto, tutto, una gigantesca nuvola rosa, e come la più appiccicaticcia delle caramelle intrappolò cose e persone e del Luna Park, per molti giorni, rimase solo un effetto nebbia che nascondeva la vista, e che nessuno voleva attraversare. Ovviamente, era tutto rosa.

Le persone del giorno si spaventarono, e dissero di aspettare, dissero che si trattava di qualche stranezza dovuta alle piogge, che sarebbe passata. La nebbia rosa durò fino al primo giorno di inverno, durante la notte uno scoppio come di un fuoco d’artificio fece rabbrividire per lo spavento chiunque lo udì. Mille sfumature di rosa colorarono il cielo. L’esplosione si portò via tutto: i dolciumi invitanti, le cartomanti in lustrini, le giostrine luccicanti, i pupazzi simpatici. Si portò via l’intero Luna Park. Ma dove sorgeva una volta l’area, come una aggraziata ombra, rimase, tra le erbacce e la terra, una polvere appiccicosa che nessuno ebbe il coraggio di attraversare, nemmeno di avvicinare. Ovviamente, rosa.

E credo che sia ancora, anche adesso, là.

 

Rosa, mia preziosa amica, la memoria serve a vivere per sempre.

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“Rosa” è stato scritto da Giorgio Mascitelli e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

«La fortuna del Greco», storia di un italiano

di Antonella Falco

Il termine “fortuna” deriva dal latino “fors” e ha la stessa radice di “ferre” che significa “portare”, di conseguenza, stando all’etimologia della parola, “fortuna” vuol dire semplicemente “ciò che porta la sorte”. E La fortuna del Greco – sorprendente romanzo d’esordio edito da Rubbettino del trentenne Vincenzo Reale, insegnante di lingua italiana per stranieri e autore di racconti e libretti d’opera – probabilmente è solo quella di essere riuscito a sopravvivere alle avversità del Fato, uscendo incolume dai disagi della fame e dell’emigrazione, dal bombardamento di Napoli del 3 settembre 1943, dallo scontro a fuoco tra una truppa Alleata e un gruppo di soldati tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, da una potenzialmente rovinosa caduta in montagna, da una cruenta faida paesana e dalle follie del Tòzzolo, suo cugino.

Antonio il Greco è dunque un sopravvissuto, impastato di tenacia, fatalismo e dignità. Deve il suo soprannome alla somiglianza con uno dei due Bronzi di Riace, «quello con un occhio solo, il vecchio guerriero».

La sua parabola esistenziale, che attraversa quasi un secolo di Storia, nazionale e locale, lo rende un testimone dei grandi e piccoli eventi del Novecento italiano, e tuttavia la sua vicenda pare essere calata in un tempo mitico e astorico, si potrebbe dire ancestrale. «Il mondo era così recente che molte cose erano senza nome, e per menzionarle bisognava indicarle col dito»: non è un caso che tornino alla memoria queste parole dell’incipit di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, perché anche nel romanzo di Vincenzo Reale il mondo di Carafa Nuova, immaginario paese incastonato nel cuore dell’Aspromonte, sembra avvolto da un’aura primordiale, e, proprio come la Macondo di Garcia Marquez, è un microcosmo arcano e isolato nel quale la linea di demarcazione tra i vivi e i morti è tutt’altro che netta, così ai viventi è concesso il dono della chiaroveggenza e alla religione ufficiale si mescolano credenze e superstizioni popolari, la magia, il malocchio, le presenze ultraterrene.

Custodi e medium di questo mondo liminare, e dunque figure liminari esse stesse, sono le donne: Coletta, la madre del Greco, che aveva con santa Brigida la stessa intima familiarità che si potrebbe avere con una vecchia amica e parlava col marito morto, sua cognata Teresa, detta la Sanpaulara «perché era nata la notte dei santi Pietro e Paolo» e «aveva la capacità innata di domare i serpenti», tanto da averne addomesticato uno, una piccola serpe rossa che custodiva tra i seni, e sua figlia Marina che sapeva togliere il malocchio. Se alle donne spetta questo ruolo di connessione con lo spirito, la magia e il soprannaturale, gli uomini sono invece figure pragmatiche, materiche, a volte violente fino a divenire brutali e spietate: sono loro che fanno la guerra, che si uccidono a vicenda nelle faide, che si fanno giustizia da soli, in un mondo in cui «la violenza e la beffa coesistevano, così come il senso dell’onore e la lascivia. Era possibile credere in tutto, anche nella congruenza dei contrari. Ciò che contava davvero era sopravvivere, e ognuno doveva sopravvivere a modo suo».

La fortuna del Greco, pur essendo incentrato sul personaggio eponimo, è in realtà un romanzo corale e lo stesso protagonista non può prescindere dal proprio alter ego, Antonio il Tòzzolo, suo cugino e compagno di mille rocambolesche avventure. Il Tòzzolo è una sorta di doppio complementare a cui il Greco guarda con divertimento e ammirazione in quanto capace di fare quello che lui, per il suo carattere sempre controllato e responsabile, non riuscirebbe neppure a concepire. È proprio il Tòzzolo a conferire al romanzo quella sfumatura picaresca che ne alleggerisce il tono epico e tragico: Antonio il Greco e Antonio il Tòzzolo attraversano gli eventi, spesso drammatici, della loro esistenza con spavalderia e noncuranza, convinti di formare insieme un connubio invincibile. Nel rievocarne il ricordo, il Greco ammanta il cugino di un’aura leggendaria fino a creare l’immagine di uno strambo eroe invulnerabile, quasi immortale. La caratteristica che più colpisce del Tòzzolo è la disinvoltura con la quale si relaziona al denaro e a qualsiasi altro bene materiale cui entra in possesso in maniera non del tutto lecita: sembrerebbe dedito a scialacquare ogni sia pur piccola fortuna che gli capiti fra le mani, tuttavia la sua è una leggerezza che ha tutto il sapore della spensieratezza e della gioia di vivere proprie della gioventù. Non è un caso che a fare da spartiacque nella storia del Greco sia proprio la separazione dal Tòzzolo, che decreta la fine della fase più scanzonata e lieta della sua vita.

Pur nella sua specificità tematica e stilistica La fortuna del Greco ricorda la narrativa di Domenico Dara, non solo per quel realismo magico di matrice ispano-americana che sposa felicemente l’antichissima tradizione del racconto orale tipica del nostro Meridione, ma anche per la capacità, che sia Dara che Reale hanno, di creare personaggi iconici in grado di imprimersi indelebilmente nella memoria del lettore.

Il romanzo di Vincenzo Reale è un affresco antropologico, sociologico e storico di una Calabria in bilico tra un passato preistorico, magico, violento ma anche puro e incontaminato e un futuro incerto, una Calabria nella quale distruzione e ricostruzione sono i due poli opposti entro cui la gente è abituata a muoversi e a vivere, ricominciando ogni volta daccapo, in un moto perpetuo che fa di questa terra il luogo per antonomasia del non-finito. Quel non-finito che si palesa negli scheletri di case con i tetti piani, i mattoni a vista, i pilastri sporgenti, senza intonaco e senza finestre: «schizzi di cemento disarmonici» li ha definiti Gioacchino Criaco nel libro La Maligredi. Un aspetto paesaggistico e sociale divenuto ormai identitario della nostra regione. L’incompiuto, come stile architettonico ma anche come categoria dello spirito. Pure il Greco non finirà la sua casa, lui, esperto muratore che l’ha tirata su con le proprie mani, mattone dopo mattone, deciderà di non finirla. Non perché non può, ma perché non vuole. E sui diversi possibili motivi di questa scelta, come sulle differenti interpretazioni di quella che può essere stata (o non stata) la fortuna del Greco, il romanzo si chiude, in un finale che lascia al lettore la libertà e lo spazio di trarre le proprie conclusioni.

Il romanzo di Vincenzo Reale pur attingendo a una storia familiare – è il nonno dell’autore ad aver ispirato la figura del Greco – affronta tematiche in cui tutti possono riconoscersi, come sempre accade con la vera letteratura che sa partire dal particolare per assurgere all’universale.

La narrazione, potenziata dalla forza immaginifica della parola, si snoda attraverso piani temporali diversi, non seguendo un ordine cronologico lineare ma procedendo per salti, perché è così che «si racconta la vita, saltando di qua e di là nella memoria, ricordando un po’ i buoni un po’ i cattivi tempi intrecciati e indistricabili, in una concatenazione di persone e parole».

Vincenzo Reale, La fortuna del Greco, Rubbettino 2023, pp. 171, euro 16,00

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“«La fortuna del Greco», storia di un italiano” è stato scritto da davide orecchio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Tumor Valley, un video prodotto dall’intelligenza collettiva delle lotte in Emilia-Romagna

In val Padana si respira la peggiore aria dell’Europa occidentale. In tutte le mappe dell’inquinamento nel continente, questa zona è nera pece in un mare di giallino e arancione pallido. Ci sono lunghi periodi dell’anno in cui la regione in cui viviamo, l’Emilia-Romagna, è una gigantesca camera a gas. Nel discorso pubblico – quello degli […]

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“Tumor Valley, un video prodotto dall’intelligenza collettiva delle lotte in Emilia-Romagna” è stato scritto da Wu Ming e pubblicato su Giap.

Da termometro a valutazione individuale: la resistibile ascesa dei test INVALSI

Un vecchio adagio recitava che i test INVALSI servissero per migliorare il sistema di istruzione, che fossero anonimi e che non valutassero né il singolo studente, né l’insegnante. Si trattava di un semplice termometro: uno strumento che segnalava i punti di forza e i punti di debolezza della scuola italiana. Non bisognava demonizzare un termometro: ogni strumento, si sa, non è né buono né cattivo in séDipende dall’uso che se ne fa. Questo racconto non ci aveva mai convinto. Origini e scopi dei test erano stati ben delineati dal trio Checchi-Ichino-Vittadini nel 2008 in un documento per l’allora ministra Gelmini: i test sarebbero dovuti progressivamente diventare lo strumento di regolazione dell’insegnamento e della popolazione studentesca. Da termometro di stato a certificazione algoritmica individuale, è stato un attimo. Una prevedibile e resistibile ascesa, quella dei test Invalsi: realizzatasi con sostegno politico e mediatico trasversale e irriducibile, nell’assenza di voci critiche radicali. Bene constatare che oggi, quando i buoi sono scappati dalle stalle, si levino petizioni e preoccupazioni diffuse. Noi sosterremo queste posizioni, benché tardive, perché continuiamo a credere che ogni costruzione umana e ogni fede, perfino quella nei test Invalsi, siano in realtà fatti profondamente politici, e quindi modificabili.


Un vecchio adagio recitava che i test INVALSI servissero per migliorare il sistema di istruzione, che fossero anonimi e che non valutassero né il singolo studente, né l’insegnante. Si trattava di un termometro, un semplice termometro: uno strumento che segnalava i punti di forza e i punti di debolezza della scuola italiana. Non bisognava demonizzare un termometro: ogni strumento, si sa, non è né buono né cattivo in séDipende dall’uso che se ne fa.

Questo racconto non ci aveva mai convinto.  Le origini del sistema di misurazione degli apprendimenti erano state ben tracciate da Daniele Checchi, Andrea Ichino e Giorgio Vittadini nel 2008: i test nascevano per diventare progressivamente uno strumento di controllo e gestione dell’insegnamento, e di regolazione della popolazione scolastica. Tutto sarebbe venuto col tempo e senza fretta. Lo avevamo ricordato anche qui.

Nel 2016 arrivò infatti  la misura valore aggiunto delle scuole,  nel 2017 le prove divennero computerizzate; poi fu la volta delle certificazioni individuali delle competenze, a firma del direttore generale INVALSI: una vera e propria seconda pagella con tanto di  “voto” da 1 a 5 (livello) in matematica, italiano e inglese.

Sebbene la metafora del termometro buono cominciasse a scricchiolare, il volontarismo progressista, misto ad un’ingenua fiducia nei dati che danno senso e correggono il mondo, continuava a ritenere lo strumento perfettibile. D’altra parte, l’indotto che nel tempo si andava consolidando attorno ai test – ricercatori e studiosi di varie aree disciplinari, fondazioni, enti e aziende private – proliferava, intrecciandosi sempre più alle attività istituzionali di scuole e università.

Il cambio di passo non si fece attendere: l’immagine dello strumento (termometro, fotografia o analisi del sangue) fu progressivamente accompagnata dalla nuova retorica delle disuguaglianze, dei divari e dell’equità.

“Dati per tutti per non lasciare indietro nessuno” fu lo slogan che nel 2019 inaugurò la messa in circolazione di una nuova parola d’ordine, la dispersione implicita, e di una nuova postura comunicativa: la valutazione compassionevole. Solo i test Invalsi censuari avrebbero potuto segnalare gli studenti  “dispersi impliciti” (citazione testuale), ovvero coloro che fallendo nei test avrebbero rappresentato una nuova piaga sociale. Una categoria di giovani da sorvegliare, anno dopo anno, regione per regione:  bambini e adolescenti destinati ad “una vita adulta con competenze totalmente insufficienti per agire autonomamente” (citazione ancora testuale).

Nel 2020 arrivò la pandemia, e i test furono sospesi, ma durò poco. La macchina dell’informazione pubblica produsse prontamente lo spettro del learning loss e della perdita di apprendimenti da quantificare.

Con il PNRR, arriviamo all’oggi. E la posta in gioco dei test continua ad alzarsi.

Da un lato, essi acquisiscono valore predittivo, diventando indicatori di fragilità individuale capaci di “individuare precocemente” disagi e insuccessi scolastici e indirizzare risorse vincolate ad attività di recupero differenziate.

Contemporaneamente, un decreto legge (nr 19, 2 Marzo 2024) prevede che i risultati entrino nel curriculum digitale di ogni singolo alunno, accessibile tramite la piattaforma ministeriale Unica.

Da termometro di stato a certificazione algoritmica individuale, è stato un attimo. Un percorso politico scorrevole e trasversale, favorito da un sostegno mediatico compatto e irriducibile, nell’assenza di voci critiche radicali.

Bene constatare che oggi, quando i buoi sono scappati dalle stalle, si levino petizioni e preoccupazioni diffuse. Noi sosterremo queste posizioni, benché tardive e parziali, perché crediamo sempre che ogni costruzione umana e ogni fede, persino quella nei test Invalsi, siano in realtà profondamente politiche, e quindi modificabili.

Nel frattempo, attendiamo la pronuncia del Garante della Privacy e invitiamo i primi 500 mila fortunati studenti (e rispettive famiglie) che si troveranno nel curriculum misteriosi punteggi Invalsi a fare richiesta formale di accesso e spiegazione dell’esito che gli verrà automaticamente attribuito.

Dinanzi ad un esercizio di potere opaco che etichetta con un giudizio imperscrutabile, possiamo ancora invocare  il Diritto.

L’immagine di copertina è tratta da qui.

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“Da termometro a valutazione individuale: la resistibile ascesa dei test INVALSI” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.

Deus ex Makina: Maniak

 

La nuova crociata dei bambini

di

Francesco Forlani

Sarà pur vero che oggi più che mai viviamo in un’epoca in cui solo la tecnica potrà finalmente offrirci la consapevolezza della fragilità nostra e del nostro pianeta, ma sarà ancora una volta la letteratura a renderne disponibile il racconto. Sentiamo da due anni almeno, come voci di Cassandra, gli uni e gli altri, raccontarci la”svolta” delle nostre vite con l’avvento dell’Intelligenza artificiale, in ogni campo dello scibile umano, in ogni parte dell’umano senza alcuna distinzione tra anima e corpo ma questo di Labatut è il primo libro, almeno per me, a tentare una genealogia appassionante di tale rivoluzione tanto cruenta quanta necessaria, per capire da dove si era partiti.

Dalle prime pagine di questo romanzo vivamente consigliatomi dall’amico Miguel Gallego, sentiamo una profonda tensione tra vita e tecnica, una guerra senza esclusione di colpi, combattuta da eroi, generalmente scienziati, alle prese con le scoperte che hanno cambiato la storia dell’umanità, con tanto di nome e cognome e fatti che potremmo definire storici. 

“Tutto ebbe inizio con un telaio meccanico, e devo dire che si trattava di un apparecchio mostruoso. Sembrava proprio la macchina sognata da Franz Kafka nel suo racconto Nella colonia penale, quella che incide sul corpo del condannato il comandamento che ha trasgredito: un gigantesco insetto metallico con diecimila zampe, che ingurgitava istruzioni e secerneva fili di seta come un vecchio ragno deforme. Papà l’aveva portato a casa per farcelo vedere.”

A pagina settanta di questo “curioso” libro di Benjamin Labatut si racconta della scoperta, fondamentale per il celebre matematico Von Neumann, di un telaio a schede perforate. Sono andato a riprendere l’incipit del racconto in questione e un dubbio non affatto inessenziale è sorto su come fosse stato tradotto in due versioni differenti. Poiché si trattava di un’opera in tedesco ho chiesto lumi alla mia amica Silvia Bortoli, germanista:

Silvia cara assai, mi servirebbe una piccola tua consulenza traduttoria. Nella colonia penale di Kafka, l’incipit in francese dice “c’est un appareil singulier”, in quella italiana, credo perché ho consultato una versione on line pirata: “”È una macchina veramente curiosa”, tu come l’avresti tradotto?

Io avrei tradotto “è un apparecchio singolare”. È una versione fedele. Cosi lo traduce anche Andreina Lavagetto (Feltrinelli), ma Anita Rho, grande traduttrice della generazione precedente, che traduceva con maggior libertà e maggiore attenzione all’efficacia narrativa, ha tradotto con “È veramente una macchina curiosa”, e ritmicamente è migliore di quella che hai trovato tu, che pure le assomiglia.

Apparecchio, che come ci ricorda la Treccani è “nell’uso tecn. e scient., complesso di elementi di varia natura, meccanici, elettrici, ecc., coordinati in modo da costituire un dispositivo atto a un determinato scopo”.

Apparecchio dunque ma anche congegno narrativo, dispositivo, telaio, trama, ordito, filo, per rimanere alla “macchina” che strega una delle menti più brillanti del secolo breve,  come ci viene raccontato da Eugene Wigner, Premio Nobel per la fisica nel 1963.

Ho conosciuto Planck, von Laue e Heisenberg. Paul Dirac era mio cognato, Leo Szilard e Edward Teller sono stati fra i miei più cari amici, e anche Albert Einstein era un buon amico. Ma nessuno di loro aveva una mente rapida e acuta come quella di János von Neumann. L’ho affermato diverse volte in loro presenza, e nessuno mi ha mai dato torto.
Solo lui era del tutto vigile.

Leggendo capitolo dopo capitolo questa incredibile prova di Labatut non si può non pensare al grande Marcel Schwob, e in particolare a due opere. Sicuramente, Vite immaginarie, e a seguire La crociata dei bambini. Il primo per la dimensione programmatica della bio-fiction, vero e proprio manifesto su come “romanzare” la vita degli altri, famosi o meno che siano; il secondo per aver saputo come pochi illustrare quello strano episodio del 1212, all’insegna del frammento di Eraclito tra i più oscuri e sorprendenti: Il tempo è un bambino che gioca, che muove le pedine; di un bambino è il regno.

Scrive Schwob:

Ed è proprio su questo che si fonda l’arte del biografo: sulla scelta. Non deve essere vero; deve creare una congerie di tratti umani. Leibnitz dice che per creare il mondo, Dio ha scelto il migliore tra i mondi possibili. Come una divinità inferiore, il biografo è in grado di scegliere, fra i possibili umani, ciò che è unico. Non deve ingannarsi sull’arte, non più di quanto Dio si sia ingannato sulla bontà. È necessario che l’istinto di entrambi sia infallibile. Pazienti demiurghi hanno raccolto per il biografo certe idee, certi movimenti fisiognomici, certi fatti. La loro opera è sparsa nelle cronache, nelle memorie, negli epistolari e negli scolii. In mezzo a questo arruffio il biografo sceglie ciò che gli serve per dare vita a una forma che non somiglia a nessun’altra. Non serve che essa sia simile a quella che fu creata un tempo da un dio superiore, basta che sia unica, come qualsiasi altra creazione.

La sensazione che si ha leggendo Maniac, è che Benjamin Labatut abbia seguito alla lettera le indicazioni di Schwob, ovvero programmando la sua makina anagramma di maniak ben al di là della bibliografia proposta nelle ultime pagine, esplorando ognuno degli interstizi offerti in quell’immensa documentazione a disposizione.

In altri termini non commette l’errore di molti biografi di credersi storici privandoci, per quella strana ambizione alla scientificità del dato oggettivo, di quanto v’è di più essenziale nella vita e soprattutto nell’arte del romanzo:

E così ci hanno privato di mirabili ritratti. Hanno creduto che solo la vita dei grandi uomini potesse interessarci. L’arte è estranea ad analisi di questo tipo. Agli occhi del pittore il ritratto d’un perfetto sconosciuto, fatto da Cranach, ha lo stesso valore di quello di Erasmo. Non è grazie al nome di Erasmo se quel quadro è inimitabile. L’arte del biografo dovrebbe consistere, piuttosto, nel dare lo stesso risalto sia alla vita d’un povero attore che a quella di Shakespeare. È un bieco istinto che ci fa constatare con piacere la contrazione del muscolo sternomastoideo nel busto di Alessandro, o il ciuffo in testa nel ritratto di Napoleone. Il sorriso di Monna Lisa – per quanto ne sappiamo potrebbe anche essere un uomo – ha un che di ben più misterioso.

Enfant prodige

In ognuna delle tre parti che compongono il polittico immaginato da Labatut troviamo la parola Wunderkind.

“Quindi c’era un alieno in mezzo a noi, un vero Wunderkind, e a scuola tutti parlavano di lui. Dicevano che aveva imparato a leggere a due anni”.

Per il piccolo Von Neumann, che ebbe un ruolo fondamentale nella costruzione della Bomba Atomica prima e nella rivoluzione informatica poi, risuona nel lettore il frammento eracliteo, del bambino preso dal suo stesso gioco, come quando, da adulto bambino è alle prese con il MANIAC, ovvero la loro macchina Mathematical Analyzer Numerical Integrator And Computer.

I protagonisti vengono descritti, raccontati, messi sovente a nudo, da quanti ne costituiscono il vero mondo di relazioni sociali e vitali: qui è la moglie che lo racconta, la prima o la seconda, un collega di laboratorio, un concorrente, l’amico anche se è il più delle volte dai nemici che arriva al lettore il tassello decisivo. Come nella Crociata dei Bambini di Schwob, il nudo fatto si veste delle narrazioni di ognuno dei protagonisti o semplici testimoni dei fatti: il goliarda, il lebbroso, i bambini, il Papa, il mendicante o la piccola Allys.

Sappiamo da Klára Dán Von Neumann, dopo un esilarante scambio di vedute del suo John con Albert Einstein e di cui lasceremo al lettore la scoperta, come per lui la vita fosse soltanto un gioco, un terribile gioco da prendere sul serio. Ed è grazie ad uno dei suoi eccessi che scopriamo la più insostenibile delle verità con cui uno scienziato deve misurare la propria coscienza. Non è allora questione di agire nel mondo con una doppia morale, come nella recente opera cinematografica dedicata a Oppenheimer da Christopher Nolan, ma di ammettere una volta e per tutte che quando si fa una scoperta non è possibile tornare indietro.

 « Quello che stiamo creando» disse «è un mostro la cui influenza cambierà il corso della storia, sempre che una storia continui a esserci! Ma sarebbe impossibile non andare fino in fondo. Non solo per ragioni militari, ma anche perché non sarebbe etico, da un punto di vista scientifico, non fare quel che sappiamo di poter fare, per quanto le conseguenze possano essere terribili. E questo è solo l’inizio! ».

È un passaggio chiave a mio avviso perché permette di capire cose altrimenti insostenibili dal punto di vista etico. Ricordo perfettamente quando in una piacevole conversazione con un mio compagno di liceo diventato medico, in cui gli raccontavo dei miei studi sulla “questione della colpa nella Germania Nazista, mi parlò del suo manuale, credo di fisiologia, se non ricordo male- ma non ne ho trovato conferma in rete- del Favilli, che riportava a proposito delle conoscenze della medicina sull’ipotermia come queste fossero state acquisite sulla pelle dei deportati nei campi di concentramento.

Ricordo allora la stessa domanda – ma non le risposte- sulla legittimità di tali scoperte, su come si potesse “approfittare” di tale abominio. Non è affatto un mistero che il peggiore istinto dell’uomo, nell’esercizio dell’arte della guerra, abbia nella storia prodotto invenzioni micidiali, armi terribili, con il solo scopo di dominare la vita degli altri, ma un mistero rimane su come le stesse abbiano provocato come effetti collaterali beni preziosi per l’umanità. Le prime riprese cinematografiche dei Fréres Lumière, come ci ricorda la studiosa Violaine Challéat  facevano riferimento a scene militari, così l’energia atomica o la stessa Rete Internet, inventata in piena guerra fredda. Von Neumann ci dice che sarebbe perfino non etico rinunciare alla verità di una scoperta, a prescindere dalle idee e azioni che l’hanno resa possibile. MANIAC è figlio delle menti di Los Alamos, l’IA la piena realizzazione dell’avventura.

«Con la creazione della bomba atomica i fisici hanno conosciuto il peccato, ed è una conoscenza che non possono più perdere». Questo aveva detto Oppenheimer.

Un gioco da ragazzi

“AlphaGo era il parto della mente di Demis Hassabis, un Wunderkind della zona nord di Londra che aveva quattro anni quando vide il padre – un cantautore nonché proprietario di un negozio di giocattoli greco-cipriota – giocare a scacchi con lo zio. Chiese loro se gli potevano insegnare a muovere i pezzi sulla scacchiera, e un paio di settimane dopo nessuno dei due era più in grado di sconfiggerlo.”

Grazie a Labatut scopriamo che a Los Alamos, coloro che avrebbero fabbricato il più grave assalto al cielo da che storia era storia, giocavano spesso a scacchi prima di lasciarsi sedurre da un altro gioco più antico e importato dall’oriente, il GO. E scoprirà il lettore l’incredibile storia della famosa partita dell’Atomica, quella giocata dall’allora campione in carica di GO, Utaro Hashimoto, contro lo sfidante Kaoru Iwamoto, il 6 Agosto del 1945 a Hiroshima.

 

Scena de “Il processo” di Orson Welles
Children play the popular East Asian board game Go, also known as Baduk in Korean, at the 11 World Youth Baduk Championship in Seoul, 2011( PHOTO REUTERS)

Nelle ripetute sfide tra giocatori in carne e ossa e macchine pensanti raccontate con estrema grazia da Labatut – splendidamente tradotto da Norman Gobetti- si rimane davvero incantati come quando si assiste ad un gioco che non si conosce affatto ma che ci coinvolge attraverso l’estrema precisione con cui i giocatori lo vivono. L’illusione- stare nel gioco, in ludum- sembra moltiplicarsi da sé, il gioco vivere di vita propria, come nel racconto poco noto di Walter Benjamin Rastelli racconta.

Rastelli è un mago che ha un solo numero, semplicissimo e meraviglioso che consiste nel far eseguire a una palla movimenti e volteggi con le sole note di un flauto dotato di poteri sovrumani. Quando viene presentato alla corte di un sultano che nulla perdona e molto offre a chi fosse stato in grado di divertirlo accade il fatto. Nessuno sapeva il trucco del mago che consisteva nel dirigere la palla grazie a un nano che in una simbiosi perfetta con la sfera e le note del suo padrone, invisibilmente creava quel gioco. La sera del tanto temuto spettacolo Rastelli, pur avendo percezione di qualcosa di terribile, esegue alla perfezione il suo numero riuscendo così ad avere salva la vita e ottenere un lauto premio dal committente.

Quando all’uscita del palazzo attende il complice nano per felicitarsi accade che al posto di questi si presentasse trafelato un messaggero che quasi lo assale in mezzo alle guardie :

«Vi ho cercato dappertutto, signore, – gli disse. – Ma Voi avevate lasciato le vostre stanze anzitempo, e non mi è stato concesso di accedere al Palazzo». Ciò dicendo mostrò una lettera autografa del nano. «Caro maestro, non siate in collera con me, – c’era scritto. – Oggi non potete esibirvi dinanzi al Sultano. Io sono malato e non posso lasciare il letto».

Appassionante l’ultima sfida all’ultima pietra, tra il Wunderkind Lee Sedol e AlphaGo. Quando la macchina ha sfidato il bambino e ha vinto, quando abbiamo scoperto che Dio stava per tornare sulla terra.

 

 

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“Deus ex Makina: Maniak” è stato scritto da francesco forlani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Il maiale Kras

di Giorgio Kralkowski

Le urla si sono quasi dissolte sopra le tegole del casale e al fumo dei camini, si sono infilate tra l’erba alta e hanno forse raggiunto gli uomini nei campi più lontani, appena prima delle acque del fiume, che inghiottono le voci di chi vi parla appena accanto. Adesso al loro posto i fruscii del lavoro, i rumori umidi delle mani e della carne, il tremare del metallo dei coltelli.

I nostri visi si incontrano nella grande vasca del sangue bruno del maiale Kras. Sul liquido scuro e lucido emergono porzioni delle nostre facce bianche, il riflesso delle lampade fioche, la luce grigia dell’alba. Agli odori tiepidi e brumosi della mattina e del sudore si mescolano quelli caldi secchi polverosi della terra e della paglia che si sentono anche in bocca. Il legno già brucia nelle stufe.

*

Nel silenzio di questo luogo lontano, ora che la notte si trasforma in alba, ritornano alla memoria spettri di suoni remoti: in giorni come quelli le urla riempivano i vuoti tra le case e trovavano una fuga solo nel cielo e tra le spighe dei campi. Erano come le urla acute dei bambini sotto una mano aperta, o sotto i colpi di un bastone. Quando iniziai a ricordare i suoni degli anni che erano stati, ero un bambino. Ne avevo appena tre e, seduto sulla paglia in un angolo del casale, osservavo; sette quando iniziai ad avvicinarmi; nove quando iniziai a portare i secchi per raccogliere il sangue. Quando la pelle bianca delle mie mani si bagnò di un rosso vivo ne avevo dieci. A sedici mi venne regalato un coltello. Quell’anno mi dissero che è “importante la prima bestia che si uccide… le nostre mani… il sangue…”.

*

Krzysiek e suo padre, con gli stivali immersi nel vascone, abbracciano i fianchi del grande animale, quasi senza che ve ne sia bisogno, tanto mansueto si mostra alla vista della lama, e così a un colpo in testa che quasi lo stordisce. Alla prima incisione di quella pelle spessa emette uno squittio soffocato. Solo quando il coltello affonda intero nella carne solleva un grido alto, terrificante e umano, per poi lasciar cedere la tensione dei muscoli delle zampe, abbandonarsi in terra e crollare nella polvere e nel silenzio.

Grandi secchiate d’acqua calda vengono gettate in terra. Il sangue ancora sgorga nel vascone e nelle bacinelle e nei secchi. Le vasche vengono scambiate non appena si riempiono e vengono versate in grandi tinozze, e poi da capo. La carne delle zampe posteriori viene trapassata da due ganci e il corpo viene issato a mezz’aria. Il calore di quella che un tempo era stata la vita di Kras sale e si straccia come vapore nelle volte del casale.

*

Kras era stato il maiale più grande che il paese ricordasse: una bestia mostruosa, immensa. Ricordo che arrivava con il dorso poco sotto la spalla di un uomo adulto, ben piazzato e dal petto largo, e aveva la testa grande come quella di un grande bovino, tanto da poter essere montato e cavalcato: occasioni, queste, che non erano mancate, e non solo nei giochi dei bambini, ma anche in quelli degli ubriachi. Di temperamento, si era sempre mostrato mansueto, tanto che era rimasto quasi immobile quando si era trovato di fronte una mano con un grosso coltello.

Si sarebbe detto che attendesse da sempre, che nella propria coscienza di bestia castrata la morte fosse solo un altro punto nell’accidentalità del tempo, o dell’eternità, così come lo era stato il suo venire al mondo tempo prima. Sembrava, o così a me sembrava quando la sera lo riportavo in stalla e mi sedevo in terra di fronte a lui, di scorgere nei suoi occhi neri una saggezza antica, una dimenticata arte divinatoria, un certo sentire innato, ferino: un tempo delle bestie. Sembrava che nel corpo di Kras vibrasse un qualcosa di remoto e intraducibile, e che se anche avesse posseduto le parole, non avrebbe potuto dire.

*

La somma dei rumori affiochisce e gli uomini lasciano i propri lavori per accendere il fuoco con cui bollire la carcassa del grande animale. L’enorme testa pallida e pelosa di Kras viene staccata con colpi secchi e violenti che vibrano sordi sul legno. Inizia a farsi lucida quando viene separata dall’immenso corpo, che già pende per far scolare il sangue. Il sangue viene trascinato in basso da niente più che il proprio peso, la gravità e la sospensione di vene che ormai non seguono più un percorso ciclico, ma sono ora un canale aperto, reciso, interrotto. Al rumore del lavoro si sostituisce lentamente il silenzio.

Sono solo e nella luce acerba di questo grande casale esploro gli occhi dell’animale. Il loro colore emana un peso grave e notturno, che si addentra attraverso cunicoli di tane abissali. Nel trovarmi di fronte all’immensa testa mi invade il pensiero di non aver solo ucciso, ma persino decapitato il nume di una divinità pagana che ha abitato questi campi prima ancora che vi fosse un paese; prima che il ripetersi dei passi segnasse un sentiero, che un sentiero dividesse le distese in geometrie, le geometrie in possesso: in tempi in cui le piante e le bestie erano pur senza lo sguardo, pur senza la parola di un uomo. Prima che si iniziasse a separare, a separarci. La mia schiena e le mie mani tremano al pensiero di aver macellato un antico dio delle colline o delle bestie che fino ad allora, di nascosto, ha abitato il corpo del maiale Kras.

Tra i pensieri sento la grande bocca della bestia aspirare lentamente l’aria del grande stanzone come se caricasse un ultimo respiro. Poi, con voce remota e cupa dice “Grazie…”.

“Per cosa?”, chiedo. Kras temporeggia, esala la fatica del morire in un fiato caldo e umido. “Prima o poi, presto o tardi, sarebbe successo…”, aggiunge e sembra fatichi ad aggiungere altro ancora, sia per la testa mozzata, sia per la vita che lo lascia per versarsi nella paglia e sotto i miei stivali.

“Mi dispiace per le urla… so che tua sorella si spaventa…”. Rispondo di non preoccuparsi, che con un coltello in gola anche io avrei urlato, che a differenza di chi lo aveva preceduto era stato quasi impassibile. “Certo”, ride, “un’altra botta in testa l’avrei preferita… Krzysiek ha la mano leggera, mentre tu, o tuo padre…”, sorride ironico, soffia ancora dalle grandi narici fino a farle vibrare. Un’aria calda umida mi si incolla in viso. Indugia: “Senti Marek, che sapore ho, che sapore ha la mia carne?”. Rimango in silenzio. Un gelo acuto e vivo si intreccia alla mia carne. “Dipende…”. “Dipende da come decide di cucinarti la mamma quel giorno. Se diventerai salumi. Quest’anno, se il tempo sarà buono, è probabile che faremo le salsicce e poi con il resto si…”. “Tu non vorresti conoscere che sapore ha la tua carne?”. Esito.

Dopo aver fatto vibrare una delle sue grosse orecchie, quasi ad assecondare compassionevolmente i miei indugi aggiunge: “Ascolta… come fate queste salsicce? Cosa ne sarà della mia carne?”. “Dipende anche quello. Se c’è tanto grano, e quest’anno ne abbiamo, e se di sangue ne hai buttato abbastanza, bolliremo il grano e mescolandolo al sangue ci faremo una salsiccia scura”. “Anche col sangue?”, “Anche col sangue”. “E…”, le parole sono lente, affaticate, gli occhi socchiusi “…e con le mie viscere, poi che ci fate?”, “Ci facciamo una zuppa, ma prima vanno…”, “Perdonami… il tempo è poco e la mia domanda è più importante dell’immaginare in quali strani modi trasformerete il mio corpo. Perdonami, e dimmi Marek… che sapore ha la mia carne? Tu che puoi sapere, mentre sai che io non potrò mai. Dimmi se non la mia, tu puoi conoscere che sapore ha la tua carne?”

L’eco della domanda arriva fioca alle mie orecchie. Il mio corpo si fa inconsistente e così le cose del mondo intorno, che non sono più materia che io possa toccare. L’occhio scuro della grande bestia, in cui il mio viso si riflette in una sembianza appannata e tremula. Sulle mie guance scorrono lacrime calde, che cadono e bagnano le mie mani contratte, si mescolano con il sangue secco per scioglierlo ancora. Mi accorgo di singhiozzare, di un rumore lontano, ovattato, delle mie labbra che tremano. Ai singhiozzi, al vuoto cavo e compresso dei miei polmoni, a un pianto disperato, si mescola un canto basso e continuo che sembra abitarmi da un tempo eterno, anteriore a qualsiasi liturgia che abbia mai scandito durante una messa, a ogni parola che abbia mai ascoltato, a ogni parola che sia mai esistita:

“Nel volume delle viscere mancano le pagine che spiegano a che temperatura vanno mantenute, che tempo farà domani, dove mirare lo sguardo, se oggi sono preda o cacciatore, in quali sentieri… e una noticina scritta a matita: ‘corri più piano, ti inseguirò più piano’. Quali impronte, quali paure seguire, quali abbandonare e come dovrò vestire il mio corpo quest’oggi, a che cottura la mia carne? Devo avvolgerla nella paglia, bagnarla nell’acqua appena calda, prepararla per quando un giorno tornerà a non essere più mia? La terra, la terra, il corpo, la terra. Mangiare fiori, queste erbe che mondino i miei intestini. Provare se le punte delle mie dita sanno ancora della calendula di qualche estate passata?

Quanto del mio sangue cadrà nel mondo dai tagli che si apriranno sulle mie mani, dai morsi che involontariamente masticheranno la carne delle mie guance? Se un giorno le bestie le mangeranno, quando bruceranno, in quale terra mi consumerò? Potessi versarle in un grande catino, tenerle rosse fra le mani, essere una volta solo un corpo, un diavolo nudo. Devo guardare nel buio delle loro pieghe dove è caldo, ma mi è difficile piegare la testa abbastanza. Il centro, il centro, il centro che manca. Quando sarò terra scura, quando ogni pianta crescerà sul mio corpo, quando non sarò più e sarò pianta.

Masticare la mia carne, che il mio corpo corrisponda due volte al mio corpo, questo mai se conosco le parole. Se non conosco il mio sapore chi sarò domani? Esisterà un rituale, un vecchio rituale dimenticato, nel quale si sopravvive al giorno, per il giorno dopo, mangiando il corpo che si è abbandonato la notte prima, appena ci si addormenta, il momento esatto esatto. Verrai mangiato, avrai l’onore, conoscerò il sapore della tua carne e saprò di te, non conoscerò il sapore della mia carne e non saprò di me. Ho scritto questo corpo in una lingua di carne che non parlo, che mai saprò leggere. Non la parola, ma il corpo, non la parola, ma il corpo, non la parola, ma il corpo, si può mai tornare indietro? Il centro, il centro, il centro che manca…”

La voce si spegne e con lei il mio respiro. Aspiro in un rantolo l’aria che ha abbandonato il mio corpo nello spazio di una continua esalazione.

*

Io sto piangendo. Singhiozzo, montando da un lamento a un pianto disperato, mentre la carne del mio corpo contratto rilascia la morsa delle dita, e poi del petto, e delle gambe e frana pesante addosso alla testa della bestia. Rimane tremula l’immagine della pelle della grande testa pallida dell’animale. Poso una mano sulla grande fronte per sentire che scotta come quella di un grave affebbrato e la accarezzo e cingo le mie braccia intorno al grande capo fino a sentire le dita congiungersi e la mia guancia bagnata sul grande animale, balbettando e ingollando aria in polmoni fino a quasi sentirmi soffocare.

Tra il rumore del mio pianto sibila un ultimo rantolo che raccoglie l’aria per un’ultima frase: “Ti disperi tanto ed è così semplice, che non si può dire, che semplicemente è. Più grande di noi, e di noi poco importa, vivi sapendo che anche tu scomparirai. Sei carne e sarai terriccio caldo, e sarai stelo e sarai fiore. Esso era prima che fossimo, sarà quando non saremo più. Non saremo noi a rimanere. Nemmeno io capivo nel tempo in cui ero uomo”. Mentre la mia vista si schiarisce e il mio pianto esausto si spegne, Kras ha smesso di ascoltare, ha abbandonato gli occhi e di lui rimane solo una grossa testa pelosa, abbandonata in un grande e serafico sorriso. Così si separa dalla vita, e da me.

*

La neve riflette il sole restituendo il colore dell’ambra più chiara. L’alba rossa impallidisce per mescolarsi all’azzurro del cielo. Krzysiek torna con gli stracci, altri secchi, la scopa. Gli altri uomini trasportano la legna su un piccolo carretto cigolante. Il casale va pulito, la carne tagliata, spartita e messa al sicuro. Da un tempo di cui nessuno ha ricordi, nel nostro paese, e non negli altri, del maiale si stacca la testa dal corpo restante e si posa su fascine e sterpaglie, per poi accendere un grande falò.

Accendiamo un fiammifero e il fiammifero accende la paglia e la paglia accende i rami e i rami avvampano in un primo fuoco, che lentamente scioglie la poca neve su cui posa la pira. L’odore tiepido del legno che brucia riempie le mie narici. Il fumo si attarda basso sopra i tetti delle case. I galli iniziano a cantare.

Guardo un’ultima volta la testa di Kras scomparire tra le fiamme. Un pesante collare di fumo avvolge quel che rimane di quel che fino a poche ore prima era stato un immenso animale. Mi chiedo se sono stato io a portarla lì sopra, ma non riesco a ricordare. Guardo ancora i suoi occhi, che prima riflettevano la fiamma e ora iniziano ad abbandonare la propria lucentezza e a farsi prima lattiginosi, poi bianchi come quelli dei ciechi, o dei cani con la cataratta. Bruciano i rari peli del muso e la pelle prima suda e si fa lucida, stillando gocce di grasso, poi scurisce in un rosso opaco. Il vento prende a soffiare, le fiamme iniziano a guizzare alte, per poi inghiottirlo lentamente come i rovi quando crescono sulle cose del mondo. I carboni respirano una luce rossa e materiale per farsi lentamente grigi. Rimango seduto in terra fino a non sentire le guance, fino a perdere lo sguardo e il corpo tra le braci. Il vento accarezza le spighe dei campi. Il fiume scorre lontano. Di tutto rimane un silenzio.

Foto di mitjaC da Pixabay

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“Il maiale Kras” è stato scritto da davide orecchio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.