Test INVALSI nel curriculum dello studente: un abuso

Il recente decreto legge che prevede di inserire i risultati dei test Invalsi nel curriculum degli studenti desta serie preoccupazioni. I punteggi nei test, quanto quelli sul QI, sono fortemente influenzati dalla condizione socioeconomica delle famiglie e dalle caratteristiche del contesto sociale e territoriale da cui provengono gli studenti. Chi proviene da famiglie o da contesti svantaggiati ha, mediamente, punteggi inferiori di chi, invece, è più avvantaggiato sotto il profilo socioeconomico.  Uno dei rischi da scongiurare è che i risultati ottenuti nei test – risultati che, è bene ricordarlo, possono variare nel tempo – possano essere usati per «incasellare» gli studenti, indirizzandone irrimediabilmente il successivo percorso scolastico o professionale. Da strumento per misurare e contrastare le disuguaglianze, i test sulle competenze diventerebbero, così, un elemento che contribuisce a perpetuare le disuguaglianze stesse.

 

  1. A cosa servono i test?

I livelli di apprendimento conseguiti nelle prove Invalsi dovranno essere indicati, in forma descrittiva, in una specifica sezione del curriculum dello studente allegato al diploma di scuola superiore. È quanto prevede, tra l’altro, il decreto legge n. 19 del 2 marzo 2024, riguardante misure per l’attuazione del «Piano nazionale di ripresa e resilienza», ricalcando una norma già contenuta in uno dei decreti sulla «Buona scuola» (d. lgs. n. 62/2017) ma finora rinviata. L’inserimento dei risultati delle prove Invalsi nel curriculum dello studente è, a nostro avviso, una scelta discutibile per una serie di ragioni.

Partiamo dalle finalità delle prove Invalsi. Per come dichiarato nel suo statuto (art. 2), l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione (Invalsi), ha la finalità di promuovere «il miglioramento dei livelli di istruzione e della qualità del capitale umano, contribuendo allo sviluppo e alla crescita del sistema d’istruzione, motore di sviluppo dell’economia italiana e promotore di equità sociale». Ai sensi della normativa sul segreto statistico (D. lgs. n. 322/89) i dati raccolti dall’Invalsi «non possono essere comunicati o diffusi se non in forma aggregata e secondo modalità che rendano non identificabili gli interessati ad alcun soggetto esterno, pubblico o privato, né ad alcun ufficio della pubblica amministrazione». La ragione di ciò, come spiega lo stesso Istituto, è che «le prove non valutano gli studenti come fanno gli insegnanti, ma esaminano i loro esiti di apprendimento e lo stato di salute del sistema scolastico».

In pratica, i risultati dei test Invalsi dovrebbero servire a indirizzare la politica scolastica verso interventi mirati, atti a colmare le lacune formative e correggere le disparità tra scuole o tra aree geografiche. Non dovrebbero servire, invece, per fornire informazioni a terzi sulle competenze degli studenti. Al più, nel rispetto della privacy, i risultati dei singoli studenti potrebbero aiutare i docenti a individuare situazioni di disagio su cui intervenire con appropriati strumenti didattici. Per tali ragioni, i risultati individuali dei test dovrebbero rimanere riservati e il loro utilizzo limitato all’interno del sistema scolastico.

Alla luce delle finalità sopra richiamate, l’argomentazione secondo la quale i risultati dei test Invalsi fornirebbero ai terzi interessati, come i futuri datori di lavoro, utili informazioni sulle competenze acquisite dagli studenti, appare quantomeno discutibile. Purtroppo, come accaduto in altri casi, nel nostro paese strumenti di valutazione pensati per specifici obiettivi, per una sorta di eterogenesi dei fini, vengono utilizzati per scopi diversi da quelli originari.

 

  1. Un problema di disuguaglianze

Ci sono, poi, altri aspetti, ancora più delicati, da considerare. Anzitutto, chiediamoci cosa misurino i test Invalsi. I test scolastici in genere misurano alcune specifiche competenze, ma non quelle attitudini, come la capacità di comunicazione, e quei tratti della personalità di carattere socio-emotivo e relazionale che hanno molta importanza nella vita sociale e nel lavoro. Inoltre, i risultati nei test sulle competenze non si sovrappongono ai voti attribuiti dagli insegnanti. Questi, infatti, sono frutto della valutazione prolungata di una serie di aspetti non racchiudibili in un questionario, per quanto articolato esso possa essere.

Invece, come appurato da solide ricerche [1], i punteggi ottenuti nei test sulle competenze, come quelli condotti negli Stati Uniti e nel Regno Unito, hanno un’elevata correlazione con i punteggi dei test sul quoziente d’intelligenza (QI). La correlazione tra i risultati dei test sulle competenze e quelli sul QI risulta, inoltre, molto alta quando si considerano i punteggi medi nazionali o regionali [2].

Non siamo a conoscenza di studi che riguardino specificamente le prove Invalsi, ma a livello regionale i risultati ottenuti dagli studenti negli Invalsi sono correlati a quelli dei test Ocse-Pisa. Queste evidenze costituiscono ulteriori motivi a sostegno di un atteggiamento prudente nell’interpretazione e nell’uso dei risultati individuali dei test scolastici.

È importante sottolineare che tanto i punteggi nei test sulle competenze, quanto quelli sul QI, sono fortemente influenzati dalla condizione socioeconomica delle famiglie e dalle caratteristiche del contesto sociale e territoriale da cui provengono gli studenti [3-5]. Gli studenti provenienti da famiglie o da contesti svantaggiati hanno, mediamente, punteggi inferiori a quelli che, invece, sono più avvantaggiati sotto il profilo socioeconomico. Fattori sociali ed economici spiegano, poi, le differenze medie nei risultati nei test che si osservano tra quartieri ricchi e poveri delle stesse città o tra territori.

In Italia, nelle regioni meridionali, in cui i redditi sono più bassi e l’incidenza della povertà è maggiore, i punteggi medi degli studenti sono significativamente inferiori a quelli delle regioni economicamente più sviluppate [6]. In breve, i risultati nei test sulle competenze, come quelli Invalsi, riflettono il grado di disuguaglianza socioeconomica tra individui, gruppi e territori. Perché, dunque, riportarli nel curriculum dello studente?

 

  1. Usi e abusi dei test

In conclusione, riteniamo utile interrogarsi sull’utilità dei test scolastici che in Italia, come in altri paesi, si sono affermati sulla base di motivazioni improntate a principi economici e competitivi, la cui validità è messa in discussione da diversi studiosi [7]. L’uso eccessivo o improprio di questi strumenti di misura non è esente da rischi.

Uno dei rischi da scongiurare è che i risultati ottenuti nei test – risultati che, è bene ricordarlo, possono variare nel tempo – possano essere usati per «incasellare» gli studenti, indirizzandone irrimediabilmente il successivo percorso scolastico o professionale. Da strumento per misurare e contrastare le disuguaglianze, i test sulle competenze diventerebbero, così, un elemento che contribuisce a perpetuare le disuguaglianze stesse. Non è un caso che il paese in cui tradizionalmente si fa più largo uso (e abuso) dei test, gli Stati Uniti, sia anche tra quelli con disuguaglianze socioeconomiche particolarmente elevate. La tendenza ad applicare acriticamente modelli e approcci che in altri paesi hanno già dimostrato rilevanti limiti, e il cui utilizzo può produrre guasti sociali, andrebbe evitata.

 

Riferimenti

[1] Borghans L., Golsteyn B.H., Heckman J.J., Humphries J.E. (2016), What grades and achievement tests measure. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 113(47), 13354-13359.

[2] Rindermann H. (2007), The g-factor of international cognitive ability comparisons: the homogeneity of results in PISA, TIMSS, PIRLS and IQ-tests across nations, European Journal of Personality, 21(5), 667–706.

[3]von Stumm S., Plomin R. (2015), Socioeconomic status and the growth of intelligence from infancy through adolescence, Intelligence, 48, 30-36.

[4] Thomson, S. Achievement at school and socioeconomic background—an educational perspective (2018), Npj Science of Learning, 3:5.

[5] Nieuwenhuis J., Hooimeijer P. (2016), The association between neighbourhoods and educational achievement, a systematic review and meta-analysis, Journal of Housing and the Built Environment 31, 321–347.

[6] Daniele V. (2021), Socioeconomic inequality and regional disparities in educational achievement: The role of relative poverty, Intelligence, 84, 101515,

[7] Berliner D.C. (2020), The implications of understanding that PISA is simply another standardized achievement test, in: G. Fan, T. S. Popkewitz (eds), Handbook of Education Policy Studies, Springer, Singapore.

 

 

 

 

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“Test INVALSI nel curriculum dello studente: un abuso” è stato scritto da Eusebio Chiefari Vittorio Daniele e pubblicato su ROARS.

Rossi-Landi: programmazione sociale e poesia

È da poco uscito per Biblion edizioni Maestri contro. Brioschi, Guglielmi, Rossi-Landi, un volume di saggi a cura di Paolo Giovannetti e mia. L’iniziativa è nata da un seminario organizzato alla Statale di Milano il 10 febbraio 2023, grazie al contributo importante di Laura Neri. In quell’occasione, ci dividemmo per gruppi: Laura Neri, Stefania Sini e Lorenzo Cardilli intervennero su Franco Brioschi, Cecilia Bello, Stefano Colangelo, Massimiliano Manganelli e Chiara Portesine su Guido Guglielmi, Simona Menicocci, Ezio Partesana, Francesco Maria Terzago ed io su Rossi-Landi. Oltre a Paolo Giovannetti, era presente nel ruolo di moderatore Giorgio Mascitelli.

Di Andrea Inglese

 

Una filosofia del linguaggio pionieristica

A Ferruccio Rossi-Landi si confà perfettamente il titolo del nostro incontro, e nel duplice significato di essere controcorrente – fuori dalle mode e dalle tempistiche intellettuali del suo paese – e contro in senso teorico e politico, in quanto difende una concezione “militante”, seppure minoritaria, del sapere sull’uomo e il linguaggio. Si batte, insomma, non solo contro un modello di sapere ma anche di società, che quel sapere legittima. A ciò si aggiunga una pratica precoce dell’interdisciplinarità e del dialogo serrato tra filosofia e scienze umane (linguistica, semiotica, economia).

Rossi-Landi è stato dunque un pioniere nell’ambito della ricerca intellettuale. Si trova a Oxford l’anno stesso della morte di Wittgenstein (1951). E di Wittgenstein coglie tutta la portata critica nei confronti sia del positivismo logico che della successiva filosofia analitica. Del 1961 è il suo primo libro, Significato, comunicazione e parlare comune, in cui propone una lettura critica dei presupposti fondamentali della filosofia analitica. Ora, un tale lavoro non poteva essere recepito dalla filosofia italiana, ancora ignara del dibattito analitico e non ancora arricchita del confronto con la linguistica e la semiotica, come avverrà invece durante la temperie strutturalista. Il pensiero di Rossi-Landi continua a evolvere sul filo di un dialogo tra il secondo Wittgenstein e Marx. È del 1966 un suo articolo dal titolo “Per un uso marxiano di Wittgenstein”. Ed anche questa nuova direzione di ricerca lo colloca, nel panorama italiano, in una posizione assai solitaria. Ma la singolarità del suo percorso è riscontrabile fin nei suoi lavori più tardi, come Metodica filosofica e scienza dei segni del 1985, pubblicato l’anno della sua scomparsa.

Un piccolo esempio non tanto dell’inattualità di Rossi-Landi, ma del fatto che ancora non sia stata assimilata la sua lezione, è la smilza pagina che gli dedica Wikipedia. Di certo, il suo isolamento intellettuale e l’originalità di una ricerca in perpetua evoluzione hanno favorito anche il formarsi di alcuni nodi irrisolti nel suo pensiero. Ne sono testimonianza, oggi, studi di giovani ricercatori, che hanno come ambizione di riconsiderare i fondamenti teorici del suo pensiero in un’ottica critica e di ulteriore chiarificazione. A questo proposito è importante citare almeno la recente monografia di Giorgio Borrelli dal titolo Ferruccio Rossi-Landi. Semiotica, economia e pratica sociale (Edizioni dal Sud, 2020). Essa conferma che, seppure con ritardo, esiste un nuovo interesse per il nostro autore e non solo da un punto di vista puramente storiografico, ma anche teoretico e militante.

Per quanto mi riguarda, non ho certo le competenze per avanzare valutazioni sulle sue tesi maggiori, né posso spacciarmi per uno studioso della sua opera. Agirò, però, con l’opportunismo metodologico che caratterizza spesso il lavoro di riflessione sulla letteratura, ossia metterò in rilievo alcuni punti del pensiero di Rossi-Landi, sperando che risultino utili per chiarire aspetti importanti della pratica poetica contemporanea.

 

Ideologie letterarie e olismo antropologico: Rossi-Landi e Descombes

Se la lirica si è imposta come genere dominante della poesia moderna, nulla ci dice, stando almeno alla situazione italiana, che questo dominio si sia inequivocabilmente esaurito, nonostante i più svariati annunci di un oltrepassamento di portata storica. “Dopo la lirica”, insomma, il lirismo sembra tutt’ora vivo e vegeto come anche il quadro ideologico che lo giustifica. Così è, di conseguenza, per la contestazione del lirismo e per alcuni dei suoi presupposti teorici. Pratiche di poesia anti-lirica o semplicemente non lirica sono tutt’ora rivendicate, e spesso attraverso un inevitabile riferimento alla tradizione novecentesca delle avanguardie. Se siamo d’accordo nel riconoscere questi tratti molto generali del paesaggio poetico attuale (almeno in Italia), è importante sottolineare che la partizione conflittuale tra postura lirica e postura non-lirica trae le proprie risorse ideologiche da ideali complementari e, spesso, intrecciati indissolubilmente.

Nel paradigma lirico, l’enunciato poetico deve realizzare una restituzione (verbale, ritmica, musicale) di un’integrità o di una totalità perduta, quella dell’esperienza individuale e autentica, del vissuto silenzioso che precede l’impoverimento imposto dal discorso ordinario, attraverso cui la persona comune è costretta a esprimere ciò che gli accade e la sua visione del mondo. Nel paradigma alternativo e minoritario, che fa riferimento alle avanguardie, il valore dell’enunciato poetico pertiene al suo carattere emancipatore, ossia alla sua possibilità di affrancarsi, attraverso procedimenti verbali più o meno innovativi – sia di tipo grafico e visivo, che orale e performativo –, dalle costrizioni ideologiche e culturali di una società data. Questi ideali – integrità ed emancipazione – si presentano sia in modo intrecciato che separato sul piano delle poetiche. Possiamo avere una poesia lirica, che predica l’emancipazione dagli stereotipi veicolati dalla lingua comune così come una poesia sperimentale o di ricerca che persegue l’utopia di un “realismo integrale”. A monte, però, agiscono dei costrutti ideologici più complessi (e anche più confusi) che legittimano questi ideali, e la loro influenza sulle pratiche di scrittura.

Se consideriamo il paradigma lirico, è inevitabile fare riferimento all’espressivismo nelle sue forme per lo più ingenue[1], ossia a un complesso di idee basato sulla partizione tra individuo-esperienza-interiorità, da un lato, e società-linguaggio comune-esteriorità, dall’altro. La versione ingenua dell’espressivismo presuppone che l’individuo poetante possegga una qualche forma di esperienza privata e interiore, da salvaguardare rispetto alla traduzione che il linguaggio comune finisce per farne, spogliandola della sua ricchezza originaria. Se prendiamo in conto, invece, le forme contestatrici del paradigma lirico, legate a gesti di rottura avanguardistici o sperimentali, ritroviamo spesso una sorta di rovesciamento ideologico degli ideali espressivisti. In tale prospettiva, è l’esteriorità della lingua a costituire il soggetto – e quindi l’individuo poetante –, non lasciando ad esso nessuna riserva interiore d’autenticità, ma anche nessuna zona mentale immune dalla penetrazione dell’ideologia. Si rischia d’imbattersi, qui, in una versione più o meno riduttiva sia di certi assunti strutturalisti che post-strutturalisti.

Più in generale, nel piccolo universo delle ideologie letterarie, si riflette un fenomeno che, pur avendo caratterizzato la crisi della modernità, continua a ripresentarsi come nuovo e assillante nell’epoca attuale. La società contemporanea sembra perennemente minacciata da una duplice e contraddittoria condizione: da un lato, la rottura del legame sociale, l’atomizzazione dell’io e la conseguente diffusione di un pernicioso narcisismo di massa; dall’altro, un controllo e un condizionamento sociale illimitati, che espongono il singolo senza difese al dominio delle istituzioni e dei centri di potere economico e tecnologico. Il caso delle piattaforme digitali è da questo punto di vista esemplare. Da un certo punto di vista, non vi è dispositivo sociale in grado di inverare nel modo più diffuso, democratico e capillare gli ideali espressivisti: attraverso le finestre dei “social”, ognuno ha la possibilità di “scegliere se stesso”, ovvero di costruire un’immagine e un discorso che siano la più libera e autentica espressione di sé, mettendo in secondo piano la lunga lista delle proprie “appartenenze”. Non a caso, le piattaforme sono anche accusate di accrescere le posture narcisistiche degli individui, rendendo questi ultimi sempre più ciechi nei confronti della diversità di condizioni, esperienze e prospettive presenti nella società. Le finestre di Facebook e Instagram banalizzano e rendono in qualche modo operativo l’imbroglio concettuale del solipsismo: ”l’unico mondo che esiste è il mio mondo”. D’altra parte, queste oasi di libertà selvaggia, dove i desideri dell’individuo trionferebbero su ogni vincolo collettivo, si rivelano, in realtà, sfere opache sottoposte a forme di condizionamento e sfruttamento ampiamente inconsapevoli. Ogni giorno, attraverso la volontaria “connessione”, non accediamo soltanto a strumenti di comunicazione multimediale di cui non abbiamo deciso architettura e funzioni, ma forniamo ininterrottamente dati sul nostro comportamento che potranno essere utilizzati, nel migliore dei casi, per arricchire grandi aziende, e nel peggiore, per accentuare il controllo o il condizionamento nei nostri confronti, da parte di soggetti terzi (privati o statali).

Queste prospettive simultanee e antitetiche sembrano riconducibili alle due opzioni ideologiche, di cui si sono serviti studiosi, critici e poeti nel corso della seconda metà del Novecento: ideali espressivisti e difesa dell’autenticità individuale versus sparizione del soggetto e onnipotenza delle strutture linguistiche impersonali. Su questo gioco di specchi tra l’espressivismo come quadro ideologico del lirismo e lo strutturalismo o post-strutturalismo come quadro ideologico di certo avanguardismo, si è espresso anche Italo Testa nel suo recente saggio “Teoria della poesia”, inserito nel volume Teoria della letteratura a cura di Laura Neri e Giuseppe Carrara (Carocci, 2022, p 204).

È pur vero che in una certa misura una concezione meramente soggettivista e psicologista dell’espressivismo sembra divenire egemonica in una certa fase della teoria della poesia moderna e contemporanea, finendo per generare una reazione oggettivista, un partito preso delle cose che ne ribalta gli assunti, e finisce per sfociare nella «morte del soggetto» strutturalista.

Ora ciò che ci permette di mettere fuori gioco sia il quadro espressivista sia quello riduzionista che gli si oppone è una filosofia del linguaggio come quella di Rossi-Landi, che si accompagna a una più generale concezione antropologica. Fin dalla sua prima opera del 1961, Significato, comunicazione e parlare comune, egli considera il fatto linguistico come un fatto sociale globale. Ciò significa considerare che la comunicazione di significati è una pratica sociale, che si apprende e si esercita all’interno di un intreccio di quelli che Wittgenstein chiamava giochi linguistici e forme di vita. Questo intreccio costituisce una totalità, un orizzonte comune a tutti i parlanti, anche se si articola attraverso una gran ricchezza di pratiche e di universi discorsivi particolari. (Alle spalle di Rossi-Landi vi sono i concetti di “spirito oggettivo” hegeliano, di “cosmologia” secondo Charles Sanders Peirce, di “prassi” secondo Marx e di “semiotica” secondo Charles Morris.)

Secondo quest’ottica, il linguaggio è quindi un sistema inseparabile di segni verbali e segni non-verbali, di attitudini comportamentali e di modelli d’enunciazione. Impossibile, quindi, presuppore forme di “privatezza” o d’“interiorità” dell’esperienza individuale che precedano il formarsi del “soggetto umano” entro le strutture sovrapersonali di una società storicamente data. Il concetto stesso d’intersoggettività è messo in crisi, in quanto esso implica l’esistenza di singole esperienze soggettive, che si troverebbero poi nella condizione di accordarsi e d’istituire significati comuni. In altri termini, è respinto il pregiudizio contrattualistico che sta alla base della varie forme di “individualismo metodologico”, ancora in uso nelle diverse scienze umane. Scrive Rossi-Landi, in Semiotica e ideologia (Bompiani, 1972/2000, p. 24):

quando gli individui si mettono a parlare non esprimono affatto un proprio accordo, non concorrono affatto in un contratto, non aderiscono ad alcuna convenzione, non stringono alcun patto; bensì soltanto imparano una tecnica comunitaria cui partecipano attivamente quali erogatori di lavoro linguistico, ma che subiscono in modo pressoché totale per quanto riguarda le modalità tecniche.

Il concetto di “lavoro linguistico”, che permette agli individui di produrre e scambiare “enunciati”, è quindi inseparabile non da proprietà della mente, della coscienza o del cervello, ma innanzitutto da “tecniche comunitarie”, il cui esercizio ovviamente presuppone determinate condizioni biologiche, ma che non è in alcun caso riducibile a esse. Le tecniche sono pratiche di significazione, che permettono a un individuo di produrre un significato (verbale o non verbale) per un altro individuo. Questo implica che l’istituzione di una certa tecnica precede i due individui (e i loro eventuali “stati mentali”) nelle circostanze dell’interlocuzione, ed è trasmessa a entrambi dalla società in cui vivono. Una tale concezione della comunicazione linguistica ha conseguenze radicali: – cito sempre da Semiotica e ideologia – 1) “In nessun caso il lavoro linguistico va inteso come attività interiore del soggetto, come ‘atti intenzionali’ od ‘operazioni mentali’ che si svolgerebbero necessariamente nella psiche conscia o inconscia dei singoli individui realisticamente intesa (…)” (p. 35); 2) bisogna respingere, a sua volta, “un pregiudizio individualistico di tipo idealistico o spiritualistico, secondo il quale gli individui sarebbero preformati alla loro convivenza sociale” (24-25).

Rossi-Landi difende quella che filosofi contemporanei come Vincent Descombes definiscono una concezione olistica della mente e della vita sociale, precisando che i due termini sono qui sinonimi: vi è “mente”, laddove vi è “società”, ossia un mondo di significati comuni, e non semplicemente intersoggettivi. In Les institutions du sens (Minuit, 1996, p. 333), Descombes formula il concetto di olismo antropologico e riconduce le “tecniche comunitarie” di Rossi-Landi agli “usi”, con riferimento alla sociologia francese di Marcel Mauss:

Questi usi sono delle istituzioni nel senso di Mauss, sono della maniere di fare e di pensare, di cui gli individui non sono gli autori. Gli individui sono certamente gli autori delle frasi che costruiscono, ma non sono gli autori del senso di queste frasi, ed è precisamente quel che si vuole dire, parlando di un significato impersonale degli enunciati.

Tale concezione olistica permette anche di delucidare una delle questioni che sono cruciali per le scienze umane, ma anche per quelle naturali, ossia l’ominazione, la formazione dell’animale uomo, in quanto animale “sociale” e “parlante”. Scrive Rossi-Landi in Linguistica ed economia (Mimesis, 2016, p. 36-37):

l’ominazione con tutti i processi che la compongono va intesa come affatto antecedente all’uomo. Assumere che, in generale, ci sia nell’individuo umano qualcosa di già formato significare negare l’interpretazione storico-materialistica dell’ominazione. Ciò vale quando l’elemento assunto è di tipo spirituale come quando è di tipo biologico: sia che lo riduca a qualcosa che sta al di fuori della storia perché lo sovrasta, sia che lo si riconduca a qualcosa di precedente alla storia e di estraneo ad essa. Studiare l’ominazione in senso storico-materialistico significa invece ricondurre l’uomo a processi comunitari che lo precedono ma poi anche lo accompagnano come uomo in generale […].

 

Programmazione sociale e autonomia individuale

Ora, se una tale impostazione olistica mette fuori gioco l’espressivismo ingenuo e i suoi pregiudizi contrattualistici e mentalistici, essa è confrontata alla difficoltà di rendere conto, da un lato, dell’integrazione del nuovo venuto in una totalità di senso connessa a una data società e una data lingua, e, dall’altro, della capacità di quest’ultimo di esercitare, nel corso di questa integrazione, un’autonomia e persino una critica nei confronti delle norme acquisite. Si tratta di concepire come possono convivere il carattere sociale e globale dei significati, e nello stesso tempo la capacità di gruppo o individuale di metterli in discussione, senza fare riferimento a un’interiorità di tipo extrastorico (naturale, biologico, pre-sociale) o sovrastorico (spirituale, razionale – in senso kantiano -, ecc.).

Per quanto riguarda il processo di integrazione, Rossi-Landi parla di programmazione e di programmi. In Ideologia (Isedi, 1978, p. 198), scrive: “Gli individui imparano cioè a eseguire programmi che sono stati elaborati da precedente lavoro umano sociale. Si diventa membri della società in quanto, anche senza saperlo, se ne accettano i prodotti e si impara ad adoperarli”. È il necessario apprendimento dei “programmi” che permette sia all’individuo di interagire con la società già costituita, sia a quest’ultima di conservare la coesione dei gruppi sociali e dei valori. Il rapporto dei singoli gruppi sociali alla programmazione non è, però, privo di conseguenze sul piano ideologico e politico. Il fatto di aver sottolineato questo aspetto è probabilmente l’apporto più importante di Rossi-Landi alle concezioni olistiche del sociale. In questo quadro concettuale, egli inserisce il concetto (storico-materialistico) di “classe dominante”, “come la classe che possiede il controllo dell’emissione e circolazione dei messaggi verbali costitutivi di una data comunità” (in Semiotica e ideologia, pp. 205-206). La programmazione sociale, quindi, è sempre ideologica, in quanto favorisce un gruppo sociale (la classe dominante[2]) a scapito di un altro (la classe dominata). Ciò significa, allora, che la partecipazione degli individui alla comunicazione (il loro specifico lavoro linguistico per produrre enunciati) è inevitabilmente alienato.

Giunto su questo terreno, il pensiero di Rossi-Landi sembra preso in un movimento contraddittorio: è indispensabile accrescere la consapevolezza del condizionamento sociale, ossia del peso della dominazione di classe, additando ogni aspetto della vita sociale e discorsiva in cui essa è presente, ma, nello stesso tempo, è necessario elaborare un quadro concettuale che implichi la possibilità per individui o gruppi sociali di emanciparsi da essa. Ritroviamo il rischio di ogni enfasi messa sul potere delle strutture sovrapersonali – sistemi semiotici o dispositivi specifici di “fabbricazione” della soggettività di tipo foucaultiano. Come si sfugge, in tale prospettiva, all’alienazione diffusa, conquistando una forma di autonomia individuale? Rossi-Landi cerca di sciogliere questo nodo, affermando che, nonostante ogni interazione verbale o non-verbale sia frutto di programmazione sociale, è possibile concepire programmazioni innovative, e soprattutto programmazioni liberatorie. Non è, però, così chiaro come un soggetto individuale o collettivo passi dalla semplice esecuzione di un programma ereditato, a un programma liberatorio e di rottura. Ma questo è un problema tipico di una concezione olistica del mentale (e della società). In un saggio dedicato a Descombes (“L’apport de la philosophie de Vincent Descombes aux sciences sociales”), inserito in un libro collettivo del 2020 (Le social et l’esprit, a cura di F. Callegaro e J. Xie, éditions EHSSS, p. 21) Alain Ehrenberg, Irène Théry e Philippe Urfalino lo individuano lucidamente: “Come conciliare la constatazione di un’iscrizione del pensiero individuale nell’universo sociale che lo precede e lo oltrepassa (…) ?” Come insomma lasciare uno spazio di autonomia all’interno di pratiche non verbali e verbali interamente condizionate da un sistema sociale e dalla sua ideologia?

M’interessa considerare a questo punto se, in Rossi-Landi, la poesia possa svolgere un qualche ruolo di emancipazione, di apertura oltre la programmazione sociale ereditata. D’altra parte, la principale dimensione politica insita nella poesia risiede proprio nella pretesa di aprire uno specifico spazio – ritualizzato finché si vuole – in cui sia possibile verificare un’esteriorità almeno relativa del parlante rispetto al codice discorsivo a cui è sottoposto. Ora, come già ricordato all’inizio, tale pretesa attraversa, dalla modernità in poi, sia il campo del genere lirico sia quello delle rotture avanguardistiche. Nel saggio introduttivo al suo recentissimo libro, Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale (Interlinea, 2023, p. 8), è ancora Italo Testa, con riferimento ad Adorno, a ricordarlo: il dire poetico autorizza la speranza in un mondo che ancora non c’è (e che esso comunque non può realizzare): “Ciò non riguarda necessariamente un contenuto utopico determinato, ma investe l’aspetto controfattuale della forma poetica, quella possibilità di mettere a distanza il mondo (…)”.

Perché questa ipotesi di lavoro linguistico specificatamente “poetico” abbia senso, bisogna capire come sfuggire al condizionamento storico-ideologico della lingua, che secondo Rossi-Landi “raggiunge un punto in cui è il linguaggio che si serve di noi” (in Linguistica ed economia, cit., p. 275). Se, insomma, è la lingua dei dominanti che ci parla, non solo ogni forma di critica radicale e contestazione della società esistente è compromessa, ma persino quella “distanza dal mondo”, che la pratica poetica cerca di mettere in scena, di ritualizzare. Ma proprio quando il nostro autore nega al parlante comune un contributo di tipo “creativistico” (nato nella sua libera interiorità), anche valorizza circostanze in cui può avvenire una “messa a distanza” del mondo. Quest’ultima si realizza in un primo tempo non attraverso una “magica” capacità di saltare al di fuori della lingua e dei significati comuni, contrapponendo loro qualcosa di più autentico, intimo, privato, o un semplice gesto di negazione indifferenziata. Come dice Rossi-Landi, il primo passo verso l’emancipazione consiste in un “accrescimento della programmazione umana” (in Ideologia, cit., p. 199) ossia in una presa di coscienza di tutto quanto è implicito e inconsapevole nel lavoro linguistico ordinario. L’autonomia del parlante comincia, ad esempio, con l’esplicitazione dei modelli di enunciato che egli ripete e riprende. Ma questo processo di “accrescimento della consapevolezza” non si fa a partire da un qualche slancio espressivo individuale o in virtù di qualche innata chiaroveggenza dell’intelletto, ma attraverso uno specifico e ulteriore lavoro linguistico sui significati e i modelli di enunciato condivisi socialmente. Scrive Rossi-Landi, in Linguistica ed economia (cit., p. 102):

Per diventare consci dei programmi per l’uso degli artefatti linguistici dobbiamo studiare il funzionamento delle cose che sono già state prodotte. Il singolo lavoratore linguistico raramente procede dai programmi per l’uso ai modelli di produzione, passando sugli artefatti a ritroso, sebbene questo non sia impossibile. Di solito accade solo nella ricerca, nell’invenzione di parole nuove che soddisfano un nuovo bisogno sociale, e nel caso della cosiddetta “creazione” poetica (modificazioni riportate a programmi, o anche ad alcuni modelli di produzione).

Ha quindi ragione chi, nell’universo del consumo letterario, denuncia la poesia come un genere “sbagliato”, elitario o autoreferenziale, in quanto l’enunciato poetico inceppa, rallenta, a volte rende impossibile il normale sviluppo della comunicazione, chiedendo al lettore una complicità in questa operazione di allontanamento da tutto quanto è percepito nella programmazione linguistica come “familiare”, “naturale”, “ovvio”. D’altra parte, la voce “ideologica”, accordata alla concezione dominante di letteratura, dicendo quel che dice, va anche incontro a una contraddizione. Da un lato, si addita l’incresciosa situazione del prodotto “poetico”, che non è una merce letteraria di consumo facile e familiare (friendly, come dicono gli anglosassoni) come invece lo è il romanzo, dall’altro, si denuncia spesso il fatto che “tutti sono poeti”, tutti scrivono, e quindi nessuno legge la poesia. Se questo è anche solo in parte vero, significa che, nonostante le riserve dei critici e degli editori, la “poesia” fa parte di un programma sociale di comunicazione, è qualcosa di condiviso nelle sue linee più generali, anche se i suoi prodotti più “lavorati” (secondo procedimenti di esplicitazione critica) non sono a volte neppure riconosciuti come legittimi frutti di questo programma.

Vediamo di trarre, ora, qualche conclusione da questo percorso attraverso Rossi-Landi e l’olismo antropologico. In primo luogo, sia i testi poetici inscritti nel paradigma lirico sia quelli inscritti in quello delle avanguardie, fanno riferimento a tradizioni, ossia a forme di programmazione sociale, che implicano, a partire dal discorso e dai significati comuni, uno specifico “lavoro linguistico” del “poeta”. Quest’ultimo si trova di fronte a dei programmi “inscatolati” gli uni negli altri, e quindi non solo lavora sui significati comuni, ma anche sugli specifici modelli di enunciato che vengono dalle tradizioni poetiche a cui ha accesso storicamente. Lo “stile” individuale, allora, è semplicemente uno specifico lavoro linguistico, atto a individualizzare l’enunciato poetico, non certo il riflesso di una singolarità biologica, che, in modo misterioso, si tradurrebbe direttamente nel linguaggio. Opporre, allora, la “scrittura” allo “stile” in un’ottica barthesiana, significa semplicemente indicare un diverso orientamento del lavoro linguistico. Non si tratta, quindi, di annunciare la sparizione del soggetto, quanto di sospendere – grazie a un’accresciuta consapevolezza – una serie di automatismi che il perseguimento dello stile personale ha sedimentato nel codice lirico. È su questo terreno che, per un critico attento alla contemporaneità come Gianluca Picconi, si gioca oggi la possibilità di una poesia di ricerca e in particolar modo di un’attitudine “non-assertiva”. Scrive Picconi in La cornice e il testo. Pragmatica della non-assertività (Tic Edzioni, p. 22): “La scrittura non-assertiva potrebbe essere allora il tentativo di determinare il passaggio, in poesia, da stile a scrittura: eliminazione delle componenti individuali irriflesse e istintive, per lasciare spazio a una progettazione capillare ma disindividualizzata dell’oggetto letterario. Disindividualizzare, in particolare, la funzione del testo più cogente alla lirica, ossia l’autore”. Dobbiamo solo precisare, in virtù del discorso fatto fino ad ora, che quelle “componenti individuali” sono “irriflesse e istintive”, come lo sono tutta una serie di attitudini inscritte in un dato programma sociale, attitudini cioè non ancora sottoposte a esplicitazione e distanziamento critico.

Ciò che oggi cerchiamo di definire come il campo della poesia “di ricerca”, è un tipo di lavoro linguistico, interno al programma moderno della poesia, ma che opera simultaneamente su almeno due fronti: quello degli automatismi linguistici del discorso ordinario e quello degli automatismi linguistici insiti nella tradizione del genere letterario a cui fa riferimento. Se la poesia di ricerca e la poesia lirica condividono, in fondo, gli ideali moderni dell’emancipazione, la prima considera che l’affrancamento deve realizzarsi anche rispetto ai caratteri inevitabilmente ideologici (e quindi storici e convenzionali) connessi con lo specifico discorso poetico. Così è stato con la grande crisi della metrica tradizionale, tra fine Ottocento e primo Novecento; così è oggi, ad esempio, con la crisi (o la cancellazione) della distinzione tra verso e prosa nelle scritture poetiche contemporanee. Una tale situazione non sancisce la fine della poesia come istituto sociale ancora prima che letterario – del resto, non è certo un gruppo di poeti, pur talentuosi e innovatori, che potrà farlo. Essa mostra, semmai, che il processo d’individualizzazione dell’enunciato poetico può avere tutt’ora un senso, ma si realizza attraverso prosaici procedimenti o dispositivi, che poco hanno a che fare con la singolarità biologica del poeta, e molto, invece, con lavorazioni linguistiche specifiche che ambiscono sia a modificare il programma sociale della poesia sia i modelli di enunciati che essa veicola. Anche la poesia di ricerca, quindi, essendo frutto di lavoro linguistico, implica un’intenzionalità soggettiva, e non si realizza in forme anonime o de-soggettivate – questo potrebbe avvenire nei casi di poesia realizzata attraverso l’Intelligenza Artificiale, somma espressione di automatismi linguistici. Quello che rischia di sparire dall’orizzonte è allora soltanto il presupposto ideologico di ogni lavorazione su programmi e modelli linguistico-letterari, ossia quella singolarità extrastorica – sostrato biologico o psicologico – di un autore, garante di uno stile fatalmente unico.

 

[1] Una forma non ingenua di espressivismo è quella elaborata dal filosofo canadese Charles Taylor, che cerca di comprendere gli ideali espressivisti attraverso una genealogia della modernità e di fornirne una descrizione, che integri gli apporti della “svolta linguistica”. L’espressione di sé è allora un’articolazione personale, realizzata attraverso il linguaggio comune, di modelli, norme, valori ereditati dalla società (moderna) in cui viviamo.

[2] Oggi possiamo complicare lo schema marxiano classe dominante-classe dominata, inserendo altre partizioni e subordinazioni sociali: di genere, di orientamento sessuale, relative al gruppo etnico.

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“Rossi-Landi: programmazione sociale e poesia” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Circa 70 anni: il tempo necessario agli editori per trasformarsi

Gli accordi trasformativi  nascono con l’intento di “indirizzare” la comunicazione scientifica, prevalentemente chiusa dietro paywall,  verso l’accesso aperto. Si chiamano trasformativi perché gli editori dovrebbero a poco a poco trasformare il proprio modello di business da read only a publish, attraverso una fase, quella attuale di read and publish. Si chiamano anche transitori, perché la fase di passaggio ha una durata limitata, dopo la quale il journal o l’editore deve attuare la trasformazione in gold open access. Almeno questo era l’intento di chi ha lanciato e sostenuto il modello. Una revisione di questo costoso modello commissionato dal JISC nel Regno Unito, ha rivelato che questa trasformazione potrà avvenire solo fra più di 70 anni.

Nulla di quanto era stato annunciato è avvenuto, i contratti trasformativi non hanno facilitato la trasformazione dei grandi editori, né tantomeno si vede la fine della loro transitorietà. Al punto che la coalizione che maggiormente aveva sostenuto questi contratti (Coalition S) ha decretato la indisponibilità a finanziare articoli ed editori trasformativi (che non si sono trasformati) a partire dal 2025.

The fact that so many titles were unable to meet their OA growth targets suggests that for some publishers, the transition to full and immediate open access is unlikely to happen in a reasonable timeframe.  As cOAlition S was seeking to encourage a time-limited transition, the decision to terminate this programme at the end of 2024 appears well-founded.

Nei diversi Paesi europei questi accordi sono stati affrontati in maniera consortile, cioè le contrattazioni sono state gestite in maniera collettiva per potere avere più peso nelle discussioni con gli editori: in Germania il consorzio è Project DEAL, in Svezia è Bibsam,  in Francia è Couperin , in Spagna CSIC CRUE, in Italia Crui CARE.

A 8 anni dal primo contratto trasformativo (concluso con Springer)  il consorzio britannico ha commissionato una critical review per valutare gli effetti delle politiche implementate, i risultati raggiunti rispetto a quelli attesi, l’incidenza dei costi.

Un report molto approfondito e dettagliato, di cui però per motivi confidenziali non abbiamo a disposizione i dati.

Scopo della review era di stabilire la crescita delle proporzione di lavori in accesso aperto in UK dopo la introduzione della misura dei contratti trasformativi, ma anche il contributo del Regno Unito all’open access a livello globale.

Come sappiamo l’open access ai risultati di ricerca è richiesto obbligatoriamente da molti enti finanziatori della ricerca, e anche questa è una dimensione che è stata misurata, così come la transitorietà di questa tipologia di contratti.

Uno dei punti che è rimasto sottotraccia, anche se implicito nei risultati, è il fatto che questa tipologia di contratti non ha minimamente modificato la comunicazione scientifica, e quel sistema considerato problematico dalle comunità disciplinari stesse, non si è minimamente modificato.

Stiamo parlando di un sistema in cui proliferano le paper mills, le review mills, in cui lo scorso anno abbiamo assistito a più di 10mila retractions  raggiungendo un record tristemente negativo.

Se pensiamo che uno dei motivi per cui il movimento dell’open access è iniziato era riuscire a modificare le modalità di comunicazione e disseminazione della ricerca scientifica, certamente questo risultato non è stato raggiunto. Nonostante lo sviluppo di infrastrutture pubbliche scholar-led, l’editoria tradizionale e proprietaria assorbe ancora la maggior parte dei fondi a disposizione per la comunicazione scientifica.

Il report sottolinea i successi della misura adottata dal Regno Unito, una misura che solo nel 2022 è costata 137 milioni di sterline. La percentuale di articoli open access è aumentata, dal 21% al 46%, ma è purtroppo aumentato anche il numero assoluto degli articoli che stanno dietro paywall, e in alcune aree disciplinari ciò si è accompagnato ad una diminuzione degli articoli archiviati in modalità green open access.

In pratica uno degli effetti degli accordi trasformativi è stata una diminuzione  degli Author accepted manuscripts archiviati nei repositories istituzionali, il che è un peccato perché il green è un modello di business che non ha costi per gli autori, che per questo è inclusivo e gli archivi istituzionali sono dei buonissimi strumenti di disseminazione delle ricerche.

Il report fa una serie di analisi anche sui costi parlando di alcuni risparmi che però non possono essere verificati per via della confidenzialità dei dati e che sembrano non considerare come sarebbe stato uno scenario differente: e cioè la incidenza dell’open access green in assenza degli accordi trasformativi (ricordiamo che la maggior parte delle università del Regno unito ha definito una policiy di rights retention strategy, per cui agli autori ogni istituzione chiede di non cedere i diritti di ripubblicazione dell’author accepted manuscript nell’archivio istituzionale della istituzione.)

Gli estensori esprimono significant concerns sulla sostenibilità dei contratti trasformativi a lungo termine.

Ma vediamo cosa ci dice il report sul focus di questi contratti che è la transitorietà.

La auspicata transizione sarà possibile ma solo in presenza di una massa critica a livello globale che ora non esiste, sia perché ci sono parti del mondo che non possono permettersi questi costosissimi contratti, sia perché altre parti del mondo non vogliono sostenere questo modello di business.

Piuttosto preoccupante risulta essere questa affermazione: Based on the journal flipping rates observed between 2018 and 2022 it would take at least 70 years for the big five publishers to flip their TA titles to OA.

Sembra uno scherzo ma non lo è. La transizione che avrebbe dovuto durare qualche anno, ora pare richiedere almeno 70 anni.

Non è l’unico elemento critico. Molti editori, sempre secondo il report, non hanno una roadmap definita rispetto all’accesso aperto, inoltre sembra che nonostante la grande quantità di accordi trasformativi conclusi, molti articoli manchino all’appello “in 2022 21894 missed articles could have been published via the relevant TAs”.

Le strategie di pubblicazione degli autori non si sono minimamente modificate: The top four publishers (Elsevier, Springer Nature, Wiley and T&F) together account fur just under 50% of all articles published.

Il report si conclude con alcune raccomandazioni:

la necessità di individuare ulteriori indicatori che permettano di dimostrare “a commitment to equity”

l’opportunità per istituzioni e finanziatori di ripensare attraverso questa revisione critica e i nuovi indicatori di equità modelli futuri che eliminino i paywalls e facilitino la inclusione

lo spostamento di fondi da accordi trasformativi inefficienti verso modelli alternativi.

Al di là dei risultati che in fondo non sembrano essere quelli sperati (infatti l’open access a qualsiasi costo non può essere una soluzione praticabile), poter avere dei dati e delle proiezioni su cui ragionare è fondamentale per i futuri indirizzi strategici di un paese. Il modello adottato nel Regno Unito ha assorbito cifre consistenti di denaro pubblico e quindi è sembrato necessario rendicontare i risultati e gli effetti delle politiche implementate. Questi risultati possono essere inoltre utili anche ad altri paesi che hanno intrapreso in maniera decisa la stessa strada (come ad esempio l’Italia), per avviare studi e riflessioni analoghi.

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“Circa 70 anni: il tempo necessario agli editori per trasformarsi” è stato scritto da Paola Galimberti e pubblicato su ROARS.

ADDIO ALL’INVERNO

di Cécile Wajsbrot

(NdR Il testo che segue, letto dall’autrice lo scorso agosto all’Accademia delle Arti di Berlino, è apparso nel numero 21 della rivista Journal der Künste, periodico della stessa istituzione. La traduzione è di Stefano Zangrando)

1552 – Pantagruele e i suoi compagni raggiungono il confine con il mar Glaciale, quando ad un tratto odono delle grida. Tutt’attorno non vedono nulla e nessuno, ovunque c’è solo l’oceano. Sono terrorizzati, alcuni vogliono fuggire. Il timoniere, tuttavia, li riporta alla calma. Quelle che sentite sono le parole di una battaglia che ha avuto luogo lo scorso inverno, parole che il freddo ha congelato. Ora che il tempo si è fatto più mite, le parole si scongelano, ma i combattenti sono spariti da un pezzo.

Fine del XXI secolo – In conseguenza del riscaldamento globale la calotta di ghiaccio del Polo Nord si è sciolta facendo salire il livello del mare, il Giappone è stato sommerso, Venezia inghiottita e a Parigi regna un clima tropicale per la gioia dei flâneur nel Giardino delle Tuileries, divenuto una foresta di bambù. Al Grand Palais si tiene la Conferenza Annuale per la Stabilizzazione del Clima –  la cui comunicazione è affidata a una nota società, Panem et Circenses. Ma le cose si complicano, perché sono in ballo grossi interessi economici.

1999 – Il romanzo Greenhouse Summer di Norman Spinrad, tradotto in italiano con il titolo Condizione Venere e dal quale proviene questa visione degli effetti del riscaldamento globale, esce nell’anno della tempesta Lothar, che subito dopo Natale distruggerà gli alberi delle Tuileries, quelli dei giardini di Versailles e delle foreste della Francia occidentale – centoquaranta milioni di metri cubi di bosco abbattuti. A Parigi il vento soffia fino a 200 chilometri orari.

Agosto 2023 – E noi qui, oggi, più avvezzi alle immagini della catastrofe che alle parole che la designano. Alberi sradicati, strade squarciate, dighe distrutte, onde colossali, paesaggi alluvionati, città devastate. Le immagini che scorrono sempre più spesso sui nostri schermi rendono pressoché inutili i commenti fuoricampo. Eppure le parole hanno qualcosa da dire. Noi che scriviamo lo sappiamo bene.

1816, l’anno senza estate – In una lettera alla sorellastra, Mary Shelley descrive la propria ascesa sulle Alpi, «nel pieno di una violenta tempesta di pioggia e vento». Pochi giorni dopo, la vista sul lago di Ginevra si ammanta di neve. Fra l’aprile e il settembre 1816 piove per trenta giorni. In quell’estate Byron, Shelley e Mary Shelley, costretti in casa dal maltempo, per combattere la noia decidono di scrivere una storia di fantasmi ciascuno. È l’atto di nascita di Frankenstein.

Aprile 1815 – Il Tambora, un vulcano indonesiano, erutta. Piogge di pietra pomice, immense colate di lava, una colonna di fumo alta quarantaquattro chilometri, i corpuscoli di polvere giungono a cadere nell’emisfero nord-americano e nel nord dell’Europa. Nell’estate 1816 le temperature calano di mezzo, quando non di un intero grado, provocando cattivi raccolti in Svizzera e Germania, e carestie che provocano agitazioni. Le tinte irreali dei cieli di Turner hanno forse la loro sorgente nelle condizioni climatiche provocate dall’eruzione.

2050 – Il passaggio a nord-ovest, il passaggio a nord-est cercato a lungo e che ha provocato tanti morti, naufragi e spedizioni, il passaggio tra Siberia e Alaska: tutto questo è sempre navigabile. In estate l’Artico è libero dal ghiaccio e la spartizione delle acque e delle risorse ha portato tensioni e conflitti fra i paesi dell’estremo nord.

1866 – In un lungo preambolo a I lavoratori del mare intitolato L’arcipelago della Manche, Victor Hugo nel capitolo venti scrive: «Il mare edifica e demolisce; l’uomo aiuta il mare non a costruire, ma a distruggere […]. Tutto sotto di lui si modifica e cambia, ora in meglio, ora in peggio. Qui trasfigura, lì deturpa». Victor Hugo sa che l’umanità è entrata nell’era dell’Antropocene, anche se questa parola non esiste ancora. E dopo un passaggio che glorifica il progresso, avverte: «Tuttavia non dovremmo sopravvalutare il nostro potere. Ciò che facciamo non va oltre la superficie. L’uomo veste o sveste la Terra, un disboscamento è un indumento dismesso. Ma rallentare la rotazione del globo sul suo asse, accelerarne la corsa intorno alla sua orbita […], modificare la processione degli equinozi, cancellare una goccia di pioggia, giammai […]. L’uomo può cambiare il clima, ma non la stagione».

Oggi – Già allora, si è tentati di dire leggendo queste frasi di Victor Hugo – e ogni volta che qualcuno dà prova di preveggenza o di lucidità. Già allora – Aldous Huxley che negli anni cinquanta del ventesimo secolo ci mette in guardia dai rischi della sovrappopolazione. Già allora – queste righe tratte da Primavera silenziosa di Rachel Carson, scritte nel 1962: «L’aggressione più allarmante compiuta dall’uomo nei confronti dell’ambiente è la contaminazione dell’atmosfera, del suolo, dei fiumi e dei mari con sostanze pericolose e persino mortali». Già allora, diranno gli esseri umani nel 2065, se ce ne saranno ancora, leggendo i libri di coloro che al volgere del XX secolo, o all’inizio del XXI, avevano messo in guardia dagli effetti dannosi dei gas serra, e ascoltando le voci di coloro che chiedevano di mettere al bando il diesel, di chi sperava di limitare il riscaldamento medio globale a meno di due gradi, mentre avrà raggiunto già i cinque o sei. Già allora, diranno se avranno accesso ai documenti delle conferenze sul clima tenute a partire da quella di Rio nel 1992. Lo sapevano, diranno, e sospirando aggiungeranno: perché non hanno fatto niente?

Da sempre – la metafora guida l’immaginazione. I paesaggi dei dipinti e dei libri nascono da estrapolazioni dai paesaggi reali che attraversiamo. Li interpretiamo, ne carichiamo le tinte, li rendiamo puri. Un inverno particolarmente freddo dà inizio a un’era glaciale, il cielo scuro di un paesaggio nevoso diviene di un verde singolare. La guerra fredda, l’acqua raffreddata dei reattori nucleari, produce infiniti paesaggi ghiacciati che perfino gli eroi più intrepidi dei film catastrofici domano solo con grande fatica.

Nel XXI secolo potremo ancora scrivere l’inverno, sapremo ancora leggerlo, comprenderemo ancora i dipinti e i libri che lo illustrano? Consapevoli come siamo di una possibile scomparsa della specie umana in un futuro che non si calcola più in millenni o secoli, ma in decenni, rassomigliamo, torniamo simili agli Aztechi che di notte vegliavano colmi d’angoscia spiando la riapparizione del sole. La notte del mondo incombe, e il passato ci mostra la via del futuro. È la paura che estende il proprio influsso. Con gli occhi spalancati osserviamo ciò che accade oggi, sappiamo, e anticipiamo – nelle previsioni scientifiche come nei racconti di science fiction. Sappiamo – e allora, che cosa faremo?

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“ADDIO ALL’INVERNO” è stato scritto da giacomo sartori e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

L’orgoglio della modestia

di Gianni Biondillo

È fin troppo facile non apprezzare l’architettura del Movimento Moderno. Non un orpello, non un fregio, un linguaggio formale all’apparenza basico, senza fronzoli, senza inventiva. Finestra ritagliate su pareti bianche, tetti piani, pilastri senza capitelli. Di tutt’altra pasta le architetture coeve o di solo pochi anni prima: colonne in pietra, archi, sculture magniloquenti, balconi in ferro battuto. Una bellezza esibita, ricca, enfatica. Sarebbe facile, dicevo, ma sarebbe ingeneroso. Senza contestualizzare ci rifugeremmo in una lettura della cose puramente estetica e nostalgica: com’erano belle le architetture del passato, come sono brutte quelle della modernità! Ma quella generazione di artisti, che sapeva benissimo progettare usando gli stili dell’eclettismo, aborriva quel modo di pensare l’arte non per ragioni estetiche ma per ragioni etiche. Progettare case per ricchi era di certo più proficuo per la loro carriera professionale. Solo che le risorse a disposizione – artigiani, materie prime, tecnologie – erano infinite unicamente per chi se lo poteva permettere. Quella generazione comprese che era immorale progettare palazzi di una ricchezza esibita e volgare, quando la massa popolare, il proletariato, i poveri, vivevano nelle nostre città in condizioni abitative disperate, al limite della sussistenza.

Il tema era, a parità di risorse a disposizione, progettare una casa decorosa per tutti. Indipendentemente dal censo o dalla classe sociale. Era una questione etica, appunto. Il tema dell’existentzminimum, tanto dibattuto in quegli anni, voleva definire quali fossero le condizioni essenziali di un nucleo famigliare affinché non mancasse nulla alla loro civile convivenza: acqua corrente, bagni, igiene, riscaldamento, luce naturale, ricambio d’aria. Cose che i ricchi, quelli che riempivano di fregi le facciate delle loro case, avevano già, ma che alla stragrande maggioranza delle popolazioni urbane mancavano. Quindi, piuttosto che baloccarsi con l’ennesimo esperimento formale, bisognava cambiare il gusto sia delle classi dirigenti che di quelle popolari. Avere, come ebbe a scrivere Lionello Venturi, l’orgoglio della modestia. Concepire il progetto come il luogo dove la qualità fosse a disposizione di tutti e non di pochi eletti. Usare materiali di facile reperibilità, di basso costo, replicabili, e concentrare tutti gli sforzi per estrarne bellezza, attraverso la funzionalità. È la base dell’idea del design che accompagnerà l’intero novecento: immaginare una lampada, un piano cottura o una poltrona, utilizzabili sia dal borghese che dall’operaio. Una vera e propria democrazia delle risorse estetiche.

Il razionalismo, insomma, non era contrario alla tradizione ma al tradizionalismo. La mostra fotografica sull’architettura vernacolare di Giuseppe Pagano alla VI Triennale lo dimostra in modo palmare: non erano gli stili del passato che lo interessavano, ma come, in una ristrettezza di risorse, la cultura popolare avesse trovato le più razionali soluzioni tecnologiche, trasformandole in soluzioni formali.

Nel secondo dopoguerra, le seconde e terze case, le borgate abusive, le palazzate abusive e le villettopoli cresciute indiscriminatamente, sono state molto più devastanti sul nostro paesaggio così fragile che le tanto vituperate periferie urbane. Il “Piano Fanfani”, quanto meno, voleva dare una casa a tutti, pensandola come un diritto. Oggi il valore d’uso è stato soppiantato dal valore di scambio. Si costruisce non per fare case ma per fare cassa, in una nazione dove non c’è bisogno di costruire più nulla. Oggi le più avvedute avanguardie, memori della lezione etica dei maestri, non progettano il nuovo ma rimettono in gioco e riqualificano il già esistente. Piuttosto che sfoggiare ennesime, leziose torri tortili in vetro e acciaio, ammantate di un peloso greenwashing, occorre tornare all’orgoglio della modestia. Porsi eticamente in una realtà dalle risorse scarse, sfidando dal punto di vista della progettazione una realtà ipercostruita. Progetto sostenibile, stop al consumo di suolo e cubatura zero dovranno essere i nuovi imperativi. E chi se ne frega del bello stile.

(precedentemente pubblicato su Il Corriere della sera-Design del 22-11-23)

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“L’orgoglio della modestia” è stato scritto da gianni biondillo e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Calendario della Wu Ming Foundation, Marzo–Aprile 2024

Da oggi torniamo a una prassi che era in auge su Giap diversi anni fa: la pubblicazione del calendario bimestrale degli appuntamenti. Come già scritto, per noi il 2024 sarà molto meno gironzolevole degli anni precedenti. Le trasferte sono ridotte ai minimi termini, per via di scritture in corso che richiedono il massimo della concentrazione. […]

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“Calendario della Wu Ming Foundation, Marzo–Aprile 2024” è stato scritto da Wu Ming e pubblicato su Giap.

Sessantacinque anni

[Per Besa è uscito Il diario delle mie sparizioni, di Daniele Comberiati. Pubblichiamo un estratto del primo racconto, dal titolo Sessantacinque anni].

di Daniele Comberiati

           SESSANTACINQUE ANNI

            Il Dépanneur

Ero passato dal Dépanneur un venerdì pomeriggio, pensando di trovarlo chiuso. Il classico atto mancato, mi dicevo parcheggiando la macchina. In realtà, speravo che sarebbe stato chiuso ma avevo promesso a mia moglie che ci sarei andato in settimana. Si trovava nella vecchia zona industriale della città, ormai da anni, se non da decenni, in disuso. Quando ero ragazzino c’erano ancora i meccanici, soprattutto di motociclette elettriche – i veicoli a benzina stavano già scomparendo – e con i miei ci eravamo andati quattro o cinque volte, a mia memoria sempre il sabato pomeriggio, quando non c’erano eventi organizzati, non avevo compiti da fare e, affinché non passassi ore attaccato al telefono, mio padre mi costringeva a uscire con lui. Comprava i pezzi di ricambio per la moto e i catarifrangenti colorati per le nostre biciclette, che non erano a norma – infatti li aggiungevamo a quelli comunali, non potevamo sostituirli – ma erano verdi o gialli e a me e mia cugina piacevano tantissimo. Io però, che avevo due anni più di lei, già li usavo meno (la bici mi serviva solo per andare al liceo e al centro civico) e passavo quei pomeriggi ad annoiarmi. Se veniva pure mia cugina era anche peggio perché mio padre iniziava a fare i confronti – vedi com’è sorridente lei? Devi sempre rovinare tutto con il tuo carattere? – e io mi immusonivo ancora di più. Le ultime volte ci eravamo andati noi due soli (anche mia cugina stava crescendo e, siccome mio padre era solo suo zio, non poteva certo obbligarla) e mi ricordo pomeriggi polverosi e annoiati in cui io non potevo rimanere in macchina e lo ascoltavo discutere sulla possibilità di comprare al mercato nero una targa valida per l’estero. «Ormai non le vendono più o sono carissime» gli rispondeva uno dei meccanici, attento a non farsi sentire. L’ultima volta avevano tutti la stessa tuta blu acido con due fasce gialle sugli avambracci.

E comunque quelle vecchie fabbriche ne avevano attraversate di ere: dal tessile alla produzione chimica, negli anni Settanta. Con la delocalizzazione, le aziende avevano chiuso e i due edifici più grandi avevano ospitato per un’estate la più grande occupazione abitativa della città. La polizia li aveva sgomberati piuttosto in fretta – un giorno umido di fine agosto, quando tutti sembravano aver cose più importanti a cui pensare – ma il quartiere per decenni era rimasto alternativo: un enorme centro sociale, che ospitava concerti punk-rock e festival di fumetto e letteratura indipendenti, aveva preso il posto delle case popolari fin quando, attraverso un movimento lento ma percepibile, anche il centro sociale si era trasformato. Una discoteca alternativa, così dicevano alcuni amici di mio padre che ci erano andati, ma pur sempre una discoteca: un locale in cui si pagava l’ingresso con le cripto-monete, che possedeva i documenti di usufrutto dei terreni, e i cui gestori pagavano le tasse. Della politica rimanevano strofe sparse di alcune canzoni dei gruppi che si esibivano, e i graffiti che imperversavano sui muri delle altre fabbriche. Poi erano rimasti solo i muri a ricordare quei movimenti, mentre i musicisti alternativi erano invecchiati e i prezzi dei biglietti erano triplicati nel giro di mezza estate: la discoteca alternativa era ormai un locale alla moda, e per questo fu spostato al centro della città – stessa gestione, stesso nome, persino stessi buttafuori all’entrata, ma cocktail più cari – allo Shibozu, il quartiere dove, dalle 21 alle 4 e 30 del mattino, si svolgeva tutta la vita notturna. La giustificazione era che alle vecchie fabbriche non ci fossero posti per i parcheggi con le colonnine per le ricariche delle auto elettriche, e che il traffico bloccasse la principale arteria cittadina che dalle 21 alle 22, mentre gli ultimi impiegati tornavano nei quartieri suburbani, era molto trafficata.

Cancellarono l’ultimo graffito dopo il crollo del capitalismo e decisero di metterci gli “Uffizi per le nascite, i decorsi e i decessi”. «È un luogo inclusivo», era lo slogan, «che serve a tutta la città e di cui la popolazione potrà usufruire». In effetti, non era lo stesso quando c’era il centro sociale: la musica dei Porn-corn, per esempio, piaceva a qualche vecchio amico di mio padre ma non a me. Invece agli Uffizi ci dovevamo passare tutti, prima o poi.

Del passato però era rimasto il nome, dagli antichi proprietari belgi di una delle fabbriche, curiosamente la più piccola, che produceva tappi da bottiglia: il Dépanneur.

Non c’era fila perché, l’ho capito dopo, gli uffici non chiudevano mai. H24, sette giorni su sette. La burocrazia perpetua.

«Chi deve registrare?»

«Mio padre…»

«Genere?»

«Mio padre… uomo».

«Ha indisponibilità?»

«Io o lui?»

«Suo padre, ovviamente. Perché non è venuto lui a registrarsi?»

«È arrivato ieri a casa nostra. Si sta ambientando…»

«Sessantaquattro anni precisi, quindi? Lo prenoto fra trecentosessantacinque o trecentosessantasei giorni?»

«Ah, possiamo decidere noi?»

«Certo, anche se teoricamente dovrebbe essere lui a decidere. Ma nei primi due mesi può cambiare, basta inviarci una mail».

«Faccia trecentosessantasei allora».

«Perfetto. Il regolamento con le tariffe e le multe lo ha già suo padre. Si ricordi solo che, dal primo gennaio di quest’anno, ogni giorno di ritardo è punibile con una multa in denaro o con una pena sociale per i figli o i nipoti dell’anziano, qualora i figli avessero ancora a carico prole minore. Lei ha figli?»

«Sì, uno».

«Età?»

«Nove anni».

«In tal caso potrebbe riversare su di lui la pena sociale per il mancato arrivo di suo padre. Raddoppiamento delle tasse universitarie, accesso vietato ad alcune facoltà di prestigio, decurtamento parziale dei primi stipendi…»

«Sì sì ho capito, grazie, non c’è bisogno che faccia la lista».

«Una firma qui… perfetto. Se suo padre non si presenta due mesi dopo la data, la reclusione familiare è obbligatoria e suo figlio sarà ospitato in uno dei centri per minori della città fino a quando non lo ritroviamo. Per le modalità di esecuzione parleremo con suo padre fra sei mesi circa. Gli ricordi di rispondere alle mail; senza risposta procediamo automaticamente con l’iniezione e la cremazione, a meno che non ci siano ragioni religiose contrarie esplicite, ma per queste deve compilare altri documenti».

«No, non mi sembra, mio padre è ateo».

«Perfetto allora. Grazie di essere venuto, e approfitti con suo padre dell’anno spirituale, mi raccomando!»

«Certo, grazie».

Ero ritornato alla macchina sollevato e angosciato al tempo stesso. Risposi a un messaggio di mia moglie: “Tutto a posto al Dépanneur, serve qualcosa per cena?”

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“Sessantacinque anni” è stato scritto da silvia contarini e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Vietare l’uso del bollino di fragilità INVALSI: il reclamo al Garante della Privacy

Mentre nelle scuole iniziano i test Invalsi per gli studenti dell’ultimo anno delle scuole secondarie di secondo grado in Gazzetta Ufficiale viene pubblicato  il decreto 19 del 2 marzo 2024 (PNRR), che inserisce i risultati delle prove Invalsi nel curriculum dello studente. Nel frattempo alcune associazioni e organizzazioni che operano nel mondo della scuola hanno inviato un reclamo al Garante per la Protezione dei Dati Personali sulla classificazione degli alunni “fragili” con cui chiedono di vietare a INVALSI tale trattamento. Riportiamo di seguito il testo del Reclamo con l’elenco delle venti associazioni firmatarie.

AL GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI P.ZZA VENEZIA, 11 00187 ROMA

Reclamo ex art. 77 del Regolamento (Ue) 2016/679 e artt. da 140-bis a 143 del Codice in materia di protezione dei dati personali, recante disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento nazionale al Regolamento

In qualità di associazioni di insegnanti e genitori di alunni residenti in Italia e frequentanti la scuola pubblica italiana, sottoponiamo all’attenzione del Garante le seguenti circostanze, riguardanti il trattamento dei dati associati al nuovo indicatore di fragilità predisposto dall’INVALSI. Riteniamo infatti che classificare gli esiti dei test INVALSI in termini di fragilità individuale, in funzione di un punteggio conseguito algoritmicamente, si configuri come una schedatura impropria in quanto non controllabile, non verificabile né revisionabile per via umana, ovvero non automatizzata.

L’Istituto Nazionale di Valutazione del Sistema di Istruzione, INVALSI, è Titolare del Trattamento e Responsabile della Protezione dei dati: INVALSI con sede in via Ippolito Nievo, n. 35 – CAP 00153 – Roma – C.F.: 920000450582 – Tel. (+39) 06 941851 – fax (+39) 06 94185215 – e-mail: [email protected]. Il Responsabile per la protezione dei dati (o anche “Data Protection Officer” – DPO) nominato da INVALSI è reperibile al seguente indirizzo di posta elettronica: [email protected].

A partire dal 2022, l’INVALSI fornisce a tutte le istituzioni scolastiche un nuovo indicatore individuale, denominato di fragilità, allo scopo di “identificare studenti in condizione di fragilità” in ottica “preventiva, per riconoscere gli alunni che manifestano segnali relativi a potenziali situazioni di disagio, fragilità e abbandono” (1). Tale indicatore è attualmente impiegato come strumento di policy nell’ambito delle azioni previste dal PNRR per la riduzione dei divari territoriali (2). Gli elenchi dei codici identificativi degli studenti “fragili” passano dai database INVALSI alle segreterie scolastiche, che tramite le piattaforme dei registri elettronici (3) associano i rispettivi nomi e cognomi. Agli elenchi in chiaro hanno accesso dirigente e docenti, che possono individuare gli studenti destinati ad attività didattiche differenziate (4), grazie ai finanziamenti destinati alla “lotta alla dispersione scolastica” (5).

Osserviamo quanto segue.

  1. L’attribuzione dei punteggi INVALSI di tutti gli studenti italiani, esclusi i bambini di 7 e 10 anni, che svolgono un test cartaceo, avviene in maniera algoritmica. Le batterie di test sono computerizzate.
  2. La banca dei quesiti INVALSI non è pubblica. Il processo di test assembly non è noto. La compilazione dei test non è replicabile da parte dello studente o del genitore interessato.
  3. La correzione delle domande è gestita in maniera centralizzata. Non sono noti i soggetti che se ne occupano: chi sono i “gruppi di correttori”, gli “assistenti alla codifica” i “table leader” abilitati dall’INVALSI? (6). Non sono note le procedure impiegate né il margine di errore associato alle correzioni. L’emissione dei risultati (livelli) non è verificabile dallo studente che li acquisisce.
  4. Le soglie con cui INVALSI definisce la distinzione algoritmica tra i vari livelli, ovvero la distinzione tra fragili e non fragili, non sono note né ricavabili dalla documentazione istituzionale. Anche il margine di errore statistico di attribuzione dei punteggi non è noto.
  5. Non esistono standard “di competenze” fissati normativamente nel nostro ordinamento, fatta eccezione per i quadri di certificazione linguistica, importati da quelli internazionali. Non esiste alcuna definizione né regolamentazione di quali siano le competenze minime misurabili (7).
  6. L’ informativa dell’INVALSI “in relazione al trattamento dei dati degli studenti ai fini della rilevazione degli apprendimenti” (8) non menziona l’indicatore predittivo di fragilità, non esplicita le finalità, le modalità di trattamento, di diffusione e conservazione delle informazioni contenute in tale indicatore.
  7. Non risultano disciplinati il diritto alla cancellazione, quello di revoca del consenso, il diritto di opposizione al trattamento da parte di chi è, o potrebbe, essere classificato come fragile.
  8. Non risulta nota la stima del livello di rischio associato al trattamento dei dati relativi all’indicatore di fragilità.
  9. Non è possibile, da parte dello studente, esercitare il diritto alla spiegazione e al controllo (articolo 71 GDPR, oltre che articoli da 13 a 15 e 22), ovvero il diritto concreto di ottenere informazioni significative e comprensibili su come il suo punteggio INVALSI sia stato acquisito, chi è responsabile delle correzioni e quali conseguenze comporta il trattamento dei dati di fragilità.
  10. Non risulta possibile una revisione umana del processo di attribuzione del punteggio, e dunque dell’esito della classificazione di fragilità.

Riteniamo pertanto che il nuovo indicatore di fragilità individuale elaborato dall’INVALSI, il suo impiego come strumento di policy e la diffusione/pubblicizzazione degli elenchi degli studenti fragili si configurino come una schedatura individuale impropria, oltre che come una distorsione dagli scopi istituzionali dell’Istituto di Valutazione.

Tutto ciò premesso, i sottoscritti

CHIEDONO

al Garante per la protezione dei dati personali, esaminato il reclamo che precede e ritenutane la fondatezza, di assumere nei confronti di INVALSI ogni opportuno provvedimento e, in particolare, di imporre il divieto di estrazione e di trattamento dei dati “di fragilità” individuale.

 

Le associazioni firmatarie:

Associazione ROARS

Associazione ALaS

Federazione dei Lavoratori della Conoscenza FLC CGIL

USB Scuola

Unicobas Scuola

CUB SUR Scuola

Organizzazione Studenti OSA

Cobas Torino

Cobas Sardegna

Cobas Tuscia

Cobas Terni

Cobas AUTOCONVOCATI

Partito delle Rifondazione Comunista/scuola

Priorità alla Scuola

Ass. Cattive Ragazze

Centro Studi per la Scuola Pubblica CESP Padova

Redazione Professione Docente

Associazione La Nostra Scuola Agorà 33

Associazione Per la Scuola della Repubblica

Associazione Nazionale Docenti AND


 

Di seguito, i materiali richiamati nel testo

(1) https://www.invalsiopen.it/dati-invalsi-contrasto-fragilita-apprendimenti/

(2) https://pnrr.istruzione.it/competenze/riduzione-dei-divari-territoriali/

(3) https://axiositalia.it/wp-content/uploads/2023/03/Invalsi.pdf

(4) https://www.liceopiedimontematese.edu.it/public/files/Risultati_prove_Invalsi_2023_-_Individuazione_alunni_fragili.pdf

https://www.itiscannizzarocolleferro.edu.it/wp-content/uploads/2023/06/progetto-Azioni-di-prevenzione-e-contrasto-alla-dispersione-scolastica-1.pdf

(5)  https://invalsi-areaprove.cineca.it/docs/2022/Istruzioni%20caricamento%20file%20studenti.pdf

(6)  https://blog.deascuola.it/articoli/chi-corregge-le-prove-invalsi

(7) Gli elenchi dei traguardi di competenze sono fissati normativamente solo per il primo ciclo (https://www.miur.gov.it/documents/20182/51310/DM+254_2012.pdf) mentre per il secondo ciclo sono frutto di una selezione operata da un “gruppo di lavoro INVALSI”: vedi https://invalsi-areaprove.cineca.it/docs/file/QdR_MATEMATICA.pdf pag. 10.

(8)  https://invalsi areaprove.cineca.it/docs/2023/Rilevazioni_Nazionali/2023_INFORMATIVA_PROVE_NAZIONALI.pdf

 

 

 

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“Vietare l’uso del bollino di fragilità INVALSI: il reclamo al Garante della Privacy” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.

Non c’è creatura che non sia un popolo

 

Sì, che si sappia:

non c’è creatura che

non sia un popolo.

 

Il dolore è collettivo.

 

Carichiamo in noi

ogni cosa estinta,

ogni debito,

ogni incandescenza

nel    limo opaco di

tutte  le vite negate.

 

***

Partitura visiva di Giuditta Chiaraluce

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“Non c’è creatura che non sia un popolo” è stato scritto da Giorgiomaria Cornelio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Abbattere le frontiere! Apericena benefit

Sabato 16 marzo

c/o Circolo ARCI “Al Bafo” (Piazzetta Bolognini, Seriate)

Ore 20:00

Apericena benefit in sostegno e solidarietà con i compagni e le compagne condannatx per i fatti del Brennero.

Per prenotarsi inviare una mail a: [email protected]

Vi aspettiamo.

Per saperne di più sulla vicenda e la situazione processuale:

Cassazione processo Brennero: rinvio in appello, diversi proscioglimenti e prescrizioni

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“Abbattere le frontiere! Apericena benefit” è stato scritto da underground e pubblicato su Underground.

Note di lettura a «Invernale»

di Valentina Durante

Un figlio racconta gli ultimi anni di vita del padre, macellaio di Porta Palazzo, Torino, a partire da una malattia susseguente a un infortunio sul lavoro. Lo si potrebbe riassumere tutto qui il breve ma intenso Invernale di Dario Voltolini (La nave di Teseo, 2024), nel pacato congedo dalla figura paterna attraverso la giustapposizione di ricordi e frammenti del tentativo di cura e fino all’addio: composto in un finale potente proprio perché misuratissimo. Ma ci si limiterebbe al solo piano di superficie del testo, lasciando in ombra la traiettoria che esso traccia e che conduce non già al distacco, ma piuttosto a un incontro: tra il figlio e il padre, grazie alla scoperta di una lingua di mediazione.

Voltolini narratore assume il suo mandato memorialistico imponendosi due scelte espressive la cui forza e rigore si manifestano già nell’incipit. La prima è l’impiego di una prima persona così defilata da prendere su di sé i caratteri di una terza, mai giudicante. Dario, il figlio che racconta, lo fa per lo più osservando, e come un narratore che nel riportare i fatti non si trattiene dal proclamare la propria inadeguatezza (“non so niente, ma niente! Spaventosamente niente”), quasi uno straniero al cospetto di una conversazione in una lingua non sua (e su questo torneremo).

Strana postura, verrebbe da dire, per un memoir: genere in cui di solito si assiste all’esondazione più vertiginosa dell’io. Voltolini conserva una nettezza di sguardo encomiabile unita a una cautela, quasi una ritrosia nell’accostarsi alla materia narrata, come per il timore di dire troppo, o di dirlo male. Mai si cede alla tentazione del patetismo, il che accresce per contrasto la caratura emotiva del testo, la sua capacità di indagare quel “qualcosa che sta da un’altra parte rispetto alle emozioni e ai sentimenti”.

La seconda scelta è far parlare fin da subito la lingua del padre: lingua solo falsamente muta, tutta composta di silenzi perché tutta consustanziale al corpo. Il padre di Dario – Gino –, nell’esercizio della sua professione è colui che ha accesso privilegiato a un piano di comunicazione con l’altro-da-noi che è più prossimo a noi: l’animale. In uno scambio che articola i due poli estremi dell’esistenza biologica – vita (sopravvivenza, nutrimento) e morte –, in questa lotta fra chi s’impone – l’uomo, il macellaio – e chi si oppone – la bestia, con le sue ossa e i suoi tessuti che esercitano resistenza –, non si arriva mai a separare del tutto i due stati, i due contendenti e i due mondi: “Cara bestia, che arrivi già morta nelle mie mani, io ti seziono, ti riduco in cibo per altri umani come me. Stando al di qua del processo di cottura, quindi ancora nell’atavico, insieme a te.”

Invernale apre con una descrizione lunga ben sette pagine (non poche, nell’economia di un testo che ne conta centotrentadue) del banco macelleria al mercato di Porta Palazzo, con il padre intento al lavoro. È un incipit movimentato, tutto fatto di azioni: spaccare il pollo, l’agnello, il coniglio; spolpare la bestia e tagliare a fette, a fettine, a pezzi, a bistecche, a cotolette; impacchettare, sbattere l’involto sulla bilancia per stabilirne il prezzo, servire il cliente, ritirare il denaro, consegnare il resto. Il gesto funzionale viene assimilato al gesto atletico o artistico, con quei macellai che “colpiscono con la lama” “come batteristi nell’assolo”.

Pur nella natura fortemente dinamica della scena, questa ricchezza descrittiva realizza una tessitura ritmica che riproduce la stabilità della routine, la circolarità del quotidiano. Si dà una forma di paradossale stasi in questa danza armoniosa di corpi vivi e corpi morti, un equilibrio che prelude all’evento che arriverà a turbarlo: per un inciampo in quella coreografia ben rodata, Gino si trancia un dito quasi di netto.

C’è un prima del taglio: descritto fin qui. E c’è dopo un taglio: la malattia. Una malattia finora assente – nonostante la morte –, perché la bestia viene uccisa e macellata, se non sempre al massimo del vigore, comunque mai in una condizione di disfacimento, il quale al limite subentra poi.

Ma c’è un altro contrasto nel capitolo di apertura; un’antitesi più defilata ma non meno significativa che coinvolge il figlio Dario, il quale apprende dell’incidente nel mentre sta “leggiucchiando”. Abbiamo da un lato il linguaggio dei corpi: vivi e morti – si è detto – ma entrambi vitali, portatori di energia e uniti nell’atavico; dall’altro il linguaggio propriamente inteso: quello verbale, mediato dall’intelletto e che trova dimora nei libri. Già inadeguato a ricomprendere il padre nella salute, questo secondo linguaggio – appreso e artificiale – si rivela ancora più inefficace nell’interpretare la malattia. Perché il corpo tenta sì di trovare una sua propria via di comunicazione (“Il dito si gonfia, si infiamma, produce pus. La pelle si tende, si assottiglia, cambia colore.”) assecondando una sua propria intelligenza (“I muscoli, i tendini, i vasi, l’osso e la cartilagine aprono il cantiere della ricostruzione”), ma per decifrare un discorso somatico che sulle prime, a tutti (a Gino, ai famigliari, ai medici…), sembra parlare di guarigione, occorre un’attenzione costante, un’osservazione ripetuta nel tempo.

Serve cioè che l’osservazione si tramuti in ascolto, nell’intercettare scostamenti anche minimi rispetto a rituali forgiati in anni e divenuti uno standard e una norma: “Ecco che il ceppo, che sta lì da anni, è più difficile da raggiungere. I coltelli per disossare hanno lame che tagliano meno, quelle dei coltelli per sezionare, macellare, hanno un tentennamento all’attacco nelle impugnature”. La presa d’atto di una routine che si smaglia (subentrano la stanchezza e la noia – prima quanto inconcepibile! –, e persino qualche stramberia) permette al figlio di comporre un catalogo delle abitudini e delle passioni di quel padre che d’un tratto non è più lui. Sembra un itinerario di auscultazione e diagnosi retrospettiva attraverso la scrittura, ma si dà anche come disvelamento di altro, di un padre sotto la sua superficie – la “piana” fatta di lavoro e pochi extra (la caccia, il calcio, con quel Sivori addirittura incontrato di persona…) –, un padre per così dire in emersione.

Nella malattia che per il momento ancora cova sottotraccia, il corpo sembra non trovare più posizione. Ed ecco che a compensarne lo squilibrio si innesta la parola, però come “verbo”: tanto sporadica, quanto profetica. “Gol” dice Gino a metà dell’azione, mentre guarda con il figlio la partita alla tivù. “E, appunto, gol”.

Trascorrono i mesi, le analisi suggeriscono ma non determinano. Gino è sempre più stanco, e pure cerca di tirare avanti con la vita di sempre. I prodromi di una condizione che si avvia a diventare cronica? A questo punto, sarebbe quasi da auspicarlo. Ma cala la mannaia della diagnosi certa, e allora lo fa sotto l’egida di una parola esterna, persino esotica: “linfosarcoma prolinfocitario”. Lei sì, tutta razionalità e scienza.

Una parola “che non significa niente”, dice Dario: del tutto estranea alla persona di Gino, non risiedendo essa né nel linguaggio del corpo che parla sé stesso, né in quello verbale parco e però intessuto di mistero. E non c’entra nulla neppure con il figlio, ché non appena Dario cerca di ricollocarla nel suo proprio regno – l’ipocondria intellettualistica di Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome – può solo constatare il fallimento, l’inutilità dell’operazione: lì è la letteratura, con le sue trasfigurazioni e sublimazioni, una finzione dove si ride “sonoramente e incontenibilmente”; qui è la malattia reale, posta al centro di un atto di comunione che a questo punto non si vorrebbe (padre e figlio che si scoprono entrambi a consultare la stessa enciclopedia), dove ciò che deve essere detto, alla fine, viene detto: cancro.

Al di là di ciò, il silenzio: “Tutta la camera sta in silenzio, tutta la casa, il condominio, il quartiere, la città, tutto in silenzio”.

Si cerca una cura, e anche questa è un altrove: l’istituto Gustave Roussy di Villejuif, in Francia, vicino a Parigi. “Un posto che non si conosce dove parlano una lingua che non si conosce e dove fanno cose che non si conoscono”.

La lingua è straniera, il medico – forse di origine pakistana – parla giusto un po’ di italiano; anzi, lo “mastica”: lo fa suo e se ne ciba come la carne che il padre, ai tempi della salute, masticava con voluttà e ostentazione ancora cruda, davanti alle clienti, a testimoniarne la freschezza.

Nel mentre i genitori nei loro sempre più frequenti soggiorni a Villejuif apprendono di tumori che possono essere ovunque, persino nella lingua (proprio lei, che non a caso sembra ricomprendere per sineddoche il tutto del corpo), il figlio cerca di sostituirsi al padre al banco macelleria, in quella danza-linguaggio che è il lavoro con le bestie. Ma non può che farlo “ai margini” – constata egli stesso – “miserabilmente”.

E quando, fra una terapia e l’altra, lo stesso Gino si impunta per riprendere il lavoro, tocca prendere atto che la nuova lingua (la nuova realtà) si è già installata di prepotenza nella vecchia, disassandola. Gli scambi di battute con gli altri commercianti perdono leggerezza perché acquistano in profondità: “un ingrediente che tarpa la possibilità della risposta data rapidamente, sveltamente, immediatamente.” In superficie il linguaggio sembra lo stesso, però la dimensione è altra, perché tutta diversa è la prospettiva. Attenzione e concentrazione – che pure resistono – lo fanno come sempre nel silenzio, sparando in giro “qualcosa di sacro e di bestiale”.

Se il padre ha perduto il vigore e la fluidità della sua antica oratoria, dell’uomo che danza sul filo di coltello con la bestia, anche il figlio si ritrova intrappolato in una sorta di afasia. Dario decide di accompagnare i genitori in occasione di una permanenza più lunga a Villejuif, e nell’accostarsi alla realtà di quei posti magari un tempo vagheggiati non gli restano che termini il più ampi e generici possibile: come se le parole venissero apprese a tentoni, persino fabbricate, nel momento stesso in cui le si adopera.

Parigi diventa “la grande città”. Il Louvre è “il museo che imprime il suo senso al nome ‛museo’”.

È la lingua di uno che “non capisce niente” e che non vede niente ma al massimo, dal mondo, può essere guardato e visto, perché tutto è pervaso “dal motivo per cui si trova lì”. Quel significato ottenebra e riassume tutti gli altri: è il significato; è la dialettica fra vita e morte nel momento stesso in cui accade – che poi è il momento che riassume la nostra intera esistenza, salvo che solo durante la malattia – nostra o altrui –ce ne accorgiamo pienamente, il pensiero diventa davvero e tremendamente visibile.

Durante l’ultimo e vano tentativo di terapia, avviene il distacco. Gino muore lontano da casa, in ambulanza, nel viaggio di ritorno, probabilmente nel tratto tra Fointenbleau e Auxerre. Dario non è con lui: è in vacanza con amici, neppure lui si trova a Torino. A casa, l’incontro fra il corpo morto del padre e il corpo vivo del figlio prende sulle prime la forma di un disincontro. Dario è “ancora una volta sulla soglia”: nel silenzio, nell’immobilità. “Eppure gesti, movimenti, rumori” dice, “e persino parole devono esserci. Ci sono, nel freddo del congelamento. C’è però soprattutto il congelamento”.

Come già in vita, l’unico linguaggio che appaia ammissibile è quello fisico: lo sa bene il fratello di Gino, che “allunga una mano e gli strizza le dita di un piede.” Un saluto muto ed eloquentissimo, “il gesto di un professionista estremo, che con un tocco sa valutare la qualità del bestiame, vivo o già macellato, un gesto che può permettersi solo chi ha ormai raggiunto un’esperienza assoluta in un campo precisissimo”.

Proprio questo gesto scaglia Dario distante. Lo respinge nel freddo siderale di un punto sperduto del cosmo, perché è un gesto che non gli appartiene, che non ha mai saputo apprendere né padroneggiare, un gesto che lo priva della parola rendendolo estraneo a suo padre forse più che la (terribile) sentenza consegnatagli dal nonno: “E tu non eri neanche là”.

A riallacciare per lui una possibilità di discorso è la cugina della madre. Risiede a Genova, ha accompagnato i genitori nell’ultimo viaggio della speranza. Ma c’è di più, perché questa cugina “parla le lingue, ha lavorato al porto, sindacato, camalli, genti straniere con cui comunicare”. La cugina interprete riapre per Dario il canale della comunicazione: “Ci guardiamo, lei e io, in silenzio. Poi lei mi dice che lui mentre moriva ha detto: ‛Salutatemi Dario’”.

Invernale mi ha ricordato un testo molto diverso, sia per materia che per intenti, ma che mostra una zona di similarità nell’attenzione per il linguaggio e i diversi piani in cui esso si manifesta. È Libera nos a Malo, di Luigi Meneghello: “Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nòcciolo indistruttibile di materia apprehended, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua”.

In Invernale il dialetto non compare – non ci è dato sapere se Gino lo parlasse, e con chi –, e compare di rado anche il discorso diretto. In realtà, questo è vero solo in apparenza perché “le croste delle parole in dialetto”, la lingua “incavicchiata alla realtà” è, nel romanzo di Voltolini, la lingua del corpo – come si è visto – una lingua corporale. La lingua di Gino Voltolini, lingua paterna.

Voltolini ci consegna un inverarsi progressivo del padre attraverso la lingua. Lo consegna a sé stesso, in prima istanza, prendendo la parola nel finale con un “tu” finalmente riguadagnato: “Solo questioni di fondamentale importanza, penso che tu mi capisca”. Attraverso lo sforzo mnemonico e perciò stesso inventivo che la scrittura richiede, Voltolini è approdato infine a un linguaggio comune: eloquente come la parola profetica, carnale come un’eucarestia. Verrebbe da dire, una “lingua padre”.

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“Note di lettura a «Invernale»” è stato scritto da davide orecchio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Riesci a vedere la luce in questa immagine

di Lorenzo Tomasoni

Se ne stanno tutti seduti con le braccia conserte e lo sguardo abbassato per la preghiera, quando Colin McRooe all’improvviso si alza in piedi. La faccia gli è diventata una maschera di sangue. Qualcuno emette un grido, mentre lui no, nemmeno un gemito. Si dirige verso il portone laterale della navata come si fa quando il prete dice la messa è finita andate in pace, mentre invece non si è nemmeno arrivati al padre nostro. Chiamate un’ambulanza, dice qualcuno, è il castigo di Dio, ma Colin sembra intenzionato solo a prendere una boccata d’aria. Nel goffo tentativo di uscire dalla chiesa sbatte il fianco contro i banchi un paio di volte, procedendo a tentoni per guadagnare la maniglia del portone, poi lo afferrano bloccandolo sulla soglia.

Da dove proviene la luce, in questa immagine? Una manciata di centimetri, questa la distanza che intercorreva tra la punta della falange alzata in tono interrogativo e il pallido viso di Colin, prima che il respiro dell’insegnante di arte subisse una flessione spontanea fino a paralizzarsi in attesa del responso. Da bambino, durante l’interrogazione, Colin McRooe si limitava a fissare il libro lasciando che fossero gli altri ad individuare il punto focale da cui la luce nel quadro proiettava prospetticamente le ombre degli oggetti. A quella domanda la sua mente vagava sempre altrove, attratta da curiosità più profonde. Dopo l’incidente, alcuni anni dopo, Colin sosterrà che proprio quella domanda posta con semplicità dalla maestra Fleming fu il primo stimolo che lo spinse a cercare la verità nella luce.

Al termine delle lezioni l’accompagnatore Durth Filligan, detto piè veloce perché un congenito tallone sbeccato lo faceva camminare con un’andatura precaria e oscillante, scortava a casa gli alunni imboccando i sentieri ghiaiosi di Millenium Park. Mentre ascoltava Filligan sentenziare spropositi sulla negligenza della squadra di manutenzione comunale, Colin McRooe, amabile e biondo bambino di terza elementare, figlio di Arthur McRooe (dispotico bestemmiatore, proprietario di una panetteria in Grafton Street) e di Donna McRooe (casalinga dal fervente spirito cattolico) nata O’Neill, amava spesso osservare con la coda dei suoi bonari occhi azzurri la fontana al centro del parco, dove a volte la luce rimbalzava rifrangendo l’ondulata forma dell’acqua sulle statue sovrastanti. Era uno stato sospeso e delicato, quasi fragile, quello in cui sforzandosi di isolare ogni volta un particolare diverso, come il movimento palmato dei germani tra le foglie cadute nello scolo della fontana o la porosità marmorea del naso sbeccato di un tritone, Colin cercava di capire da dove provenisse la luce che lo colpiva con così tanta intensità, in quell’immagine. «Ehi, senti un po’» osò un giorno chiedere a Martin Murray, bambino grassoccio e dagli occhi sporgenti nonché suo compagno di fila fisso da almeno sei mesi, «da dove proviene la luce, secondo te, in questa fontana?».

Invaso da un buon senso tale da impedirgli di rispondere a una banalità così ovvia, Martin Murray si limitò a sorridere, lasciandogli andare la mano che per obbligo doveva tenere stretta per tutto il tragitto verso casa. Eppure già allora, in certi frammenti iconici della realtà, c’era qualcosa che continuava a ossessionare Colin McRooe tanto da trattenerlo interdetto a fissare per ore qualsiasi cosa emergesse dal mondo infantile che lo circondava, senza riuscire a cogliere che cosa veramente vi brillasse dentro. Quando capì che gli altri non condividevano la stessa sensazione, per vergogna smise di parlarne. Con il superamento dell’infanzia la domanda divenne meno assillante nella mente di Colin, il quale per molto tempo finì per essere incapace di scorgere altro nella realtà se non quello che chiunque, con una comune dose di diottrie, avrebbe potuto vedere.

Il risveglio della sua facoltà luminosa avvenne infatti durante il suo diciottesimo anno di età, nel bel mezzo dell’ultimo anno di scuola, quando Annie Faith, ragazza sbarazzina dai modi gentili anche se un po’ troppo energici, spruzzò con naturalezza un po’ di limone nel suo tè pomeridiano durante una pausa dallo studio. Il succo di limone cadde a piccole gocce davanti a quel viso tondo e non particolarmente bello, sconvolto però da una risata argentata che in quel momento ricordò a Colin la stessa melodia degli zampilli d’acqua a Millenium Park. Anche questa volta rimase folgorato da qualcosa, ma che cosa? Non riusciva proprio a venirne a capo. Era forse la tonda luminosità proveniente dalle lacrime del limone? Oppure i crateri incavati sulla superfice butterata della sua scorza? O ancora, perché no, l’acquosa consistenza degli occhi bovini di Annie Faith unita alla particolare angolatura assunta dalle sue dita intente a spremere il succo nella tazza? Colin McRooe sapeva solo che nel momento della spremitura qualcosa era tornato ad irradiarsi come una scheggia luminosa nei suoi occhi, fino a folgorarli per sempre.

Esperimenti simili a prove di laboratorio si svolsero nei giorni seguenti in camera di Colin, intenzionato a rievocare anche solo per un attimo quella sensazione che gli aveva attraversato la carne. Dopo essersi procurato una cassetta di limoni maturi, si mise a spremerli uno dopo l’altro in una tazza piena di tè, fino a renderlo un concentrato giallognolo e inacidito. Colin continuò i tentativi per un paio di giorni, fino a quando, scoperto a rubare i soldi dalla cassa della panetteria di suo padre, subì la consueta dose di schiaffi in cui i calli delle mani di suo padre gli lasciavano impresso sul volto tanti piccoli puntini rossi e roventi. Arthur pensò che chiunque avrebbe gridato nel riceve schiaffi così forti da far male alle ossa, ma suo figlio no, nemmeno un gemito. Nel momento in cui la debole luce della camera si sovrappose al viso di suo padre Arthur scolpendolo nella rabbia, una luce ancora più intensa attraversò finalmente, ancora una volta, quello di Colin McRooe. Fu l’ultima coincidenza necessaria per convincerlo a dedicare il resto della sua vita a catturare quella luce, ovunque fosse stato in grado di scorgerla.

Con le guance ancora gonfie, Colin scese in cantina, recuperò una vecchia macchina fotografica a cui mancava l’obiettivo, e dopo averla pulita e sistemata, iniziò a dedicare tutto il tempo libero alla verità nella luce. Di Annie Faith, di cui fino a qualche giorno prima credeva di essere innamorato, non parlò più. Nel corso dei mesi si rese conto però che più catturava immagini, più la luce sembrava sfuggire al suo obiettivo, e quando si soffermava su un soggetto che dal vivo gli pareva vibrare di luce propria, come per esempio la gamba metallica di un tavolo da esterno in una veranda assolata, ecco che nel momento in cui lo immobilizzava nel rullino questo perdeva la sua carica elettrica, rendendo quella fotografia nulla di più che un’immagine qualunque.

Colin McRooe nel frattempo concluse gli studi superiori senza roboanti risultati. Quando Arthur McRooe, dopo averlo tenuto in soggezione per più di vent’anni, morì per un arresto cardiaco nel bel mezzo della preparazione di una pagnotta di grando duro, Colin restò a vivere con la madre, continuando insieme allo zio Ernest a gestire la panetteria di famiglia e a fornire al quartiere il pane quotidiano così come per tanto tempo aveva fatto suo padre. Colin McRooe trascorreva le giornate in camera sua ad osservare le fotografie che aveva scattato, senza uscire mai se non per andare al lavoro o in chiesa con la madre, ultimo luogo dove vedrà la luce con i suoi occhi prima di essere trasportato in ospedale e poi trasferito in una casa di cura psichiatrica. Nei lunghi mesi prima dell’incidente, l’estenuante ricerca si era svolta con metodo, e a furia di scandagliare le immagini senza risalire all’origine ultima della lucentezza, ecco che Colin McRooe era giunto ad identificarsi così tanto con quell’indagine da non poter più pensare ad altro, ed ogni occasione era buona per andarsene in giro cercando di rispondere all’unica domanda che in fondo gli era mai davvero frullata per la testa: riesci a vedere la luce, in questa immagine?

Mentre fotografava una prugna spiaccicata sul pavimento di linoleum di casa sua, durante una sessione di fotografia nei primi giorni di aprile, Colin McRooe fu colto dalla feroce intuizione che non ci sarebbero mai stati criteri oggettivi o inquadrature luminose artificiali che avrebbero potuto inchiodarla per sempre alla realtà. Imprigionata dunque dentro di sé senza poterla possedere, la verità della luce poteva sorprenderlo all’improvviso senza ripresentarsi per mesi, e in quel periodo di tempo Colin si sentiva sperduto e abbandonato, così vicino ad un sentimento tragico della vita che non gli importava nient’altro se non ritrovare ancora per un attimo la levigatezza assoluta e trascendente di quella lucentezza. Poi avvenne l’incidente.

La chiesa è semideserta, quella mattina. Capita spesso che Colin McRooe accompagni la madre a messa nel fine settimana, ma quel giorno, dirà lei, chiede espressamente allo zio Ernest di assentarsi dal lavoro per poter venire. Assistono alla celebrazione alla chiesa del Santo Spirito, e poi a quella seguente presso la chiesa di Sant’Andrea. È sempre stato un bravo ragazzo, forse un po’ triste, dirà poi lo zio Ernest interrogato sulla vicenda. Colin McRooe, poco dopo l’inizio della messa e precisamente tra il salmo responsoriale e la seconda lettura, proprio nel momento in cui padre Jason alza le braccia al cielo per procedere con la liturgia e le maniche della sua veste gli si affusolano sui gomiti e il suo l’orologio da polso segna le dieci e diciassette, si afferra lentamente le palpebre infilandosi le falangi nell’incavo dell’orbita fino a farle scivolare dietro al nervo ottico, e senza alcun segno di dolore o un singolo sussulto, si strappa i bulbi oculari cavandosi gli occhi. Il sangue inizia a colare rigandogli il volto, fino a ricoprirlo con una maschera viscosa simile ad un sottile strato di cera rossa. «Me l’ha detto la luce, di togliermi gli occhi» dirà Colin McRooe una volta giunto in ospedale, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. All’età di vent’anni rimarrà cieco a vita, dopo aver compiuto un atto per cui, a detta dei medici, era stato necessario possedere una forza sovraumana. Nel breve incontro con la madre, prima di entrare nel reparto di psichiatria, le sue parole tenteranno di testimoniare solo l’avvolgente visione di una luminosa oscurità. E dunque, riesci a vedere la luce, in questa immagine?

Foto di Ashish Bogawat da Pixabay

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“Riesci a vedere la luce in questa immagine” è stato scritto da davide orecchio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

“La zona d’interesse.” Un paio di cose che ho visto.

di Daniela Mazzoli

La prima cosa che ho visto è stato un mucchietto di persone che usciva dalla sala con gli occhi sbarrati e le teste infastidite dal rumore che si sentiva forte anche da fuori. Come se fossero state costrette a uscire per via del frastuono assordante. Ho avuto paura ma mi sono fatta coraggio. Sapevo almeno come sarebbe finita.

Il film è pieno di paesaggio. Inizia anche con un paesaggio. Un fiume, un prato che declina, alberi, lo schermo pieno di verde, foglie, e una famiglia in gita con cestini di cibo e bambini al seguito. E anche durante il resto del tempo ci sono fiori che sbocciano, fiori messi a disposizione della mano di un neonato, fiori che non si possono tagliare indiscriminatamente, a meno di una severa punizione, perché rappresentano il ‘decoro’ della piccola comunità che vive intorno e dentro il campo di concentramento. Il comandante Höss si preoccupa di emettere un ordine in proposito alla raccolta feroce dei lillà dai cespugli.

La natura è lì che migliora la vita di chi abita la grande casa al di qua del muro. Una natura addomesticata certo, un giardino con un piccolo orto che fornisce alla famiglia un po’ di svago e anche del nutrimento: i bambini vanno pazzi per certi ortaggi. Ci sono voluti tre anni per trasformare una fredda e anonima costruzione di cemento in una casa. La casa è stata ricostruita veramente, tra l’altro. E non ci sono state troupe a girarci dentro: le telecamere erano disposte nelle stanze, collegate e gestite da remoto. Così gli attori hanno potuto vivere tra quelle pareti perdendo il senso della recitazione, dell’essere sul set di un dramma.

Eppure il grigiore non se ne va. La fotografia del film ha i toni lividi di certi classici hitchcockiani: Nodo alla gola, Gli uccelli. Ed è una luce che non cambia, come se il giorno avesse sempre la stessa ora, la stessa inclinazione dell’asse terrestre, in un eterno mezzogiorno di sole invernale. È una luce che descrive e illumina esistenze immobili, che nonostante il passare del tempo e delle stagioni non possono cambiare.

La seconda cosa che ho visto è stato un mucchietto di prigionieri, di età diverse, con compiti diversi e condannati a una morte quotidiana, lenta, inesorabile. Ci sono le ciminiere al di là del muro, i rumori alti e continui, che non smettono chiudendo le tende o le finestre, e nemmeno bevendo fino allo svenimento. Non smettono nemmeno andandosene via, come fa la madre della padrona di casa, che gioisce di primo acchito per la fortuna capitata a sua figlia, diventata finalmente una moglie borghese con grandi spazi da amministrare e servitù, ma poi non riesce a sostenere il suono di quel dolore oltre il muro. E se ne va senza salutare, avendo però rimesso in ordine perfetto la stanza, di nuovo tornata morta come solo certi ‘ordini’ possono rendere cose e persone.

Non è un suono umano quello che accompagna le loro giornate, però è prodotto dagli uomini. “E li gettarono nella fornace del fuoco. Lì sarà pianto e stridore di denti”. Questo è l’inferno descritto nel vangelo di Matteo, e l’inferno ma senza colpa viene anche qui rappresentato, prima di vedere e senza mai vedere che cosa ci sia al di là del muro, attraverso il rumore del male.

Quando il comandante chiude ogni sera ogni luce, ogni porta, controlla che nessuno possa entrare, si chiude dentro, è evidente che i carcerieri sono sempre anch’essi prigionieri, che in una storia dove non c’è evoluzione del personaggio tutto è fermo, e sempre identico, come il male. Restano prigionieri i figli i cui giochi sono contenuti, sorvegliati, le cui notti sono inquiete, come certi volti di bambole. Resta prigioniera la moglie, che da quel ‘paradiso’ non vuole andarsene, e che per sopportarlo meglio, quel paradiso, sogna di tornare alle terme italiane, dove una volta ha conosciuto persone simpatiche.

Non succede niente in questa famiglia, e infatti non si fanno domande: si lavora, si mandano i bambini a scuola, si prepara la cena, si scaccia il cane dalla tavola, si aspetta il padre che torni, si fa carriera. Il comandante ringrazia i superiori della ‘fiducia’ che gli hanno riservato, si industria per meritarla, per fare sempre meglio, ottimizzare l’efficienza del campo, essere l’insostituibile. Allora, diversamente da quando sono entrata, ho avuto un po’ più paura e un po’ meno coraggio, e uscendo dalla sala mi è venuto il sospetto di coltivare anch’io qualche giardino, ignorando il cielo pieno di cenere. Di aspirare alle terme, di dover spegnere le luci ogni sera facendo almeno un giro di chiave.

 

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““La zona d’interesse.” Un paio di cose che ho visto.” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Ciclo delle arche

di Danilo Paris,

da “ciclo delle arche”, in “filogrammi della segnatura”

 

SHIBBOLETH

 Partitura a tre voci  per presepe inaugurale di corpi fragili

 

 Yeghbayr:

 A colonia ed approdo
era di Gihon in fessura
il tendaggio a silicio
erbio e tessitura.

 

Dhorani:
In via di mercato e di fogge,
tra urne stipate
a gessi e cianosi,
a viburno e elleboro,
lì, a indicarvi,

in segno e di nulla,
inno e cero
e dea che affoga,

crepammo nelle carceri,
ci impressero le diaspore
a Sindone di catrame,
smalto
e piombo decaduto.

 

Rhosani:
Dov’era il resto, di conce e fibrina?
Dov’era pioggia e foce e nahar ar yarmuch?


Yeghbayr:

La prima dei mhyr
le trasse alle reti
a breccia e coccio

ad unghia e plasma
a striscia e Shibh Jazīrat

 

Dhorani:
E lì, nel nodo, era il filo,
lo sfilò dalle sue dita
E lì era il figlio
a fiocco di nitrati
e segnatura.

 

Rhosani:
La traccia si sformava
a gocce
ed erano una e l’altra,
il suo e del suo,
dell’altro,
infilati nel boccio

Yeghbahir:

Si scucì il rammendo dei loro passi
e dei suoi uadi
stremati sui carsi.

 

Rhosani::
E il terzo filava
lungo le assi
e saggiava la cornice
e allungò la mano
Là, più sotto,

lungo il fosso scorticato e il Wadi Rum
e il petroglifo della volpe
rossa,
a grappoli ed ammonium,
a filogramma e stenti
a sasso, spica
ortica e Shibboleth

 

Dhorani:
la falda brucava
sotto la steppa,
Tiberiade
alzava la placca,
“getta le reti,
verranno alla barca”
diceva, impregna l’ordito
continua
sotto il banco il suo corso
nel flusso.

 

                    La mia vita è esitazione prima della nascita, Veronica Neri, in Il germe sepolto, a cura di Ilaria Monti, in spazio-arca IV

 

 

Shekhinah

 

Chiesa di S.Lucia

In Agalma, spazio-arca IV, a cura di Chiara Gerpini: 1.2. “War updates from 20 May 22”,  cucitura della “Shekhinah” , dimora-tenda, con brandelli pitturati frames estratti da video-amatoriali di soldati nella guerra ucraino-russo, e meccanismo mobile con brandelli appesi per ucceli, installazione di Giampaolo Parrilla; 3. Ornitomanzia, proiezione di video-saggi sulla “fisica della complessità”(Giorgio Parisi) attraverso uno studio sui movimenti degli stormi.

 

 

Tra boro e argilla

              veniva il deserto

                         e fumo

e la mappa dei loro tragitti

              stava lì sotto, tutta in pezzi

e La riva,

 spiantata nella rena,

E la griffa delle bozze che si svia

L’una sull’altra

E Smacchia a miche di granaglia i paralleli

Li sgrava dall’appunto

Li tuffa a sepolcro di gesso.

 

“Qui”, pensavo “Il banco non s’attacca alla goccia

Si sterra invece a corolla di trasloco”

Qui, Yeghbayr

            grattò via dal bozzolo

foraggio e mietitura per commiato”

 

Mi arrampicai.

 

              La foce in grafite

Sbozzava il midollo all’insù

              E in fondo alla crepa, in alto

                            S’apriva lo sbuffo

                                                        a nitrato ed ammonio;

                            E a niobio e tecnezio

                                          l’idioma del trasloco

 sanciva il suo sintagma

                        a frane e scottature.

                                                       

 

Grattavo

              e mi scorticai le dita a forza di grattare

                            e la placca, venendo via, mi schizzava il berillio negli occhi

                           

E nel buio

 sotto il manto

                            veniva la brina

                                          da squarcio

                            e ossidava il rostro nel soffio

                                          e mi forava la vista,

                                                        e mi seccava la lingua

                                                                      e seccava infine l’estuario dell’engramma.

 

 E allora lo sentii

              Tra le dita screpolate

                            e sugli apici smarchiati della polpa

il filo,

              il filo sgocciato a xeno e cianuro di metile,

                            il filo di Mysiats e Dhorani,

mi stava tra le mani il filogramma degli stenti

              mi stava tra le mani il plasma a generazioni e  gemelli

                                          mi stavano i mhyr in breccia

crepata tra le unghie

e sgusciavano dalle pance per consegnarsi ai torrenti

 

                                          E fu per mia colpa che lo fecero.

                           

 

Tante volte avevo ritrovato il filo.

E tante volte lo staccai.

Invece.

Tirai il filo e

 dentro

 la sacca

di guscio e corallo

 si sbucciò

                                                                                    la scorza.

 

Annegai. Nel cerio e nel lantanio.

              Nel mondo, sopra la crosta, non era più il mondo.

Era l’aria.

 E l’aria era acciaio e silicio.

Come la terra.

E calotta esarava a crepacci e morene

                                                        e ovunque cianosi cuoceva a neotimio e samario

                                                                                                                l’embrione in bitume di gelo

 

Più salivo…e più morivo.

                            Più vedevo la luce e più diventavo cieco.

                            Cesio e iodio mi spaccarono i polmoni.

                                                        Io ricordo il primo a cui mancò l’aria.

                                                                                                  Fui io a togliergliela.

              A me…il tetracloruro mi strappò via la pelle.

              Il candio e l’irmio mi sformarono le ossa.

                            Antimonio e palladio mi colarono via l’ultima volta che vidi…mia madre.

 

Annegavo…e…sì…

                            Morivo…finalmente. O forse dormivo…o forse… volavo…si…

sentivo sulla schiena una fitta e poi…

due, tre…forse…

 cinque tronchi di faggio…

mi spezzarono le costole, mi torsero le braccia, bruciarono gli ultimi tessuti

 

Non avevo più occhi, ma vedevo…

né avevo più bocca, ma sentivo per la prima volta la mia voce.

                                         

“Nell’aria

lì sta la tua radice”, mi disse a un certo punto.

 

 

E la seguii.

 

“Che cosa?” …chiesi…Io…io non ho radici, dissi.

Io sono l’estirpato.

Io sono il sangue svasato via dalla sua goccia.

 Io sono Caino.

Nell’aria…Qayin…vieni nell’aria…vieni…mi disse…

e io non pensavo più, dopo tanto tempo…

e la seguii…                                                                                                                                                                          tra spifferi cadenze.

             

              Ero a casa.

 

Shamayīm …mi apriva tra le sue piume…

raqia mi accarezzò la fronte

Rafi era fresca…mi cadeva sulle spalle.

Qaydum era calda…mi teneva tra le sue braccia.

Marum era la sua voce…era come la ricordavo. Ed era bella.

Arfalun erano le sue dita…quando la conoscevo appena.

Hay’oun era il suo pensiero…quando la sera mi raccontava una storia, prima di addormentarmi.

Arous erano i suoi occhi…prima ancora che nascessi.

                            Ajma’ , invece, era la sua pancia, quando dormivo e…sognavo.

 

 

Miʿrāj, invece,

mi sussurrò qualcosa all’orecchio.

 

“Che cosa? Che cosa dici…”

 

Mio fratello

erano i miei fratelli

andavamo da qualche parte

ma non saprei dire dove

 

che cosa stavano dicendo

che cosa stavano-

 

Cantano gli uccelli

 

 

Postilla dell’airone:

 

Il bendaggio suturó il solco

e l’acheno forato nel frutto

aprì la goccia di cianuro

e il raso bianco della morella

si sfilò dal filogramma di metile,

si tolse via la segnatura dal becco,

il fororácide si schiuse via dalla corolla

e l’eocene sgonfiò ancora,

dalla spugna

la sua piuma dalle conce.

 

 

Cripta S.Lucia, “Passaggio di figura nel bianco”, Luca Grossi, in Il germe sepolto, a cura di Ilaria Monti per Spazio arca IV                           

 

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“Ciclo delle arche” è stato scritto da Giorgiomaria Cornelio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Il parco don Bosco che si difende, la Bologna soffocante che non vogliamo. Sabato 9 marzo, la manifestazione

Sabato 9 marzo, alle 14:30, saremo anche noi in piazza XX Settembre, a Bologna, punto di raduno per la manifestazione convocata dalla «gang del don Bosco».  Il parco don Bosco è da settimane un festoso presidio popolare, con tanto di casette sugli alberi. Una piccola ZAD, zone à defendre. Da difendere, perché minacciata dall’ennesimo progetto […]

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“Il parco don Bosco che si difende, la Bologna soffocante che non vogliamo. Sabato 9 marzo, la manifestazione” è stato scritto da Wu Ming e pubblicato su Giap.

Sanremo, l’Olanda e la questione meridionale

di Elsa Rizzo

Quest’anno Sanremo l’ho guardato da un piccolo paesino in Extremadura, una regione della Spagna al confine con il Portogallo, disseminata di campi e borghi in preda a un silenzioso ma instancabile spopolamento. Il nostro gruppo è disequilibrato: siamo cinque ragazze italiane, un ragazzo italiano e un’unica ragazza proveniente dall’Olanda.

Confesso di avere sempre evitato i grandi gruppi di italiani all’estero. Inevitabilmente, pur in presenza di una sola persona che non sapesse l’italiano, si continuava a parlarlo come se poi quella persona l’avrebbe, volente o nolente, appreso per osmosi. O, quantomeno, avrebbe carpito qualche parte del discorso che all’inizio non spaziava mai dagli intramontabili classici nostrani: la mancanza della pizza, il calore delle persone, le differenze tra la parte nord e sud del paese. Certo, la maggior parte delle volte il gruppo riusciva a fare dell’inglese la propria lingua comune, e anche quello rimaneva un lusso perché la conoscenza delle lingue straniere in Italia continua ad essere un privilegio di pochi, ma, a volte, il discorso prendeva una piega così intrinsecamente legata al nostro paese che anche a volerlo non avremmo mai potuto portarlo avanti in una lingua che non fosse la nostra.

Perché dico questo? Perché credo nella centralità che le lingue assumono nelle nostre esistenze.  Perché non smette di affascinarmi il risvolto sociale della lingua, che ci spinge a dibattere sui nostri significati, le nostre rivendicazioni, i nostri punti critici e intimi. Questo filone di pensieri mi è tornato prepotentemente a mente sabato 10 febbraio verso ora di pranzo quando, reduci da tre giorni in cui abbiamo sciroccato la sfortunata compagna olandese con l’evento televisivo italiano per eccellenza (grande Carolina per sopportare e interessarti (?) alla cronistoria delle vicende dei cantanti e alle nostre minuziose spiegazioni sul Fantasanremo), ci siamo ritrovati a discutere sulle reazioni social sui post di Geolier. Premetto: Geolier l’ascolto e mi piace. Mi piace pure assai. Nella serata di sabato mi hanno entusiasmato diverse cover e avrei difficoltà a scegliere la mia preferita. Mi sono addormentata a dieci minuti dalla fine ma qualcuna tra di noi aveva già sancito proverbialmente e con una malcelata insofferenza: a Geolier lo farà vincere il televoto.

Solo l’indomani, dopo aver visto alcuni spezzoni della conferenza stampa in cui rispondeva alle domande, alcune di dubbia etica professionale, ho anche scoperto che Geolier, come altri cantanti prima di lui in altre edizioni, era stato fischiato dal pubblico dopo l’annuncio della sua prima posizione nella classifica della serata. Ma, se questa non era la prima volta che episodi del genere avvengono, cosa cambiava rispetto a tutte le edizioni precedenti? Nella piena legittimità del dissenso circa la classifica vista l’elevata qualità di tutte le esibizioni, ad avere scatenato i commenti negativi su Geolier già nelle serate precedenti sarebbero state, soprattutto, due motivazioni: la fantasiosa teoria per cui Geolier, che in quest’ottica ascenderebbe al fantomatico napoletano medio per antonomasia, abbia truccato il voto comprando Sim ad ogni napoletano capace di intendere e volere, e la stizza per un cantante che continua a cantare in napoletano, una lingua che non viene mai percepita come tale, ma come espressione di una sub-umanità che continua ad essere profondamente rifiutata da una parte del nostro paese.

Ho cercato di darmi una risposta partendo dal secondo punto. Perché è soltanto Geolier, tra i diversi cantanti e gruppi napoletani (saranno mai tutti napoletani i campani?) a competere, a dovere rispondere di tali accuse? Certo, gli altri pezzi non erano, a differenza del suo, cantati in napoletano. Ma, se così fosse stato, ne staremmo parlando? Di più, se qualcun altro avesse deciso di cantare in sardo, in veneto, in toscano, di cosa parleremmo? Lo staremmo facendo? Il regolamento di Sanremo consente l’uso di parole dialettali nei testi, basta che non si snaturi il senso complessivo della canzone. Basta, cioè, che da Bolzano a Ragusa ci si possa capire. L’italiano è la nostra lingua ufficiale per una convenzione che stabilisce la presenza di lingue e dialetti e che ha avuto, come in altri paesi, delle ripercussioni sociali e storiche che si riflettono ancora oggi sulle nostre quotidianità. Così che chi è nato nel sud Italia lo sa bene che in alcuni luoghi pubblici non sta bene parlare in dialetto. Lo sanno benissimo anche le persone che vengono dal nord Italia. Quello che ci differenzia, credo, è cosa venga percepito quando si sente il nostro dialetto. A quali domande risponda il nostro modo di parlare oltre quelle riguardo la provenienza. Tocca allora a Geolier non rispondere solo di una lingua tutt’ora fortemente osteggiata, ma anche di tutto quello che riusciamo a vederci dietro: delinquenza, camorra, indolenza. Ci vediamo interi mostri che vivono come parassiti sulle spalle del nostro stato. E allora se sei napoletano e canti in napoletano non puoi essere il primo in classifica non perché, come giustamente si può sostenere, ci fosse chi meritasse di più, ma perché se sei un napoletano che canta in napoletano tu sei arrivato primo perché hai trovato un modo per fottere il sistema. E allora Geolier assorge all’unico napoletano che riusciamo a immaginare: lo scugnizzo di periferia, il truffatore, lo scansafatiche. E vive in una giungla che nientr’altro è che Napoli.

Non credo che questa generalizzazione, che non affronta i problemi sistemici che affliggono le grandi metropoli del sud Italia, non descriva situazioni che sicuramente esistono. Certo che a Napoli ci sono anche questi problemi. Solo, la scelta di cantare in napoletano di Geolier, si inserisce in una questione che non è solo linguistica, ma sociale, in contesti dove fin da subito gli unici esisti possibili della tua vita prevedono soccombere al sistema o imparare a navigarci. Fin da subito sai che perdi ed è vero che col vittimismo non ci facciamo nulla, ma non si può non dire che chi nasce in un ambiente svantaggiato del sud parta dallo stesso punto degli altri. È a questo punto che riappropriarti della tua lingua, in questa corrente di rivendicazione degli ultimi anni, studiarla, può simboleggiare l’emancipazione tua e quella di chi rientra nella tua comunità. Il tuo riscatto.

Questa unione viscerale con le nostre geografie non è sempre sana. Tutte le unioni che non prevedono dei dubbi al loro interno sono problematiche. Però, credo che la storia in generale del sud Italia, esente da qualsiasi assoluzione per le nostre incontestabili colpe, non possa non considerare come siano state anche l’arte, la musica, il cinema, il calcio, a cercare di bilanciare le indiscutibili carenze statali, di impiego, di questi luoghi. E allora cerchiamo di rivendicare qualcos’altro. In questo caso, una redenzione attraverso una lingua.

Questi miei pensieri li ho espressi a questo fantomatico quanto improbabile gruppo. Ne è seguito un dibattito interessante, che non riuscirei a riportare qui. Sapete in che lingua abbiamo parlato? In inglese. Sì, parlando di queste dimensioni così strettamente legate al nostro paese, ci è venuto naturale pensare che a Carolina non dovessimo sempre e solo fare la testa tanta sulla sacralità della pasta al dente, ma che potesse anche sentire parlare delle nostre differenze territoriali, così intrinsecamente nostre.

 

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“Sanremo, l’Olanda e la questione meridionale” è stato scritto da giuseppe acconcia e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

La superlega dei Top Italian Scientists

Ciao mamma, ciao papà, sono contento di essere arrivato uno”: così esultava un campione di ciclismo impersonato da Walter Chiari. Per molti scienziati, stare in cima a una classifica sembra suscitare reazioni altrettanto elementari. Al punto di fondare la rivista dei TIS, i Top Italian Scientists, gli scienziati italiani più citati. È lecito attendersi un comitato editoriale fuori dalla norma. Ed è così. C’è Salvatore Cuzzocrea, dimessosi ad ottobre da rettore dell’Università di Messina e da presidente della CRUI per una indagine della magistratura su rimborsi per attività di ricerca. I suoi articoli sono stati oggetto di 158 segnalazioni, in prevalenza relative a immagini non corrette. C’è Domenico Ribatti coautore di uno degli articoli ritrattati di Paolo Macchiarini, il chirurgo condannato in Svezia “a due anni e sei mesi di reclusione dopo essere stato giudicato colpevole di violenza aggravata contro tre dei suoi pazienti”, protagonista della serie Netflix Bad Surgeon. Sono presenti anche un ex presidente e due ex consiglieri di ANVUR. Ingiusto, però, soffermarsi sui casi sfortunati. Guardiamo allora le statistiche: gli articoli dei TIS nel board sono ritrattati o messi sotto osservazione, per anomalie nelle immagini o altro, con una frequenza decisamente fuori dalla norma. Abbiamo letto il primo articolo pubblicato dalla rivista: per oltre il 60% riproduce letteralmente pezzi di articoli già pubblicati altrove e firmati nella stragrande maggioranza dei casi da altri autori. È risaputo che il doping citazionale è facile, tramite autocitazioni o scambi citazionali. Persino Clarivate da tempo dichiara di escludere dalla sua classifica chi ha numeri troppo grandi per essere veri, per esempio chi è iperproduttivo. Nell’ultima edizione ha cancellato la classifica dei matematici, dichiarando di non essere capace di distinguere gli highly cited autentici da quelli farlocchi. Come se un anno non si corresse più il Tour de France perché circolano sostanze invisibili ai test antidoping. Noi italiani abbiamo abbracciato acriticamente questi criteri numerici, facendone il cuore del sistema di reclutamento e di promozione, con le conseguenze che si possono immaginare. Morale della favola: vista la compagnia, conviene alla propria reputazione stare nella lista dei TIS?

Squillo di fanfare: proprio come nel calcio, anche per l’accademia italiana si apre una nuova era. Nel calcio, via libera alla super lega delle squadre più forti e blasonate che non dovranno più confrontarsi con le mediocri squadre nazionali. Nell’accademia italiana è appena arrivata la super rivista degli scienziati italiani eccellenti. Eccellenti in che senso? Premi Nobel? Altre medaglie? No, bibliometricamente eccellenti. Da decenni esistono database che tengono conto non solo degli articoli pubblicati, ma anche di chi cita chi. Un tipo di misura che in Italia ha avuto molti sostenitori e che da 10 anni sta alla base del reclutamento dei professori, regolamentato da Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca. Una vera panacea per risanare l’accademia dei concorsi truccati.

Finalmente i Top Italian Scientists hanno fondato la loro rivista e l’hanno chiamata Top Italian Scientists Journal. Ma chi sono i Top Italian Scientists? Sono gli scienziati che appaiono in una classifica ‘fai-da-te’ chiamata TIS. Per essere ‘accettati’ tra i TIS è necessario essere dotati di un h-index di almeno 30 calcolato su Google Scholar (che significa: aver scritto 30 articoli che hanno ricevuto ciascuno almeno 30 citazioni su Google Scholar).

1. La classifica TIS (e la sua storia)

La classifica fu lanciata da Mauro degli Esposti e Luca Boscolo intorno al 2010 [si veda qui]. Ne esistono una versione pubblica basata su dati Google Scholar, ed una ad accesso riservato basati su dati Scopus (cui non abbiamo accesso). Ad oggi pare che l’unico manutentore sia Luca Boscolo (qua). La classifica TIS continua a essere un oggetto del tutto opaco: non è possibile sapere su quale server si trovi (whois è coperto da privacy), chi metta le risorse, come il club dei TIS sia formato, e tantomeno come sia gestito il club femminile TIWS.

Parallelamente alla classifica era stata costruita una VIA-Academy (Virtual Italian Academy) che aveva tentato la costituzione di una università telematica [qui il link alle notizie dell’epoca], fallita prima di nascere [si veda qui]. Il sito di VIA-academy è scomparso dal web, ma lo potete visitare quai. E qui potete vedere l’unica attività recente di cui abbiamo trovato evidenza.

Paolo Giudici, statistico dell’università di Pavia, ovviamente uno dei TIS, e Luca Boscolo ricostruiscono la storia della classifica TIS con uno stile narrativo d’altri tempi (i lettori interessati potranno apprezzare l’intero articolo qui) :

The Top Italian Scientists database started in 2010 when Luca Boscolo got
inspired by an article that gathered a list of 300 Italian academics in Italy and
abroad with the highest scientific impact in any area. To measure the scientific
impact they used the h-index. Luca had the idea to download the entire list of
the academics working for the Italian universities (about 54k people) and for
each of them calculated their h-index using Google Scholar as database. Luca
then extracted a list (about a 1k people) whose h-index was greater or equal
than 30. The result was called “list Top Italian Scientists” (TIS), and a paper
was published displaying a list of the Italian universities ordered by the number
of TIS. The paper was cited by some of the main Italian newspapers such as
La Stampa and it went viral scattering a huge interest in the academic world.
After that, Luca started to get flooded with emails congratulating the work or
indicating someone with h-index ¿= 30 [sic]. After more than 12 years the list has
grown up from a 1k to more than 5.5 k. Nowadays this list is known to all
Italian academics working in Italy or abroad.

Se uno non si ferma all’auto-apologetica dei TIS, può verificare abbastanza facilmente che quando qualche politico o giornalista ha usato la classifica TIS, si è procurato non pochi problemi.

Il caso forse più famoso è il tentativo de il Giornale di screditare la senatrice Elena Cattaneo sulla base della posizione ricoperta nella classifica TIS (all’epoca indicata per attribuire una patina di autorevolezza come “stilata dall’università di Manchester”).

Virtual Italian Academy, la graduatoria dei migliori cervelli italiani è falsata?

La Regione Lombardia ha usato la classifica TIS per selezionare giurati e premiati del premio Lombardia. Anche in questo caso, creando sconcerto tra giornalisti e studiosi (per una sintesi si rimanda a quanto scrive Tiziana Metitieri qui e qui).

La classifica TIS suscita addirittura ilarità quando osservata da non italiani. Qui per esempio Leonid Schneider ricorda il ruolo nella scalata delle classifiche dei paper-mills iraniani, organizzazioni dedite alla produzione di articoli con associata spesso la vendita di autoraggi di comodo.

Anche Roars nel 2012 si occupò della lista TIS [si veda qui] con un articolo intitolato Classifiche incredibili. Alessandro Figà Talamanca nei commenti al post scriveva causticamente:

2. Il nuovo Top Italian Scientists Journal

A inizio 2024 è comparso in rete il Top Italian Scientists Journal, che è possibile vedere a questo indirizzo. [In queste settimane ne abbiamo salvate un po’ di versioni su wayback machine perché il sito appare in continua modificazione].

La rivista si propone come rivista open access (non è richiesto il pagamento per leggere gli articoli che vi sono pubblicati) multidisciplinare (copre tutte le aree dello scibile umano ad eccezione, par di capire, delle discipline umanistiche). Dichiara di adottare un modello di single-blind peer review: gli articoli prima di essere pubblicati sono letti da revisori anonimi che sono a conoscenza degli autori degli articoli). Di aderire ai principi del Comitato per l’Erica nelle Pubblicazioni (COPE). E di adottare un modello Open Access Gold: gli autori degli articoli accettati pagano per la pubblicazione.

Ci sono però diverse stranezze.

Iniziamo da quelle formali. Nel sito si legge che “TISJ in not currently live yet”. Chissà che significa. Gli articoli non sono provvisti di DOI, ma ci informa il sito che sono in attesa.  Manca ogni indicazione sulle date di sottoposizione degli articoli alla rivista e sulla durata, per ciascuno, del processo di revisione. Gli articoli sono stati pubblicati tutti a brevissima distanza nei primi 15 giorni dell’anno e poi le pubblicazioni si sono bloccate. Il server su cui risiede il giornale non è noto. Non è noto chi sia il publisher della rivista, o almeno non è noto chi e con quale forma giuridica detenga i diritti di proprietà sul giornale e sul sito. Si tratta di informazioni che non dubitiamo verranno prontamente diffuse.

Altre stranezze sono meno difficili da sanare. Come abbiamo anticipato “gold open access” significa che sono gli autori a pagare i cosiddetti APC (article processing charges) per la pubblicazione dei loro articoli. Il TIS journal non richiede APC, ma, quando un articolo è accettato, gli autori possono fare una donazione al giornale.

Non siamo riusciti a trovare da nessuna parte indicazioni relative a chi riceva la donazione per conto della rivista o di TIS. Pubblicare una rivista costa (anche acquisire i DOI). Chi paga per TIS?

Ma la stranezza più strana di tutte è che la rivista pubblica soltanto articoli firmati da almeno un autore che sia elencato nella lista dei TIS. Una specie di rivista del circolo del golf in cui possono scrivere solo i membri del club. Per scoprire che si tratta di una rivista per soli adepti TIS si deve andare alla pagina dedicata alla formattazione dei paper:

3. Il comitato editoriale del TIS Journal

Come ogni rivista che si rispetti anche il TIS Journal ha un comitato editoriale, composto ovviamente soltanto da membri presenti nella classifica Top Italian Scientists. L’elenco dei membri del board è in continua crescita e modificazione.

Le modificazioni non sono di poco conto. Basti pensare che il giorno 8 gennaio, come si può vedere qua, il giornale aveva un editor in chief: Vito D’Andrea. Una settimana dopo la rivista non aveva più un editor in chief, ad oggi l’editor in chief è il TIS Enrico Gherlone.

Ma chi sono i TIS che affollano il comitato editoriale?

C’è Salvatore Cuzzocrea, dimessosi ad ottobre da rettore dell’Università di Messina e da presidente della CRUI per una indagine della magistratura su rimborsi per attività di ricerca (si veda qui). Cuzzocrea detiene il record, tra i membri del board, per il numero di segnalazioni 167 su pubpeer. PubPeer è una piattaforma web che consente agli utenti di discutere e rivedere la ricerca scientifica dopo la pubblicazione. Il sito è usato principalmente come piattaforma di whistleblowing per segnalare misconduct e frodi apparse nella letteratura scientifica. Nel caso di Cuzzocrea le segnalazioni riguardano in prevalenza immagini non corrette contenute negli articoli. E’ del 18 gennaio 2024 il primo articolo ritrattato. La ritrattazione è un meccanismo con cui un articolo pubblicato su una rivista accademica viene segnalato come gravemente difettoso per varie possibili ragioni (errori, manipolazione dei dati, delle immagini, dati fabbricati, plagio etc.), al punto che i suoi risultati e le sue conclusioni non sono più affidabili. Gli articoli ritrattati non vengono rimossi dalla letteratura pubblicata, ma vengono contrassegnati come ritrattati.

Al secondo posto tra i membri del board per numero di segnalazioni su pubpeer c’è Alessandra Bitto dell’Università di Messina che ne conta 79, in prevalenza per immagini non corrette contenute negli articoli. Alessandra Bitto è co-autrice di 9 articoli che sono stati ritrattati. Del gruppo dell’Università di Messina ha scritto Leonid Schneider qui e qui. Francesco Margiocco sul SecoloXIX riportava che il Ministero avrebbe rivalutato l’assegnazione di fondi di ricerca al gruppo a seguito delle segnalazioni.

Tra i membri del comitato editoriale c’è poi Roberto Bolli, coautore di Pietro Anversa -anche lui TIS – per il quale l’università di Harvard, nel 2018 al termina di una indagine chiese la ritrattazione di 31 articoli sull’uso di cellule staminali per la rigenerazione dei tessuti del cuore (qui un articolo in italiano). Bolli è coautore di 3 articoli ritrattati da Anversa. (Retraction Watch riporta che nel 2019: “Bolli was recently fired as editor of a journal for making homophobic comments“).

C’è Domenico Ribatti uno dei coautori di Paolo Macchiarini, il chirurgo condannato in Svezia “a due anni e sei mesi di reclusione dopo essere stato giudicato colpevole di violenza aggravata contro tre dei suoi pazienti”, protagonista della serie Netflix Bad Surgeon. Ribatti condivide con Macchiarini un articolo su Nature che è stato ritrattato (qui il link all’articolo e qua la ricostruzione della vicenda), e altri due segnalati su pubpeer (in mezzo ad un totale di 14 segnalazioni).

Francesco Trapasso è uno dei coautori di Carlo M. Croce ricercatore sul cancro che ha ormai al suo attivo almeno 14 ritrattazioni e cause legali anche con suoi avvocati (si veda in italiano qui e qui). Croce, secondo la classifica TIS, è il migliore tra i migliori. Trapasso condivide con Croce due ritrattazioni. E ne condivide due anche con Alfredo Fusco (per la cui vicenda si veda qui) .

Tra i membri del board c’è Arrigo Cicero, che ha al suo attivo almeno 6 ritrattazioni dovute alla pubblicazione multipla di uno stesso paper (si veda qui).

E c’è anche Pier Paolo Pandolfi (si veda qua) che anche lui ha al suo attivo su pubpeer 36 segnalazioni.

Nel board non poteva mancare una qualificata rappresentanza di ex-vertici di ANVUR. Ci sono Paolo Miccoli, già presidente ANVUR e, grazie alle porte girevoli, neopresidente dell’associazione delle università telematiche. Certamente i lettori di roars ricorderanno la vicenda del taglia e incolla del “tema” per diventare membro dell’agenzia.

E c’è anche Daniele Checchi, già membro del direttivo ANVUR. E’ stato selezionato tra i TIS grazie alla performance su Google Scholar dove risulta avere, come spesso accade agli economisti, un numero di citazione superiore del 500% rispetto a quelle registrate su Scopus (che non gli avrebbe permesso di superare la mitica soglia di 30!).

4. Regola o eccezione?

Una manciata di casi sfortunati non può intaccare la bontà di un criterio oggettivo come quello alla base della classifica TIS. Non si devono guardare i singoli episodi, si devono guardare le statistiche e le statistiche dicono che i TIS sono i TIS.

Anche noi abbiamo guardato un po’ di statistiche per i membri del comitato editoriale del TIS Journal. Ci siamo soffermati in particolare sulle segnalazioni presenti su pubpeer e nel database di Retraction Watch, che contiene i metadati degli articoli pubblicati su riviste e che sono stati oggetto di retraction (ritrattazione),  expression of concerns (espressione di preoccupazioni da parte degli editori), correction (correzione).

Abbiamo fotografato il board al giorno 8 gennaio 2024 e abbiamo incrociato i membri del board con i dati disponibili sul database di Retraction Watch e con la piattaforma pubpeer. All’8 gennaio erano elencati 157 membri del board.
Di questi, 24 (15,3%) hanno almeno una segnalazione su Retraction watch. Gli articoli complessivamente segnalati su Retraction Watch per i membri del board di TIS journals sono 59. Questo significa una media di 0,38 segnalazioni pro-capite. I 157 membri del board TIS rappresentano il 6,2% delle segnalazioni italiane su Retraction Watch.
Per avere una idea più precisa, prendiamo gli ordinari e associati delle università italiane alla stessa data (10.726+19.616=30.342) e ipotizziamo che questi abbiano in media 0,38 segnalazioni pro-capite su Retraction Watch. Retraction Watch dovrebbe contenere complessivamente 11.530 segnalazioni di autori italiani. Ne contiene invece soltanto 949. Il che significa che il numero di segnalazioni pro-capite degli universitari italiani è 0,03, cioè un ordine di grandezza inferiore ai membri del board del TIS journal.
Prendiamo adesso i dati pubpeer. Sono 47 (29,9%) i membri del board che hanno almeno una segnalazione su pubpeer. Il numero totale di articoli segnalati è 484: ogni membro del board ha in media 3,1 articoli segnalati. Di nuovo, se ordinari e associati italiani avessero la stessa media, gli articoli di autori italiani sarebbero 93.453.
Una possibile obiezione a questi dati è che siccome i TIS sono i migliori, sono più visibile e quindi sottoposti a controlli più stringenti. E poi ciò che conta per una rivista non è chi sta nel suo comitato editoriale, ma la rilevanza degli articoli che pubblica.

5. Il buongiorno si vede dal mattino: il primo articolo del TIS Journal

Abbiamo letto il primo articolo pubblicato dalla rivista:
Corrado Angelini, Advances and new treatments are available for neuromuscular disorders and affect Quality of Life, Top Italian Scientists Journal 1(1), 2 January 2024
Si tratta di un articolo che per oltre il 60% riproduce letteralmente pezzi (principalmente abstract e conclusioni) di articoli già pubblicati su altre riviste e di articoli divulgativi disponibili su siti web e firmati nella stragrande maggioranza dei casi da altri autori.
Nel pdf qua sotto è possibile confrontare il testo sul TIS JOURNAL e gli articoli che hanno parti letteralmente identiche con esso.
tis_first paper

6. Ciao mamma, sono contento di essere arrivato uno

Pare di aver raccontato il mondo accademico alla rovescia. Chi è al top è in realtà chi inciampa di più. È risaputo che il doping citazionale è facile, tramite autocitazioni o scambi citazionali. Un problema di noi italiani, antropologicamente furbetti? Sì e no.

No, perché a livello internazionale da tempo ci si è accorti dei problemi delle classifiche degli highly cited scientists (si veda qui). Ormai i problemi di doping non possono più nasconderli sotto il tappeto neanche le imprese che fanno delle statistiche bibliometriche il loro principale business. Quella più famosa (Clarivate) che è anche decisiva per il ranking ARWU, da tempo dichiara di escludere chi ha numeri troppo grandi per essere veri, per esempio chi è iperproduttivo. Addirittura, nell’ultima edizione ha cancellato la classifica dei matematici highly cited perché non ha trovato modo di separare i dopati dagli altri. Un po’ come se un anno non si corresse più il tour de France perché circolano sostanze dopanti impossibili da individuare tramite i test antidoping.

Però è anche un problema di noi italiani, perché a differenza di altri paesi abbiamo abbracciato questi criteri facendone il cuore del sistema di reclutamento e di promozione. Al punto che nelle statistiche internazionali l’anomalia italiana è ben visibile e ci mette sullo stesso piano di nazioni che hanno pure loro incentivato il doping.

Morale della favola. La lista dei TIS è una hall of fame? Un discreto segno di provincialismo vantarsi di far parte dei TIS e varare una rivista senza nutrire il sospetto di arrivare fuori tempo massimo, quando ormai il giocattolo si è rotto. Chi è veramente top, un po’ di puzza di bruciato avrebbe dovuto sentirla, se segue il dibattito scientifico e non vive in cima a un pero. Altrimenti, pensando di nuovo al paragone ciclistico, viene in mente la macchietta del campione, immortalato da Walter Chiari, che all’arrivo esulta dicendo

Ciao mamma, ciao papà, sono contento di essere arrivato uno”.

Noi abbiamo comunque fotografato l’elenco dei membri del board al 22 gennaio 2024, e vedremo l’effetto che farà questo post.

 

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“La superlega dei Top Italian Scientists” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.

Respirare e basta

[Questo passo è tratto dal volume Respirare di Marielle Macé, uscito nell’edizione italiana per Contrasto nel 2023.]

di Marielle Macé

Traduzione di Matteo Martelli

Questo libro viene da lontano, da un lungo passato nella respirazione. Viene dai paesaggi avvelenati della mia nascita, da una familiarità con patologie respiratorie che da molto tempo colpiscono certe professioni, certi paesi, certe classi sociali, dagli occasionali attacchi di soffocamento di un’infanzia convalescente, e da un vago amore per tutto ciò che dà immediatamente aria: l’acqua, il mare aperto, la calma, le partenze, i ritorni, la fraternità, la parola vera…

È cresciuto in maniera obliqua, nella reclusione e nella rabbia del lockdown; poi, di filato, in un anno in cui la vita mi ha per miracolo offerto un giardino (un frutteto in pieno sole, a Villa Medici, nel centro di Roma): un giardino condiviso, antico e di nessuno, che non ha soffocato la collera – come avrebbe potuto? –, ma accolto e raccolto le domande, ravvivato le aspirazioni e calmato la voce.

Il libro parla dell’oggi, della nostra asfissia e del nostro grande bisogno di aria, ossia dell’irrespirabile e di ciò che è necessario per respirare. E vuole sostenere quella speranza di respirare che proviamo quasi in modo nuovo ora che l’esperienza intima, anche se impersonale, della respirazione ha acquisito con tutta evidenza una dimensione politica.

*

Senza dubbio, oggi più che mai proviamo il desiderio di respirare: respirare e basta, sentire la grazia dell’aria e la certezza del suo arrivo. Basta d’altronde pronunciare questa sola parola, “respirare”, e un intero paesaggio accorre, come sperato, attratto e aspirato dal richiamo della lingua. Si avanza in un oceano già ampio, seguendo la marea leggera dei polmoni: in soffi d’aria, il vicino e il lontano aprono le più piccole porte della pelle dove, come affacciati al “balcone del corpo”[1], l’esterno viene a raccogliersi, in vapore, nella bocca…

Ne proviamo più che mai il bisogno, ne parliamo, perché un’atmosfera in realtà irrespirabile sta diventando il nostro ambiente ordinario. Tutti lo sanno, lo sentono: ci manca l’ossigeno, la salute, la calma, ci mancano i legami veri, la giustizia e la gioia.

La peculiarità di ambienti quasi ovunque avvelenati è ormai pressoché divenuta la nostra condizione naturale; la nostra condizione politica anche, attraversata da violenza e disprezzo; la nostra condizione sociale (o piuttosto, le nostre condizioni sociali così differenti) in un’epoca di barbarie del capitale e di brutalità pubblica; la nostra stessa condizione psicologica: l’affanno che nasce dalle nostre “violente stanchezze”[2], sopraffatti dal lavoro e dal costo dell’adattamento a un mondo in ebollizione. Un mondo in cui le “crisi” si susseguono, rotolano come una valanga senza lasciare il tempo di riprendere fiato e aprire la finestra dei polmoni. – Respirare, in questo senso, sarebbe già una tregua: pausa, “tempo”, rifiatiamo, offriamoci bracciate di sopravvivenza. Si direbbe quasi che ci reggiamo più sulla qualità del nostro fiato che sulle nostre gambe.

È inoltre in termini di respirazione che viene formulata un’esigenza di giustizia sociale, un’esigenza crudamente ribadita in occasione di una pandemia che ha attaccato l’apparato respiratorio e accentuato la distribuzione già molto diseguale delle vulnerabilità. Poche settimane prima della comparsa del Covid-19, George Floyd era morto dopo essere stato soffocato per più di otto minuti sotto il ginocchio di un poliziotto: “I can’t breathe!”. E la protesta del corpo privato d’aria è diventata il simbolo della lotta contro la crescente violenza della polizia, contro un mondo che si brutalizza e vuole fare leva sulla nostra fragilità. Un mondo in cui il respiro è il cuore stesso del vivere, della vita pulsante, il suo cuore organico e politico, e anche il suo slogan.

È allora tempo di affermare, come fece Achille Mbembe all’inizio della pandemia, “un diritto universale a respirare”[3]. E questo diritto a respirare non è “solo” il diritto di ognuno a respirare in ambienti non più inquinati, ma il diritto a una vita respirabile, cioè desiderabile, una vita che valga la pena, una vita a cui davvero tenere. È il diritto ad aspettarsi molto dalla vita (da una vita con, vicino, tra): la speranza di fraternizzare nel respiro, la speranza di disintossicare il nostro quotidiano e respirare finalmente con gli altri. Respirare con, “cospirare”, se si vuole.

*

Per respirare, in effetti, occorre aria, ma soprattutto una qualità di legami, di paesaggi, di futuri possibili, e molte altre persone con cui respirare, in cui sperare, le quali possano respirare in noi. Un intero mondo in realtà. Perché respirare non significa solo continuare a mantenere il proprio fiato, nutrire il proprio organismo come se vivesse una piccola vita separata. Significa prendere parte a ciò che esiste e far parte di ciò che esiste: prendere l’aria (quella che c’è), lasciarla entrare, porosi e nati permeabili come siamo tutti; e poi restituirla, espirarla, ridarla cambiata al mondo che condividiamo. Partecipare all’insieme della vita, quindi, e contribuirvi. Meglio (o peggio), compromettervisi, in uno scambio che tiene stretti i fili che legano i corpi allo stato reale dell’ambiente in cui vivono.

Il respiro è l’esatto contrario, e in questo sufficiente, della separazione. In modo tale che ognuno sente che con l’aria che espira (l’aria che espira in vapore condensato, rifiuti, ma anche in gesti, atti, e ancora in frasi) contribuisce a produrre quella che viene chiamata “l’aria del tempo”.

Dico “in frasi” perché personalmente è anche la cura della parola e di quel che ci riserviamo l’un l’altro giorno dopo giorno a darmi più o meno da respirare. Il modo in cui la parola si diffonde nel mondo, crea i suoi sentieri tra noi e con tutto il resto, portando aria o inquinando un po’ di più, tutto questo è quanto rende per me la vita respirabile, ossia fraterna, oppure irrespirabile.

Forse in effetti parliamo solo per respirare. Forse parliamo solo perché tutto sia respirabile, in noi e intorno a noi.

*

Nella mia fame d’aria, ho trovato in una pagina di Charles Pennequin una proposta perfetta, un incoraggiamento: “Cercare di essere un respirante”[4]. Il punto è proprio questo: non si tratta di darsi da fare per respirare meglio, respirare correttamente, penetrare i misteri di un’intimidatoria arte del respiro[5] – come se dovessimo rieducarci, imparare una lezione, perché incompetenti in fatto di fiato, un po’ bisognosi, mal assortiti, in attesa di un preparatore atletico o di un correttore (ci manca solo questo, dover essere performanti anche nella respirazione!). Ma cercare di essere un respirante, un essere che respira, e dirci che siamo qui per questo, per far esistere tutto questo il più possibile. Anche a costo di rischiare di parlare, pensare, correre, sperare “al di sopra dei nostri mezzi pneumatici”[6].

[1] Antonella Anedda, Dal balcone del corpo, Mondadori, Milano, 2007.

[2] Romain Huet, De si violentes fatigues: les devenirs politiques de l’épuisement quotidien, PUF, Parigi, 2021.

[3]  Achille Mbembe, “Le droit universel à la respiration”, AOC, 2020.

[4] Charles Pennequin, La ville est un trou, P.O.L., Parigi, 2007, p. 106.

[5] Pensare di dover respirare meglio è già troppo. Molti di coloro che lavorano col corpo si oppongono all’idea stessa di esercizio respiratorio, poiché l’attuazione della volontà inevitabilmente “interferisce con il libero gioco della relazione con l’ambiente che prelude all’avvento del respiro”, Hubert Godard, Une respiration, Contredanse, Bruxelles, 2021, p. 7.

[6] Devo questa formula a Cécile Mainardi.

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“Respirare e basta” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Si levano i morti

di Massimo Parizzi

Su La memoria delle piante, di Velio Abati, Manni Editori, 2023

“Si scopron le tombe, si levano i morti; / I martiri nostri son tutti risorti.” Benché per gli inni, specie patriottici, provi in genere avversione, questi primi versi dell’Inno di Garibaldi mi hanno sempre convinto e commosso. Perché è vero: i “martiri” possono “levarsi”, se chiamati dal presente o dal futuro; sono sempre lì in muta attesa, o muta finché non li si ascolta. Ogni epoca, comunità, gruppo umano sceglie i propri. Come sceglie i propri eroi. Anche per la cancel culture provo in genere avversione, ma non quando, per esempio, negli Stati Uniti si chiede che le statue di Cristoforo Colombo siano abbattute. Una statua rende omaggio a un eroe e lo “scopritore” dell’America, si obietta, non lo era. In effetti, era un farabutto e un uomo meschino.

Ci sono, in questo romanzo, martiri ed eroi? “Chi cerca di parlare dalla riva di chi voce non ha”, avverte l’autore, deve evitare “la postura umiliante della vittima” e, nello stesso tempo, “l’esaltazione della vittima”. Niente martiri ed eroi, quindi: soltanto morti che, scrive Abati riferendosi alla storia recente, ma vale anche per la storia meno recente, “non sono scomparsi. Assiepano discreti le nostre piazze, vegliano le nostre stanze, sanno che qualcuno li ascolta”. Morti che in questo romanzo sono tornati: “Dunque sono tornato” sono le parole con cui inizia, e “dunque siamo tornati” quelle con cui quasi finisce. Chi è tornato, da quale passato, e da dove?

Iniziamo dalla seconda domanda: quale passato? Gli ultimi decenni del XIII secolo, i primi secoli dopo Cristo (forse la fine del II), il XX e XXI secolo, la seconda metà del XVI. Queste le epoche più o meno identificabili, e bastano per farsi un’idea di quanto la memoria delle piante sia a lungo termine. I luoghi, invece, sono quasi sempre gli stessi: Grosseto, il grossetano e la Maremma, dove l’autore è nato e vive, con puntate a Siena e nel senese e forse in Puglia, nel brindisino. E più o meno simile è lo status sociale della maggior parte dei protagonisti: contadini.

Contadini che si trovano di fronte, negli ultimi decenni del XIII secolo, a cardinali che incitano alla crociata e al “fracasso sinistro del ferro e degli zoccoli” di armati che irrompono nei campi e li devastano; o, nei primi secoli dopo Cristo, alla peste, a padroni che dividono famiglie, a scorrerie di “uomini dalle lunghe barbe”; o, nella seconda metà del XVI secolo, a “ruberie e ammazzamenti” da cui scappano per arruolarsi; o, nel nostro tempo, contadini immigrati “neri, bianchi, asiatici” sfruttati da caporali e padroni.

Un contadino immigrato è Camara ed è per lui che, forse, il romanzo si sposta in Puglia, nel brindisino. Scomparso, suo fratello l’ha cercato ovunque, frugando “tutti i cespugli e i mucchi di rifiuti. Ma la sua bicicletta non c’era”. Ha chiesto di lui ai suoi compagni di lavoro e a due caporali, ma da questi ultimi ha ricevuto solo risposte sprezzanti. Lo trova infine “alla proda d’un fosso, dove Mario”, un caporale, “l’aveva buttato, con gli occhi ancora spalancati”. Non lo so, ma non è escluso che scrivendo questo capitolo Abati pensasse a Camara Fantamadi, 27 anni, del Mali, che il 24 giugno 2020, dopo avere lavorato per sei euro all’ora nei campi sotto il sole a una temperatura di quaranta gradi, stava tornando, anche lui in bicicletta e anche lui dal fratello, a Tuturano, nel brindisino appunto, e crollò prostrato sul bordo della strada. “Martiri” ed “eroi” o no, mi piacerebbe che Tuturano gli dedicasse un monumento.

Ma, oltre a contadini, fra i protagonisti di questo romanzo si trovano ragazzini che vanno “a garzone”, scolari e scolare, studenti e studentesse, boscaioli portati via per renitenza alla leva da uomini “con il moschetto”, donne in rivolta contro i “birri”. E, in diversi momenti, a prendere la parola è l’autore stesso: a volte autobiograficamente, per ricordare il padre, una visita a una mostra d’arte contemporanea, il passaggio di un corteo, il Sessantotto; altre per ragionare di verità e libertà, di “identità e temporalità” e della “stratificazione di tempi” nell’essere umano, cioè anche di questo libro.

Fra le parole che ricorrono spesso nel romanzo vi sono “sapere” e “silenzio”. Il bisogno di sapere (“davvero non sapere niente?”), lo stupore di sapere (“quale prodigio è questo mio sapere?”), “la fatica di dover sapere”. E nel silenzio il romanzo inizia (“il silenzio è ora completo”) e finisce (“il grano cresce silenzioso”). Quale il rapporto, se c’è, fra sapere e silenzio? La risposta più facile è che il sapere richiede ascolto e l’ascolto richiede silenzio: “Fermarsi. E ascoltare” è l’invito che rivolge a se stesso, ma sembra rivolto a noi, un personaggio. Che tuttavia subito aggiunge: “I silenzi non sono innocenti … sono la linfa della tua sottomissione”, perciò “raccòntati con gli altri, per capire con loro chi siamo”. C’è silenzio e silenzio, dunque? O, piuttosto, il silenzio che l’ascolto richiede cessa non appena l’ascolto ha inizio? Perché l’ascolto rivela che “non c’è silenzio”: “Quando ogni voce umana, come ora, è svanita” affiora “il soffio lieve del pino”. E quando sembra che “dai corpi degli olivi, dal folto dei grani” non provenga nemmeno “una cicala” o “un filo d’eco” e “nemmeno il mio grido esce di bocca”: “Sbaglio” si dice un personaggio. «Riconosco, riconosco – ah, quanto struggenti – le note sincopate. … Da dove, quel suono prorompe?”

Un personaggio, ho scritto, perché non sempre è facile capire chi parla, chi è a dire “io”, né da che epoca venga la sua voce, né da dove. Accade, per esempio, che un capitolo ambientato nei primi secoli dopo Cristo termini con parole riprese all’inizio del capitolo successivo, ambientato nel XX secolo. Ma che la fine di un capitolo sia ripresa all’inizio del successivo accade più volte, come accade che un capitolo termini con domande cui l’inizio del successivo sembra rispondere con un “eppure”, un “invece” o altre domande. E che dei personaggi, Celso, per esempio, o Renzino, si ritrovino a pagine di distanza, ma senza che si possa dire con certezza che sono gli stessi.

Ma non importa. O meglio, è proprio questo che importa: questo passarsi la voce, questo trasmigrare, questo infiltrarsi, questo mescolarsi, che fanno delle voci che risuonano nella Memoria delle piante una voce collettiva e, nello stesso, voci individuali. E di epoche remote, vicine, attuali, quasi la stessa epoca: “Sento intima la mano che verga incerta sulla roccia il cervo propiziato nella caccia.” Quindi “non ha il tempo un suo ordine, per quanto terribile? Non c’è un inizio e una fine a stringere per sempre un solo sviluppo?”. A queste domande del romanzo, il romanzo stesso sembra rispondere: no, non ce l’ha, non ci sono.

Non ce l’ha e non ci sono perché, scrive Abati, «c’è un’altra memoria»: la “memoria delle piante, delle rughe della terra”, quella, si legge nella stessa pagina, cui “alludeva” “l’intellettuale che, in punto di morte, ha dettato che la vera eredità non è nei suoi libri o nel suo insegnamento, perché verranno dimenticati, ma in quanto in meglio della vita ha cambiato intorno a lui”. Tuttavia, è forte la tentazione di dare del titolo di questo romanzo anche un’altra lettura e vedere nelle “piante” i morti “senza nome” e “senza voce” che ne sono protagonisti, sempre pronti a rinascere, germogliare, fiorire, fruttificare, come le piante a ogni primavera, “la rossa primavera”, per concludere con un altro inno garibaldino, ma delle Brigate Garibaldi questa volta, del “sol dell’avvenir.”

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“Si levano i morti” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Fragili INVALSI: una schedatura? Presidente Ricci: “vi devo salutare”

Al via le prove Invalsi: le rilevazioni scolastiche sono una forma di schedatura? La trasmissione radiofonica Fahrenheit (Radio Tre) ne ha parlato con Roberto Ricci, presidente dell’Invalsi, Nadia Urbinati, giornalista e politologa e Giuseppe De Nicolao, redattore di Roars. Di fronte alle preoccupazioni espresse dal conduttore, da Urbinati e da De Nicolao, Ricci, dopo aver cercato di rispondere, ha abbandonato la trasmissione (“vi devo purtroppo salutare”).  De Nicolao: Io riscontro un grande rischio legato a una schedatura di massa degli studenti italiani e condivido le preoccupazioni del Garante per la privacy che, in un dibattito dello scorso novembre, sottolineava come l’esistenza di un database in cui un determinato soggetto con nome e cognome fosse definito “soggetto a rischio di dispersione” […] comportava un rischio a prescindere dai processi di antidispersione […] Anche perché […] l’apposizione di questo bollino […] è completamente in mano al computer. […] gli studenti fanno dei test davanti al computer e un certo numero, centinaia di migliaia o milioni di studenti, si ritrovano con il bollino di fragile. Conduttore: Roberto Ricci, […] De Nicolao dice ‘attenzione, le scuole mettono in chiaro questi dati’ […] Lei non ha nessuna informazione sul fatto che questo accade effettivamente o meno? Ricci: Ma perché, come dire, non funziona in questo modo. Perché qui, bisognerebbe aprire tutto un tema […] Io vi devo purtroppo salutare… De Nicolao: Io vi posso leggere la procedura di decodifica, ce l’ho sotto gli occhi: […] “Il coordinatore potrà verificare la corrispondenza tra alunno e codice Sidi accedendo al registro elettronico della classe e alla sezione informazioni sull’alunno. Accedere cliccando sul pulsante in colore azzurro accanto al nominativo dell’alunno”.

Qui il link al podcast di Fahrenheit del 29.2.2024

 

Tommaso Giartosio (Conduttore): Ci occupiamo d’altro perché è al via la prova Invalsi per i maturandi, requisito per l’accesso all’esame di stato. Intanto si torna a discutere a partire dal fatto che dal 2022 è stato introdotto dall’Invalsi un nuovo indicatore individuale per identificare studenti in condizione di fragilità e ci sono diversi motivi di preoccupazione secondo alcuni riguardo alla presenza di questo indicatore.

Allora, abbiamo con noi Roberto Ricci, Presidente dell’Invalsi. Ricordo che l’Invalsi è l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo di Istruzione e formazione. Giuseppe De Nicolao è docente di Automatica e di Identificazione dei modelli e analisi dei dati all’Università di Pavia e ci ha raggiunto NadiaUrbinati, la ringrazio. NadiaUrbinati  è politologa, giornalista, docente di teoria politica presso la Columbia University.

Allora, Roberto Ricci, prima di tutto io le chiederei di darci qualche precisazione su quali dati vengono raccolti e in che modo?

Ricci: Allora, intanto grazie per questa opportunità. I dati che vengono raccolti sono quelli degli esiti delle prove standardizzate degli studenti in base a quello che scriveranno nelle prove nei prossimi giorni e, insieme a questi, sono forniti dagli studenti alcuni dati di contesto che descrivono la loro situazione, quindi il contesto culturale nel quale si trovano ad operare, la disponibilità di risorse educative e la loro visione, diciamo così, della matematica, dell’italiano e dell’inglese relativamente a quello che viene richiesto alle prove e a come loro percepiscono queste discipline.

Conduttore: Quindi vengono raccolti anche dei dati che permettono di, come dire, collocare socialmente questi studenti?

Ricci: Beh, dipende cosa .. queste affermazioni hanno sempre un sottotesto come…

Conduttore: No, ci aiuti a capire, certo.

Ricci: Ecco, cerchiamo di capire. La possibilità di descrivere il contesto nel quale gli studenti operano serve per dare una spiegazione, una possibile … come dire, migliorare l’interpretazione dei risultati che si riscontrano e certamente non per altre finalità.

Mi permetta anche di precisare, rispetto a quello che lei ha detto in introduzione: non è calcolato nessun indicatore nuovo, è semplicemente la somma degli esiti delle prove svolte dagli studenti che determina il fatto che gli studenti abbiano avuto un esito positivo o negativo nei loro apprendimenti; diciamo, misurano un percorso di 13 anni.

Conduttore: Quindi non viene chiesto agli studenti, per esempio, il titolo di studio dei genitori o altri aspetti della loro collocazione sociale?

Ricci: Certo, certamente viene chiesto questo, è previsto dalla norma in tutti gli standard internazionali, poichè sappiamo questo è noto …

Urbinati: Non è vero!

Conduttore: Permetta, per favore, a Roberto Ricci di concludere.

Ricci: Ecco, la ringrazio, molto gentile. Dicevo, questi sono dati che vengono raccolti in tutti i contesti internazionali, servono per comprendere meglio e dare ragione, soprattutto, di quelle situazioni di difficoltà, per cercare di aiutare maggiormente chi più bisogno ha.

Conduttore: Nadia Urbinati , voleva dire qualcosa, giusto?

Urbinati: Mi scuso per aver avuto questa reazione. Ecco, appunto, non farei bene i miei Invalsi se fossi, eh, sottoposta.

Non è proprio così, nel senso che, per esempio, negli Stati Uniti, che fanno parte del contesto internazionale, l’ammissione dei ragazzi nelle scuole superiori e poi nell’università non avviene andando a vedere da quale gruppo sociale o culturale vengono. O, per lo meno, ci sono attenzioni alle condizioni di difficoltà proprio per rendere la figura dello studente, indipendente da quel contesto e semmai quando si rivelerà necessario, perché ammesso per le sue doti o le sue qualità, aiutarlo se non ha le capacità economiche e la famiglia.

Bisogna stare, secondo me, molto attenti, perché è vero che il contesto aiuta a capire, ma qualche volta il contesto aiuta a semplificare e a determinare la qualità o le possibilità di una persona, in questo caso di uno studente, legandolo in maniera deterministica all’ambiente da cui viene.

Ci possono essere casi di persone, di ragazzi, che vengono da famiglie disagiate, da condizioni anche semi-illetterate o comunque quasi analfabete, però hanno delle potenzialità che non sono espresse nemmeno nella dimensione dei test, che qualche volta sono molto deterministici.

Quindi nella mia personale opinione, non ho nessuna base scientifica per dirlo, ma per l’esperienza che ho, l’attenzione è non tanto di riferire una persona al contesto, ma di dissociarla dal contesto per quanto possibile.

Conduttore: È molto chiaro, aggiungerei che ci sono persone ragazzi di famiglia benestante, in cui nella famiglia si legge pochissimo. Anzi, direi che questo è un fenomeno sociale probabilmente in crescita. È un’impressione personale.

Volevo sentire Giuseppe De Nicolao e chiedere di quali sono le criticità che riscontra, o perlomeno, le potenziali criticità in questo tipo di rilevazione.

De Nicolao: Io riscontro un grande rischio legato a una schedatura di massa degli studenti italiani e condivido le preoccupazioni del Garante per la privacy che, in un dibattito dello scorso novembre, sottolineava come l’esistenza di un database in cui un determinato soggetto con nome e cognome fosse definito “soggetto a rischio di dispersione”, comportava un rischio a prescindere dai processi di antidispersione e citava proprio delle problematiche di intelligenza artificiale.

Per esempio, citava i problemi del credito al consumo in cui dei soggetti che venivano inseriti in delle blacklist, magari per problemi di morosità nei rapporti con le compagnie telefoniche o dell’energia, vedevano la loro vita pregiudicata sostanzialmente. Se tu vieni classificato come moroso, per esempio, difficilmente riesci a avere credito al consumo. E questa cosa può anche essere frutto di un errore. E chi si trova in questa situazione fa molta fatica a far correggere questi errori nei database e a poter tornare a condurre una vita normale.

Allora, l’idea che esista un database nazionale in cui abbiamo centinaia di migliaia, forse milioni di studenti che sono stati etichettati come studenti a rischio dispersione -noi avevamo usato scherzosamente l’espressione di “disagiati Invalsi”- è una cosa che ha degli aspetti distopici.

Anche perché se ho ben capito, attualmente questa valutazione, quindi l’apposizione di questo bollino (c’è una specie di bollino che dice sei fragile, sei a rischio dispersione) è completamente in mano al computer. Quindi siamo in una realtà, che non esiterei a definire distopica, in cui c’è una procedura interamente computerizzata, in cui non c’è nessun intervento umano (anche le domande a risposta aperta mi sembra di capire ormai vengono corrette dal computer) in cui gli studenti fanno dei test davanti al computer e un certo numero, centinaia di migliaia o milioni di studenti, si ritrovano con il bollino di fragile.

Questo database, ovviamente, deve rimanere segreto, ma noi sappiamo che anche le perdite di dati sono all’ordine del giorno. Quindi, la sola esistenza di questo database, a mio parere, è preoccupante.

Conduttore: Roberto Ricci, affrontiamo queste preoccupazioni.

Ricci: Benissimo, io credo che tutte le preoccupazioni siano legittime e aiutino ad affrontare le cose con maggiore serietà. Tuttavia, credo anche che si faccia una buona informazione quando anziché parlare di timori legittimi, auspicabili, come dire sostenibili anche per certi versi, si passi però alla realtà dei fatti.

Questo dataset non esiste. Noi, i nomi e i cognomi non li trattiamo.

Come dire, la nostra attività è costantemente e giustamente sottoposta al controllo per il garante della privacy che, è bene che lo faccia costantemente. Vorrei che si parlasse non solo dell’attività di controllo che giustamente venga fatta, ma di eventuali sanzioni che non ci sono mai state e quindi questo dà anche una garanzia di un tipo di procedimento.

Conduttore: La interrompo solo per un chiarimento. Quindi non è registrato da alcuna parte che lo studente Mario Rossi è fragile?

Ricci: Assolutamente no, non funziona così.

Ecco, io credo che sia molto più importante calarsi dentro le cose, chiedere, per esempio, alle scuole come funziona, chiedere ai dirigenti scolastici come le cose funzionano e capire come si opera e con quale scopo.

Questo non vuol dire che, giustamente io credo, su questo serva però della ricerca e della conoscenza scientifica. Come ha detto la professoressa, parlare di impressioni è sempre, come dire, può essere anch’esso potenzialmente molto pericoloso e comunque la raccolta di quei dati avviene esattamente per le ragioni che ha detto la professoressa, perché mi permetta di dire che qualsiasi operazione di conoscenza ha di per sé anche elementi di classificazione.

L’insegnante nel momento in cui guarda lo studente, il docente universitario nel momento in cui valuta uno studente è effettua una classificazione. È importante che questo non si traduca in un danno per lo studente. Abbiamo norme, abbiamo organi di controllo e io credo che questo in un certo qual modo debba aiutarci a parlare, ovviamente si può parlare di tutto, però anziché ventilare dei timori, delle ipotesi, anche soffermarsi su come le cose vanno correttamente.

Forse, se oggi pomeriggio ci fosse stato un dirigente scolastico o un insegnante, molti timori li avrebbe potuto, come posso dire, fugare.

Conduttore: Beh, ma sono certo che possiamo comunque fugarne qualcuno come lei dice e approfondire la questione.

Ricci: La mia parola, le chiedo scusa, è come chiedere all’oste se il vino è buono. Ovviamente io darò una visione, ecco magari una…

Conduttore: Ma infatti non c’è solo lei, ma in particolare Giuseppe De Nicolao che ha riflettuto e studiato in modo approfondito sulla questione. Prima, però di sentire di nuovo De Nicolao, vorrei chiedere a NadiaUrbinati se nella nostra storia republicana ci siano stati esempi di un uso discutibile delle rilevazioni a tappeto.

Mi viene in mente per esempio il censimento dei Rom del maggio 2008. Si era a un mese dall’entrata in carica del governo Berlusconi 4 e fu molto discusso. Fu criticato Maroni, che era ministro dell’interno, per questo motivo. Non entro nel merito della giustizia o meno di queste critiche, però ecco ci sono stati una serie di casi di questo tipo, Nadia Urbinati ?

Urbinati: Ma ci sono certo stati; chi studia e gli storici che studiano il rapporto tra statistica e nazionalismo, a partire dalla fine del ‘700, ci potrebbero illustrare tantissimi altri casi.

Bisogna essere cauti nell’uso dei dati e, anzi, nell’elaborazione dei dati, perché non è tanto l’uso soltanto. Come avviene prima, in quali condizioni, per quale ragione si sente il bisogno di classificare? Classificare in relazione a che cosa? Al presente o alle potenzialità? E alle potenzialità psicosomatiche, diciamo così, mentali in generale? Come vengono definite in base a che cosa vengono misurate? Insomma, qui si, siamo in pieno positivismo, lombrosianesimo in qualche caso, starei molto attenta all’uso di queste categorie e soprattutto all’uso del metodo statistico.

Ma qui secondo me c’è un altro elemento: la Repubblica quando nacque, ed era un periodo di grandissima povertà generale, un paese distrutto, le rovine, ecc., è paradossalmente una condizione di maggiore potenzialità per il futuro e di maggiori eguaglianze di condizione.

Ci furono anni, a partire dal ’46 e ’47, anni nei quali, nonostante le grandi difficoltà e anche le posizioni ideologiche diverse, nei quali nelle scuole, diciamo così pubbliche, dopo la riforma scolastica del ’55, soprattutto, i ragazzi o i bambini avevano, non solo per i grembiulini uguali, ma erano messi nella condizione di avere delle possibilità, loro come persone, tanti di noi. Io vengo da quella generazione, come me tanti altri.

Senza Invalsi, senza conteggi, senza statistiche, senza bollini; abbiamo provato a vivere indipendentemente dalle nostre famiglie di origine, a vivere una nostra vita, un nostro futuro, ad esplorare le nostre potenzialità. Questo per tutti deve valere, questo è un segno di grande uguaglianza delle possibilità e delle opportunità, indipendentemente dalla famiglia, indipendentemente dalla zona geografica, il sud e il nord. Ecco, questa idea che è molto importante per l’educazione pubblica nelle società democratiche (pubblica in questo caso vuol dire aperta) è una premessa fondamentale per la creatività di un’intera nazione, di un’intera società nazionale. Quindi qualche volta la caparbietà con la quale si vuole misurare tutto, come se il numero, il dato ci consentisse di avere una determinazione scientifica di quel che pensiamo sia giusto e buono, e qualche volta invece è un sacrificio enorme, perché vengono, diciamo così, messe in alcuni casi le persone all’interno di gabbie, dalle quali per loro è difficile poi uscire, è come essere classificati.

Conduttore: Vedo un messaggio che va nella direzione di ciò che lei sta dicendo, Anna da Rapallo ci scrive: ‘mia figlia nelle medie è stata indirizzata verso una scuola professionale, visto che io lavoravo in albergo. Invece, ha scelto un liceo ed è stata la prima della classe a laurearsi in triennale, magistrale e master scuola di psicoterapia. Ho molti amici laureati che hanno figli che non hanno voluto studiare. C’è più desiderio di rivalsa nei figli dei non laureati; questa è la conclusione che ci propone Anna da Rapallo.’

Ma, Giuseppe De Nicolao, affrontiamo forse le propongo la principale obiezione che ha mosso Roberto Ricci, cioè che in effetti, per quanto riguarda perlomeno la questione della privacy (che è solo un ramo della discussione), i dati non sono legati per nome e cognome a specifici studenti.

De Nicolao: In realtà, le scuole stanno decodificando questi codici perché, nelle misure anche legate al PNRR o di contrasto alla fragilità, le scuole mettono in chiaro i nomi in modo tale da sapere quali sono gli studenti fragili.

Quindi, da questo punto di vista, in realtà, l’associazione tra gli esiti e l’etichetta di fragilità è possibile, perché altrimenti le scuole non potrebbero sapere quali sono gli studenti su cui indirizzare questi loro interventi. Le preoccupazioni che io ho esplicitato erano letteralmente quelle formulate dal garante della privacy in un dibattito pubblico proprio con il dottor Ricci.

Quindi, sto semplicemente riportando quello che una persona che immagino competente, come il garante della privacy, ha già enunciato pubblicamente. In quell’ambito, il garante della privacy sollecitava anche Invalsi a progettare soluzioni tali da garantire una revisione effettiva degli errori o degli esiti, anche a costo di accettare una compressione della potenzialità tecnologica.

Cioè, non tutto quello che è tecnologicamente possibile è anche eticamente corretto.

Conduttore: Cosa suggeriva, per esempio, il garante della privacy? Se riesce a ricordare le proposte concrete che ha avanzato?

De Nicolao: Le proposte concrete? A un certo punto diceva: ‘bisogna dire al padrone del vapore che la tecnologia non è detto che io la posso usare tutta, perché alcune cose hanno un impatto non sostenibile’.

Per esempio, un tema importante è il diritto alla verifica, correzione e oblio dell’etichetta di fragilità. Il genitore, il cui figlio è stato etichettato come fragile, ha diritto di verificare questo risultato, cioè di vedere come è venuto fuori e se è stato frutto di un errore? Ha diritto a chiedere una correzione di questo risultato? E l’altra cosa: si parla di diritto all’oblio anche per i pazienti oncologici. Alla fine del ciclo scolastico, chi è stato etichettato come fragile, ha diritto a vedere l’oblio di questa etichetta?

Perché, parliamoci chiaramente, come le scuole possono avere i nomi dei fragili, perché su questi studenti indirizzano i loro interventi, così un futuro governo, magari meno illuminato di quelli precedenti, potrebbe pensare di utilizzare l’etichettatura dei fragili per selezionare il personale della pubblica amministrazione, per esempio, o comunque per indirizzare delle politiche sociali.

Allora, da questo punto di vista è bene fidarsi, ma a volte non fidarsi è meglio. Quindi, un’informazione sensibile che può essere decodificata -perché le scuole la stanno decodificando- dopo un po’ di tempo, dovrebbe decadere. Ma prima ancora di decadere, dovrebbe essere possibile verificare come mio figlio è stato etichettato fragile e se questa etichetta era giusta.

E io, conoscendo un po’ gli aspetti statistici e matematici delle valutazioni Invalsi, ho l’impressione che in realtà questa somigli molto più a una scatola nera, che a qualcosa di cui si possono ricostruire singoli passaggi per capire se quella etichetta è un’etichetta veramente giusta piuttosto che no.

Conduttore: Roberto Ricci, mi sembra che, forse siamo in una situazione di stallo, perché De Nicolao dice ‘attenzione, le scuole mettono in chiaro questi dati’, lei giustamente, legittimamente, dice ‘ma ci vuole un preside per dirci se questo accade o no’. Lei non ha nessuna informazione sul fatto che questo accade effettivamente o meno?

Ricci: Ma perché, come dire, non funziona in questo modo. Perché qui, bisognerebbe aprire tutto un tema, di quando il dato è disponibile, ma questo vale anche per i voti di scuola. Chi è il titolare di quel dato? In questo caso, il dirigente scolastico.

Ecco, io sono pienamente d’accordo con chi mi ha preceduto, dicendo che per giudicare le dinamiche e ovviamente contenere, come dire, i critici, cosa fondamentale, ovviamente il primo passo etico è una conoscenza profonda delle norme e di come questo avviene, perché il diritto all’oblio è già disciplinato, non da Invalsi, ma dalla norma, e quindi questo viene pienamente rispettato, così come le possibilità che sono state richieste. Quindi io credo che si faccia un grande servizio come oggi potendo aprire il dibattito, ragionando sulle cose e cercando di andare dentro alla profondità del tema, anche statisticamente.

Conduttore: Nadia Urbinati, no, volevo chiedere ancora una cosa a Nadia Urbinati , perché mi sembra…

Ricci: Io vi devo purtroppo salutare…

Conduttore: E allora la salutiamo, Roberto Ricci, grazie.

Ricci: Vi chiedo scusa, e ringrazio tantissimo lei e i colleghi. Grazie, arrivederci.

Conduttore: Grazie per essere stato con noi.

Urbinati, sì, volevo chiederle se … Evidentemente, il senso di una misurazione come quella offerta dai test Invalsi è di allocare risorse dove vengono riscontrate delle fragilità. C’è però anche il pericolo di liquidare dei contesti scolastici che vengono considerati irrecuperabili e, in generale, direi di stratificare e irrigidire l’istruzione. Ecco, penso anche molto alla sua esperienza negli Stati Uniti. È qualcosa che negli Stati Uniti è accaduto o accade? È qualcosa che può accadere anche in Italia o già accade in Italia?

Urbinati: No, ma questo è un problema serissimo, perché ogni metodo può essere usato sia per escludere che per correggere. E’ ovvio che è così. Io posso usare gli Invalsi per individuare le criticità e usare le criticità per escludere colore che le soffrono. Anche costruire classi di tutti bollini rossi, chiamiamoli così, è un modo per escludere; invece è la mescolanza che fa la ricchezza di una classe.

Quindi, è complicato dire che siccome abbiamo individuato questa fragilità abbiamo dato uno strumento per risolverla. Possiamo risolverla in diversi modi quella criticità e il dato ovviamente viene dato come oggettivo e quindi spetta poi la responsabilità a coloro che mettono in atto risorse umane e finanziarie, su di loro ricade la responsabilità. Ma io non sono d’accordo perché la responsabilità comincia dal momento in cui si raccolgono i dati.

Lei mi chiede degli Stati Uniti. È interessante questa discussione perché, ovviamente, ci sono sistemi di selezione estremamente raffinati, e molto di classe, diciamo pure. Però c’è un elemento interessante che è il controllo da parte dei genitori. I genitori hanno un potere enorme nelle classi e nelle scuole del evitare e di monitorare tutte le attività di raccolta dati e classificazione, come vengono chiamate con un linguaggio che non mi piace molto, insomma il classificare le persone.  Da noi non c’è questa forza altrettanto espressa da parte dei diretti interessati. Sì, il genitore li copre di fronte a un brutto voto, ma non va all’origine, cioè come vengono costruite le classi.

Quindi questo è un tema che qui esiste nelle scuole superiori. Nell’università è ancora più severo, perché ci sono due selezioni che avvengono parallelamente quando si devono ammettere gli studenti all’università. Una per il merito, una per i bisogni. Quindi se io per merito entro ma non ho le possibilità, l’altra commissione mi individua le mie carenze e si apre il discorso, di borsa di studio, sostegno, etc. etc. Però le due selezioni marciano separate e questo è una garanzia per la persona, cioè per lo studente, di non essere penalizzato.

Non avviene dovunque, verissimo. Ma nelle grandi università avviene e quando non avviene o si interrompe o viene a cadere oppure alcune classi o categorie di persone hanno più privilegio, vengono denunciati con forza. Anche perché qui non si tratta tanto di una questione, di giustizia distributiva, cioè di denaro. Si tratta della possibilità di creatività di un’università, di una società. Nell’uniformità, non c’è creatività.

Conduttore: Nadia Urbinati, io la ringrazio. Giuseppe De Nicolao, io penso che questo dibattito dovremmo riprenderlo perché con Roberto Ricci abbiamo avuto le risposte che …

De Nicolao: Io vi posso leggere la procedura di decodifica, ce l’ho sotto gli occhi.

Conduttore: Se è molto rapido sì.

De Nicolao: Allora è una circolare di un liceo. C’è scritto nel file:

gli alunni sono indicati con loro codice Sidi e non con nome e cognome per questioni di privacy. Il coordinatore potrà verificare la corrispondenza tra alunno e codice Sidi accedendo al registro elettronico della classe e alla sezione informazioni sull’alunno. Accedere cliccando sul pulsante in colore azzurro accanto al nominativo dell’alunno.

Quindi questa è la procedura che hanno a disposizione i coordinatori delle classi, con cui decodificano e vedono quali sono gli alunni fragili.

Conduttore: Ho capito, poi forse si tratta di capire se questa identificazione poi viene a sua volta depositata in un database per cui uno possa recuperarla anche in un…

De Nicolao: Incrociando il registro elettronico e i codici Sidi è possibile avere i cognomi il che significa che esiste questa possibilità.

Conduttore: Io la ringrazio molto, Giuseppe De Nicolao. Ringrazio Roberto Ricci e Nadia Urbinati  di cui vorrei citare un volume che sta per uscire a giorni ormai: “Democrazia afascista”, scritto insieme a Gabriele Pedullà e pubblicato da Feltrinelli. Grazie per essere stata con noi.


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“Fragili INVALSI: una schedatura? Presidente Ricci: “vi devo salutare”” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.