Voi non siete cattivi…

 …ne sono certo (almeno per quanto concerne quelli di voi che conosco, o conoscevo). Sono assolutamente certo che certe cose non le fate con animus nocendi: anzi! Se vi comportate in un certo modo è, in tutta evidenza, perché pervasi dal sacro fuoco del fare qualcosa, del servire la causa, perché posseduti, inebriati dall’entusiasmo di avere compreso, e conseguentemente (?) di detenere la chiave di lettura che può aiutare gli altri a leggere il mondo nel modo giusto (?).

Questa chiave ha un nome che inizia per “v” e finisce per “erità”.

Ora, è vero che più di una volta mi è capitato di farvi notare che la verità non è una categoria politica (ad esempio qui, parlandovi del Partito Unico della Verità), così come non lo è l’onestà (cha cha cha), tema quest’ultimo che affrontammo a suo tempo (nel 2012). Quindi in teoria se molti di voi (quasi tutti) pensano di poter affrontare un ragionamento politico brandendo come una clava la Verità (che poi, in generale, sarebbe quello che pensano di aver capito leggendo me e qualcun altro), non dovrebbe essere colpa mia: io, che non funziona così, ve l’ho detto! Tuttavia, siccome in pratica è probabile che qualcuna delle mie considerazioni sfugga (ad esempio, qualcuno di voi potrebbe essersi perso il post sul Partito Unico della Verità), e d’altra parte è certo che fra guardare (come una mucca guarda un cartello stradale) e leggere una differenza c’è (e voi non sempre siete dalla parte giusta di questo spartiacque), poi capita che succedano incidenti, la cui conclusione, invariabilmente, è di far passare quello che da tredici anni sta cercando di aiutarvi a ragionare in modo critico (io, non so se ci avete fatto caso…) per uno che vi irretisce con teorie astruse, e voi, che, in fondo, non siete cattivi, per dei decerebrati adepti di una setta!

Potremmo per cortesia evitarlo?

Non che mi interessi quello che voi o altri pensino di me: non vorrei stucchevolmente tornare sul mio programmatico rifiuto del consenso, che comunque resta l’unica genuina garanzia per chi questo consenso decide di darmelo! Ma siccome voi non siete cattivi, mi dispiace che altri pensino male di voi. Per evitarlo, dovreste forse unire alcuni puntini che ho cercato di fornirvi nel corso del nostro comune cammino. Proviamo a farlo, o rifarlo, partendo da un esempio, questo:

Il tizio della Biblioteca d’Alessandria non so chi sia, anche se, secondo me, non lavora male, e a me piace seguirlo in alcuni dei suoi racconti (molto interessante, ad esempio, la serie sull’esperienza coloniale italiana). L’altro immagino che sia l’idolo di molti di voi (ne ho piena contezza solo nel caso di alcune amanti tradite!), non ho mai ascoltato un suo video, e mi sembra un perfetto interprete di quella che potremmo chiamare “la banalità del sensazionale”. Non è però su questa valutazione comparativa che vorrei soffermarmi, o per lo meno non ora. Le considerazioni che ho fatto non implicano che mi sembrino più plausibili le versioni dell’uno o dell’altro: sarebbe veramente idiota addentrarsi in questo ragionamento in un post che parte dal presupposto che alla fine la “Verità” (o forse dovremo chiamarla veritah) non sia una categoria politica! Alla fine, quello che vale per Report vale anche per Luogo comune (che intuisco essere il sito di Mazzucco).

Ciò su cui vorrei invece attirare la vostra attenzione sono i primissimi minuti del video del bibliotecario d’Alessandria, quelli in cui cataloga i commenti ricevuti sotto un suo altro video riguardante (a quanto capisco) l’Ucraina (e che mi interessa il giusto perché su questo, come su altri temi, la mia opinione me l’ero fatta una decina di anni fa e resta quella). Il povero bibliotecario, che sembra una persona civile, bersagliato da commenti di questo tenore: “Guarda questo video e troverai la verità!” giunge a una conclusione: “Io quel video non l’ho mai visto e non ho nessuna intenzione di vederlo, nessunissima intenzione di vederlo!”

So che sarete scandalizzati, ma secondo me la sua conclusione non è solo legittima (perché ognuno ha diritto di vedere quello che gli pare), non è solo naturale (perché chiunque venga aggredito istintivamente si difende), ma è anche, in un senso più profondo, giusta.

Strano come la parola che finisce per “erità” vista dall’altro lato finisca per “affanculo”…

E voi mi direte: “Sì, va bene (forse…), ma perché senti il bisogno di dircelo?”

Perché molti, troppi di voi (a mio avviso sarebbe troppo anche uno) si comportano come i commentatori “assertivi” del povero bibliotecario, cioè si comportano, non scientemente e scientificamente (perché non siete cattivi!), ma oggettivamente, in modo da allontanare qualsiasi lettore indifferente, o anche lievemente prevenuto a favore o contro i nostri argomenti critici, dalla lettura dei contenuti che propugnate con tanta veemenza, in modo da suscitare in chi non vi si sia ancora imbattuto un viscerale disgusto per la vostra “veritah” (che poi sarei io).

Analogamente, molti, troppi di voi, intervengono su quelli che ritengono essere troll (e che magari lo sono, in base ai parametri oggettivi che conosciamo o dovremmo conoscere) agendo da troll, cioè insultando, insistendo, ecc.

Vi risparmio esempi per carità di patria (e anche perché non ho tempo di cercarne, ma se non vi date una raddrizzata sarò costretto a farlo), come pure vi risparmio esempi di best practice (direi che Claudio può valere come repertorio di riferimento).

Mi piace invece commentare un episodio di qualche giorno fa, perché è particolarmente indicativo del fatto che voi non siete cattivi. La cosa è iniziata così:

(dal basso verso l’alto).

Sintesi: il 9 e il 10 gennaio avete disperatamente cercato di fare una cosa che non vi avevo chiesto, quando non ve l’avevo chiesta (non avendovela chiesta mai), e in un modo che vi avrei sconsigliato perché palesemente controproducente: mandare #goofynomics in tendenza.

Quello che avevo chiesto io era una cosa diversa: usare l’hashtag #goofynomics se si postava un contenuto di Goofynomics. Questa cosa un senso poteva averlo: ad esempio quello di aiutare chi fosse incuriosito dal contenuto di un post o di un tweet a trovarne di analoghi e magari ad atterrare qui. Ma mandare #goofynomics in tendenza per il gusto di farlo era controproducente sotto almeno un paio di profili, piuttosto evidenti (duole rimarcare l’ovvio). Uno è evidenziato già dallo scambio qua sopra, ma per maggior chiarezza vi fornisco un altro esempio:

Secondo voi, uno che non sa che cosa sia #goofynomics, quale interesse può provare ad approfondirlo se si trova a contatto con una simile bolla di sciroccati autoreferenziali!? Io scapperei a gambe levate, e considerate che Goofynomics c’est moi! Aggiungo una cosa più tecnica, ma se vogliamo ancora più ovvia: l’algoritmo, come è ovvio (mi ripeto) penalizza lo spam. Come si fa a essere così… così “non cattivi” da pensare che un algoritmo si faccia forzare dallo spam!? Se per andare in tendenza bastasse ripetere un hashtag sessanta volte in un tweet tutti potrebbero andare in tendenza! Ma ovviamente (insisto, perché è ovvio, com’è ovvio che non siete cattivi) l’algoritmo penalizza lo spam, da cui questo saggio consiglio:

che, permettetemi di sottolinearlo, fa un po’ specie dover dare a persone che come voi sui social ci vivono!

La risposta alla domanda “perché #goofynomics non è in tendenza” era quindi molto semplice: perché voi spammando questo tag lo stavate mandando in blacklist:

Quindi, non per cattiveria (perché voi non siete cattivi), stavate conseguendo un fine che era l’opposto delle vostre intenzioni, e soprattutto delle mie (che infatti non vi avevo chiesto niente, e se vi avessi chiesto qualcosa non vi avrei chiesto questo): penalizzare l’hashtag che vi avevo chiesto di utilizzare in modo corretto (e non di provare a mandare in tendenza a genitale esterno di carnivoro).

Eggnente, voi non avete capito dove siete: eppure ho cercato di farvelo capire in ogni modo! Siete a casa di uno che non tifa per Faust.

Quelli di voi più familiari con le lingue sanno che a Roma, quando si dice di uno che non è cattivo, è perché si vuole dire che è un “cojone” (l’ortografia corretta è questa). Se ho dedicato una serata che avrei dovuto dedicare ad altro a reiterarvi la mia profonda convinzione che voi non siate cattivi, è per enfatizzare il mio sofferto e partecipato auspicio che diventiate, o almeno sembriate, meno “cojoni”, perché questo non fa bene né a voi, né a me, né al supremo interesse del Dibattito.

Se poi voleste anche diventare cattivi, lo apprezzerei. In qualsiasi opera drammatica il cattivo magari perde, ma è senz’altro più affascinante e piacevole da frequentare del “cojone”. E siccome, nonostante siano già passati tredici anni, siamo solo all’inizio del nostro percorso, capirete che preferirei proseguirlo senza annoiarmi…

Ma soprattutto, insisto su questo concetto, vi chiedo un minimo di coerenza con la retorica bellicista che tutti vi penetra e vi permea, la retorica dello scontro decisivo, la retorica del nemico, la retorica dell’eterna lotta del Bene (voi?) contro il Male. Prendiamo come convenient working hypothesis che si sia effettivamente in guerra e che voi siate qualcosa di simile a dei soldati. Bene. Allora io sono il vostro sergente Foley, dal che discende che dovete fare quello che dico io, quando lo dico io e come lo dico io, che è un po’ il contrario di quello che avete fatto: fare una cosa che non vi avevo detto di fare, quando non vi avevo detto di farla, e come non vi avevo detto di farla!

Lo dico nel vostro interesse, non nel mio! I social sono un gioco, la vita è altrove. Ma a voi piace vincere. Secondo voi #borghidimettiti e #bagnaiarrogante sono andati in tendenza per caso? 

Secondo me no.

E allora limitatevi a fare quello che vi chiedo, o a ignorarmi. Preferisco perdere da solo che vincere in compagnia, ma se c’è una cosa che mi dà al cazzo è perdere in compagnia per colpa degli altri!

Soprattutto quando non sono cattivi…

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“Voi non siete cattivi…” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Segare il ramo, un anno dopo

Ci eravamo lasciati circa un annetto fa con questa sintesi: dopo aver distrutto i propri mercato di sbocco nell’Eurozona, e essersi preclusa i mercati di sbocco extraeuropei con la sua arroganza, cioè dopo aver segato il ramo su cui era seduta, l’economia tedesca si trovava in una situazione delicata. Una “reflazione controllata”, realizzata spingendo sulla domanda interna (con investimenti o altra spesa pubblica, o con tagli di imposte) avrebbe sostenuto la crescita, ma, alimentando il processo inflattivo già in atto, avrebbe fatto perdere competitività, e quindi domanda estera:

Da anni i più illustri commentatori (e anche i meno illustri, come chi vi scrive) auspicano che la Germania realizzi una simile politica di sostituzione della domanda estera (esportazioni) con quella interna (investimenti), nell’interesse proprio e di chi le sta intorno. Per motivi sufficientemente ovvi, chiedergliela è però inutile. D’altra parte, questo sarebbe uno dei peggiori momenti per metterla in pratica, sotto molteplici profili. In particolare, il contesto inflazionistico crea alla Germania non solo un problema economico, ma anche un problema politico, considerando lo sforzo fatto lungo gli anni per portare la stabilità dei prezzi al centro dell’attenzione.

Le previsioni macro di un anno fa dicevano che nel 2023 la Germania non sarebbe cresciuta:

Possiamo fare un rapido tagliando di queste previsioni e della nostra analisi, alla luce di quanto segnalano alcuni commentatori:

La cosa ci riguarda perché seduti sotto la Germania ci siamo noi: intendo dire ovviamente che un crollo dell’economia tedesca sarebbe un problema per la nostra economia, che dopo la cura dell’austerità è decisamente “estroflessa”, molto dipendente dalla domanda estera (e quindi in particolare da quella tedesca), come abbiamo visto qui:

Intanto, le previsioni OCSE per il 2023 erano azzeccate. Un anno dopo si constata che in effetti noi siamo cresciuti e loro no:

Altro dettaglio: il processo inflattivo continua a procedere più spedito nel Nord che nel Mediterraneo:

L’austerità serviva a farci recuperare competitività, riducendo la pressione della domanda interna sui prezzi, e sotto questo profilo ha funzionato: sparando alla tempia del paziente siamo riusciti a ridurgli la febbre! Nel grafico il Nord è la media di Germania, Austria e Olanda, e il Mediterraneo la media di Francia, Italia e Spagna. Si vede bene che prima della Grandi crisi finanziaria l’inflazione correva più da noi, ma ora corre più da loro. Risultato: le economie del Nord stanno perdendo competitività, il loro tasso di cambio reale, cioè il prezzo dei loro beni in termini di beni degli altri Paesi, sta crescendo (e quindi i loro beni diventano più cari, cioè meno competitivi, dei beni degli altri Paesi):

L’entità del fenomeno è abbastanza rilevante. I rapporti di scambio sono tornati a quelli vigenti a inizio millennio, quando la Germania era il malato di Europa, come è tornata ad essere, ma con una differenza:

Dal 2021 il contributo dell’industria (escluse costruzioni) alla crescita del Pil trimestrale è diventato, in media, negativo, mentre è aumentato quello dei servizi. 

La perdita di competitività comincia a riflettersi sul saldo estero (anche se a noi non è che vada molto meglio).

Se torniamo al dilemma che vi illustravo un anno fa:

sembra di poter concludere che da un lato le illuminate élite tedesche abbiano seguito i saggi consigli dei banchieri filantropi, accordando incrementi salariali:

ma che dall’altro ciò abbia effettivamente alimentato l’inflazione senza però spingere efficacemente sulla crescita.

Questo spiega perché le elezioni europee preoccupano tanto chi è al governo, perché i cittadini protestano, e perché anche da noi le cose vanno bene ma non benissimo. La politica del nostro Governo, volta a sostenere la domanda interna, è certamente appropriata alle circostanze, ma la politica monetaria della Bce è tarata sul processo inflattivo tedesco, più vigoroso del nostro, e quindi cercando di riportare al 2% l’inflazione tedesca la Bce spinge verso lo 0% la crescita italiana. Siamo di nuovo in un contesto in cui la stabilità monetaria (bassa inflazione) rischia di generare instabilità finanziaria (accumulazione di sofferenze bancarie), un po’ come quando questo blog prese le mosse.

Questo problema, com’è noto, una soluzione ce l’avrebbe, anzi, più di una: ma per un verso o per un altro le condizioni politiche per metterle in pratica non sussistono, e quindi aspettiamoci un 2024 interessante.

(…dovrei dirvi un’altra cosa, ma ve la dico un’altra volta: non siete solo pochi, siete pure…)

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“Segare il ramo, un anno dopo” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Demografia ed educhescion (che sarebbe l’istruzione)

 (…alla fine la risorsa più preziosa del blog siete voi. Parliamo allora di risorse…)

Ciao Alberto

Il grafico è quello degli studenti per anno scolastico e livello scolastico, compilato con i dati dei rapporti statistici annuali del Ministero, dal 2013/14 (che viene assunto come base=100) fino al 2023/24.

Si vede un forte calo delle iscrizioni alla primaria che inizia nel 2017-18 (ragionevole, visto che i bambini la iniziano a 6 anni e quelli che la iniziavano nel 2016 avrebbero dovuto essere concepiti nel 2010-11 e magari “messi in cantiere” almeno un anno prima).

Dopo 3 anni, nel 2020-21, il forte calo comincia a trasferirsi sulla media, ragionevole visto che un po’ di calo c’era stato anche prima del 2017-18 e dopo una metà del ciclo della primaria ci si può aspettare che l’effetto in uscita si avverta sul ciclo successivo.

I dati sono reperibili nei rapporti disponibili qua https://www.miur.gov.it/web/guest/pubblicazioni. Non sono dati consolidati, perché i rapporti vengono stilati all’inizio dell’anno scolastico, ma se ci sono errori o approssimazioni, è ragionevole assumere che si ripercuotano nello stesso modo su tutti gli anni, per cui le tendenze non dovrebbero essere alterate.

La domanda: perché non si vede un calo sulla superiore? Da dove vengono gli studenti che non ci sono più nel sistema negli anni precedenti? Non ho un’ipotesi ma è certamente un fatto curioso.

La constatazione agghiacciante: se togliamo dal conto degli studenti quelli con cittadinanza non italiana, che in questo periodo di tempo sono aumentati, abbiamo perso in 10 anni 600 mila studenti italiani, la dimensione di una città tipo Genova o Palermo.

Ovviamente è un fenomeno che conosci bene, ma volevo condividere il dolore di aver toccato con mano la misura di questo (ennesimo) orrore (tra l’altro, si tratta di una cosa in cui mi sono imbattuto abbastanza per caso, perché cercavo sul sito del Ministero tutt’altri dati…).

In effetti in quel grafico qualquadra non mi cosa. Le superiori, fino a prova contraria, sono ancora scuola dell’obbligo, quindi non è pensabile che ad esse acceda una “clientela” schermata dalle conseguenze economiche della crisi, e in quanto tale capace di riprodursi!

Voi avete un’idea di che cosa significhino queste tendenze? In particolare, forse sarebbe utile aggiungerci il dettaglio della cittadinanza, ma anche qui non si capirebbe come mai il livello delle iscrizioni alle superiori sarebbe sostenuto da studenti non italiani, mentre alle medie e alle elementari no. Io però devo occuparmi di altro. Se il tema interessa, ci torniamo con più calma.

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“Demografia ed educhescion (che sarebbe l’istruzione)” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

La disoccupazione in teoria e in pratica sette anni dopo

Sette anni fa, prendendo spunto da un tweet di Luigi Pecchioli, commentammo insieme i dati sulla disoccupazione, considerando, oltre alla definizione ufficiale, quella estesa, che comprende i lavoratori sottooccupati (che lavorano meno di quanto vorrebbero: in pratica, i lavoratori in part time involontario), gli scoraggiati (che vorrebbero lavorare ma hanno rinunciato a cercare un posto di lavoro), e anche chi sta cercando lavoro ma non sarebbe immediatamente disposto a lavorare se gli offrissero un posto. Insomma, avevamo analizzato la disoccupazione in teoria e in pratica. In un post successivo vi avevo spiegato che la definizione di disoccupazione più ampia è a grandi linee quella che negli Stati Uniti viene definita U6 (qui trovate una tavola con tutte le definizioni):

e corrisponde al labour market slack, il “lasco” totale fra domanda e offerta di lavoro.

Ieri mi hanno mandato al Tg a commentare la situazione economica, che è in effetti in via di miglioramento. Da domani riprenderò il mio lavoro parlamentare e potrei avere meno tempo da passare con voi. Approfitto di oggi per darvi un quadro più articolato di quanto sta succedendo nel mercato del lavoro, considerando che, sette anni dopo, il database dell’Eurostat riporta anche il labour market slack “spacchettato” nelle sue quattro componenti.

Vado molto rapidamente.

Dal 2009 a oggi il tasso di disoccupazione si è mosso così:

La conseguenza di aver dovuto scaricare sulla domanda interna l’intero peso dell’aggiustamento della bilancia dei pagamenti (cioè di aver dovuto abbattere il Pil per abbattere le importazioni) è stato un balzo verso l’alto della disoccupazione che ci ha portato dall’avere il tasso più basso fra le tre grandi economie dell’Eurozona all’inizio del 2009, ad avere il più alto nel 2013, raggiungendo e superando la Francia. Non siamo ancora ritornati al livello pre-crisi, anche se, dall’estate del 2017, la disoccupazione è scesa di quasi tre punti (dal 10.1% al 7.2%), e dal suo massimo, raggiunto all’inizio del 2014, di 4.2 punti. La tendenza comunque è negativa.

Quanto alla disoccupazione estesa, al labour market slack, a quello che gli americani chiamerebbero U6, la situazione è questa:

Qui partivamo svantaggiati, avendo già prima della crisi il valore più alto fra le tre grandi economie dell’Eurozona (il 18.6%). La brutta notizia è evidente: siamo ancora molto più in alto della Francia (che invece in termini di disoccupazione “convenzionale” abbiamo raggiunto e probabilmente supereremo presto, ovviamente verso il basso). Le notizie relativamente buone sono che siamo in una posizione migliore di prima della crisi (l’ultimo dato è pari al 17.7%) e su una traiettoria di miglioramento relativamente rapido. Dall’estate del 2017, cioè da quando Luigi attirò la nostra attenzione su questa variabile, la diminuzione è stata di 6.8 punti, di cui, come abbiamo visto, 2.9 attribuibili alla disoccupazione convenzionale, e dal massimo, raggiunto alla fine del 2014, di 9.5 punti.

La composizione della disoccupazione “allargata” la vedete qui:

Il grafico è molto decorativo, ma la lettura non è semplicissima. Si intuisce però che gli scoraggiati sono diminuiti significativamente (-3.2 punti percentuali dall’estate 2017). Le altre componenti, la più significativa delle quali è il part-time involontario, hanno mantenuto la stessa incidenza, con variazioni trascurabili.

Quindi visto che le cose sono un po’ migliorate siamo scesi nella graduatoria del Paese messo peggio?

No, purtroppo non rimaniamo terzi a nessuno, esattamente come sette anni fa:

Solo che sette anni fa il primo era la Grecia. Ora la Grecia è in quinta posizione, dopo Spagna, Italia, Svezia e Finlandia (pensa un po’?). Ma ci è arrivata come ci ha spiegato Heimberger:

Quindi stiamo meglio noi, nella nostra dignitosa seconda posizione, che loro nella quinta. Mi resta da capire, ma sicuramente un giorno lo capirò, come mai tutti vanno in sollucchero per l’attuale detentrice della medaglia d’oro della disoccupazione: la Spagna. Niente di personale, anzi! Meno male che c’è qualcuno che va peggio di noi! Ma gli operatori informativi lo sanno?

Secondo me no, ma non è questa la più importante fra le cose che ignorano.

(…domani si riparte! Abbiate pazienza se dovrò trascurarvi. Sto cercando di peggiorare il nostro piazzamento e chissà, magari con un po’ di fortuna mi riuscirà di vederci scendere dal podio…)

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“La disoccupazione in teoria e in pratica sette anni dopo” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Ancora su Pil e tendenze…

Solo due ulteriori chiose all’annosa vicenda del grafico della vergogna, quello che documenta lo scostamento del Pil italiano dal suo tendenziale.

La prima è che, in effetti, qualcuno si ricordava (io no) che lo avevo pubblicato anche sul Fatto Quotidiano, quando collaboravo con quel giornale (il 17 agosto 2016):

(inutile dire che io gli avevo fornito i dati corretti, ma loro non erano riusciti a disegnare una tendenza rettilinea: quindi non lamentatevi degli epigoni, in giro c’è di molto peggio!).

Segnalo pertanto che qualcuno si è trovato sotto l’ombrellone questo bel grafico, ma a quanto pare nessuno ci ha riflettuto sopra: una cosa che vi invito a considerare, ove mai voleste iscrivervi al PUV (il Partito Unico della Verità, quello delle persone giuste che fanno la cosa giusta, e che va a finire invariabilmente nel modo che vi ho raccontato).

La seconda chiosa riguarda il sito dell’ISTAT. Siccome invecchio (quest’anno saranno 62, se ci arrivo) tendo a diffidare della mia memoria, ma, come la querelle col sor Fiorenzo dimostrerà, mi aiuto con gli archivi. Ora mi raccomando: non abbandonatevi al complotto! Vi ho detto in un post precedente che il sito dell’ISTAT per lungo tempo ha riportato (con mio enorme stupore, a dire il vero…) la serie storica secolare del Pil. Sono andato a verificare sulla wayback machine se fosse vero, perché in effetti mi pareva strano (ma purtroppo non lo è) che un fatto stilizzato così catastrofico, esposto nella homepage dell’Istituto Nazionale di Statistica, non avesse attirato l’attenzione di nessuno!

Magari me l’ero sognato io, che sono un po’ ossessionato dalla crescita e dall’austerità…

Invece no!

Questo è uno snapshot del primo luglio 2019:

questo del primo marzo 2022:

e quindi, come vedete, il grafico è stato lì per almeno tre anni!

Poi da aprile 2022 ci si è spostati su un registro forse più rassicurante e forse più informativo, nel senso che non lasciava intuire (se non agli esperti) la gravità della situazione, ma forniva però una serie di utili dettagli congiunturali (che poi è forse quello che un istituto di statistica deve fare, ma non sta a me valutarlo – io so solo che negli anni zero mi misi a studiare l’economia cinese perché prima dell’arrivo di Giovannini mi era più facile trovare i dati della Cina che quelli dell’Italia: poi la situazione migliorò…):

Per completezza, oggi ci trovate questo:

che è comunque un colpo d’occhio rassicurante (credo che Cimaglia o Barelli ve ne parleranno più tardi al Tg).

E così abbiamo confermato una virtù del Cavaliere nero: non perdona, ma dimentica.

Qualche volta.

Fate i bravi!

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“Ancora su Pil e tendenze…” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Pei malati c’è la china, pe’ mattoni non c’è medicina

 (…a orecchio mi pare che fosse così, forse potrei sbagliarmi, ma certamente di poco…)

(…non voglio farla troppo lunga, ma ci sono alcuni punti che secondo me vale la pena di approfondire. Ovviamente quelli che “senatore, ma perché perde tempo con questi personaggi?” sono già stati bloccati su Twitter e saranno sbloccati solo se si recheranno di persona al giubileo del 16 novembre…)

Riassunto delle puntate precedenti

Nel post su “Gli epigoni” vi avevo fatto vedere che un tale Matteo Brandi aveva ripreso, con una didascalia inadeguata, un grafico del nostro post di fine anno:

Il perché una simile didascalia sia inadeguata è ovvio: qualsiasi eurista di passaggio potrà facilmente obiettare che nel grafico lo scostamento del Pil dalla sua traiettoria tendenziale diventa apparente dal 2009, per cui non si capisce che diavolo c’entri l’euro. Per la sciura Maria l’euro è iniziato da quando se l’è trovato in tasca (nel primo gennaio 2002), per i midwit è iniziato nel 1999, e per gli esperti nel 1997 (per i motivi esposti ad esempio qui: il percorso verso l’euro prevedeva nei due anni precedenti la valuta nazionale mantenesse il proprio cambio con l’ECU/EUR entro una banda di oscillazione estremamente ristretta, sicché de facto nell’euro ci siamo dal 1997). Questa totale mancanza di correlazione conduce a un autogol facilmente evitabile (sotto ve ne darò una dimostrazione). Del resto, un disastro simile sarebbe tranquillamente potuto succedere anche ai tempi della lira, se si fosse deciso di tagliare del 33% gli investimenti pubblici. Il problema è far capire come mai in un regime di cambi fissi, e quindi, a fortiori, in una unione monetaria, l’aggiustamento degli squilibri esterni si scarichi sull’assorbimento, cioè sulla domanda interna. Ma questo con quel grafico non lo fai capire e quindi ti metti inutilmente in una posizione dialettica debole. La posizione dialettica forte la conquisti se intitoli il grafico “Il successo dell’austerità”. Che l’austerità sia iniziata durante la Grande crisi finanziaria se lo ricordano un po’ tutti, ma che danni abbia fatto non lo sa quasi nessuno.

Ricordate il concetto più volte espresso che se si è in condizioni di inferiorità numerica bisogna scegliere con attenzione il campo di battaglia? Ecco: il simpatico film maker vi forniva un esempio di come fare il contrario!

Per motivi imprecisati il dibattibecco su Twitter ha però preso un’altra strada, che a me interessava molto meno: quella sulla paternità del grafico. A me i dibattibecchi divertono quando so come vanno a finire, e questo è andato a finire come vi illustro rapidamente.

Brandi dice che la fonte non ero io ma un post di tal Trombetta del 13 luglio 2023, questo:

dove noterete il commento, che esemplifica la cosa che mi infastidiva (l’autogol).

Io facevo notare due cose:

  1. che il commento a questo grafico era molto dilettantesco (ci torno dopo);
  2. che comunque, visto che il tema della proprietà intellettuale appassionava, questo grafico era ripreso da un mio post del 22 maggio.
E fino a qui per la puntata precedente. Poi la cosa è andata avanti (si fa per dire) su due filoni: proprietà intellettuale e interpretazione del grafico. Che è come dire Dumb and Dumber.

Fermate l’inutile strage!

Ribadito (e dopo ve lo proverò) che la proprietà intellettuale non era il tema, dopo questa sportellata una persona normale si sarebbe fermata. Ma qui abbiamo a che fare con individui eccezionali! Il Trombetta a questo punto accusava me di aver plagiato un lavoro dell’amico Gennaro Zezza risalente al 2019 e che Trombetta aveva citato, riportandone la fonte, il 24 luglio di quell’anno:

A questo punto non potevo che rispondere così:

citando un mio antecedente post del 2018 che effettuava questa analisi “a futura memoria”, e specificando che molto probabilmente Gennaro non mi aveva copiato! Purtroppo a questi qui mancano #lebbasi, e una delle basi è che NIHIL EST IN INTELLECTU QUOD PRIUS NON FUERIT IN GOOFYNOMICS.

A scanso di equivoci ricordavo anche che la prima analisi del genere di cui mi ricordassi l’avevo fatta per criticare il compianto Saccomanni nel 2013, e che quindi forse potevamo anche piantarla lì.

A questo punto il Trombetta poteva squillare solo fuori tema, e quindi la risposta diventava “gnegnegnè hai votato la fiducia a Draghi!”:

(…e meno male, altrimenti oggi sarebbe Presidente della Repubblica!…).

Appurato il fatto che il Trombetta i grafici non li sa scrivere, restava da appurare l’altro punto, quello più rilevante, ovvero il fatto che non li sa leggere. Fatto gravissimo perché ha indotto all’errore il fratello Brandi!

Interludio “matematico”

Qui sotto vi metto due serie di dati: una che cresce linearmente, e l’altra che cresce a tasso di crescita costante del 5%. Vi ricordo che il tasso di crescita si calcola sempre nello stesso modo:

Date un po’ un’occhiata:

e qui c’è il grafico:

Che cosa notate? Dovreste notare una cosa su cui ho sempre attirato la vostra attenzione: 1 è il 10% di 10, ma anche il 5% di 20, ma anche l’1% di 100. Cosa intendo dire? Intendo dire che se una serie cresce con incremento costante, cioè aumenta linearmente (nell’esempio, aumenta di 1 in ogni intervallo temporale, per cui passa da 20 a 21, da 21 a 22, ecc.), il suo tasso di crescita è decrescente perché la stessa grandezza costante x(t) – x(t-1), nell’esempio uguale a 1, viene divisa per un x(t-1) progressivamente crescente.

Viceversa, se una serie cresce a tasso di crescita costante, i suoi incrementi sono via via più grandi, perché il 5% di 20 è sempre 1, ma il 5% di 40 è 2, il 5% di 100 è 5, ecc. Ci arrivate, voi, vero? Perché siete persone normali, quindi capite che:

  1. una serie che segue una tendenza lineare avrà un tasso di crescita decrescente;
  2. una serie che ha un tasso di crescita costante segue una tendenza esponenziale.

Non è un’enorme novità. Qui, ad esempio, abbiamo notato spesso che il tasso di crescita di pressoché tutte le economie europee è stato decrescente, come conseguenza di un fisiologico processo di convergenza (catch up). Lo avevamo fatto notare ai cialtroni del declino, e la conseguenza di questo dato fisiologico è che il Pil reale delle economie europee segue una tendenza? Lineare! Bravi! (grazie).

E infatti, nel post sulla crescita negata abbiamo visto in particolare che una tendenza lineare offre un’approssimazione (descrittiva) sufficientemente accurata per il Pil di Francia, Germania e Italia, col solo problema che in Italia nel 2009 la tendenza si spezza e diventa piatta (e abbiamo visto che questo dipende sostanzialmente da un crollo degli investimenti pubblici). Ma finché le serie rimangono in tendenza lineare, questo non significa che il loro tasso di crescita sia costante: significa che è decrescente. Se invece il tasso di crescita restasse costante, necessariamente osserveremmo un esponenziale.

Jim Carey e Jeff Daniels

…e torniamo al dibattibecco di ieri.

Nel mio post avevo fatto notare che la descrizione che l’amico Trombetta (sed magis amica veritas) fornisce del “suo” grafico è profondamente ingannevole. Lui dice infatti testualmente:

Il tasso di crescita medio annuale del PIL reale dell’Italia è stato del 5,7% tra il 1946 e il 1991, dello 0,6% dall’ingresso nell’Unione Europea e dello 0,4% dall’adozione dell’euro. Se il tasso di crescita [da quando? Dall’ingresso nell’UE, sembra di capire…] fosse rimasto quello precedente all’ingresso nella UE e nell’Eurozona [cioè al 5.7%, sembra di capire], oggi il PIL dell’Italia sarebbe più grande di quasi 500 miliardi di euro.

(lo potete controllare sopra).

Questa, mi spiace farlo notare all’amico Trombetta, è una gigantesca sciocchezza! Se il tasso di crescita fosse stato costante dal 1992 al 5.7% avremmo infatti osservato l’andamento della spezzata arancione:

per gli ovvi motivi descritti sopra. Non si doveva quindi dire “Se il tasso di crescita fosse rimasto quello precedente”, ma “se il Pil fosse rimasto sulla sua tendenza precedente” (e quindi avesse continuato a svilupparsi con tasso di crescita decrescente, non costante e uguale al valore precedente all’ingresso nell’UE).

Questo voi lo avete capito, perché sarete anche poco preparati, ma almeno non siete di sinistra! Siete quindi immuni dalla filosofia del piddino, il sapere di sapere, senza sapere una beneamata, quella filosofia che avevamo descritto qui, confrontandoci con un sesquipedale cretino secondo cui un aumento del 200% equivaleva a un raddoppio. Non so se ricordate:

Incredibile dictu, ieri sera, a margine di questo dibattibecco futile, ma non inutile (sono sicuro che qualcuno di voi ha capito un po’ meglio la differenza fra lineare ed esponenziale), è arrivato uno quasi peggio!

Il fenomeno, questo qua, prima ha esordito burbanzoso con un tweet di questa fatta:

poi cancellato. Puzza un po’ di ricottina del rigurgitino, di studentello di qualche tipo di fainans, non credo di grandi letture né di studi classici (che comunque non esistono più, quindi in questo è assente giustificato). Lo si capisce dal fatto che invece di tasso di crescita parla di “tasso di rendimento composto annuo” (il rendimento del Pil? Come parli, frate?), ma la domanda non c’entrava nulla, e la potenziale sinistrosità del tipo trapelava dal suo ritenersi portatore della verità, a fronte dell’oscurantismo rappresentato dal coglione fascio legaiolo (io):

Siccome non ho mai visto una persona non capire un cazzo con così tanta intensità, ho ritenuto che fosse interessante per voi vedere lo sviluppo (o meglio, l’inviluppo) del ragionamento di questa anima persa (non filato neanche dai suoi parenti più stretti, va detto):

Delirio purissimo, ma indicativo della temperie culturale “mattonista” e del livello di degrado del cesso nero! Anche da qui, però, un insegnante sa trarre insegnamenti utili. Premesso che a questo delirante saputello era stato chiarito più volte che doveva leggersi il blog e che così avrebbe capito che il profilo esponenziale era quello che scaturiva dal controfattuale dilettantesco del Trombetta (ricordate: “Se il tasso di crescita fosse rimasto quello precedente…):

mi sembra chiaro come qui manchino le basi di qualsiasi cosa: della matematica, della statistica, ma anche della capacità di lettura di un testo!

Lo dimostra il fatto che il porello cerca di interpolare il Pil con un’esponenziale (femminile: funzione esponenziale) dal 1950, il che presupporrebbe che il tasso di crescita del Pil fosse stato costante dal 1950 a oggi (per gli ovvi motivi esposti sopra). E a chi glielo faceva notare, il povero bimbo rispondeva così:

Una cosa però è certa: se lui è intelligente io sono un coglione. Però furbo, perché senza esperienza di studi di funzione sono riuscito a farmi abilitare da ordinario. Non so se il degrado dell’università italiana sia dimostrato meglio dalla mia impreparazione o dalla preparazione di Federico: lascio decidere a voi!

La morale della favola

In trenta minuti scarsi (devo uscire con mia moglie).

Intanto: questi sono irrecuperabili. Hanno però il pregio di essere pochi.

Poi: è sempre la stessa storia. La gente parla ma non ascolta. A me che dicevo chiaramente che non mi importava che si usasse materiale mio purché lo si usasse bene, il film maker rispondeva:

Ora: non lo faccio notare a lui (perché non potrebbe capirlo), ma a voi sì: ovviamente come si fa a rendere un grafico riconoscibile lo so, e per un po’ di tempo l’ho anche fatto. Guardatevi ad esempio questo, tratto da qui:

(…per inciso: post applauditissimo all’epoca, ma testimonianza di un analfabetismo politico a livello quasi mattonista: solo che io avevo speranza di crescere…).

Secondo voi, se usavo i watermark e ho smesso di farlo, mi interessa rivendicare la mia proprietà intellettuale o no? Direi di no, giusto?

E secondo voi, perché ho smesso di farlo?

Qui si entra in un discorso politico che poi è anche un déjà-vu. Molto, molto tempo fa litigai con un amico. Ve ne ho parlato qui. Alla base di quel litigio c’era la sua idea, maturata verso dicembre 2012, di convertire il lavoro del mio blog in un volantino snello, di pochi punti (il puntinismo, malattia infantile della divulgazione), magari con qualche grafico di quelli espressivi (non mi ricordo quale dei grafici del blog lui considerasse espressivi), che poi si sarebbe dovuto diffondere con una specie di operazione di guerrilla marketing per attirare consenso su non so quale partituncolo in vista delle elezioni politiche del 2013.

Quindi: col mio lavoro divulgativo (e col nucleo di lettori del blog) si sarebbe dovuto fare un lavoro politico dai contorni non ben specificati, a beneficio non si sa bene di chi.

La mia posizione all’epoca era molto semplice: siccome il blog era, all’epoca, una fonte terza e quindi in qualche modo relativamente credibile, e siccome, non se ne dolgano gli ottoni e le spade, all’epoca certe cose solo io ero in grado di farle capire in modo convincente (lo dimostrava il consenso del blog, che era poi il branco di pesci attorno cui ruotavano tanti pescicani più cani che pesci), secondo me se c’era da diffondere del materiale, quel materiale andava reso riconoscibile come proveniente da Goofynomics, per portare più gente possibile al Dibattito, e non anonimizzato come se originasse da una galassia di improbabili sfigati (mi ricordo che li chiamavo “i marxiani scalzi della Valnerina”, per una serie di motivi che vi risparmio e che chi c’era ricorda…). Non mi sembrava il caso di associare al  mio lavoro scientifico e divulgativo il discredito di una affiliazione politica folcloristica ed improbabile!

Ovviamente su questo non eravamo d’accordo: da una parte c’ero io, che sono quello che vedete e che dovreste conoscere, dopo tredici anni di colloquio assiduo in cui mi sono aperto a voi, e dall’altra parte c’era la solita storia: l’ambizioncella politica, la fretta, l’urgenza, l’incapacità di elaborazione propria, ecc. Tutte cose che avrebbero comunque condotto al disastro, da cui il mio motto preferito in quel periodo: divisi si vince.

E diviso ho vinto, almeno se valutiamo il mio percorso con la metrica di quelli che avrebbero desiderato farlo loro!

Ora, in effetti, il problema non si pone più, per un motivo molto semplice. Per chi non mi conosce, io sono “er senatore da ‘a Lega”, quindi sono una fonte a priori inaffidabile perché di parte. Se rendessi i “miei” contenuti identificabili come tali, li renderei ipso facto inutilizzabili, perché la persona cui vorreste sottoporli si chiuderebbe a riccio in una corazza di pregiudizi antileghisti. Questo è il motivo razionale per cui non uso più da tempo i watermark (ho smesso in realtà da molto prima di entrare in politica, perché già da quando era un personaggio pubblico visibile ovviamente qualsiasi coglione riteneva di potermi giudicare sulla base delle mie pretese appartenenze ideali).

Ma questo non significa che i materiali, i punti di vista, le elaborazioni di dati che vi metto a disposizione debbano essere usati in modo dilettantesco! Chi lo fa danneggia non solo se stesso, cioè il nulla: danneggia tutti noi, insinuando il discredito verso chi difende certe posizioni. E noi questo non possiamo permettercelo.

Come diceva qualche giorno fa Giulia, e come del resto avevamo previsto, di tutti i “mijoni” autoproclamatisi tali in pandemia è rimasta solo un po’ di morchia antipolitica, i temi veri (la distribuzione del reddito, quindi l’euro, la compatibilità dell’UE con il nostro ordinamento democratico, ecc.) si stanno riaffacciando con prepotenza, e ovviamente i tanti orfani del virus, che non sono solo Burioni e Bassetti, ma anche gli antiBurioni e gli antiBassetti, si riposizioneranno su questi temi facendo un sacco di danni! L’adrenalina dei 100 like sotto al tweet è irrinunciabile: ci si posiziona sui temi che tirano… a rischio di tirarli a fondo!

Vedrete che quanto vi prefiguro qui succederà. Dovremo essere molto bravi a tenere la barra e a ricordare che dietro le nostre conclusioni c’è letteratura e rigore scientifico. Di converso, dalle cialtronate che faranno gli altri potremo retrospettivamente intuire quanto accurato fosse il loro modo di informarci su altri temi.

Il tempo è sempre un utile setaccio, anche se non sempre arreca le trasformazioni che auspicheremmo portasse.

Bisogna sapersi accontentare!

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“Pei malati c’è la china, pe’ mattoni non c’è medicina” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

L’inizio e la fine

Il mio post di ieri ha suscitato un esilarante dibattito su Twitter. Esilarante, certo, ma come ogni dibattito anche fecondo. Ad esempio, nel fuoco (fatuo) di accuse incrociate sono stati menzionati, come prova del fatto che la Lega, e specificamente il vostro guru, hatraditooooh, il mio intervento del 17 febbraio 2021 in discussione generale sulla fiducia a Draghi (lo stenografico lo trovate qui), e l’intervento di Massimiliano Romeo tenuto il 20 luglio 2022 in discussione sulle comunicazioni del Presidente Draghi (lo stenografico lo trovate qui).

Il minimo che si possa dire è che questi discorsi non sono stati perfettamente compresi dai più, ma il fatto che li si continui a citare a vanvera ci dà una preziosa opportunità per riascoltarli e rileggerli col senno di poi (che per alcuni era anche il senno di prima).

Per quel che riguarda il mio, lo trovate qui:

e va detto che in questo caso, purtroppo, avrei dovuto sorvegliare con maggiore attenzione il lavoro abitualmente ottimo degli stenografi del Senato, che per uno scrupolo senz’altro mal riposto, pensando forse che io avessi perso il filo, hanno rimosso il punto culminante del discorso, i miei tre “se”:

(duole constatare che la maggioranza degli ascoltatori fosse – e ancora sia – meno lucida di Anastasia e Genoveffa). Riascoltando il mio discorso del 17 febbraio 2021 ci troverete il mio post del 31 dicembre 2023 e la mia convinzione che la persona cui eravamo costretti a dare la fiducia fosse più parte del problema che della soluzione. “Se riuscirà” voleva dire: non riuscirai. L’interessato lo ha capito benissimo, i famoerpartitisti un po’ meno, i punturini peggnente, ma… so is life! Mi accontento del risultato e di aver fiducia in chi mi ha condotto ad esso.

Quanto a Romeo, il suo è stato senza paragoni il discorso più bello della legislatura, o almeno così lo visse chi lo capì, e lo potete riascoltare qui:

Ne facemmo a suo tempo l’esegesi parlando della coloncardia, una malattia rara che colpisce i cretini politici: il loro colon sbocca nel ventricolo destro, al posto della vena cava inferiore, sicché si trovano, poverini, col cuore pieno di merda, e “ragionano” di conseguenza. Con questa malformazione rara (ma non troppo) si può convivere (purtroppo), ma guarirne è impossibile (purtroppo). Pare colga con maggior frequenza chi ha bevuto l’acqua avvelenata nei pozzi dell’antipolitica, e quindi prevenirla dovrebbe essere impegno di tutti.

E voi, questi discorsi, li avevate capiti?

(…p.s.: a proposito dell’antropologia di certi social: il più cretino fra i cretini che hanno cercato di spiegare a me, che lo avevo detto in segreteria politica il 4 febbraio del 2021 – come riportato dalle agenzie, che sostenere Draghi ci avrebbe fatto perdere consenso, era un cretino che mi voleva folgorare con questa sua brillante intuizione nel marzo 2022, e che continuamente mi citava il fatto di essere una specie di padreterno su LinkedIn…)

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“L’inizio e la fine” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Gli epigoni

Il mondo dei nani e delle ballerine giganti del pensiero “antisistema” è in subbuglio!

Pare che abbiano trovato il grafico definitivo, quello che inchioda l’euro alle sue responsabilità. Una smoking gun che non ammette repliche. Meno male! Era ora! Tutti noi che intuivamo confusamente come ci fosse qualcosa che non andava, siamo grati ai pensatori indipendenti che con le loro elaborazioni originali hanno raggiunto questo importante risultato. Finalmente abbiamo uno strumento che ci consentirà di prevalere in ogni dibattito e di corroborare con una robusta evidenza la nostra intuizione che l’euro ci abbia messo in seria difficoltà, o meglio, per i pipperiani popperiani, di falsificare l’ipotesi tuttora molto accreditata che l’euro sia stata l’ancora di salvezza al collo della nostra economia.

Non possiamo che essere grati a chi ci ha procurato un simile strumento.

Quale?

Questo!

E chi ha addotto cotali elementi probanti?

L’epigono dell’Istituto Luce (epigono riuscitissimo, a mio avviso):

Vi potrebbe sembrare di averli già visti da un’altra parte?

Avreste ragione, ma nella sua cristallina e indefettibile onestà intellettuale il filmografo lo ammette e cita la fonte:

A produrre cotanta compelling evidence sarebbe stato er sor Trombetta, un altro nostro vecchio amico e frequentatore dei #goofy (dove probabilmente, impressionato dal concorso di popolo, maturò l’insano progetto di fare una “operazione politica”, che nelle sue idee doveva essere una sottrazione del nostro consenso, ma che nei fatti è stata una divisione del suo).

Una minima ricerca conferma che in effetti le cose stanno così.

La scoperta è risalente:

L’eureka anti-euro risalirebbe niente meno che a luglio di quest’anno!

E qui, oltre che la cristallina e indefettibile onestà intellettuale, si apprezza anche la magnanima e lungimirante nobiltà d’animo con cui questi giganti del pensiero lasciano correre su un episodio sinceramente spiacevole: un vile tentativo di appropriarsi della loro proprietà intellettuale compiuto da un tizio che dice di essere un docente di ruolo di economia (in aspettativa per motivi imprecisati). Questo personaggio squallido avrebbe utilizzato i risultati altrui per dare risalto a un suo progetto didattico tanto irrilevante quanto dilettantesco, che per questo motivo gli ha meritatamente rovinato la carriera universitaria facendolo diventare presidente di una Commissione bicamerale! Questo tentativo, tanto più meschino in quanto il vero autore di una simile ponderosa ricerca aveva firmato il risultato del suo lavoro, è stato perpetrato col favore delle tenebre nella notte di San Silvestro.

Il Bagnai ha cercato di farsi bello con le penne del Trombetta, ma il Brandi, brandendo l’originale sicut “spada de foco” (cit.), ha fatto giustizia di questo sleale tentativo di clickbait, ricacciando nelle tenebre del polveroso palazzo San Macuto (un palazzo dove questi fulgidi araldi dell’ideale antieuropeo, queste avanguardie della revolución, mai entreranno perché mai vorrebbero entrare, se non muniti di apriscatole, loro, che disdegnano i “lauti stipendi” e le “poltrone”), ricacciando nell’ombra, dicevamo, il dilettante che ha insozzato il loro lavoro associandolo a un progetto marginale e ininfluente come Goofynomics!

Poi dicono che non esiste giustizia al mondo!

Non è così. I cazzari e i fregnacciari alla fine vengono ripagati con la loro stessa moneta: Bagnai, avvilito e oppresso dalla vergogna per essere stato sbugiardato in pubblico, in questo momento starà distruggendo i suoi post. Ma non servirà a nulla: abbiamo gli screenshot che lo inchiodano, e l’associazione a/simmetrie ha anche un filmato che documenta un suo precedente tentativo, compiuto a fine novembre, di farsi bello con le penne del pollo, come Apelle figlio di Apollo.

Vergogna!

Al dolo del plagio si aggiunge l’aggravante della sua reiterazione!

In che mondo siamo, signora mia…

Un mondo in cui chi incontra il genio, invece di riconoscerlo e di prosternarsi non tanto alle sue ragioni, quanto proprio alla sua persona, si diverte a fare obiezioni capziose di questo tipo:

Vergogna!

Non si interrompe così, con il banale richiamo a un dato fattuale, un’emozione! Non si getta una secchiata di acqua gelida sulla fervida passione civile del coraggioso e originale Trombetta!

Anche se…

In effetti…

Il tracciato del Pil si appiattisce nel 2008, e l’euro entra in vigore nel 1999…

Questo fastidioso dettaglio, purtroppo, è ineludibile…

Ma approfondiamo bene l’argomento del Maestro Trombetta. Musica, Maestro!

Ehm…

Non trovate anche voi che qui ci sia più di una stecca? Eh, ma voi non avete studiato musica! Vi faccio un breve elenco:

  1. sì, fra il 1946 e il 1991 il tasso di crescita è stato circa del 5.7% l’anno (in realtà, secondo Banca d’Italia, del 5.5%), ma questa media così elevata risente del rimbalzo post bellico. Nel 1946 il tasso di crescita fu del 30% e nel 1947 del 18%. Già eliminando questi due anni, come sarebbe corretto fare (altrimenti ragioniamo come Conte, che dopo aver chiuso arbitrariamente mezzo Paese si imputa come successo un tasso di crescita strabiliante, dovuto semplicemente al fatto che il Paese era stato riaperto!), la media scenderebbe al 4.6%;
  2. sì, è vero, dall’ingresso nell’Unione Europea (1992) al 2022 (alla fine del grafico) il tasso di crescita dell’Italia è stato dello 0.6%, così come dall’adozione dell’euro nel 1999 al 2022 è stato dello 0.4%, ma allora perché, con un salto di cinque punti verso il basso della crescita, nel 1992 o nel 1999 non si nota alcun cambiamento di struttura? La crescita, in quelle date, procede sulla tendenza lineare (di cui non si dice con che dati è calcolata: quelli fino al 1992? Quelli fino al 1999?);
  3. ma soprattutto, se il tasso di crescita, immagino dopo l’entrata nell’UE, fosse stato quello medio precedente all’entrata, le cose non sarebbero andate come è indicato nel grafico. Con un tasso di crescita del 5.7% dal 1992 le cose sarebbero andate così:

Non ci credete? E allora fate il conto voi, ricordando che tasso di crescita del 5.7% significa che ogni anno il Pil è uguale a quello dell’anno precedente moltiplicato per 1.057:

Per un’altra razza di cretini, quelli che non sanno distinguere fra dati reali e nominali e non leggono i post, quindi non capiscono che in questa tabella i dati sono espressi in milioni di euro a prezzi 2010 perché così vengono forniti dalla Banca d’Italia nella sua ricostruzione storica, e quindi ragliano su Twitter “i dati non sono quelli giustih-oh, ih-oh!”, agevolo anche la simulazione partendo dai dati WEO:

Ovviamente non cambia nulla! Il profilo della serie nell’ipotesi del sor Trombetta (tasso di crescita ai valori precedenti all’entrata nell’Unione Europea) è ugualmente assurdo, c’è solo un minimo slittamento della serie dovuto alla diversa base dei prezzi (2015 invece di 2010).

Ora…

Io voglio bene a tutti, anche a chi non sa di cosa stia parlando. Che il sor Trombetta non lo sappia è evidente! Sapendolo, avrebbe detto la cosa corretta: non che “se il tasso di crescita fosse rimasto quello precedente all’ingresso nella UE” oggi il Pil sarebbe di circa 500 miliardi più alto (perché se lo avesse fatto sarebbe di circa 5800 miliardi più alto), ma che “se il Pil fosse rimasto sul suo tendenziale dal 1950 al 2007” oggi ecc. E fra le due cose, come vi ho fatto vedere, c’è una bella differenza!

Bene.

Forse cominciate a intravvedere dov’è il problema.

Solo una persona totalmente digiuna non dico di economia, ma di buon senso, potrebbe aspettarsi che un’economia avanzata come quella italiana potesse tenere negli anni ’90, o peggio ancora dagli anni ’90, tassi di crescita da economia emergente! In effetti di Paesi cresciuti al 5.7% di media il 1992 e il 2022 ce ne sono due:

(i conti, se volete, potete rifarli partendo da qui). Insomma, er sor Trombetta pensa di fare un accorato elogio del modello di sviluppo dell’Italia “sovrana” (qualsiasi cosa ciò voglia dire), e invece sta facendo l’elogio di un modello di sviluppo basato sull’esportazione di risorse naturali o sullo sfruttamento della manodopera a basso costo!

Cose che capitano quando non si è del mestiere…

Ma…

Ma visto che quella cifra di 500 miliardi in più rispetto al valore storico non è coerente con il discorso del sor Trombetta, qualcuno di malizioso potrebbe pensare che l’abbia tratta da un’altra fonte, e potrebbe googlare 500 miliardi, e magari potrebbe arrivare qui:

Ops…

E qui finisce l’ironia (forse), e cominciamo a parlare chiaro, partendo da una premessa, la solita: dovrebbe essere chiaro fin dal tredicesimo post di questo blog che a me di intestarmi idee mie o altrui non me ne frega assolutamente niente e conseguentemente che l’oggetto del mio sfottò non è minimamente il fatto che i sullodati giganti del pensiero non abbiano citato la fonte delle loro elaborazioni. Ho sempre insistito sulla assoluta non originalità dei contenuti della mia divulgazione, che sono assolutamente banali e devono la loro apparente originalità solo al fatto di essere diffusi in un contesto politico-istituzionale che, lui sì, è piuttosto, come dire, originale! La mia ricerca originale c’è ma è pubblicata in riviste scientifiche che sono legittimamente fuori portata per molti di voi e comunque verte su aspetti di nicchia, dato che sui temi di fondi dell’unione monetaria, come sa chi studia, aveva già detto tutto (inascoltato) James Meade nel 1957! Io vi ho dimostrato che della proprietà intellettuale delle mie idee non me ne fotte niente, quindi il problema non è quello, e vi ho altresì dimostrato che di essere stato il primo a intervenire in un dibattito che in realtà si era chiuso cinque anni prima che io nascessi altresì non me ne fotte niente (altrimenti, banalmente, non vi avrei insegnato quello che non avreste mai avuto modo di sapere se non ve lo avessi insegnato io, cioè, appunto, che il dibattito si era chiuso cinque anni prima che io potessi intervenirci)!

Quindi il problema non è “non hai citato la fonteeeeh!”, o “l’ho detto prima i-oh!”, come alcuni volenterosi, ma un po’ sciroccati membri di questa community (eggnente!) hanno rimproverato ai  summenzionati giganti del pensiero. Il problema, insomma, non è che non avete portato traffico su Goofynomics (mi sembra sufficientemente ovvio che io ho meno bisogno di voi di quanto voi abbiate bisogno di me!), anzi, se mai è il contrario: il problema è che citando cose a organo genitale esterno di carnivoro caniforme rischiate di attirare sul nostro lavoro un’attenzione sbagliata! Insomma: io non vorrei mai che qualcuno credesse che le scemenze sopra evidenziate le abbia dette io, perché io ho detto cose totalmente diverse e non ho nessuna intenzione di farmi screditare da chi, parassitando un lavoro in cerca di clickbait, ne fornisce un’immagine distorta e caricaturale.

E già capisco l’obiezione: “Vabbè, me sò sbajato, ma tanto basta che sse capimo…”. No, caro Trombetta, te lo dico come puoi capirlo tu, scusandomi con gli altri: basta che sse capimo un cazzo! La battaglia ideale che qui stiamo combattendo, e che tu dici di combattere, non è un gioco da dilettanti, non tollera cialtronate, semplicemente perché non ha alcun senso screditarsi con analisi così farlocche e controvertibili. I midwit di osservanza bocconiana, i seguaci del laureato, non vedono l’ora che qualcuno dica delle sesquipedali cretinate per massacrarlo e per attirare su tutto il movimento euroscettico il discredito che un certo modo di argomentare onestamente merita: ma lo merita chi lo mette in pratica perché parla di cose di cui non capisce nulla, non chi invece si adopera per divulgare nel più scrupoloso rigore metodologico, fottendosene del consenso.

Cioè io.

Insisto su un punto: sono anni che tirate avanti coi contenuti di Goofynomics, e a me questo fa solo piacere. Intanto, non essendo voi economisti, non avendo cioè i presupposti professionali, culturali, intellettuali per proporre dati e analisi economiche, è chiaro che volendo impicciarvi di economia da qualcuno dovrete pur fornirvi, e sinceramente non vedo nulla di male nel fatto che abbiate scelto un buon fornitore! Meglio rifornirsi qui che dal laureato, per dire. Ma il punto è un altro: non mandate in giro roba che non avete capito, altrimenti gettate il discredito della vostra scusabile ignoranza sul lavoro che qui stiamo facendo con serietà e competenza. Ripeto: la vostra ignoranza è scusabile, non è colpa né merito vostro se non siete economisti. Aggiungo: la vostra buona volontà è commendevole, e lo sarebbe anche di più se la aveste usata per aiutare anziché per danneggiare (non riuscendo a fare né l’una né l’altra cosa).

Io ve lo dico con  affetto. Quando Goofynomics è partito portavate ancora i calzoncini corti, vi ricordo ai nostri convegni, con la vostra freschezza e il vostro entusiasmo. Non siete cattive persone, e se voleste aiutare, senza smanie, con perseveranza, potreste essere senz’altro utili. Questa è l’ultima chiamata. Deponete la porca tigna del vostro narcisismo sterile e autodistruttivo, provate a immedesimarvi un minimo in quello spirito di servizio, servizio al Paese, ai nostri concittadini, alla verità del dato, alla serietà delle analisi, all’ambito delle proprie competenze, che qui abbiamo sempre osservato ed esemplificato, e provate a lavorare per il progetto, non contro il progetto.

Voi, con Paragone, avete in comune solo una cosa: il fatto che lo spazio politico del “vostro” dissenso si sta prosciugando, e non solo perché la Lega è stata coerente sul MES, ma anche perché l’altra vostra grande battaglia identitaria, quella sulla punturina, si sta svuotando di significato come chi sa analizzare la realtà aveva previsto:

(e anche lì, la partenza della Commissione d’inchiesta renderà istantaneamente poco interessanti tutti quelli che ringhieranno da fuori, senza poter vedere le carte, senza poter interrogare i protagonisti di quella vicenda).

Ma fra voi e Paragone c’è una grossa differenza: Gian è bravo, e tornando a fare l’autore guadagnerà un multiplo sostanzioso di quanto guadagnava in Parlamento (non è nemmeno da escludere che dietro le sue ultime decisioni ci sia anche la razionale e condivisibile scelta di smettere di rovinarsi la vita con beneficio scarso o nullo). Voi, pur avendo senz’altro talento e intelligenza, non avete le stesse possibilità di trovarvi un altro stagno in cui sguazzare, quando quello del vostro attuale consenso “di nicchia” sarà riassorbito dalla Lega. Qui non parla il politico: i vostri numeri già non sono interessanti per un politico. Qui parla quello che ha messo su questa community dove siete stati accolti e di cui avete fatto parte. Per quanto piccolo, quello che state perpetrando col vostro atteggiamento è uno spreco. Non solo: è un film già visto! Me li ricordo solo io quelli che pensavano di avere un consigliere comunale a Pescara e che da lì avrebbero cambiato er monno? Me lo ricordo solo io quello che a La Spezia ha preso sette voti? Non potete non fare la stessa fine, se aveste avuto modo di crescere sareste cresciuti, ma purtroppo non avete modo di crescere e questo post alla fine spiega bene perché.

Povertà non è vergogna, ma perseverare è diabolico, e soprattutto ridicolo.

Questo ramoscello di ulivo si autodistruggerà in tre, due, uno…

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“Gli epigoni” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Crescita e apertura

Vi sottopongo un problema di metodo e un problema di merito.

Nel metodo, come sapete io sarei per riaccorciare la filiera, riportando qui il dibattito che da quando sono in Parlamento è stato delocalizzato nel cesso ora nero (e prima azzurro) per una serie di motivi oggettivi (principalmente la mancanza di tempo, da cui consegue la necessità di interlocuzioni rapide, e il bisogno di monitorare in modo snello i temi del giorno).

Nel merito, come studio di un caso (cioè come quella cosa che gli aziendalisti chiamano caso di studio, perché in inglese case viene prima di study), vorrei parlarvi della relazione fra apertura al commercio e crescita economica.

Che cosa lega due argomenti così distanti? Li lega l’osservazione interessante fatta a un precedente post di #goofynomics da un utente Twitter (sì, lo so, il brand è cambiato, ma il mio educated guess è che a differenza di Röntgen, che lo fece per umiltà, Musk non riuscirà a imporre questo brand al mercato…):

Parto dal metodo.

Un vantaggio del cesso nero è che consente di interagire fornendo, quando lo si desidera (cioè quando non si è Critica Climatica, per capirci) fonti e soprattutto rappresentazioni dei dati con una certa scioltezza. Su questa piattaforma, viceversa, per i commentatori inserire link attivi è un’operazione un po’ laboriosa (molti non la sanno fare, anche se è spiegata nella sezione “Per cominciare”), e inserire grafici è impossibile. Peccato però che alla facilità di introdurre materiale non corrisponda la possibilità di analizzarlo in modo approfondito. La sintesi è che io preferisco che commentiate qui, nella misura del possibile, e che se dovessi imbattermi in qualcosa di interessante lì lo riporterò comunque qui per discuterne, laddove necessiti di una discussione strutturata.

Veniamo al merito.

fabio fa un’affermazione e una domanda: l’affermazione è che il drammatico rallentamento della crescita sperimentato dal nostro Paese è correlato al rallentamento del grado di apertura; la domanda, che in realtà è un diverso modo di proporre l’affermazione, è come mai, nonostante un atteggiamento da tempo piuttosto restrittivo della politica fiscale, il crollo del Pil si sia verificato solo dopo la GFC (per i laici: Global Financial Crisis).

Anche se per voi ci deve essere un solo hashtag: #goofynomics, il ragionamento di fabio può essere condensato in un diverso hashtag: #hastatolapertura. Nel ragionamento di fabio non c’è praticamente nulla che funzioni, ma siccome è proposto in modo civile ed è argomentato vale la pena di discuterlo in dettaglio.

Parto dai fondamenti.

L’ideologia della globalizzazione, cioè, ricordiamolo sempre, l’ideologia che propugna la necessità di assicurare una incondizionata libertà di movimento internazionale ai capitali (la globalizzazione questo è), viene sostenuta nel dibattito pubblico e in quello scientifico con alcuni fatti o fattoidi. Due fattoidi ricorrenti sono che una maggiore apertura commerciale porti la pace (un esempio qui), e che porti la crescita (una rassegna qui).

Quindi: viva la globalizzazione (anche se pressoché ovunque gli elettorati, consciamente o meno, la respingono)!

Su “Lapace” (nota per i nuovi del blog: da sempre noi qui, e quindi a valle nel dibattito social gli altri, usiamo la crasi fra articolo e sostantivo per sottolineare i luoghi comuni, o comunque l’usura di certi termini), su Lapace, dicevo, le evidenze sembrano relativamente univoche, ma questo non vuol dire che siano particolarmente convincenti. Confesso di essere radicalmente allergico a qualsiasi ragionamento irenico, perché la rimozione (psicanalitica) del conflitto generalmente è l’arma usata da chi pensa di avere la forza di imporre la propria soluzione del conflitto. La desiderabilità di un mondo senza conflitto viene infatti argomentata sulla base, appunto, dell’assenza di conflitto e basta, mentre sarebbe utile saperne un po’ di più: ad esempio, quale sarebbe la distribuzione del reddito in questo Paradiso terrestre? Prendete ad esempio Leuropa che ci dà Lapace: dobbiamo commentare ulteriormente? La vita, quella biologica come quella sociale, è conflitto. La democrazia è gestione, non rimozione, del conflitto. Chi ignora questo dato a me appare subito un po’ losco, e infatti, tornando al punto, la “convincente evidenza” sul fatto che l’apertura commerciale (o più in generale l’integrazione economica) porti Lapace sconta una serie di problemi logici non da poco: il fatto che per definizione si confligge con quelli con cui si hanno relazioni, non con quelli con cui non se ne hanno; il fatto che ovviamente il conflitto deprime l’attività economica e le relazioni commerciali, il che però non significa che lo sviluppo delle relazioni commerciali riduca la probabilità di conflitti; e via dicendo, attraverso una serie infinita di problemi di endogenità e causalità inversa su cui peraltro si sono addentrati tanti studiosi: strano come una “convincing evidence” vista dal lato della letteratura spesso sembri un problema aperto! Alla fine, in questa letteratura domina la legge di Murphy: guardate ad esempio com’è andata fra Germania e Russia, due Paesi che erano così legati! La mia conclusione provvisoria, anche alla luce di quanto ci siamo detti qui, è che non è detto che un aumento dei volumi del commercio porti Lapace, mentre è abbastanza inevitabile che uno squilibrio di questi volumi porti a un conflitto.

Sulla relazione fra apertura al commercio e crescita in qualche modo partiamo avvantaggiati, nel senso che neanche il mondo degli yes men accademici riesce a proporne una visione univoca. La risposta in media è “più sì che no”, ma molti studi evidenziano una relazione bidirezionale (un esempio è qui), per cui sarebbe la crescita a causare l’apertura commerciale tanto quanto questa causerebbe la crescita, e  altri studi si chiedono addirittura se una simile relazione esista (e rispondono: più no che sì).

A questo punto, forse, sarebbe opportuno, per aiutare il lettore, chiarire di che cosa stiamo parlando. Stiamo parlando di un indicatore secondo me abbastanza inutile che differisce di pochissimo da quella che forse è la variabile più importante per attestare lo stato di salute di un’economia (secondo me e The Economist), cioè il saldo delle partite correnti (qui per semplicità consideriamo il saldo commerciale):

Mentre il saldo commerciale CA è dato dalla differenza fra esportazioni e importazioni, il grado di apertura O è dato dalla loro somma. Normalmente queste variabili vengono normalizzate rapportandole al Pil, come nelle due formule qua sopra.

Ora, voi capite che già qui c’è un problema.

Infatti, da un lato le esportazioni aggiungono domanda (estera) all’economia nazionale, tant’è che entrano nella definizione del Pil con segno positivo, dall’altro le importazioni sono per definizione domanda nazionale che se ne va all’estero, che crea posti di lavoro e reddito all’estero, tant’è che entrano con segno negativo nella definizione del Pil:

Y = C + G + I + X – M.

Questa non è né un’esaltazione dell’autarchia né un manifesto a favore del mercantilismo: è un mero fatto contabile ed economico, da cui non si devono trarre conclusioni idiote. Ad esempio, non avrebbe alcun senso dire che “siccome le importazioni sottraggono reddito, allora per promuovere la crescita bisogna azzerarle”, semplicemente perché un Paese come il nostro, che è (o in alcuni casi vuole essere) privo di materie prime, se non importasse dovrebbe chiudere i battenti! Tuttavia, nonostante alcuni generosi ed estremi tentativi condotti su casi disperati, l’idea che siano le importazioni di per sé a promuovere la crescita nessuno l’ha mai presa veramente sul serio, mentre l’idea che debbano essere le esportazioni a promuovere la crescita è iscritta, come abbiamo visto, perfino nei Trattati europei.

Il minimo che si possa dire quindi del grado di apertura O (come openness) è che somma mele e lavatrici, e infatti esiste un’ampia e dettagliata letteratura su possibili misure più adeguate dell’integrazione economica fra Paesi, letteratura promossa dal fatto che la variabile O ha un solo pregio: è facile da calcolare, ma per il resto presenta diverse criticità (vedetevele nell’articolo). Intanto però una cosa va detta, perché è immediatamente evidente all’occhio esperto: fabio questa variabile la calcola nel modo sbagliato, considerando le grandezze espresse in termini reali, mentre è uso calcolarla partendo da dati a valori correnti (in termini nominali). Per la precisione, la situazione è questa:

(tratta da qui): le statistiche ufficiali sul grado di apertura pubblicate dalla Banca Mondiale (e disponibili qui), che poi sono quelle generalmente utilizzate, si basano su grandezze nominali, mentre solo Alcala e Ciccone (2004), sul prestigioso QJE, usano una misura calcolata con variabili reali per argomentare un impatto positivo sulla produttività: un esempio prestigioso ma isolato, di cui fabio non so quanto fosse consapevole.

La questione non è di lana caprina.

Io non credo che fabio abbia agito con malizia, ma il fatto è che se invece della sua originale misura di apertura (calcolata con variabili reali) si usa quella consueta (calcolata con variabili nominali) il suo ragionamento (il disastro del Pil italiano post-2009 è dovuto al rallentamento dell’apertura) va in cocci subito:

basterà osservare che dal 1981 al 1991, quando il Pil cresceva del 2.3% in media all’anno (spezzata grigia), la misura di apertura corretta (spezzata arancione) diminuiva dal 45% al 33%. Difficile quindi argomentare che sia stato il ben più lieve rallentamento dell’apertura dopo la crisi globale a causare o concausare il disastro del Pil italiano dopo il 2009.

Se invece usiamo la misura “fabio”, cioè quella calcolata in termini reali, il ragionamento di fabio va ugualmente in cocci, ma dopo un po’. Basta osservare che questa misura non aumenta molto più negli anni ’80 (quando il Paese cresceva) di quanto aumenti dopo la GFC: fra l’81 e il ’91 passa dal 26% al 32% (sei punti), esattamente come fra il 2007 e il 2017 passa dal 53% al 59% (sei punti). Abbiamo avuto quindi due rallentamenti nella crescita del grado di apertura in presenza di due contesti di crescita molto diversi, il che avvalora l’ipotesi che questa variabile non c’entri molto con il disastro illustrato dal post di San Silvestro e che riporto qui per vostra comodità:

Alla domanda “perché, pur avendo fatto avanzo primario positivo per 30 anni, solo dopo la GFC si sono avuti effetti devastanti sul Pil?” non è difficile rispondere. Certo, avanzi primari importanti sono stati realizzati ben prima della crisi e senza effetti immediatamente apparenti sulla traiettoria del Pil:

Al massimo dell’avanzo primario, attorno al 6% nel 1997 (questa fonte riporta il 6.5%, mentre questa il 5.6%), non corrisponde un minimo del tasso di crescita. Il problema non è il saldo del bilancio pubblico, ma la sua composizione. Quello che ha fatto male ai piddini, che infatti su Twitter non riescono a trovare di meglio che farfugliare idiozie sul fatto che i miei dati sarebbero falsi (sono a prezzi costanti, come deve essere quando si analizzano fenomeni come la crescita dell’economia in termini reali!), è stato farsi sbattere in faccia il loro taglio degli investimenti pubblici:

Questo ha fatto la differenza. L’openness non c’entra niente, e le dimensioni del saldo primario c’entrano, ma poco.

A me sembrava di averlo chiarito, e quindi l’obiezione di fabio rientra nel novero di quelle fatte da chi il post di San Silvestro forse dovrebbe rileggerlo. Però, ripeto, avendo portato dei dati, poteva valere la pena di esaminarne il merito, e così abbiamo fatto.

E ora torniamo a divertirci su Twitter coi piddini smarriti per essere stati messi di fronte alla catastrofe che hanno combinato…

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“Crescita e apertura” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Un dato significativo

 (…su di voi…)

Vi vedo su Twitter tutti pervasi da sacro furore per il post precedente, tutti animati da un nuovo spirto guerrier che entro vi rugge, o, data la contingenza gastronomica, rutta, tutti invasati da un frenetico ottimismo della volontà, il cui sbocco is the new “Americano, facce Tarzan!”, ovvero: “Borghi, facce li dieci punti!”, e tutta questa frenesia, questo entusiasmo, questa sovrabbondanza di maschio vigore, per aver riletto cose che qui dovreste aver letto decine di volte (o almeno dovreste averle guardate come una mucca guarda un cartello stradale, che in questo caso sarebbe anche sufficiente, perché alla fine si tratterebbe in primis et ante omnia di capire che la direzione è sbagliata!), e questo entusiasmo è senz’altro positivo (forse!)…

ma…

…com’è che su Twitter non c’è nessuno, letteralmente un [REDATTO] di nessuno che abbia fatto la più semplice e ovvia delle operazioni: usare l’hashtag #goofynomics nel citare il precedente post di Goofynomics?

Se il problema è avvicinare le persone alla consapevolezza, allora rendiamo virale la fonte della consapevolezza, no? O almeno proviamoci? O almeno citiamola?

No, troppo difficile!

Aspettiamo invece che Claudio, novello Tarzan, sguazzi “ne la marana” di Twitter coi dieci punti (modulo comunicativo che io esecro, e lui molto più di me: immagino la sua sofferenza interiore nel vedere che purtroppo funziona! 😂), così di dieci punti in dieci punti fra dieci anni dovremo ancora rispiegare da capo il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia!

Per carità, io vi capisco, ormai vi conosco meglio dei vostri genitori: voi avete tanto bisogno di un John Keating, di qualcuno che sappia affidare alla plastica catarsi “der gesto eclatante” eversivo il compito di mettervi in pace con l’idea di aver fatto qualcosa: vi vedo lì, tutti bellini, coi calzoncini corti in piedi sul banco. Perché alla fine non avete esattamente bisogno di com-battere, ma piuttosto di com-muovervi. Per poi andare a nanna tranquilli.

Ma non funziona così. Qui c’è il sergente Foley, è un altro film, e a quanto pare voi non siete esattamente Zack Mayo, che è quello di cui da inquadratore avrei tanto bisogno io (ma mi accontenterei anche del pinguino Private). Quando vedo una simile devastante assenza de #lebbasi mi viene da pensare che siamo ancora lontanucci, e che in fondo siamo sempre alle prese coi soliti atavici mali: il gestoeclatantismo, l’attesa che qualcuno, dopo, faccia qualcosa di decisivo, attesa il cui fine ultimo è dispensarci dal fare noi, ora, qualcosa di utile: utilizzare un [REDATTO] di hashtag: #goofynomics.

A proposito: buon anno [REDATTISSIMO]!

(…volevate combattere? Benvenuti all’AOCS. Alla prossima che fate siete fuori, ovviamente…)

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“Un dato significativo” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Il PD, ovvero la crescita negata (il mio discorso di fine anno).

Quest’anno, oltre alla consueta presenza degli sciroccati, la platea del #goofy12 registrava anche una ristretta ma qualificata presenza di esponenti della classe dirigente del nostro Paese. Il “laboratorio nero”:

Il pubblico del convegno internazionale Euro, mercati, democrazia 2023

nel corso degli anni ha prodotto qualcosa.

Tornando a Roma in compagnia di uno di questi manager, gli chiedevo quali impressioni aveva tratto dal convegno, quali cose lo avessero colpito, e i suoi main takeaways erano due: questo:

(tratto dalla relazione di Daniela Tafani), e questo:

Il grafico della vergogna nazionale

tratto dalle mie considerazioni conclusive: il grafico recante l’andamento del Pil italiano dal 1950 a oggi, insieme alla sua tendenza calcolata dal 1950 al 2007, ed estrapolata dal 2008 a oggi.

L’anomalia evidenziata da questo grafico è così vistosa, lo scostamento del Pil effettivo dal suo andamento tendenziale è così pronunciato, così apparentemente incolmabile, la cicatrice inferta al percorso di crescita del Paese così profonda e visibile, da condurre a una conclusione: qualsiasi ragionamento sul presente e sul futuro del nostro Paese che non parta esplicitamente da questo dato,  che non lo ponga al centro dell’attenzione, che non ne proponga una spiegazione, che non illustri un possibile percorso di ripresa, non può aspirare al rango di discorso, ma resta confinato nell’ambito delle chiacchiere. Detto in altre parole, mi sembra che per fare credibilmente politica in Italia si dovrebbe innanzitutto sapere che è successo questo (e vi assicuro che quasi nessuno lo sa), poi tentare di capire perché è successo (e oggi vi proporrò qualche linea di indagine), e infine valutare se e come sia possibile recuperare (e fino ad oggi, mi spiace, ma posso solo indicare quali sono, alla prova dei fatti, delle false soluzioni). La necessità, per un politico, di confrontarsi con questo fenomeno non scaturisce tanto dal fatto che i cittadini, e quel loro sottoinsieme sempre più ristretto che sono gli elettori, sappiano che è successa una roba simile. Anch’essi vivono, come chi li rappresenta, nell’ignoranza di questo dato mostruoso. Schiacciati come sono, come siamo, nella dimensione quotidiana, non gli si può chiedere quella memoria e quella prospettiva storica che può avere chi, come me, per mestiere ha studiato e insegnato l’analisi di lungo periodo delle serie storiche, e quindi sa dove trovarle e come leggerle!

Ma il fatto è che l’entità del disastro è tale che i cittadini non possono non soffrirlo nella loro carne viva. L’ignoranza di questo fatto economico, che è un dato politico, è la fonte principale di una serie di abbagli politici. Il più ricorrente è il mitologema delle sconfinate praterie della moderazione, che si troverebbero al “centro”, e pullulerebbero di elettori. Nessun popolo cui è stata fatta una cosa simile può essere moderato, e questa non è una mia ubbia, ma è il risultato di analisi pubblicate su prestigiosissime riviste scientifiche. L’altro è il mitologema della “sciura Maria”, che, indubbiamente, di processi stocastici integrati ne sa poco, ma che, ripeto, non può non avvertire (e nei discorsi di tutti i giorni, ve lo assicuro, avverte) che qualcosa si è rotto, e che in tasca ha il 30% in meno di quanto avrebbe se questo qualcosa non fosse stato rotto!

Non è consigliabile, per un politico, ignorare questo fatto, e ignorare quelle che la letteratura scientifica  ci indica come sue conseguenze più probabili (ad esempio, la tendenza alla polarizzazione del discorso politico, ovvero, in altri termini, la scomparsa del centro).

Oggi parleremo di questo.

Partiremo dal mettere in evidenza le dimensioni assolutamente anomale del fenomeno che stiamo vivendo dal 2009 e che, come vi ricordavo in un post precedente, qui già nel 2015 definivamo come la crisi più grave nella storia dell’Italia unita. Poi cercheremo di individuarne le cause prossime. Infine, ragioneremo su qualche possibile soluzione.

La crisi più grave nella storia dell’Italia unita

La crisi da cui ci stiamo a fatica riprendendo è senza ombra di dubbio la più grave nell’intera storia dell’Italia unita: è una crisi che lascerà una cicatrice duratura, visibile per i lunghi secoli a venire, un episodio sul quale gli storici non potranno non interrogarsi, e sul quale sarebbe opportuno che cominciassimo a interrogarci anche noi, tanto più che vi siamo direttamente coinvolti.

Per apprezzare la veridicità di questa affermazione vi propongo il grafico del Pil italiano dall’unificazione ai giorni nostri:

Figura 1

La serie rappresentata è quella del Pil in milioni di euro ai prezzi del 2010 (il Pil reale, cioè quello depurato dall’inflazione), ricostruita partendo dai dati forniti dalla Banca d’Italia (li trovate qui). Due cose colpiscono: la brusca accelerazione della crescita dopo la Seconda guerra mondiale, e l’altrettanto brusco arresto della crescita dopo il 2007, molto più pronunciato e visibile di quello determinato dalla Seconda guerra mondiale.

Questo dato, però, va però analizzato criticamente, anche per evitare futili contestazioni. Nel leggere un grafico simile va sempre ricordato che 1 è il 10% di 10 ma l’1% di 100. Il dato assoluto conduce i meno esperti a pensare che l’ultima crisi finanziaria globale, in seguito alla quale il Pil è diminuito di 146 miliardi di euro, dal massimo assoluto del 2007 al minimo relativo del 2013, sia stata più distruttiva della Seconda guerra mondiale, che ha fatto diminuire il Pil di 84 miliardi di euro dal massimo relativo del 1939 al minimo relativo del 1945 (tutti i dati sono a prezzi 2010). La lettura corretta è un’altra: nel 1939 il Pil era pari a 191 miliardi di euro (ai prezzi 2010), e quindi il calo di 84 miliardi in sei anni determinato dalla guerra era pari al 43% del valore di partenza; nel 2007 il Pil era pari a 1687 miliardi (ai prezzi 2010) e quindi il calo di 146 miliardi in sei anni corrisponde all’8.6%. Insomma: è ovvio che in termini percentuali l’intensità della crisi attuale è meno profonda di quella determinata da un conflitto che coinvolse l’intera penisola (a differenza della Grande guerra, che infatti nel grafico nemmeno si vede).

Per apprezzare la dimensione relativa, cioè in termini percentuali, della recessione, bisogna usare la scala logaritmica:

Figura 2

che rende subito evidente come la Seconda guerra mondiale di danni ne abbia fatti molti di più (e ci mancherebbe)!

Ma il punto è un altro: all’epoca della Seconda guerra mondiale ci vollero solo dieci anni per tornare al punto di partenza: già nel 1949 il Pil era lievemente superiore a quello del 1939. Oggi, nel 2023, sedici anni dopo l’inizio della crisi (ricordate i subprime?), il nostro Pil è ancora inferiore al valore del 2007, e secondo il Fmi non tornerà al valore del 2007 prima del 2026. Ho inserito le linee tratteggiate orizzontali appunto per facilitarvi questa lettura. Insomma: se definiamo, in modo riduttivo, l’uscita da una crisi come recupero del livello di reddito antecedente, la crisi attuale, nelle previsioni abitualmente rosee del Fmi, durerà il doppio di quella causata dall’ultimo conflitto mondiale.

Questa cosa non è banale, per almeno due motivi.

Primo, è discutibile che l’uscita da una crisi possa essere definita semplicemente come il ritorno alla casella di partenza: ragionare così significa ipotizzare implicitamente che se la crisi non ci fosse stata, cioè se il Pil non fosse diminuito, ci sarebbe però stata crescita zero, per cui il Pil sarebbe stato fermo- Non ci sono motivi per pensare che questa ipotesi sia ragionevole: il controfattuale rispetto al quale valutare l’impatto della crisi non può essere un controfattuale “a crescita zero”, ma su questo torneremo dopo.

Secondo, il Pil è un flusso, il flusso di redditi prodotti e distribuiti in una unità di tempo (un anno, negli esempi di questo post). Chiedo: è peggio perdere 50 per un anno o 10 per 10 anni? Il prolungarsi della crisi è comunque il prolungarsi di un lucro cessante. In altri termini, anche ammettendo che il controfattuale “a crescita zero” sia quello adeguato, in ogni caso le cose andrebbero viste così:

Figura 3

considerando come “lucro cessante” della crisi le aree che abbiamo evidenziato in rosso, cioè la somma degli scostamenti (negativi) del Pil dal valore cui era arrivato prima della crisi. Se ragioniamo in questi termini, la distanza fra le due crisi si avvicina di molto: il “lucro cessante” (cioè la somma delle perdite di Pil rispetto al valore iniziale lungo gli anni della crisi) della Seconda guerra mondiale fu pari al 154% del valore del Pil nel 1939, ma con lo stesso criterio ad oggi la crisi in corso ci è costata il 91% del Pil del 2007, e non è finita. Sto poi trascurando il fatto che oggi almeno in teoria non siamo in guerra, che le nostre fabbriche e le nostre infrastrutture di trasporto non vengono bombardate, ecc. Che in un contesto non bellico si sia riusciti a distruggere il 91/154 = 59% del Pil distrutto nel più feroce contesto bellico sperimentato dal nostro Paese dovrebbe essere un dato eloquente, no?

C’è un altro modo per rendere l’idea di quanto sia eccezionale la situazione che stiamo vivendo, ed è tentare di esaminarla con gli occhi di uno storico del XXII secolo. Immaginiamo che da ora in avanti il Pil italiano cresca a quello che è stato il suo tasso medio di crescita dall’entrata nell’euro, lo 0,5% annuo (non abbiamo particolari motivi per credere che senza un’alterazione profonda del contesto istituzionale il nostro Paese in media riesca a fare di più).

Uno storico del 2123 osserverebbe questa situazione:

Figura 4

e a meno di non essere molto distratto non potrebbe non porsi una domanda: “Ma fra il 2007 e il 2026 che diavolo è successo?” Un buco di 20 anni, in effetti, rimane appariscente su un’estensione di oltre due secoli e mezzo di storia! Il nostro amico storico andrà a vedere se c’è stata una guerra (io farei così), e non la troverà, o non la capirà…

Una crisi italiana

Vorrei a questo punto scansare un altro equivoco: quello che un risultato così eccezionale dipenda dalla natura eccezionale dello shock che ha colpito l’economia italiana a seguito della bancarotta Lehman e della crisi finanziaria globale. Se osserviamo il tasso di crescita del Pil mondiale notiamo in effetti che dal 1950 a oggi il primo valore negativo corrisponde alla crisi del 2009:

Figura 5

Tuttavia, anche dopo gli shock petroliferi del 1973 e del 1979 avevamo assistito a una decelerazione del Pil mondiale molto pronunciata. Inoltre, la crisi globale (in effetti, le crisi globali, comprendendo anche quelle del 1973 e del 1979) hanno colpito tutti. Solo in Italia, però, gli effetti dell’ultimo shock globale sono stati così persistenti. Ciò suggerisce che il problema non sia stato lo shock, ma il modo in cui si è deciso di gestirlo.

Per dare un’idea di cosa intendo, ho replicato per Francia, Germania e Italia lo stesso esperimento: partendo dal 1950, ho calcolato la tendenza di crescita del Pil fino al 2007 e l’ho estrapolata dal 2008 al 2022, confrontando questa previsione ex post con i valori storici del Pil dal 2008 al 2022. Dico subito, a beneficio degli eventuali esperti, che a questo esperimento attribuisco un valore puramente descrittivo. So bene che una tendenza lineare non necessariamente è il miglior modello esplicativo della crescita di un Paese, semplicemente perché il paper scientifico più letto dagli economisti della mia generazione l’ho letto anch’io, ma a me qui interessa un modo semplice ed espressivo per evidenziare un possibile cambiamento di struttura.

I risultati sono questi:

Figura 6

Figura 7

Figura 8

(l’ultimo grafico coincide, ovviamente, con quello da cui siamo partiti).

Il confronto è piuttosto eloquente: nei primi 57 anni i tre tracciati sono indistinguibili: nei tre Paesi il Pil reale si sviluppa secondo una traiettoria pressoché lineare, con scostamenti di modesta entità e persistenza. Dopo lo shock del 2009 le cose però cambiano. In tutti e tre i Paesi il tracciato del Pil passa in modo persistente al di sotto della tendenza 1950-2007, ma solo in Italia si registra un arresto della crescita delle dimensioni evidenziate in figura 8.

Ha stato il debbitopubblico!

Questa dimensione comparatistica è utile, perché ci aiuta a sfrondare il dibattito da alcune spiegazioni semplicistiche del fenomeno. Tipicamente, la reazione del collega evoluto cui faccio vedere il grafico riferito all’Italia è: “Beh, ma per forza, prima crescevamo facendo debito pubblico!” Una spiegazione che si coniuga con l’idea (errata) che l’austerità sia stata necessaria e abbia fatto diminuire il debito pubblico (mentre i dati dicono che è andata al contrario). Per capire che la soluzione non può essere cercata in quella direzione basta dare un’occhiata ai dati, accostando a ogni tracciato quello del rapporto debito/Pil:

Figura 9

Figura 10

Figura 11

Da questi grafici desumiamo a colpo d’occhio:

  1. che il debito pubblico non esiste solo in Italia (molti giornalisti nostrani ne sembrano convinti) e che negli ultimi anni è andato crescendo un po’ ovunque, quindi, se la crescita fosse sospinta dal debito, non lo sarebbe solo da noi;
  2. che il Pil un po’ ovunque è rimasto sulla sua traiettoria tendenziale di crescita anche nei periodi in cui il debito pubblico anziché crescere diminuiva, come ad esempio in Francia e in Italia fra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’60, o in Italia dalla metà degli anni ’90 al 2007, il che smentisce l’idea che la crescita del Pil in Italia fosse sostenuta solo da quella del debito;
  3. in particolare, che in Italia non solo il Pil è rimasto sulla sua traiettoria anche quando il debito scendeva (vedi sopra) o restava sostanzialmente stazionario (come dal 1974 al 1982), ma è addirittura cresciuto bruscamente quando il Pil ha smesso di crescere, per cui l’idea che dietro alla tenuta della crescita italiana prima del 2007 ci fosse l’espansione del debito è smentita radicalmente: non si capirebbe infatti perché all’ultima impennata del debito corrisponda una tombale stagnazione!

Le spiegazioni “debitopubblicocentriche” di queste dinamiche direi quindi che non ci aiutano. Non c’è, nella traiettoria del debito pubblico italiano, una frattura di intensità pari a quella che vediamo nel Pil, qualcosa che ci possa dire che la crescita si è interrotta perché il debito ha smesso di sostenerla: anzi, con l’ultimo decollo del debito la crescita si è interrotta! In definitiva, non c’è nemmeno una particolare eccezionalità italiana nel panorama europeo: certo, il nostro debito è più grande, ma la sua dinamica di fondo è analoga a quella degli altri Paesi. In altri termini, non c’è nulla nella dinamica del nostro debito che ci aiuti a spiegare ictu oculi perché si è rotta la dinamica della nostra crescita, in un periodo in cui, dopo lo shock Lehman, quella degli altri Paesi rimaneva relativamente imperturbata.

Nel caso dell’Italia, poi, basta mettere le cose in prospettiva:

Figura 12

per cogliere immediatamente che la relazione fra debito e crescita non è così meccanicistica come si vuole far credere, e in particolare che il nesso di causalità non è così banale (cioè non va necessariamente dal debito alla crescita). Basta vedere che dal 1897 al 1913, così come dal 1995 al 2007, il rapporto debito/Pil era avviato su una solida traiettoria decrescente, interrotta nel primo caso dalla Grande guerra, e nel secondo dalla Grande austerità. In entrambi gli episodi di consolidamento non traumatico il Pil ha continuato a crescere e la diminuzione del rapporto debito/Pil è stata di oltre un punto percentuale l’anno, a testimonianza del fatto più volte citato dal ministro Giorgetti che le “salvaguardie” tedesche (cioè la regola che il rapporto debito/Pil debba comunque diminuire di un punto all’anno) l’economia italiana se le è sempre potute permettere. Aggiungo che in entrambi i casi si sono alternati governi “de destra” e “de sinistra” (che un secolo fa venivano qualificate dell’aggettivo di “storiche”). Non è quindi supportata dall’evidenza storica la consueta idea che la disciplina fiscale sia di destra e la dissolutezza di sinistra, né la sua versione più moderna ma altrettanto idiota che la disciplina fiscale sia di sinistra e la dissolutezza di destra. Piuttosto, quello che questo grafico dimostra è che se non le si rompono troppo i coglioni l’Italia riesce a generare sufficienti risorse da servire e ripagare il proprio debito, e infatti in tutti questi anni formalmente non ha mai fatto bancarotta (dico formalmente perché l’iperinflazione immediatamente successiva alla Seconda guerra mondiale fu una bancarotta de facto, come qui abbiamo più volte ricordato).

L’ultima parte del grafico, viceversa, suggerisce come il debito esploda quando l’applicazione di regole idiote comprime la crescita. Ma a beneficio di chi, intossicato da anni di lettura di ponderosi editoriali zero tituli, sia convinto del contrario, sarà utile sostenere questa intuizione con ulteriori elementi probanti. Entriamo quindi in dettaglio.

Le componenti della (non) crescita

Dato che prima del 2007 i grafici di Francia, Germania e Italia sono sostanzialmente indistinguibili, mentre dopo il 2007 l’Italia sperimenta la catastrofe che abbiamo descritto, potrebbe essere utile scomporre la crescita del Pil di questi tre paesi nel contributo delle rispettive componenti: i consumi privati (C), i consumi collettivi (G), gli investimenti (I) e le esportazioni nette (NX), in modo da vedere quale di queste componenti spieghi l’arresto della crescita italiana o, per altri versi, la persistenza della crescita degli altri Paesi.

Vi spiegai molto tempo addietro come si fa questa scomposizione. Forse qualcuno di voi ricorda questa tabella:

Tabella 1

la cui spiegazione è qui. In sintesi, il contributo alla crescita del Pil di ognuna delle sue componenti:

Y = C + G + I + NX

è dato dal prodotto del tasso di crescita della componente per la sua incidenza sul totale al tempo precedente (ad esempio, nella tabella, il contributo di x alla crescita di z è dato dal prodotto del tasso di crescita di x, 0.25, per l’incidenza di x su z, 0.4, cioè a 0.1). Il senso di questa semplice regola matematica è che una componente contribuisce di più alla crescita del totale se cresce molto in fretta o se esprime una grande percentuale del totale.

Nell’effettuare questa analisi incontriamo una difficoltà pratica, determinata dal fatto che le serie del Pil suddiviso nelle sue componenti non sono disponibili a partire dal 1950. I dati più recenti sono sul database dell’OCSE e partono dal 1980. Utilizzando questi dati e considerando due sottocampioni, uno dal 1980 al 2007, e l’altro dal 2007 al 2019 (ho lasciato fuori la crisi Covid), la scomposizione della crescita del Pil nelle sue componenti porta a questo risultato:

Figura 13

che, oltre a dirci cose che sappiamo (vediamo subito quali) ci evidenzia anche un’anomalia di dimensioni tali da costituire un buon indizio su cosa possa essere successo in Italia dal 2007 in poi.

Cominciamo dalle cose che sappiamo: sono riassunte dalle prime tre barre, quelle che si riferiscono al periodo 1980-2007. In quel periodo l’anomalia è costituita dalla Germania, la cui crescita è trainata per quasi il 40% dalle esportazioni nette (in giallo), una componente che in Francia e Italia dà invece un contributo trascurabile. Come altresì sappiamo (ne abbiamo parlato per tutto il post precedente), a questa dipendenza dalle esportazioni corrisponde, per via della relazione X – M = S – I, una repressione degli investimenti. Questi, in effetti, fra il 1980 e il 2007 contribuiscono ad appena il 13% della crescita tedesca, contro il 25% della Francia e il 24% dell’Italia. Un’altra differenza più sottile (ma altresì nota) fra i percorsi di sviluppo di questi tre Paesi risiede nell’incidenza dei consumi collettivi (spesa pubblica in stipendi e consumi intermedi), che mentre offrono un contributo molto contenuto alla crescita in Germania (l’11% del totale), danno una spinta piuttosto vigorosa alla crescita in Francia (spiegando il 21% della crescita), con l’Italia in posizione intermedia (intorno al 16%).

Nel periodo 1980-2007 insomma le differenze fra i percorsi di crescita seguiti fra i vari Paesi ci sono, ma per leggerle occorre una certa attenzione.

La scomposizione del tasso di crescita nel periodo 2007-2019 invece ci fornisce un quadro molto più differenziato e netto. Notiamo a prima vista tre cose:

  1. in Francia il contributo delle esportazioni nette diventa negativo, in conseguenza dello sprofondare del saldo della bilancia dei pagamenti;
  2. in Germania il contributo delle esportazioni nette sostanzialmente si azzera (il saldo estero fra 2007 e 2019 rimane sui 200 miliardi di euro);
  3. in entrambi i Paesi questa dinamica avversa viene compensata da un aumento del contributo dei consumi collettivi (spesa pubblica) alla crescita;
  4. in Italia gli investimenti crollano, contribuendo alla crescita dell’economia per il -117%, mentre esplode il contributo delle esportazioni nette, che sale al 65%. Tuttavia, dato che anche i consumi (privati e collettivi) danno un contributo negativo, fra 2007 e 2019 l’economia si contrae (come abbiamo visto nei grafici precedenti).

Per facilitarvi la comprensione di questi risultati vi riporto qui l’impianto dei calcoli per l’Italia:

Tabella 2

dove vi segnalo che, per aiutare l’intuizione del lettore, nell’ultima riga, quella che riporta la scomposizione percentuale del tasso di crescita fra 2007 e 2019, ho moltiplicato tutto per -1, altrimenti, dato che il tasso di crescita in quel periodo è negativo, le componenti che lo hanno tirato giù (e quindi hanno segno meno) sarebbero apparse con segno positivo (perché meno diviso meno fa più). Ma il punto è che fra 2007 e 2019 i consumi collettivi sono diminuiti di 14 miliardi e gli investimenti di 83 miliardi: si capisce che una mano in discesa l’hanno data, mentre non si capisce come si faccia a dire che in questo Paese “non è stata fatta austerità”…

Austerità e investimenti

Che gli investimenti (intesi come investimenti fissi lordi, come formazione di capitale fisso, cioè come acquisto di macchinari, attrezzature, immobili e automezzi industriali) siano un motore della crescita nessuno può negarlo. Meno che meno possono contestarlo gli “offertisti”, cioè gli “economisti” che negano il ruolo della domanda nello stimolare la crescita in un’economia di mercato, perché convinti che sia l’offerta a creare la domanda, cioè che sia l’aumento dello stock di capitale produttivo a stimolare la capacità di spesa. Teoria un po’ astrusa (la vita di ogni singolo imprenditore vero – cioè non da talk show – testimonia il contrario!), ma di cui qui apprezzeremo un pregio: rende incontestabile l’idea che la spesa in capitale fisso (gli investimenti di contabilità nazionale) siano un motore della crescita!

Il lato positivo delle idee sbagliate è che si possono usare nel modo giusto, fornendo argomenti difficilmente controvertibili da chi le propugna: se dimostriamo che c’è stato un problema con gli investimenti, sarà difficile per gli economisti ottocenteschi (quelli tutti offerta e distintivo, insomma!) contestare che questa sia la radice del problema di crescita che finora abbiamo documentato!

Un’analisi di lunghissimo periodo di questa variabile non è particolarmente agevole: ricordo, per inciso, che l’esigenza di tenere una contabilità nazionale si manifestò dopo la crisi del 1929 e in particolare dopo la sua soluzione (la Seconda guerra mondiale), una soluzione che per un po’ suggerì alle opinioni pubbliche quanto oggi sembra abbiano dimenticato, ovvero che per quanto l’intervento pubblico nell’economia potesse sembrare indesiderabile, la sua assenza conduceva ad alternative peggiori! Bisognò attendere quindi il 1947 perché i primi conti nazionale venissero pubblicati negli Usa e il 1952 perché venisse elaborato dalle Nazioni Unite uno standard internazionale, lo SNA (System of National Accounts), tale da rendere le statistiche confrontabili fra Paesi. Aggiungiamo il fatto che il lodevole scrupolo di fornire una rappresentazione dei fatti sempre più aderente alla realtà spinge gli istituti di statistica nazionali e sovranazionali a frequenti revisioni dei criteri di calcolo. Ne consegue che non per tutti i Paesi sono disponibili serie omogenee a partire almeno dal Secondo dopoguerra (che è poi il motivo per cui nella sezione precedente abbiamo utilizzato i dati a partire dal 1980).

Con questi caveat, vediamo se è possibile rispondere alla domanda che ci siamo posti: la vistosa anomalia documentata dalle Figure 1 e 8 è almeno in parte spiegabile con una dinamica particolarmente avversa degli investimenti? La domanda in parte è oziosa perché la risposta viene dalla Tabella 2 ed è sì, ma dare un’occhiata ai dati e in particolare entrare nel dettaglio di che cosa abbia fatto il Governo (cioè esaminare l’andamento degli investimenti pubblici) qualcosa aggiungerà.

Cominciamo con l’esaminare la dinamica degli investimenti nei tre principali Paesi dell’Eurozona, utilizzando tutti i dati annuali disponibili sul sito dell’OCSE (che presto passerà qui):

Figura 14 – Fonte: OCSE.

La Figura 14, come anticipato, non può che essere coerente con i risultati della Figura 13 (visto che i dati sottostanti sono gli stessi), ed evidenzia che per l’Italia la situazione è grigia, anche in senso figurato: il calo anomalo degli investimenti è in effetti vistoso. L’anomalia è più chiara se a ogni tracciato associamo la propria tendenza dall’inizio della serie al 2007, facendo per gli investimenti un’operazione analoga a quella fatta per il Pil nelle figure dalla 6 alla 8. Per comodità lo faccio in un’unica figura: 

Figura 15 – Fonte: OCSE.

Come era facile aspettarsi, solo in Italia si manifesta un vistosissimo scostamento dalla tendenza degli investimenti verso il basso, scostamento che comincia a ricomporsi solo dal 2021, lasciando comunque i valori storici un centinaio di miliardi al disotto di quelli tendenziali. Francia e Germania (quest’ultima, a dire il vero, con qualche difficoltà in più) riescono invece a mantenere la traiettoria.

Ora, visto così il fenomeno è già eloquente e potrebbe contribuire a spiegare l’anomalia della Figura 8. Tuttavia, anche qui vale la pena di allargare lo zoom, e possiamo farlo utilizzando la base dati della Banca d’Italia da cui abbiamo tratto la serie secolare del Pil. Quella degli investimenti si presenta così:

Figura 16 – Fonte: https://www.bancaditalia.it/statistiche/tematiche/stat-storiche/stat-storiche-economia/index.html

Ecco, forse (dico forse) così si capisce meglio di che cosa stiamo parlando.

Una roba come quella successa dopo il 2007 non si era mai vista, e anche qui, ovviamente, valgono i caveat che abbiamo espresso per la Figura 1: il problema non è (solo) l’entità del crollo degli investimenti, ma (anche e soprattutto) la persistenza di questo crollo, che “mèccia” (dall’inglese to match: quelli bravi parlano così) perfettamente con la persistente stasi della crescita italiana. Poi si può parlare di debito pubblico, qualcuno mi parlava di società signorile di massa, le spiegazioni possono essere tante: se siete bravi, trovatemi una spiegazione che “mècci” ugualmente bene e mi farete un favore! Dico sempre che se rinasco voglio essere inutile: se si scoprisse che la contabilità nazionale e ECON102 sono irrilevanti forse riuscirei a coronare il mio sogno in questa vita!

A scanso di ulteriori equivoci, siccome so che i dati della Figura 15 sembrano diversi da quelli della Figura 16, ve li metto insieme, così vi rendete conto meglio:

Figura 17 – Fonte: Banca d’Italia e OCSE.

Lo scarto che vedete fra il dato OCSE e il dato Banca d’Italia è spiegato esclusivamente dalla diversa base dei prezzi (i dati OCSE sono ai prezzi 2015 e quelli Banca d’Italia ai prezzi 2010), ma il profilo temporale delle serie è assolutamente identico.

Per dare evidenza numerica a quanto è successo, per aiutarvi a quantificare (oltre che visualizzare) il buco degli investimenti che ha determinato il buco della crescita, vi fornisco anche un grafico con gli scostamenti fra la traiettoria storica e quella tendenziale (scostamenti che in Italia ovviamente sono sempre negativi):

Figura 18 – Elaborazione su dati OCSE.

e visto che sono una brutta persona e voglio rovinarvi il veglione, vi fornisco anche una tabella coi numeri e la loro somma cumulata, così è più chiaro:

Tabella 3 – Gli scostamenti degli investimenti dal rispettivo tendenziale e la loro somma cumulata.

Insomma, pare che dal 2009 a oggi abbiamo lasciato sul terreno una roba tipo 1587 miliardi di euro di mancati investimenti rispetto alla tendenza statistica, laddove la Francia ne ha fatti 145 in più e la Germania, che come sappiamo non se la passa benissimo, 592 in meno (risultato negativo, ma pari a un terzo del nostro disastro).

Gli investimenti pubblici

A questo punto un offertista potrebbe rifugiarsi in corner facendo un’osservazione in linea di principio corretta: è difficile stabilire un nesso di causazione univoco fra investimenti e Pil, perché gli investimenti sono almeno in parte endogeni, cioè dipendono dal livello generale dell’attività economica. L’imprenditore, quando decide di acquistare una macchina o di edificare un capannone, lo fa considerando vari fattori fra cui la ragionevole aspettativa di vendere quello che intende produrre, cioè le aspettative di domanda a lungo termine. Se le aspettative non sono formate razionalmente, ma risentono degli ultimi dati storici, in presenza di una recessione un imprenditore si aspetterà che la domanda sia bassa anche in futuro e posporrà gli investimenti.

Per i più raffinati, faccio notare che per fare questa obiezione il solito sbarbatello awanagana col pieiccdì (che tanto si affaccerà, vedrete) dovrebbe rinunciare a due caposaldi del suo “pensiero”: l’idea che l’offerta sia esogena rispetto alla domanda, e l’idea che le aspettative si formino razionalmente. Ma siccome gli sbarbatelli awanagana hanno il pieiccdì, ma non hanno Aristotele, facilmente, per amor di polemica, possono contraddire se stessi, pur di negare l’evidenza. Fine della chiosa per i raffinati.

Tornando al punto: l’obiezione, di per sé, è ragionevole. C’è però un “ma”: non tutti gli investimenti sono endogeni, cioè affidati agli animal spirits dei lettori del Sole 24 Ore (cioè di quelli che all’epoca di questo disastro credevano che Giannino fosse un economista)! Gli investimenti pubblici sono in mano al decisore pubblico, e quindi esogeni. Più esattamente: in un modello particolarmente raffinato dell’economia ci potremmo aspettare che essi dipendano dal Pil attraverso una “funzione di reazione” dell’autorità politica, tramite la quale questa reagisce ai segnali che provengono dall’economia. In questo caso, tipicamente, ci si dovrebbe aspettare che a un calo dell’attività economica debba corrispondere un incremento degli investimenti pubblici, con funzione anticiclica. Questo, ovviamente, non in Europa, dove le regole sono procicliche. Inoltre, la teoria economica di ECON102 (che è meglio del nulla di cui dispongono media e magistrature, ma non è un gran che) racconta che gli investimenti pubblici, dovendo essere finanziati, spiazzano gli investimenti privati (perché per pagarli lo Stato o alza le imposte o si indebita, esercitando una pressione al rialzo sui tassi, producendo in entrambi i casi effetti depressivi sugli investimenti privati), ma la vita di tutti i giorni ci dicono che in pratica invece di crowding-out (spiazzamento) si ha crowding-in, ovvero gli investimenti pubblici favoriscono quelli privati. Basti pensare a quale incentivo possa avere un’azienda a investire in un distretto industriale dove magari la manodopera è anche preparata e relativamente conveniente, ma che è isolato dal resto del mondo a causa di una rete infrastrutturale fatiscente! In questo caso prima viene l’investimento pubblico, rigorosamente non digital e non green, cioè la strada, e poi viene l’investimento privato. E di esempi simili se ne potrebbero fare a centinaia.

Per dirimere quindi il nodo, vediamo che cosa hanno fatto gli investimenti pubblici. Nel sistema dei conti nazionali, gli investimenti che entrano nella definizione di Pil (cioè la I nell’identità Y = C+I+G+X-M) non possono essere facilmente scomposti in pubblici e privati per i motivi descritti qui. Per scorporare la componente pubblica bisogna quindi far riferimento ai conti dei settori istituzionali. C’è poi una ulteriore difficoltà, consistente nel fatto che questi conti sono in valori nominali, quindi occorre deflazionare i dati per depurarli dall’inflazione (operazione che ho fatto utilizzando il deflatore degli investimenti lordi e con cui non vi tedio ulteriormente). Vediamo allora i dati, almeno quelli che riporta il sito dell’OCSE:

Figura 19

Direi che almeno per quanto riguarda l’Italia la situazione è piuttosto chiara: si vede bene come fra 2009 e 2014 si siano persi per strada quasi 24 miliardi di euro di investimenti pubblici, e come la tendenza si sia invertita solo con l’arrivo dei cattivi (noi) nel 2018. Qui non ci sono storie: non credo sia contestabile che l’andamento degli investimenti pubblici risente di precise scelte di politica economica. Inutile che veniate qui a dirmi che #hastatoabberluscone perché la serie comincia a scendere dal 2010. Lo so benissimo e sono con quelli che considerano che fare come il PD sia stato, da parte di Berlusconi, un errore gravissimo. Fatto sta che finché c’era lui la flessione era rimasta nell’ambito di altre sperimentate storicamente, come quella fra 1991 e 1994 o quella fra 2001 e 2002. Dopo inizia qualcosa di molto diverso: un serious fiscal overkill che è suscettibile di spiegare l’anomalia osservata in Figura 1 (o Figura 8).

Ma il grafico, che è un po’ più confuso degli altri perché per la prima volta non vediamo la Germania in posizione di preminenza (ci avevate fatto caso?) ha anche altro da dirci. Effettuiamo la stessa analisi descrittiva applicata agli investimenti privati, analizzando gli scostamenti delle serie dalle rispettive tendenze:

Figura 20 – Fonte: OCSE.

E qui troviamo una sorpresa (relativa): la Germania, che nel periodo precedente alla crisi, aveva represso gli investimenti per promuovere le esportazioni, è l’unico Paese a reagire in modo anticiclico, con investimenti pubblici superiori al tendenziale. La Francia, invece, condivide, in qualche modo il percorso dell’Italia, con investimenti inferiori al tendenziale.

Ma allora?

Si torna ai bei tempi! Qui è quando arrivava lo scemotto simpatizzante di FARE per fermare il declino a dire: “Ecco, lo vedi, Bagnai, che le tue spiegazioni non tengono? Hai fatto tutta questa storia per dimostrare che l’austerità ha ucciso il Paese, ma poi la Francia ha tagliato pure lei gli investimenti pubblici e in Francia non si vede una cosa nemmeno lontanamente simile a quella successa da noi, e quindi il nostro disastro ce lo meritiamo perché dipende dai nostri mali atavici, il debito pubblico, la coruzzione (si scrive così), il familismo amorale, la tabaccaia scalabile e i camion di faldoni!”

(…ai nuovi del blog che non capissero questi riferimenti di alta dottrina economica suggerisco questa esilarante disamina dei mali italiani fatta da uno che se ne intende…)

E lo scemotto awanagana si prendeva, di prassi, una bella sportellata, altrimenti non sareste qui in tanti!

La sportellata dov’è? Beh, è hidden in plain sight nella Figura 13! Ma prima ricordiamoci di una cosa: se siamo arrivati qui è perché il nostro amico awanagana ha ammesso che gli investimenti dipendono dalle aspettative di domanda, e queste a loro volta dipendono dall’andamento attuale della domanda aggregata (insomma: del Pil). Ora, vi ricordo che le componenti del Pil determinate dall’azione di Governo sono due: oltre agli investimenti pubblici, ci sono anche i consumi pubblici o collettivi che dir si voglia, che in larga parte corrispondono al consumo di beni e servizi pubblici da parte dei cittadini, valorizzato presuntivamente con la remunerazione corrisposta a chi questi beni o servizi li fornisce: medici, poliziotti, ecc. Sì, forse non lo ricordate ma i consumi collettivi coincidono in larga parte con la spesa per stipendi della PA. Comunque, poco importa: fatto sta che sono una componente di domanda e che vengono controllati dal Governo. Per accertare se sia vero o meno che l’austerità non c’entri nulla col disastro italiano (tesi ardita, ma c’è chi la sostiene) dobbiamo allora completare il quadro.

L’analisi, condotta col metodo consueto, è in questa figura:

Figura 21 – Fonte: OCSE.

e, come vedete, ci fornisce un quadro coerente con quello della Figura 13: la principale differenza fra il nostro e gli altri Paesi è che qui da noi dopo la crisi del 2008, e in particolare a partire dal 2011 (quindi dalla legge di bilancio 2010, quindi ancora una volta è stato Berlusconi, per capirci, lo so benissimo, ed è una lezione per la destra, non per me…), sono stati repressi anche i consumi collettivi, che invece in Francia sono rimasti sostanzialmente sul tendenziale, e in Germania hanno progressivamente superato il tendenziale. Per capirci, verso il 2014 (cioè quando noi scrivevamo questo, o questo, per dire…), fra minori investimenti e minori consumi pubblici rispetto ai rispettivi tendenziali ballavano circa 85 miliardi. Se consideriamo l’effetto di spiazzamento determinato da questi tagli sulle aspettative di domanda e sullo stato delle infrastrutture (Pubblica Amministrazione inclusa), se poi ci aggiungiamo gli ulteriori effetti finanziari via accumulazione di NPL e applicazione delle sagge regole bancarie europee alla nostra economia, ecco, allora cominciamo a spiegarci la Figura 1…

Confessio regina probationum

Che poi, per chi è qui da un po’, e quindi, tornando a bomba, non per le persone serie, per la classe dirigente, per quei bravi “practical men, who believe themselves to be quite exempt from any intellectual influences”, e che invece “are usually the slaves of some defunct economist”, come ci ricorda un defunct economist, per noi, insomma, tutti questi ragionamenti, più che scontati, sono inutili. A che ci serve un simile apparato probatorio, quando abbiamo la regina delle prove, la confessione!? Quello che vediamo negli innumerevoli grafici che vi ho proposto è il risultato di una scelta deliberata: la scelta di distruggere la domanda interna italiana per recuperare competitività:

Il ragionamento di Monti è limpido, a meno di un piccolo salto logico. In effetti, visto che, come sappiamo, in contabilità nazionale sarà sempre:

S – I = X – M

(ne abbiamo parlato tante volte, ad esempio qui), il modo più spiccio per recuperare non la competitività (qui sta il salto logico), ma la sua apparenza, cioè un miglioramento del saldo commerciale X – M positivo, è tagliare la componente pubblica di I, o i consumi collettivi (perché S = Y – C – G, e quindi tagliando i consumi collettivi G ragionieristicamente innalzi S… se non fosse che economicamente Y cala, ma il discorso sarebbe lungo).

Insomma, fra le tante cose che non vanno delle politiche di austerità, oltre al fatto di distruggere il Paese, c’è anche quello che non risolvono nessuno dei problemi che vorrebbero risolvere: non abbattono il rapporto debito/Pil, perché il Pil cala più del debito (e di questo rischio Monti, se lo ascoltate bene, è perfettamente consapevole); non migliorano la competitività del Paese, perché il taglio degli investimenti pubblici e del numero e delle retribuzioni dei funzionari pubblici va in direzione esattamente opposta, ma consentono di fingere che la competitività sia migliorata, perché tagliando i redditi si tagliano le importazioni, e il saldo commerciale va su. Monti dice che ci sarebbe voluta una “demand operation” europea, insomma, che si sarebbe aspettato che la Germania aprisse i cordoni della borse per remunerare, via maggiori acquisti di beni italiani, la nazione che era stata “prima della classe” (in autolesionismo). Lo credeva veramente? Come al solito, come sempre, insisto su un punto: a me non interessa se c’era o ci faceva (come dicono a Roma): a noi deve interessare quello che ha fatto.

Ha fatto quello che vedete in Figura 1.

La sintesi estrema di quanto ci siamo detti fino a questo punto è che il disastro rappresentato in Figura 1 è frutto di deliberate scelte politiche compiute dai governi a trazione PD (con qualche timido accenno da parte di Berlusconi, che venne spazzato via subito perché non sufficientemente convinto, come vi dissi fin dall’agosto del 2011).

I non-rimedi

Mi sia concessa una brevissima divagazione politica.

Ieri commentavamo la decisione dell’amico Gianluigi di uscire dal proprio partito per essere libero di dire quello che desiderava, per tornare ad essere una voce critica. Doveva essere proprio una caserma, Italexit, se nemmeno il suo leader riusciva ad esprimersi liberamente nel suo ruolo! Noi qui siamo aiutati dal fatto che, come sapete, questo blog non esiste, il che offre due vantaggi immediati: nessuno viene a disturbarci, in un luogo che non c’è, e quindi qui possiamo dire quello che ci pare, per quanto politicamente scorretto o politicamente inopportuno. In particolare, possiamo dire quello che abbiamo sempre detto, ad esempio questo (con l’occasione, registro un simpatico plagio del titolo che mi rassicura: siamo decisamente più letti, o meno originali, di quanto crediamo di essere, ed entrambe le cose sono positive).

Vado al punto. So che può sembrare politicamente contraddittorio sottolinearlo, e aggiungo quanto è  forse scontato aggiungere (ma better safe than sorry), cioè che anche qui, dove posso dire quello che mi pare, ritengo che il lavoro fatto da questo Governo per raddrizzare il legno storto del PNRR sia meritevole, se non altro perché scongiura che al danno di esserci entrati si aggiunga la beffa di non ricevere i soldi (quanto a rendicontarli, non ci riuscirà nessuno, per cui direi di stare tranquilli…). Fatta questa doverosa quanto superflua premessa, arrivo al punto che immaginate: sì, il PNRR, anzi, scusatemi: leingentirisorsedelPnrrr (detto alla grillina, tutto d’un fiato), non è una soluzione. Non lo dico io e non lo direi comunque per animosità politica verso chi ha mal concepito e peggio gestito il nostro ingresso in questo meccanismo (la “bioggiadimiliardi” non poteva che essere la sorella gemella del “graduidamende”). Lo dice la Commissione Europea perché lo dicono i dati, di cui vi fornisco fonte e diapositiva:

Figura 22 – Fonte: https://www.consilium.europa.eu/media/65610/ip253_en.pdf

Figura 23 – Fonte: https://economy-finance.ec.europa.eu/system/files/2023-12/ip258_en.pdf

Il recupero degli investimenti rispetto al livello del 2019, visibile a fine periodo nelle Figure 15 e 16, dovrebbe proseguire, ma si prevede (lo prevede la Commissione) che nel 2024 e nel 2025 le ingentirisorsedelpnrr saranno una componente sostanzialmente minoritaria (fra un terzo e un quarto) del recupero di investimenti pubblici rispetto al livello del 2019. Insomma: l’UE ci ha aiutato a scavarci la fossa, ma ci lascia da soli a riempirla. Operazione che, ne converrete, sarebbe più semplice se intanto ne uscissimo (che avete capito!? Ovviamente intendevo dalla fossa!).

Concludendo

Qui si dovrebbe aprire una lunga discussione, ma devo chiuderla perché la famiglia, Capodanno, gli auguri, ecc. ecc. ecc. Va bene così. Ovviamente nessuno, includendo in questo nessuno anche tu che mi stai leggendo, ha realmente colto la gravità della situazione in cui ci troviamo. Ci vuole un po’ per afferrarne i contorni: un quarto del Pil che se ne va giù per il tubo, a beneficio sostanzialmente di nessuno (perché a tutti, e più che agli altri ai debitori diffidenti, sarebbe convenuto lasciare intatta la capacità di generare valore del nostro Paese)! Non c’è miglior esempio dei danni che può arrecare la schiavitù degli uomini pratici dalle idee di qualche economista defunto! Ma per quanto sia un fatto che segnerà per sempre (ovvero: fino a quando si misurerà il Pil) la storia del nostro Paese, non è certo un buon motivo per rovinare la festa agli altri. Quindi ora vi lascio. Ma c’è un impegno che dovremmo prenderci per il 2024: diffondere consapevolezza.

La Figura 8, se presentata col dovuto garbo, è suscettibile di scuotere le coscienze.

Basterà dire, con la vostra congeniale delicatezza, al vostro piddino di riferimento:

Figura 24 – Mappa illustrata della crisi.

“Tesoro di papà, noi eravamo in A, da A siamo arrivati in B, saremmo quindi dovuti arrivare in C, giusto? Ma invece siamo in D. Secondo te, che cosa è successo? Visto che fra C e D ballano 400 miliardi sarebbe utile farsela una domanda, non credi?”

Arriveranno i camion di faldoni, arriverà er debbitopubblico, arriverà la società signorile di massa, arriverà #aaaaacoruzzione, arriveranno i costidellapolitica, arriverà la qualunque, statene certi: arriverà di tutto, tutto tranne la macroeconomia, la contabilità nazionale, e i dati. E alla fine della processione, però, mancheranno sempre 400 mijardoni de euri! Sarà quindi lecito ripetere, lasciato passare un po’ di tempo, la domanda, smontando con delicatezza, uno dopo l’altro, i preconcetti dei vostri amici che “sanno di sapere” (li chiamammo così, ricordate?).

Ci vorrà molta pazienza, ma bisognerà insistere, perché, purtroppo, tutto passa da lì: il problema della natalità, quello del debito pubblico, quello del riscatto del Paese. Perché 

e quindi mettere al centro della riflessione politica la Figura 1 conduce naturalmente a una rivoluzione copernicana: da “abbattere il debito per liberare risorse” (il mantra che ci siamo sentiti ripetere mentre Monti portava il debito dal 120% al 132% del Pil) a “liberare risorse per abbattere il debito”.

Liberare le risorse da cosa?

Mi sembra abbastanza chiaro: da un insieme di regole quanto meno inutili (perché quello che prescrivono siamo stati in grado di realizzarlo prima che esse ci venissero imposte) ma più verosimilmente dannose (perché la loro applicazione ci ha portato dal punto B al punto D).

Insisto: non fate l’errore del cattivo insegnante! Non pensiate che chi vi sta intorno sappia quello che è successo. La Figura 8 non l’ha vista nessuno: solo voi! La Figura 1 è stata per anni nella homepage dell’ISTAT, ora sostituita dal questa versione più anodina:

(abbiamo parlato qui dell’importanza di avere un buono zoom), ma nessuno ha fatto un plissé! Quei numeri, in fondo (dico quelli della Figura 8) non vuole vederli nessuno. Non li vuole vedere chi ne è stato causa, ma, ripeto, forse nemmeno chi ne è stato vittima vuole capire l’intensità della nostra crisi. Eppure è da lì che dovremo ripartire. La domanda che mi pongo, che vi pongo, che ci poniamo da tempo è: sarà possibile costruire una coscienza collettiva di questo problema senza l’intervento di un fatto traumatico (intendo: veramente traumatico)?

La risposta che mi do, che vi do, da quando ho iniziato a rivolgermi a voi, è sempre la stessa: dipende da noi.

Buon anno!

(…portato a termine sotto una gragnuola stordente e insensata di messaggi di auguri, e ci sono anche quelli che si incazzano se non gli rispondi subito! Per fortuna che ci sono, aggiungo, così capisci chi si rende conto e chi no – e purghi la rubrica. Voglio bene a tutti, ma credo che invece di 4038 “anche a te e alla tua famiglia” sia stato più utile scrivere queste brevi note sull’unico problema che abbiamo. Risolto questo, si risolve tutto il resto. Sul come e perché sia difficile risolvere questo, credo di aver scritto qualcosa tempo addietro, e siccome la situazione non è cambiata, se non per confermare quanto prefiguravamo – cioè che il Paese era nelle sabbie mobili – posso tranquillamente rinviare agli scritti di undici anni fa. Per il resto:


senzadubbiamente…
)

___________

“Il PD, ovvero la crescita negata (il mio discorso di fine anno).” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Paragone e Carnevale (Maffè)

(…si parva licet…)

(… la dimensione dialettica del piddino è l’autogol. La mia dimensione tattica è il vilipendio di cadavere. Lo so, sono una brutta persona, arrogante, rancorosa. Oppure potreste vederla così: so aspettare, perché so che ne varrà la pena. Come ci siamo detti mille e una volta, a me non piace essere indebitamente aggressivo! Perché devo usarti violenza, beninteso: verbale, col rischio di passare dalla parte del torto e la certezza di contravvenire ai miei principi, quando so che ti eliminerai da solo? Poi, però, quando le cose finiscono come devono finire, quando i fatti dimostrano le mie ragioni, i casi sono due: o ho dimenticato, o non perdono. E ultimamente non dimentico spesso. Molti amici che ci seguono da poco non capiranno, due soli – se non ricordo male, Paolo e Nat – assisterono ad alcuni degli episodi che riferirò: la storia di questo blog, la storia del Dibattito, della community, è una storia molto lunga, si è svolta nel tempo, con i suoi alti e i suoi bassi, le sue vittorie e le sue sconfitte. Una cosa però mi è sempre stata chiara: io un’idea in testa la avevo e cercavo di trasmetterla con onestà intellettuale. Anche altri avevano in testa le loro idee, sia ben chiaro! Non so però quanto fossero impegnati a diffonderle o a dissimularle…)

Paragone

E così Paragone, vecchio amico di questo blog (come vedremo), dove lo soprannominammo affettuosamente “er Cotenna” (tutti qui hanno avuto un soprannome: ricordate “er Melanzana”?), e così Gian ha finalmente fatto coming out: alla fine, altro non era che un gatekeeper! Il fine dichiarato (da lui) della sua attività politica era l’intercettazione del dissenso per impedirne la canalizzazione verso forze politiche strutturate, verso partiti di massa suscettibili di indirizzarlo al sovvertimento dei rapporti di forza! Un’operazione, insomma, regressiva, di difesa tanto strenua quanto subdola dell’esistente…

Immaginate la mia sorpresa!

Non me lo sarei mai immaginato… o forse sì?

Intanto, il suo essere un gatekeeper era uno scontato “di cui” del suo essere transitato armi e bagagli fra gli ortotteri, i gatekeeper par excellence, come vi avevo spiegato (inascoltato) a suo tempo. Ma credo che la stragrande maggioranza degli italiani, e anche dei lettori di questo blog, non abbia ancora capito la natura degli ortotteri nemmeno dopo il voto DECISIVO alla von der Leyen:

(che pure hanno visto tutti). Anzi! Magari fra quelli che più berciano contro l’UE, ci saranno proprio tanti che a questa UE hanno dato un ultimo soffio di vigore votando per i gatekeeper ortotteri!

All’epoca, quindi (si parla del 2013), non fui particolarmente sorpreso nel constatare che l’amico Gian, er rivoluzzzionario, diceva una cosa e ne faceva un’altra. L’apertura della Gabbia a settembre 2013 fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mi erano state offerte tante garanzie, la possibilità di aprire un dibattito in condizioni almeno di parità, in un contesto meno ingessato di quello della Rai, ecc. ecc. Avevo chiesto, in realtà, molto poco, e mi era stato promesso, per attirarmi, tanto. Ma le cose non stavano esattamente così: ovviamente quello che si desiderava non era darmi la possibilità di parlare, ma sfruttare il seguito che avevo (a quasi due anni dall’apertura del blog i numeri erano già elevati, anche se non avevamo ancora sconfitto il Sole 24 Ore…), e anche, se possibile, farmi passare per uno squinternato un po’ pazzotico, nel tentativo di screditarmi, e soprattutto di screditare le tesi che sostenevo.

Quando rileggo (e dovreste farlo anche voi) quello che scrissi allora da un lato mi colpisce il fatto che, tutto sommato, ragionassi già in modo abbastanza politico:

dall’altro il fatto che, verosimilmente, fossi anch’io irretito dal miraggio del “semomijonismo”:

Non so se all’epoca seguiste il mio consiglio di staccargli la spina, e laddove lo abbiate fatto non so che esito questo consiglio abbia avuto. Detto fra noi, non credo che fossimo “mijoni”, e comunque la tesi der Cotenna era proprio che io “non bucavo lo schermo” (!), e non portavo audience (!),  insomma: l’esatto contrario di quello che dicevano tutti gli altri autori o conduttori. Mi resta da capire come si faccia a seguire l’auditel in diretta mentre si conduce, ma un giorno lo capirò. Come vi racconto nel post citato, e come avevo scritto su Twitter cinque giorni prima, per me era chiaro che quella trasmissione sarebbe stata un trappolone. Era stata costruita per esserlo, ne ero consapevole, come ero consapevole che sarebbe stato l’ultimo: perfino il prestigioso TvBlog lo riportò con dovizia di particolari (inutile dire che di tutto questo dibattito sul Dibattito all’epoca non seppi nulla: avevo altro a cui pensare). Testimonianza questa del fatto che, a mia insaputa, all’epoca ero già un personaggio.

A scanso di equivoci, preciso che i rapporti erano rimasti cordiali. Non vorrei che dal modo diretto, personale con qui questo blog viene condotto e scritto qualcuno desumesse che io trasformo le questioni politiche in questioni personali! Certo, la politica la fanno le persone, ma ci sono quelle due paroline magiche che sempre vi ripeto (dinamiche oggettive) che dovrebbero farci deporre le animosità e i rancori. Del resto lo dicevo: “senza avvelenarci”. Così, quando me lo ritrovai accanto in Senato, i rapporti erano, ovviamente, cordiali, come devono essere fra colleghi. Tuttavia, il dato è che un personaggio così… come dire… haut en couleur, lo tenevamo rigorosamente fuori dalle chat importanti (o che ritenevamo tali: diciamo dalle chat di vertice), e il suo modus operandi, molto articolato sul caro e vecchio “dimo famo”, lo escludeva dalle riunioni più rilevanti. Che lo volesse e ne fosse consapevole o meno, era proprio la sua ostentata vocazione barricadera a neutralizzarlo, a vietargli l’accesso ai luoghi del potere (o di quel che ne resta in una colonia), e quindi a impedirgli di influire, di condurre nei fatti le battaglie che tanto bene (ma meno di noi!) conduceva a chiacchiere!

Il dubbio se ci fosse o ci facesse non mi impediva di dormire la notte. L’importante era che non mandasse per aria quello che stavamo facendo. La resistenza al MES è stata possibile non grazie, ma malgrado lui, ed evitando scrupolosamente di coinvolgerlo, ad esempio!

Ora la spina l’amico se l’è staccata da sé, con motivazioni che meritano un’accurata analisi:

Quindi il ragionamento è: io fondo un partito per combattere una battaglia (che essendo una battaglia politica richiede numeri), ma poi, quando vedo che altri partiti la sostengono in modo coerente, lo sciolgo, perché la coerenza degli altri sottrae spazio al dissenso che voglio esprimere.

Mi sembra che ci sia parecchio che non torna, giusto?

Intanto, il partito di Gian si chiama (o chiamava) Italexit: un brand su cui si è molto discusso, ma che incarna una battaglia assolutamente degna di essere combattuta. Non si capisce in che modo il fatto che il Parlamento italiano abbia dato un segno di vitalità svuoti di significato questa battaglia. Non è semplicissimo capire cosa sia successo. Magari chi ha innalzato questo vessillo si aspettava di avere più seguito? Oppure era lui il primo a non crederci, a non saper argomentare il perché di una certa proposta politica (e forse proprio per questo non riusciva ad aumentare il proprio consenso)? Certo è che da qualche tempo serpeggiava un certo scontento. Gli iscritti lamentavano la mancanza di un chiaro indirizzo politico, diciamo così, cioè si sentivano presi per i fondelli. Oppure, ancora, cominciavano a intuire che lo scopo del progetto non fosse additivo (dare una speranza agli elettori delusi e impaludati nelle sabbie mobili dell’astensione) ma sottrattivo (togliere quello zero virgola che, soprattutto negli uninominali, potesse consentire al centrodestra di prevalere sul centrosinistra)? E che in questo caso, una volta raggiunto l’obiettivo, la conseguenza naturale fosse buttare nel cesso tradire i militanti che avevano permesso di conseguirlo?

Non credo a tanta perfidia. Ripeto: dinamiche oggettive. Quello che dice Paragone è giusto: purtroppo per chi vuole cambiare le cose c’è solo la Lega. Deal with it.

Ma basterà questo tanto illustre quanto sonoro tonfo a sgominare i “famoerpartitisti”?

Ovviamente no.

E quindi passiamo ad altro.

Carnevale Maffè

“Il fatto che lo Stato si metta a fare
emissioni dirette per i risparmiatori non è una bella notizia: lo Stato deve
emettere per gli investitori istituzionali perché valutare il rischio dello
Stato non è una cosa facile per i piccoli risparmiatori. Non basta guardare il
tasso di interesse, bisogna guardare il rischio, e come fa un piccolo
risparmiatore a valutare correttamente il rischio della Repubblica Italiana? Questo
è il segnale che dobbiamo dare. I BTP sono comunque uno strumento finanziario:
non siamo più negli anni ’80, abbiamo la libertà dei capitali, dal mio punto di
vista la corretta educazione a un risparmiatore italiano è: prendere strumenti
finanziari diversificati, ben bilanciati, dove si valuta bene il rischio. L’idea
di investire direttamente in un BTP a me personalmente non è mai piaciuta e non
piacerà mai. Che lo Stato si metta a piazzare titoli direttamente ai
risparmiatori non è una notizia matura, è una notizia, come dire, ancora da
Repubblica del risparmio provinciale… I tassi sono ancora negativi dal punto di
vista reale, avete parlato di aumenti dei tassi: vero, ma siamo ancora in
territorio di tassi sostanzialmente negativi o neutri. Quindi il messaggio,
cari risparmiatori, è: lo Stato non è mai un interlocutore ottimo, quando si
tratta di investire.”

(qui, da 1:47).

Sentire una simile sconclusionata petizione di principio su una emittente pubblica (nell’imbarazzo palpabile della conduttrice) il giorno in cui partiva l’asta del primo BTP valore mi infastidì molto. Decisi di lasciar correre. Temporeggiare è un’opzione tattica la cui validità non può essere sopravvalutata. Avendo temporeggiato, oggi posso dire che se per Carnevale Maffè “lo Stato non è mai un interlocutore ottimo, quando si tratta di investire”, per la Banca d’Italia la banca presieduta da Carnevale Maffè pare non sia una interlocutrice ottima quando si tratta di depositare i propri risparmi. Sarà poi la storia a giudicare. Il piccolo risparmiatore provinciale italiano non sarà in grado di valutare il rischio, ma a quanto pare questa è una malattia diffusa.

Di lui conservo un caro ricordo. Un annetto dopo l’episodio che vi ho ricordato qua sopra (l’apertura della stagione de La Gabbia nel settembre 2013), l’amico di cui qui parliamo volle incontrarmi a cena a Milano. Io ero con due di voi, che se lo ricorderanno (e credo che capirono allora che il blog era una cosa importante). L’argomento era il solito: quanto sei bravo, quanto sei bello, certo le tue tesi sono un po’ estreme, però sei molto bello, sei molto bravo, ma… hai esaurito la tua spinta propulsiva! Vieni con noi, avrai un pubblico più ampio, le tue idee avranno più risonanza, certo dovrai un po’ sorvegliare la tua prosa, ma ne trarrai vantaggio, ecc. ecc.

Io opposi un cortese ma fermo: “Le faremo sapere, chiamiamo noi!”

Poco dopo nacque Econopoly:

L’anno dopo mandai a stendere il Sole 24 Ore:

Per inciso: nel 2015 facevo 800.000 pagine mese da solo, figurati se avevo bisogno di andarmi a cacciare in una simile compagnia! Ma anche lì l’argomento era lo stesso: espresso non come “non buchi lo schermo!”, ma come “ormai hai esaurito il tuo potenziale!”.

S’è visto!…

Resta per me un grande mistero come faccia (o abbia fatto, non so le loro ultime vicende) un gruppo editoriale collegato a una importante associazione datoriale ad avvalersi di certe voci:

Evidentemente queste voci avranno un pubblico!

Il che mi fa pensare, e qui concludo, che la democrazia rappresentativa forse tanto bene non funziona, perché io non credo di rappresentare il pubblico di questa roba qua (mentre la bibliometria tutto sommato va rivalutata, perché quando si dice “non vale un’acca” ci si riferisce, evidentemente, all’h-index).

(…insomma: io non dico che dobbiate necessariamente essere miei amici! Dico solo che vi conviene scegliere bene i nemici. Se volete un consiglio: sceglieteli impazienti e smemorati…)

(…amico, qui c’è un risparmiatore provinciale che ha messo tutto in BTP e ha una cosa da dirti…)

(…aspettiamo a breve il prossimo…)

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“Paragone e Carnevale (Maffè)” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Delors e Schäuble

Due giorni fa ci hanno lasciato Jacques Delors e Wolfgang Schäuble, personaggi noti, soprattutto il secondo, ai lettori di questo blog.

Non mi sono particolarmente addentrato nella rassegna stampa (magari lo farò dopo) per consultare le editorialesse, che immagino copiose, stimolate da questa singolare coincidenza. L’unico articolo che ho letto mi è arrivato per Whatsapp, è di uno di noi (Durezza del vivere), e posso facilmente presumere che sia l’unico a dire qualcosa di sensato. Sergio attira l’attenzione su una semplice verità: tutti imputano  a Schäuble il macello della Grecia, su cui esiste dovizia di dati statistici e di evidenza aneddotica, più o meno romanzata, ma i più sorvolano sui guai che ha causato alla Germania. Se la Germania è, di nuovo, il malato d’Europa, questo dipende dal fatto che le politiche mercantiliste promosse da Schäuble negli otto anni in cui è stato in carica come ministro delle finanze (dal 2009 al 2017) conducevano naturalmente a un livello di investimenti fissi lordi inferiore alle necessità del Paese. L’illustre scomparso era in carica da quattro anni come ministro delle finanze del suo Paese quando facemmo notare che l’idea di una Germania competitiva, che esportava molto “perché investe molto” fosse radicalmente errata: la Germania esportava molto perché investiva poco. Il dato facilmente era desumibile, anche prima di consultarlo, dalla semplice identità di contabilità nazionale X – M = S – I. Se vuoi un X (esportazioni) maggiore di M (importazioni), devi avere un I (investimenti) inferiore a S (risparmi), e visto che la competizione con le economie emergenti comprime verso il basso i redditi, e quindi i risparmi, l’unico modo per avere un saldo attivo è comprimere di pari passo gli investimenti, fino all’implosione.

Inutile sottolineare che le difficoltà (autoinflitte) della Germania non devono rallegrarci.

Posso quindi immaginare che le editorialesse della sinistra “de sinistra” traggano spunto dall’infausta coincidenza per articolare un confronto fra le due Europe: quella dei “padri fondatori” (espressione da non usare mai!), cioè quella di Delors, e quella dell’austerità, cioè quella di Schäuble, annaffiando il tutto col solito pianterellino sull’austerità brutta e cattiva. Schäuble il fisico del cattivo ce l’aveva, non certo per sua colpa, ma per le conseguenze di un tragico evento di cui era stato vittima, e così veniva in qualche modo incontro a questa puerile personificazione dei processi in atto, a quella tabe del pensiero che consiste nel rifiutarsi di ragionare in termini di dinamiche oggettive, derubricandole a complottismo: una tara mentale che fin da subito abbiamo individuato come tomba del pensiero di sinistra. Fatto sta che non solo le analisi di studiosi autorevoli come Giandomenico Maione, non solo quelle di politici di rilievo come Vaclav Klaus, ma anche la cronaca quotidiana, ci illustrano come in realtà un’altra Unione Europea non sia possibile: la prevalenza, nei fatti, del “cattivo” Schäuble sul “buono” Delors, cioè la prevalenza della logica dell’austerità su quella degli investimenti, non dipende dalla sfortuna, dal destino cinico e baro, ma dal fatto che, per il mero dato contabile che abbiamo ricordato qua sopra, un’Europa mercantilista non può e non potrà mai essere un’Europa degli investimenti, quella vagheggiata da Delors. Ripeto: se vuoi un grande X – M devi avere un basso I e conseguentemente una bassa crescita (e infatti, come ricorderete, a dispetto del coro unanime dei cretini mediatici, la Germania non era stata, fino alla crisi, la locomotiva dell’Eurozona)!

La domanda quindi diventa, necessariamente: è possibile un’Unione Europea non mercantilista?

La risposta è abbastanza chiaramente no. L’Unione Europea non può non essere mercantilista. Il mercantilismo è saldamento iscritto fra i suoi principi costitutivi, che parlano di “economia sociale di mercato fortemente competitiva“, ponendo a fulcro della costituzione economica il concetto di competitività, cioè di saldo commerciale attivo, e questo non è certo un caso. L’idea che la competitività, e non, poniamo, la crescita, debba essere al centro del progetto ha radici culturali profonde, sulle quali Orizzonte48 si è lungamente esercitato.

Una di esse risiede nell’arretratezza culturale del modello di sviluppo della potenza egemone. Come ci ha spiegato Wolfgang Münchau a Montesilvano, la Germania si basa ancora oggi su un modello di crescita più consono al XIX che al XXI secolo, un modello che insiste su un settore secondario ipertrofico e ipersussidiato, su una manifattura che, in un contesto di repressione strutturale della domanda interna, è perennemente in caccia di mercati di sbocco, un modello che necessariamente conduce a un’antropologia rudimentale e perdente, in cui l’umanità è divisa in due: gli Übermenschen che vendono, e gli Untermenschen che comprano. Non che questa distorsione sia da imputare esclusivamente alla Wille zur Macht connaturata ai nostri fratelli tedeschi. In qualche modo essa è iscritta nel (dis)funzionamento del sistema monetario internazionale così come si è sviluppato dagli accordi di Bretton Woods in avanti. In questo sistema prevale una destabilizzante asimmetria tale per cui il Paese esportatore, che è parte degli squilibri tanto quanto il Paese importatore, viene visto come vincente e meritevole, a differenza dell’importatore visto come perdente e biasimevole. Che un minimo di simmetria vada ristabilito è cosa nota e accettata perfino dalle istituzioni europee, tant’è che una parte generalmente disapplicata della governance economica europea prevede sanzioni per Paesi che hanno surplus esteri eccessivi (è la cosiddetta MIP, Macroeconomic Imbalances Procedure, di cui abbiamo parlato qui e altrove). Perfino l’UE sa che il mercantilismo è autodistruttivo, e cerca di porvi rimedio: ma non ha la forza politica per sostenere coi fatti questa intuizione, per motivi su cui tornerò più avanti,

Non ce l’aveva nemmeno l’Inghilterra al tempo di Bretton Woods, e infatti la proposta di Keynes uscì sconfitta (ne abbiamo parlato  tra l’altro qui e qui): in estrema sintesi, Keynes proponeva un sistema di regolazione degli scambi internazionali in cui i Paesi in persistente surplus estero venissero penalizzati come quelli in persistente deficit, ovvero in cui vi fosse un incentivo simmetrico alla composizione degli squilibri commerciali internazionali. Fatto sta che il mercantilismo l’Europa (non l’Unione Europea: l’Europa) poteva permetterselo quando lo concepì, nel XVII secolo, e questo per un banale dato geografico: c’erano ancora tanti Paesi che potevano essere utilizzati come sbocco. Il serbatoio degli Untermenschen, o presunti tali, era o sembrava inesauribile. Già nel XX secolo, però, a terre emerse praticamente tutte scoperte e repertoriate, l’applicazione di questa filosofia politica conduceva inevitabilmente a spiacevoli inconvenienti: gli Untermenschen bisognava fabbricarli, in qualche modo. Nel XXI secolo, poi, la cosa si mette anche peggio, perché c’è un forte rischio che gli Untermenschen siamo noi! Non noi italiani, come ancora raglia qualche macchiettistico editorialista tedesco: noi europei, che ci siamo resi irrilevanti economicamente e geopoliticamente dopo esserci suicidati con l’austerità, diventando così mercato di sbocco e parco a tema degli Übermenschen emergenti.

Una simmetria degli aggiustamenti non è proponibile, però, nel microcosmo europeo, come abbiamo visto, perché non è proponibile nel macrocosmo globale. Non è poi così strano, né particolarmente originale: quando si parla di riformare in senso simmetrico il circuito monetario internazionale c’è sempre qualcuno contrario, ed è, ovviamente, il Paese, o il blocco di Paesi, che si aspetta di essere esportatore netto nel prossimo futuro. A Bretton Woods furono gli Stati Uniti, oggi potrebbero essere alcuni emergenti, quelli che detengono le materie prime strategiche. A noi europei manca ormai non solo la supremazia economica e politica, ma anche, per quanto non ce ne rendiamo conto, quella culturale per poter proporre alcunché.

Non è però solo questo tipo di cortocircuito a impedire che l’Europa “buona”, quella dei “padri fondatori”, quella di Delors, della crescita, degli investimenti, prevalga su quella “cattiva” dell’austerità. Ci sono anche dei cortocircuiti di carattere più squisitamente “politico”. Due giorni fa ricordavo che:

e questo è ovviamente uno fra i principali motivi per cui in un Paese come l’Italia l’appartenenza a un sistema di governance sovranazionale è disfunzionale e può mettere a rischio la democrazia in un modo particolarmente insidioso, cioè rendendola odiosa! Ma a questa patologia, che da quanto so dell’Europa è specifica del nostro Paese, se ne affianca un’altra: la tendenza dei politici del Nord ad additare ai loro elettorati i popoli del Sud come cause delle difficoltà in cui le economie del Nord si trovano (difficoltà che invece, da lì siamo partiti, sono prevalentemente autoinflitte)!

Anche qui, spiace per i cretini (le maggioranze vanno tutelate!), ma il discorsetto “i vostri amici sovranisti in Europa sono ostili al nostro Paese gnegnegnè” non funziona: i governi “frugali” sono o socialdemocratici (come in Germania) o di ispirazione popolare (come era Rutte in Olanda prima di cadere), quindi il discorso non tiene. Non c’entra il sovranismo. C’entra la disfunzionalità di una costruzione sovranazionale disallineata con un qualsiasi “demos”, che è quindi costretta a mantenere il circuito della legittimazione democratica a livello delle sue componenti, gli Stati membri. Questi, in un contesto simile, ben lungi dal dissolversi, acquisiscono solo un maggior potere di ricatto, con in più un’aggravante: l’interesse immediato dei Governi nazionali è quello di essere rieletti, non quello di alimentare la solidarietà fra i popoli europei. Se indicare un nemico ha un valore elettorale, alimentare la diffidenza, l’inimicizia, l’odio fra i popoli europei diventa uno sbocco naturale. E non lo fanno i cattivi sovranisti: lo fanno anche e soprattutto i buoni socialdemocratici e gli ottimi popolari. Non è niente di personale: funziona semplicemente così.

Del resto, ce lo siamo detto e vale la pena di ripeterlo: l’Europa delle regole è sostanzialmente l’Europa del sospetto, l’Europa della diffidenza degli elettorati del Nord verso i cittadini del Sud, una diffidenza alimentata da un resoconto mediatico della realtà che non è molto più equilibrato di quello che riceviamo qui, a casa nostra, dai nostri media. State pur tranquilli che una sparutissima minoranza a una cifra in Germania sa che l’Italia è un contribuente netto al progetto europeo, e che per finanziare il loro connaturato e reiterato Drang nach Osten noi ci abbiamo smenato un bel po’ di soldi che avremmo potuto utilizzare meglio a casa nostra (invece di finanziare Paesi che ci fanno concorrenza sleale mantenendo sovranità monetaria e ricevendo sussidi da noi)!

Alla fine, questo è il motivo per cui la parte più sensata della governance macroeconomica europea, la MIP di cui parlavamo sopra, non ha mai trovato concreta attuazione. Un’Europa della crescita sarebbe possibile: basterebbe sostituire al fiscal compact un external compact, ovvero misurare lo spazio fiscale non sul saldo del bilancio pubblico, ma su quello della bilancia dei pagamenti, incentivando i Paesi in surplus estero a espandere i propri investimenti pubblici. Una proposta vecchissima, che feci nel Tramonto dell’euro (è descritta qui), e che già all’epoca non era nemmeno particolarmente originale: più o meno nello stesso periodo ne parlava anche Stiglitz, per quanto in modo poco strutturato, cioè non ponendosi la questione di tradurre questo suggerimento in un insieme di regole (visto che l’UE non può essere che una UE delle regole, data la diffidenza verso il Sud alimentata dai politici “solidali & inclusivi” del Nord). Nessuno lo ha mai fatto, in effetti, questo esercizio di immaginare un diverso insieme di regole, neanche quando è stato chiaro che la crisi dell’Eurozona non fosse una crisi di debito pubblico ma di debito estero (cosa che qui sapevamo dall’inizio): abbiamo continuato a utilizzare la politica fiscale in modo asimmetrico, per attenuare i deficit di bilancia dei pagamenti, senza sfruttarla per attenuare i surplus. Tecnicamente, si tratterebbe di dare alla MIP la centralità che oggi ha lo SGP. Ma ovviamente non se ne parla! Lo sappiamo tutti che la soluzione in cui, fin che era in tempo, la Germania avesse fatto investimenti, sarebbe stata una soluzione superiore per tutto il sistema: a chi piacciono le equazioni differenziali può interessare questo, ma anche gli elettori tedeschi che votano per AfD lo hanno capito senza scomodare la scienza! Fatto sta che ora siamo andati un po’ troppo oltre. Insidiati dai cattivi “populisti”, i governi del Nord si arroccheranno nella loro fortezza di teorie economiche vetuste e di proclami demagogici. Marceremo così al passo dell’OCA (optimum currency area) verso la prossima crisi, che risolveremo coi soliti strumenti: austerità per i perdenti, Banca centrale per i vincitori.

Intuirete l’importanza di essere dalla parte dei vincitori!

Insomma, e in sintesi: due giorni fa non sono morti due interpreti di due diverse Unioni Europee. Sono morti due protagonisti dell’unica Unione Europea possibile. Sappiamo come funziona, sappiamo che non può funzionare che così: sta a noi evitare che ci massacri, rovesciando i rapporti di forza.

(…il 31 parliamo con calma del grafico della vergogna: ci sono un po’ di cose che vorrei farvi vedere…)

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“Delors e Schäuble” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Essere Roberto Napoletano (il potere e la retorica dell’urgenza)

Aggiungo una rapida postilla.

La vittoria (effimera? Feconda? Lo dirà la storia…) sul MES ci insegna che le cose vanno costruite. I pericoli della ratifica ci vennero comunicati a novembre 2018 da un allarmato funzionario, e cinque anni dopo siamo riusciti a scongiurarli. Un percorso non istantaneo, da cui traiamo, appunto, la lezione che le cose avvengono nel tempo, nel tempo vanno gestite, e nel tempo vanno accompagnate al loro esito.

Quando si fa presente questa cosa sui social, invariabilmente salta fuori il tipo che, dichiarandosi astrattamente dalla nostra, prorompe in accorati accenti “sì, va bene, ma intanto laggente soffrono, non abbiamo tempo di aspettare, FATE PRESTO!”

Ecco, appunto:

Questo vi ricorda qualcosa?

Massimo rispetto per tutte le persone (incluso l’autore del pezzo qua sopra) e per tutte le posizioni. Ma a chi, fingendo o credendo di essere dalla nostra parte, ci incalza con la retorica dell’urgenza, opporrei un cortese ma fermo: abbiamo già dato!

E voi?

(…laggente che soffrono vanno aiutati, siamo qui per questo. I poveri da uno a quattro milioni li ha portati Monti, sull’onda del FATE PRESTO qui sopra riportato. In quei quattro milioni qualcuno che votava PD ci sarà stato: per resistere alla frustrazione di non poter mandare avanti le cose più in fretta penso che in fondo c’è un senso nel fatto che il PD se lo goda anche chi l’ha voluto! Il primo pensiero e la prima urgenza è per chi il PD, cioè l’austerità, lo sta subendo senza averlo voluto. Ma anche qui, non capire che le cose avvengono nel tempo, e adottare la retorica dell’urgenza e dell’eccezionalità, che da sempre è quella del potere, non è segno di particolare lucidità e in alcuni casi non è segno di particolare buona fede. Tanto vi dovevo…)

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“Essere Roberto Napoletano (il potere e la retorica dell’urgenza)” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Essere John Bagnai (il Dibattito e i dibattiti)

 (…davanti al caminetto…)

Questa mattina mi sono svegliato tardi, intorpidito, stordito da una sensazione opprimente. Col progressivo dissolversi delle nebbie si faceva più nitida la coscienza angosciosa di questa impressione spiacevole: avvertivo un suono sordo, continuo, così avvolgente da essere impercettibile, come lo sono certi rumori di fondo che percepisci solo dal sollievo che ti procurano quando finalmente si interrompono, perché sei totalmente immerso in essi da filtrarli inconsciamente. Ma anche lo sforzo di separare il segnale dal rumore, per quanto il nostro corpo sia una macchina perfetta, e lo operi in automatico, un po’ lo si patisce. Tendendo l’orecchio cercavo di capire da dove provenisse, quale ne fosse la natura… E improvvisamente sono stato traversato da una inquietante, dolorosa consapevolezza: quel suono sordamente assordante era un frinire di grilli. A dicembre? A inverno iniziato (bene) da cinque giorni? Ma allora… ma allora ha ragione (e certo che ce l’ha!) chi dice che le temperature stanno crescendo!

Del resto, chi si occupa di vino lo sa: la stagione della vendemmia progressivamente si è anticipata, ormai in Abruzzo si comincia ad agosto, e mi ricordo di quando invitammo a questo convegno di a/simmetrie uno di passaggio che ci raccontò un paio di secoli di vendemmie nella valle del Reno, come mi ricordo i racconti di mio padre su quando a Montepulciano nevicava ogni inverno, come ho letto i diari di guerra dei soldati della Wehrmacht di stanza alla Stazione di Palena ottanta anni fa, memtre oggi a Pizzoferrato, nelle mie montagne, la temperatura è a due cifre…

Nulla di strano quindi che a dicembre friniscano i grilli:

ma siccome, a differenza de Lascienza, la scienza i suoi progressi li fa, capita che arrivi il para-diclorodifeniltricloroetano sub specie di cortese osservazione del Cavaliere Nero:

Sgamato, colpito e affondato. D’altra parte, non era esattamente la HMS Valiant!

A tutela della mia reputazione (perché desidero sappiate che in realtà il cattivo è Borghi: io sono quello buono) segnalo, incidentalmente, che prima di raderti al suolo io un colpo di avvertimento lo sparo sempre. Non è neanche un fatto di indole: è semplicemente che per dodici mesi della mia vita ho dovuto organizzare, da sottotenente, i turni di guardia, e quindi so come funziona. Avevo fatto presente che qualcosa non mi convinceva, che andava bene ma non benissimo, e che per avere effettiva capacità di coinvolgimento, nonché per fornire a chi come me o Claudio è al fronte delle cartucce non bagnate, c’era un’operazione da fare:

citare le fottute fonti!

Il suggerimento, costruttivo, non era stato raccolto, e ora capisco perché: un comune interesse non esisteva, non poteva esistere, perché con l’azoto dell’antipolitica, con gli ortotteri, qui abbiamo già dato. Essi sono il soffocante Male, punto. Poi su tutto il resto con tutti gli altri si può e si deve serenamente discutere. Ma non si può discutere con chi ha fatto della delegittimazione della mediazione e della rappresentanza, cioè, in definitiva, del dialogo politico, la propria bandiera. Se non ti interessa mediare, se il compromesso è corruzione, la dialettica si semplifica: se vinci tu, mi metti al rogo tu, ma se vinco io (e il popolo, piaccia o dispiaccia, non è così cojone da farti vincere per sempre)…

Il Bagnai del climatismo dobbiamo ancora trovarlo, come dobbiamo trovare il Bagnai del vaccinismo. Circolano esilaranti wannabe:

(adoro! Mi raccomando, follouatelo tutti, e mi raccomando seriamente: date un’occhiata al suo sito, quello citato dal suo profilo Twitter, perché è interessante…), ma alla fine il problema è quello evidenziato da un infiltrato ai nostri convegni:

ed è un problema che vorrei veramente aiutarvi a risolvere: vorrei aiutarvi a essere Bagnai, perché ce ne sarebbe tanto bisogno, di Bagnai, su tanti altri fronti, e del resto a/simmetrie voleva essere anche un modo per spersonalizzare il Dibattito, prima che cominciassero a pullulare altri dibattiti, e creare un incubatore di Bagnai.

Del resto, una delle difficoltà maggiori che ho trovato, nel cercare di difendere la vostra libertà in ambito sanitario, è stata proprio questa: la mancanza di un Bagnai sanitario, cioè di una voce critica credibile nell’affascinante tenzone fra ipocondriaci e complottisti (non devo entrare nel come e nel perché poche fra le tante voci disponibili fossero credibili, e abbiamo visto gli scivoloni cui ci si espone non selezionando con attenzione le voci critiche). Questa è una difficoltà generalizzata: mancano terribilmente voci terze, non politicamente esposte, da spendere in modo credibile nei vari dibattiti. Gli altri ne hanno abbondanza, e il problema non può essere banalizzato al “kittipaka” di grillina memoria. Non è un problema di soldi, di coinvolgimento venale. È un problema sociologico, culturale, ma è anche un problema di metodo.

Visto che “Bagnai logora chi non lo è”, vi dico, dall’interno, come si fa a essere Bagnai, così qualcuno si logorerà di meno, e magari, con calma, si riequilibreranno gli schieramenti in campo. Il successo di questo esperimento è dovuto a tre ingredienti:

  1. competenza;
  2. prudenza;
  3. pazienza.

Se ne potrebbe parlare per ore, ma intanto vi fornisco una sintesi:

  1. competenza: parlare solo di ciò che si conosce;
  2. prudenza: scegliere il terreno dello scontro;
  3. pazienza: non inseguire il consenso immediato.
“Esplodiamo” questi punti.

La competenza, nonostante la scadente qualità dei dibattiti e degli interlocutori, serve, e competenza è, in primo luogo, parlare di ciò di cui si sa. Prendete come esempio il famoso tweet di Borghi: il fatto è che nessuno (cioè nessuno) è stato in grado di confutarne un singolo punto. Evidentemente chi lo ha scritto sapeva di che cosa stesse parlando, ed altrettanto evidentemente questo ha aiutato.

La competenza ha un’altra sfaccettatura, che nel dibattito oggettivamente aiuta, visto che la mens piddina è particolarmente vulnerabile al principio di autorità: avere un ruolo accademico, o almeno essere in grado di reperire e utilizzare fonti autorevoli. Qui partivo avvantaggiato: da docente universitario con una lunga esperienza di ricerca sui meccanismi delle crisi nei Paesi in via di sviluppo (quelli privi di sovranità monetaria e quindi esposti al peccato originale, cioè alla necessità di finanziarsi in valuta estera) non mi era stato difficile orientarmi in quantonstava accadendo in un Paese che deve indebitarsi in una valuta che non controlla, né coinvolgere nelle mie iniziative scientifiche colleghi di un certo profilo. Anche in questo momento Twitter pullula di cretini che cercano di sminuire il mio profilo accademico: fatto sta che basta poco per dimostrare che quelli che loro considerano “economisti” spesso tecnicamente non lo sono, e quando lo sono hanno una produzione scientifica di qualità e quantità inferiore alla mia. Scopus e Scholar sono lì per quello.

Avere un minimo di standing accademico e un’esperienza scientifica specifica nella materia su cui avevo scelto di espormi ovviamente aiutava. Se i giornalisti, anche quelli che mi denigrano e non ho ancora querelato, mi temono, un motivo c’è: sanno che ne so più di loro e che so dirlo meglio di loro. In qualsiasi dibattito saranno soccombenti.

E fino a qui mi ha aiutato il caso: se fossi andato alla Normale o mi fossi diplomato a Santa Cecilia non capirei un accidenti di quanto sta succedendo. Poi però ho cominciato ad aiutarmi io, in almeno due modi.

Innanzitutto, fin dall’inizio, ho sempre, sistematicamente, messo a disposizione dei miei lettori le fonti dei miei dati e dei miei argomenti, per tre precisi motivi: evitare che certe posizioni potessero essere derubricate a vaneggiamenti di uno sciroccato (il massimo che certi imbecilli potevano arrivare a dire, come ricorderete, era: “Sì, va bene, questa cosa l’ha detta un Nobel, ma non l’ha detta in un articolo con peer review!” Dopo di che fornivo anche l’articolo con peer review, e l’imbecille morto…), consentirvi di contestarmele (per capire quali fossero i punti dialetticamente fragili o comunque più difficili da assimilare dei diversi argomenti), e infine darvi modo di argomentare in modo resistente nei vostri dibattiti più o meno pubblici.

Le fonti, le fottute fonti: senza di loro non c’è discorso scientifico. Chi non le cita non capisce che sui social esiste un a.G. e un d.G. Nel 12 d.G. (che ovviamente vuol dire “dopo Goofynomics”) chi parla ex cathedra senza sostenere con dati o fonti scientifiche le proprie esternazioni (come fanno, del resto, molti operatori informativi) potrà anche strappare un like, ma ha una capacità di persuasione e coinvolgimento limitata.

Poi (e questo è il secondo modo in cui mi sono aiutato), mi sono ferocemente, accanitamente attenuto all’ambito delle mie competenze. È stata una scelta tattica, prima che professionale: ho deciso di scegliere io il terreno dello scontro, sia in termini di argomenti che in termini di piattaforme (e infatti l’infrastruttura del Dibattito resta questa). Questa scelta, rigorosa al punto di essere castrante, è però servita a consolidare la mia credibilità, rendendomi spendibile. Ripeto: è stata una scelta che in alcune circostanze si è rivelata miope. Io, da economista, capivo l’euro. Quindi, quando all’inizio di questa lunga storia mi cercò Stefano D’Andrea per coinvolgermi nella sua critica all’Unione Europea io fui piuttosto freddo. Non avevo competenze giuridiche e non mi sembrava opportuno né aprire un fronte troppo ampio, né affrontare un avversario rispetto al quale ero disarmato. Eppure, aveva ragione Stefano: dopo tredici anni, di cui cinque passati in Parlamento, posso dire che il nostro Paese può sopravvivere (male) perfino all’euro, ma avrà sempre enormi e crescenti difficoltà all’interno di un progetto goffamente disfunzionale come quello europeo: basta pensare al tempo infinito che va perso nel monitoraggio di quanto arriva da Bruxelles e nel prendere parte alle varie sterili pantomime che la partecipazione fittizia dei Parlamenti nazionali al processo legislativo europeo richiede. Stefano aveva ragione, ma io non avevo torto: concentrandomi su un solo obiettivo, quello più attimente alle mie competenze professionali, ed evitando le lusinghe del “famoerpartitismo”, sono riuscito a ottenere qualche risultato…

E poi la pazienza, che forse è solo il risvolto del disinteresse, come l’impazienza di altri è il risvolto della loro ambizione, del loro sgomitare, del loro s’offrire. Per ottenere risultati ci vuole tempo, soprattutto se si opera in condizioni di inferiorità numerica e tattica, se nei dibattiti mediatici ci si trova schiacciati sulla difensiva, sulla dimensione “no” (noeuro, novax, ecc.). E i falli di reazione vanno evitati, perché sono dialetticamente perdenti. E le querele si fanno, non si annunciano: il passaparola incute maggior timore al mondo dei vermi di quanto ne incutano le minacce.

E sopra a tutto, l’adesione alla religione civile che predico perché pratico: l’appostismo!

Mentre viaggiavo verso il caminetto pensavo a perché mai siamo così a corto di persone spendibili, perché non riusciamo ad avviare ai palinsesti che ce le chiedono persone in grado di argomentare una visione diversa del mondo, e la risposta che mi sono dato è in quanto ho cercato di condividere oggi qui con voi.

Esempio: sei un docente universitario di materia medica, sai comunicare, hai un track record decente, mi aiuti a capire svariate cose che non tornano in quanto sta succedendo… ma chi te lo fa fare di intervenire su temi geopolitici o economici? Posso anche essere d’accordo con quello che dici, ma il tema è un altro: un discorso, così come un contrappunto, credibile si costruisce attenendosi a dei vincoli, in particolare il vincolo delle proprie competenze. Intervenendo in materia altrui mi impedisci di coinvolgerti nella tua materia: ma questa rientra nel novero delle cose che se potessero essere capite non andrebbero spiegate, questa è vera umiltà, questa è vera consapevolezza che siamo in guerra, distinta dalla fatua retorica bellicista di cui tutti si gonfiano le guance anche per dispensarsi dal fastidioso esercizio di un minimo di vera intelligenza tattica.

Esempio: sei uno che ha seguito il percorso dall’inizio, che ha seduto alla mia mensa, e io alla tua, che ha avuto modo di apprezzare le mie motivazioni e che è in grado di esporre in modo convincente una visione alternativa del mondo. Ora saresti prezioso, in posizione di indipendenza, per recarti in trasmissione ad argomentare, ma sei finito nei frantumi di qualche partituncolo perché avevi fretta, perché non ti fidavi, perché non sai che la mia prima legge è “no man left behind”… Valeva la pena di non stare al posto tuo, come io per anni sono stato e tuttora sto al mio, per condannarsi all’irrilevanza, per essere messo nell’impossibilità di fare qualcosa dopo aver berciato per anni “fate qualcosa”?

Ecco: diciamo che se Bagnai logora chi non lo è, anche essere Bagnai può essere logorante per chi non ha un minimo di autodisciplina e di umiltà. Studiare, stare al posto proprio, lasciare che il nemico si avvicini senza rivelare la propria posizione… Perché quello che a me sembra così ovvio non si riesce a ottenere? Un pezzo credo siano anche le dinamiche dei social. Il loro uso, congiunto a una scarsa dimestichezza coi numeri, credo crei dei pericolosi abbagli. La nostra community ha ottenuto grandi risultati (ad esempio oggi ha mandato in tendenza #borghidimettiti e #bagnaiarrogante!), ma dobbiamo essere consapevoli di essere minoritari. Quante volte ho insistito su questo punto?

Bene.

Collocarsi è un’arte difficile. Ho provato ad aiutarvi, ma ora mi aspettano a cena…

Ci sentiamo presto!

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“Essere John Bagnai (il Dibattito e i dibattiti)” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Crescita: un confronto fra Germania e Italia

(…direi che del MES e dei ppdm ne abbiamo parlato fin troppo. Visto che quello che ci ha permesso di tirar giù la (H)MES Valiant è stato uno sforzo didattico, in vista del prossimo obiettivo torniamo alle origini dando uno sguardo originale, di lungo periodo, e fondato sui dati, a fenomeni che ci toccano da vicino, come la crescita economica…)

Ho avuto la curiosità di andare a vedere i tassi di crescita di lungo periodo di Germania e Italia. Per “lungo periodo” qui intendo il secondo dopoguerra: un periodo segnato da tanti cambiamenti, ma relativamente più omogeneo, per dire, dell’ultimo secolo, se non fosse che per il fatto che quest’ultimo è stato appunto segnato da un conflitto importante. C’è poi il fatto pratico che per la Germania ho trovato dati solo dal 1950. Abbiamo quindi una serie storica di 73 osservazioni (i tassi di crescita dal 1951 al 2023), di cui almeno le ultime due, quelle riferite al 2022 e al 2023, non sono ancora definitivamente consolidate (ma possiamo presumere che siano stimate con relativa precisione). Le serie “lunghe” per la Germania sono sul sito Destatis, quelle per l’Italia le trovate sul sito Bankitalia. Per scrupolo sono andato a verificare che questi dati coincidano con quelli del World Economic Outlook del Fmi e dal 1980 in poi (cioè dalla data a partire dalla quale il Fmi rende disponibili i dati) è così. San Tommaso s’a mort (nel Tamil Nadu, ed è sepolto a Ortona), ma chi volesse seguirne le tracce e non sapesse usare Google trova qui i dati del Fmi.

Abbiamo già affrontato diverse volte il tema della crescita economica in chiave comparativa di lungo periodo. Non è un tema banale e anche i professionisti, o secredenti tali, spesso incorrono in scivoloni. I non professionisti ancora di più, se pensate che la maggior parte di loro proprio non ha idea di che cosa sia il Pil.

Ne volete un esempio fresco, quasi di giornata?

Guardate ad esempio che cosa trovo nei commenti del blog:

Gigi ha lasciato un nuovo commento sul tuo post “Spingitori di austerità: M.Buti, su Rieducational channel”:

Si può fare austerità anche riducendo la spesa, non bisogna per forza aumentare le tasse. Un po’ di spesa penso che si potrebbe tagliare senza impatti negativi sul PIL.

Pubblicato da Gigi su Goofynomics il giorno 16 dic 2023, 00:34

Comprendo il vostro sconcerto.

Anni passati a spiegarvi che cosa fosse il Pil (qui una spiegazione sempre utile di dieci anni fa), insistendo in particolare sull’identità reddito-spesa:

Y = C + G + I + X – M

quella che afferma che il totale dei redditi percepiti (cioè, appunto, il Pil) può essere scomposto nella somma della spesa in consumi privati (C), consumi collettivi (G), investimenti fissi lordi (I), esportazioni (X), da cui sottraiamo le importazioni perché sono reddito speso per l’acquisto di beni esteri, vi avranno reso evidente che se si tagliano i consumi collettivi o la parte di investimenti pubblici che confluisce in I (negli investimenti fissi lordi), insomma, se si taglia la spesa pubblica, si taglia ipso facto il Pil. Un banale fatto di definizioni, che però, come vedete, ai più continua a sfuggire.

Che poi possa esistere lo spreco, e soprattutto la castacriccacoruzzzione, e chi lo mette in dubbio!? Se lo dicono i giornali (gli stessi che ci raccontano del Bagnai di Schroedinger, quello che al tempo stesso non conta un cazzo ma influenza le decisioni della maggioranza!) sarà senz’altro così, no? Adoriamo la vena letteraria dei migliori amici dell’uomo che si vuole informare! Purtroppo però esiste anche la noiosa contabilità, e questa ci dice che se dall’identità del Pil sottrai qualcosa a destra lo stai sottraendo anche a sinistra: non dico che sia un’operazione da non fare mai, dico che va sempre fatta con molta cautela!

Ecco: questa è una delle difficoltà che si incontrano nel parlare della crescita del PIL: il fatto che la gente non sa che cosa sia il Pil (e a parte Goofynomics nessuno la aiuta a capirlo).

Poi ce n’è un’altra, di livello, se vogliamo, superiore: il fatto che la gente (inclusi i miei ex colleghi economisti) non sappia che cos’è la crescita, non solo e non tanto in termini banalmente definitori (sì, è  o dovrebbe essere chiaro: una cosa cresce se ce n’è più di prima: vale per l’impasto del pane e vale per il Pil), quanto in termini scientifici, cioè quanto alla natura e alle cause del fenomeno crescita.

Ci siamo imbattuti in questa spiacevolissima verità diverse volte, ma in particolare parlando dei cialtroni del declino, quelli che, nel loro negazionismo degli effetti collaterali causati dall’unione monetaria, pontificavano vaniloquenti di un declino che sarebbe iniziato già negli anni ’80, o ’70, o addirittura ’60, argomentando, come ricorderete, che siccome già negli anni ’70, per dire, il tasso di crescita medio dell’economia italiana era inferiore a quello degli anni ’60, che era a sua volta inferiore agli anni ’50, quando l’euro non c’era, allora l’Unione monetaria non c’entrava nulla. Negazionismo a parte (gli ex colleghi, poverini, tengono famiglia…), questo modo di ragionare è incredibilmente dilettantesco, perché, come abbiamo spiegato diffusamente, non tiene conto del noto fenomeno della convergenza (catch-up) verso lo stato stazionario: un Paese relativamente arretrato crescerà ceteris paribus più di un Paese relativamente avanzato semplicemente perché nel primo esistono opportunità di impiego del capitale più fruttuose che nel secondo, dato che esso si trova ancora nella parte della curva di produzione in cui i rendimenti sono fortemente crescenti (l’idea insomma è sempre quella che i fattori di produzione siano più produttivi laddove sono più scarsi).

Ne consegue che in effetti in tutti i Paesi europei, usciti per lo più frantumati dalla Seconda guerra mondiale, con un deficit infrastrutturale enorme da colmare, i tassi di crescita sono partiti molto alti negli anni ’50 e sono poi andati convergendo verso valori più bassi. Ma questo i cialtroni del declino non lo sapevano: glielo facemmo vedere noi utilizzando i dati a partire dagli anni ’60.

Questa analisi aveva due conseguenze: la prima è che l’autorazzismo idiota di quelli che volevano raccontarci un’Italia marcia già al tempo del boom economico era leggermente fuori fuoco. In altre parole: i pirla del castacriccacoruzzione o del familismo amorale:

erano grossolanamente fuori strada. Non che nei loro argomenti non potesse esserci un qualche elemento di verità. Oggi si parla tanto di ciclo del carbonio, ma anche il ciclo dell’azoto ha un’importante lezione da offrirci: dal letame si dica che possano nascere fiori e sicuramente nascono funghi, quindi prima di scartare l’altrui letame bisogna purtroppo dargli un’occhiata, perché ci si potrebbe pur sempre trovare qualcosa di utile. Era però del tutto idiota sostenere la tesi di una presunta inferiorità ontologica italiana utilizzando una simile linea argomentativa, basandosi cioè sul pattern decrescente del tasso di crescita del nostro Paese, perché questo era perfettamente coerente col modello di crescita standard e quindi si ripresentava in tutti i Paesi europei (lo vedremo anche qui sotto)!

Insomma: l’eccezionalità (negativa) italiana non poteva essere individuata in una cosa che non era né eccezionale (perché prevista dal modello standard) né italiana (perché riscontrata in tutti dicasi tutti i Paesi europei).

La conseguenza in termini metodologici era piuttosto ovvia: qualsiasi ragionamento sulla performance dell’economia italiana (o di qualsiasi altro Paese), per avere un minimo di consistenza scientifica e di utilità pratica, va condotto in termini comparatistici e relativi, non in termini assoluti, e preferibilmente scegliendo termini di paragone che abbiano un senso!

Noi qui lo facemmo rapportando la crescita del reddito pro capite italiano a quello medio degli altri Paesi dell’Eurozona. Qualcuno se lo ricorderà: credo che fummo noi i primi a costruire, otto anni fa, quello dopo avremmo chiamato il “grafico della vergogna”, e che vi illustrai nella mia prolusione al #goofy4:

(se non avete tempo da perdere, ne parlo dal minuto 24:40; per inciso, apprezzerete come già nel 2015 ci fosse chiaro quello che nel 2023 è impossibile ignorare, ovvero il fatto che fossimo e siamo nella crisi più grave della nostra storia).

Il grafico che vedete qui, a 24:46:

faccio prima a ricostruirvelo che a ritrovarlo nel bordello del mio Pc. All’epoca avevo utilizzato i dati AMECO, che però arrivano fino al 1960. Per partire dal 1950 si possono usare i dati del Maddison Project, che trovate qui, ma il quadro è sostanzialmente identico:

Con qualche oscillazione il rapporto fra reddito pro capite italiano e reddito pro capite del resto dell’Eurozona cresce dall’87% del 1950 al 106% del 1995, poi dal 1997 inizia un ripido, inesorabile declino che lo riporta all’85% nel 2018. Ovviamente, come ben sapete, non c’è nessuna correlazione (come oggi si suol dire) con questo evento (non fatemi fare brutta figura, mi raccomando: sappiate comportarvi bene in società!).

(…nota tecnica: per costruire il grafico ho ricostruito il Pil pro capite dell’Eurozona esclusa l’Italia sommando i Pil e le popolazioni degli altri 10 Paesi dell’Eurozona iniziale, e poi facendo il rapporto di queste somme, cioè del Pil totale e della popolazione totale dei 10, che equivale alla media ponderata dei Pil pro capite dei rispettivi Paesi…)

Ecco: questo grafico qualcosa da pensare ce l’ha data e continua a darcela.

Oggi, come vi dicevo, volevo soffermarmi sul rapporto fra Germania e Italia, le due potenze manifatturiere dell’Eurozona. I rispettivi tassi di crescita dal 1951 a oggi li vedete qui:

e come vedete, e come vi avevo spiegato ne “I cialtroni del declino”, hanno un andamento prima facie abbastanza simile: alti negli anni ’50, poi via via più bassi. Non che non ci siano scostamenti: ci sono, e come. Ma in media il rallentamento della crescita ha avuto intensità assolutamente analoga. Una semplice interpolazione lineare (che utilizzo, avverto i puristi, esclusivamente come statistica descrittiva) ci mostra che in Germania è andata così:

e in Italia così:

quindi mentre l’Italia in media ha perso, arrotondando, 0.11 punti percentuali di crescita l’anno (che si 53 anni fanno 5.83 punti di crescita), la Germania, sempre arrotondando, ne ha perso 0.10 (che in 53 anni fanno 5.3 punti di crescita). Non è una differenza così drammatica, in media.

Tuttavia, è interessante vedere come questa differenze si è sviluppata nel tempo, e per questo vi propongo di analizzare lo scarto fra la crescita tedesca e quella italiana, e la sua somma cumulata, che vedete qui:

Le barre blu sono la differenza fra il tasso di crescita tedesco e quello italiano. Quando sono sopra lo zero la Germania cresce di più. Questo accade, ad esempio, negli anni ’50. Per facilitarvi la lettura vi aiuto così:

Così dovrebbe essere chiaro che quello lo stesso fenomeno (crescita tedesca più rapida di quella italiana) nel grafico superiore lo vedete come spezzata blu sopra la spezzata arancione, e in quello inferiore lo vedete come barre blu sopra lo zero.

Ma allora, visto che ci danno la stessa informazione, a che ci serve fare due grafici?

Perché quello di sotto ci dà anche la somma delle barre blu: i valori cumulati ci fanno capire quanto terreno guadagna (se salgono) o perde (se scendono) in totale la Germania rispetto all’Italia. E vista così la storia ha degli elementi di interesse, a mio parere.

Intanto, si vede bene che dal 1960 al 1987 la Germania ha perso costantemente terreno rispetto all’Italia, o, se vogliamo, l’Italia ha recuperato rispetto alla Germania: un processo in qualche modo fisiologico di catch-up, secondo quanto ci dicevamo sopra, che vi evidenzio con una freccia tratteggiata:

Poi si vede che l’esperienza dello SME credibile, cioè del regime di cambio fisso ma aggiustabile, con bande di oscillazione ristrette in vigore per l’Italia dal 1987, determinò un forte recupero della Germania, fino alla crisi del 1992, quando l’Italia si trovò costretta ad abbandonare lo SME svalutando:

(sono le dinamiche che vi descrissi qui, lamentando il resoconto grossolano che ne facevano certi mezzi di stampa). 

La cosa più interessante però la vediamo dopo. Una volta riaggiustati i rapporti di cambio, la Germania ricomincia a perdere lentamente ma inesorabilmente terreno fino al 2005:

In quel periodo la Germania veniva chiamata (qualcuno se lo ricorderà) “il malato d’Europa”, e da quel periodo la Germania uscì truccando le carte, cioè praticando una riforma del mercato del lavoro finanziata in deficit, che le fece sforare i parametri di Maastricht, come spiegammo qui (fra tagli di cunei, politiche attive, ecc., ci misero quasi 90 miliardi…). Ovviamente, con un simile megasussidio, l’economia tedesca decollò nuovamente, anche perché oramai eravamo dentro, ed era impensabile compensare un simile aiuto di Stato con una rivalutazione del marco:

Infine, e qui la chiudo per oggi, è interessante notare che dopo una battuta d’arresto determinata dalla crisi del 2009, che in effetti aveva colpito la Germania in modo marginalmente più grave dell’Italia (-5.9% rispetto a -5.7%), quello che dà un decisivo slancio all’economia tedesca rispetto a quella italiana, ovviamente perché spezza le gambe all’economia italiana, è la stagione dell’austerità:

Ecco: sono quelli gli anni in cui si approfondisce il divario fra il Pil italiano e la sua tendenza storica, come abbiamo visto a Montesilvano:

Dovremo tornare su quel grafico, cioè questo, che vedete al minuto 17:16:

e rileggerlo con attenzione, alla luce di tutto quanto ci siamo detti e delle molte, forse troppe informazioni che vi ho proposto e riproposto oggi.

Non credo che sia oggi possibile fare politica in Italia senza offrire una spiegazione coerente e credibile di questa visibile anomalia. Per comprenderla, bisogna inquadrarla bene storicamente, considerando l’evoluzione delle istituzioni europee, dei mercati internazionali, ecc. La domanda sul perché non ci siamo mai veramente ripresi dopo il 2009 non può essere elusa. La risposta, credo, la intuiamo tutti, ma va argomentata bene, perché abbiamo perso troppo tempo, e non possiamo più permetterci inconsapevolezza. Eppure, come credo immaginiate, non è per niente semplice, neanche dalla mia posizione vicina ai vertici, far capire che abbiamo un serio problema.

Ragioniamo insieme su come far ragionare chi di tempo per ragionare ne ha poco, anche perché sospinto dall’impazienza di chi, come voi, ora vuole una soluzione immediata, magari dopo aver votato per anni per chi era parte del problema!

So che come sempre le vostre considerazioni mi aiuteranno ad affilare la mia dialettica, quindi dichiaro aperta la discussione generale (astenersi gianninizzeri, però: il 21 avete perso, e quindi per un po’ muti e rassegnati)!

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“Crescita: un confronto fra Germania e Italia” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

L’impresa del MES

Scusate se vi ho trascurato: ultimamente capita spesso, ma questa volta credo che, più di altre, possiate capirne e apprezzarne i motivi.

Come ricordo di avervi detto in una diretta, che cosa avrei votato io lo sapevo da dodici anni, che cosa avremmo votato noi da alcuni mesi, come avremmo coinvolto gli altri, per evitare che il nostro voto restasse uno sterile atto di testimonianza, da poche settimane, e attraverso quale percorso parlamentare  si sarebbe venuti al dunque, per evitare le imboscate di amici e nemici, da pochi giorni. Queste poche settimane e questi pochi giorni sono stati particolarmente intensi, come immaginate. Aggiungiamoci il fatto che invece di poter riposare sull’esperienza di Riccardo Molinari, per un felice accidente del destino, il 21 dicembre del 2023 ero alla mia prima esperienza di capogruppo, a causa dell’assenza di Riccardo, del suo vicario Iezzi, e del vicecapogruppo decano Bruzzone. Per questo incombeva a me comunicare la linea del partito ai colleghi, anche quelli impegnati in Commissione, cosa che agli operatori informativi è sembrata particolarmente significativa, ma era un mero accidente tecnico. La decisione era stata, come deve essere, collegiale, e non devo certo spiegarvi che le cose stanno esattamente al contrario di come gli operatori informativi le riportano (soffrirebbero troppo nel sapere di essersi fatti trollare alla stragrandissima da un loro beniamino…).

Una votazione così delicata, sotto Natale, aveva le sue incertezze, non per altro, ma perché fra impegni politici sul territorio e congedi autorizzati (fra cui quelli per malattia, perché l’influenza gira e chi è esposto al pubblico se la prende) al gruppo mancavano sedici parlamentari. Capirete che non si poteva nemmeno fare una chiamata alle armi, neanche nelle nostre chat interne! Per i motivi che vi ho esposto in una delle ultime dirette, questa:

non era da escludere, in linea di principio, che se si fosse insistito sul messaggio di essere assolutamente in aula (che comunque era già stato dato due giorni prima), magari spiegando perché, qualcuno avrebbe potuto trasferire la notizia a qualche operatore informativo. Meglio non indurre nessuno in tentazione e compattare i ranghi in segretezza e senza particolare enfasi.

Per fortuna potevo contare su due piloni della mischia come Edoardo Ziello e Simona Bordonali, i delegati d’aula. Loro mi hanno aiutato a recuperare alcune delle pecorelle smarrite, e a tenere sott’occhio il pallottoliere, almeno fino a quando la sparata di un invasato dalla voce chioccia, di cui non capivo bene che cosa volesse, ma di cui ricordo bene come ha agito (nella stanza in cui nacque la logigadibaggheddo, che è quella di Chigi angolo via del Corso, eravamo in tre e uno ero io), ci ha finalmente fatto intuire che comunque i numeri li avremmo avuti (cosa che, a dire il vero, il perfido Borghi sosteneva dal giorno precedente: uno dei tanti motivi per i quali ero inquietamente tranquillo).

Bene così.

Ora i biglietti di auguri sono stati spediti (solo 499, perché mi sono dimenticato quello per Pierre Gramegna: rimedierò il 27), i regali scartati, i mittenti ringraziati, il brodo e il ragù sono sul fuoco, la cucina è in ordine (ovviamente la moglie qualcosa di cui lamentarsi lo trova: “Stai scrivendo il post di Natale?” Ma basta passare da Gramegna a Gramuglia per comporre i dissidi), ora che tutto (o quasi) è a posto, insomma, posso tornare qui, nell’infrastruttura del Dibattito, nel blog che non c’è della community che non esiste, ma cui, per fortuna, Claudio con grande intelligenza tattica ha dato visibilità al momento giusto (perché sì, va detto e ricordato: dodici anni di lavoro non sarebbero serviti a nulla se non fossero stati resi visibili al momento giusto, a riconferma del fatto che avere ragione e sapere la “verità” non serve a nulla, di per sé…), posso tornare, dicevo, per mettere qualche puntino sulle “i”, per aiutarvi a capire che cosa troverete nell’imballo del regalo che non c’è: il MES, che qualcuno vi avrebbe voluto far trovare sotto l’albero, e che qualcun altro (credo sappiate chi, altrimenti non sareste nei paraggi) ha fatto scomparire.

La disfatta dei disfattisti (aka #ppdm)

Una cosa è certa: dopo il voto del 21 dicembre 2023 i disfattisti non hanno più scuse, e soprattutto non hanno dignità di interlocutori. Le cose stanno esattamente come dice l’Avicenniano:

La convergenza della narrazione zerovirgolista con quella mainstream non deve stupirci: sappiamo riconoscere un gatekeeper quando ne incontriamo uno!

Fu esattamente questo a consentirci ad esempio di intuire che i 5 Stelle non potevano costruire un’alternativa credibile al sistema (ve lo spiegai il 30 luglio del 2012, prendendomi bordate di insulti),  che fatalmente si sarebbero alleati con il PD (ve lo prefigurai il 6 settembre del 2016, nell’incredulità generale), e che questo snodo avrebbe esposto il Paese a un serio rischio: e infatti, dopo il Governo giallorosso, arrivò Draghi!

Ora, alcuni #ppdm li conosco personalmente: so quanto valgono (poco), e sarei sinceramente stupito, e anche un po’ infastidito, se apprendessi che qualcuno li ha comprati! Ma so che non è così: non funziona così (è questo che, nonostante più di un decennio di sforzi, non riesco a farvi capire). Comprare certa roba non è necessario: non lo è nell’infimo, come in questi casi, né nel meno infimo (pensiamo ad esempio a tutto il mondo degli operatori informativi). Il problema non sono quasi mai le intenzionalità soggettive, genuine o pervertite da moventi venali, delle persone. Il problema sono quasi sempre le dinamiche oggettive, come ad esempio quella che porta gli operatori informativi a diffondere informazioni di qualità scarsa perché solo chi non ha informazioni qualificate ha un incentivo a darsi importanza diffondendo il poco che sa. Quanto ai disfattisti e ai loro partituncoli insulsi, i cui manifesti sono costruiti col copia e incolla dei miei post di undici anni fa, essi sono oggettivamente dalla parte del PD, perché oggettivamente rosicchiano i voti dei più deboli o dei più opportunisti fra i nostri potenziali elettori, aprendo spazio all’elezione di parlamentari piddini. Lo abbiamo visto succedere e sì, le cose stanno come dice Samuele. Hanno molta paura e il loro giochino è chiaro: attirare verso “liste civetta” più o meno allettanti, con lo specchietto per le allodole dell’antipolitica, il maggior numero di voti per sottrarli all’unica forza politica in qualche modo rivoluzionaria, per il semplice fatto che ha coinvolto chi ha capito e vi ha fatto capire come stanno le cose: Antonio, Claudio, Marco, e naturalmente il “gestore dell’infrastruttura” (io).

Ora, fino a prima del 21 dicembre a questa linea argomentativa si poteva opporre il becero argomento del “fate solo chiacchiere, sicceroio…”!

Ma il 21 dicembre abbiamo schiantato, con le nostre “chiacchiere”, cioè col nostro lavoro di coinvolgimento culturale e quindi politico, una riforma che tutti ritenevano ormai ineluttabile, e soprattutto, al di là del merito (rilevantissimo) del provvedimento, abbiamo dato plastica evidenza a un essenziale problema di metodo: si può dire di no!

Finalmente trovavano sbocco concreto le parole che avevo sentito, tanto tempo addietro, da un funzionario di Bruxelles: “Qui c’è solo una cosa che li tenga in rispetto: un Parlamento con una maggioranza solida che gli voti contro!”

Quindi ora gli zerovirgolisti del “eh, ma loro fanno solo chiacchiere, sicceroio sì che gliela facevo vedere!” sono morti, rasi al suolo da un doppio controfattuale: al più consueto (“Dimmi, cocco di mamma, com’è che visto che sei così bravo lì non ci sei tu, ma ci sono io?”) se n’è aggiunto un secondo, tombale (“Amoruccio di papà, e come avresti raggiunto la maggioranza prescritta con i tuoi quattro parlamentari in croce?”).

Morti.

Spiace, ma la vostra unica speranza siamo noi, e chi ci ha coinvolti, ovvero l’impresentabile Salveenee. I presentabili vi avrebbero volentieri venduti: dovrete fare con quello che avete. Teneteci (stavo scrivendo “temeteci”) da conto, e sosteneteci, perché da oggi per i disfattisti c’è solo l’alzo zero.

Il tempo e le opere

Non per questo non voglio entrare nel merito delle scemenze particolarmente en vogue nella corte dei miracoli dei trombati non trombanti, degli intellettuali non pensanti, dei capipopolo senza popolo, insomma: dei #ppdm!

Il primo, francamente, è ridicolo: l’idea che “eh, ma poi dopo le elezioni europee ce lo ripresenteranno e allora lo voterete!” Di tutti i modi per dimostrare che non si capisce di cosa si stia parlando questo è il più degradante per chi vi indulge. Dopo le elezioni europee ci saranno intanto da costituire i gruppi parlamentari, operazione non scontata i cui dettagli sono esposti qui (almeno 25 parlamentari eletti in almeno un quarto degli Stati membri, ecc.: insomma, un bel sudoku). Poi bisognerà votare per il Presidente della Commissione, e ci sarà quindi da vedere chi voterà per la fallimentare von der Leyen, e che strada seguirà per giustificarlo ai propri elettori. Poi ci saranno da scegliere i Commissari Europei, che dovranno avere il gradimento delle Commissioni. Poi ci sarà da votare la fiducia alla nuova Commissione. Poi arriverà l’estate, e poi la legge di bilancio. E voi credete veramente che una Commissione neoeletta si metta a insistere, quand’anche fosse tecnicamente possibile, su un tema su cui una Commissione così autorevole (come ci viene raccontata) sta ancora raccogliendo i denti da terra, dopo lo sberlone che ha preso? Suvvia, cari: significa non capire come va il mondo, e significa anche non leggere Goofynomics. Il MES, fra tanti difetti, ha almeno il pregio dell’inutilità. Per questo i mercati non ne piangono la mancata riforma e non ne piangeranno la liquidazione: perché la gente di mercato è gente pratica, gente che sa come stanno le cose. Ove scoppi una vera crisi, l’unico meccanismo di stabilità è quello dotato di potenza di fuoco illimitata, quello che esiste in ogni Paese civile, e quello che quando le cose si mettono male siamo costretti a usare anche qui: la Banca Centrale (vi ho spiegato qui, al punto 3, che questa consapevolezza è chiaramente espressa anche dalle istituzioni europee). Il MES era solo uno strumento per imporre condizioni alle politiche economiche nazionali, ma anche in quello è superato: ora c’è il PNRR. Quindi, sinceramente, anche basta scemenze, no!?

Poi c’è l’altra linea argomentativa dei “sicceroi”, gli eroi del “sicceroio”: “Eh, ma avete venduto il Paese accettando una riforma del Patto di stabilità molto penalizzante, sarebbe stato meglio barattare la riforma del MES in cambio di regole di bilancio meno penalizzanti! Sicceroio…”. Meglio mi sento! Partirei dal presupposto che qualsiasi regola, che l’esistenza stessa della nozione di regola, è di per sé disturbante, è un fallimento della ragione e della politica. Un fallimento della ragione, perché il dibattito scientifico su “rules vs. discretion” è un dibattito antico, molto anni Settanta, un dibattito che oggi fa un po’ sorridere, come farebbero sorridere, fuori da un cosplay, i pantaloni a zampa d’elefante, e che comunque non ha raggiunto conclusioni definitive. Un fallimento della politica, perché tutta la solfa sulle regole si riconduce sostanzialmente a un punto: la diffidenza degli elettorati del Nord verso gli altri popoli europei. Sulla base di questa pretesa differenza ontologica, che ha radici culturali lunghe e risalenti, è naturalmente impossibile costruire alcunché di solido. Finché qualcuno chiederà regole, per il fatto stesso che le starà chiedendo, avremo quindi la certezza che il progetto europeo sia di corto respiro, e questo in modo assolutamente indipendente e preliminare rispetto alla qualità delle stesse regole (cui aggiungerei per completezza anche l’altra parola totem: le riforme), e quand’anche la regola propugnata fosse “fate come vi pare!” e la riforma auspicata “siate voi stessi!”

Ma capisco che questa sembra filosofia, e quindi vado sul concreto. Non dovete spiegare a noi che queste regole sono penalizzanti per l’Italia (e per altri Paesi), o almeno tali sembrano a questo stadio del negoziato (ci deve ancora essere un trilogo, ecc. ecc.: se volete fare gli informati, informatevi!). C’è però un dettaglio che mi pare sfugga a molti. L’alternativa era scegliere fra una minaccia concreta e immediata e una minaccia eventuale e differita. La riforma del MES dava elementi per un attacco immediato al debito pubblico italiano, come sapete (i dettagli sono qui, ma in sintesi: nel nuovo MES la ristrutturazione del debito pubblico italiano era più agevole, i mercati lo sapevano e avrebbero cominciato a scaricare i nostri titoli, ci sarebbe voluto molto poco a innescare un attacco). Le nuove regole vedremo cosa saranno quando entreranno in vigore. La nostra manovra 2024 è a prova di regole vecchie e nuove (non capisco chi parla di manovrina estiva, sinceramente: ma sbaglierò certamente io…), poi ci saranno le elezioni, poi vedremo. Sono stati i francesi a chiedere un periodo di “grazia” di quattro anni, in un disperato tentativo di Macron di non farsi radere al suolo a scadenza, considerando che la situazione dei loro fondamentali è pessima e quindi anche a loro dovrebbero applicarsi misure restrittive. A scadenza naturale Macron sarà raso al suolo ugualmente, ma intanto noi possiamo tirare avanti. Sicceravate voi, lo so, avremmo traslocato tutti in cima al Paradiso terrestre. Siccome c’eravamo noi, abbiamo fatto quello che si poteva, e credo che per il momento sarà abbastanza.

Le inqualificabili scemenze sul fatto che ora le trattative sarebbero più difficili non vorrei nemmeno commentarle: è solo facendosi rispettare che si ottiene il rispetto. La naturale inclinazione del PD verso la flessione a novanta gradi non ha portato alcun beneficio tangibile al Paese, che io ricordi. Se avete ricordi diversi, potete correggermi nei commenti.

Import-export

Come ho chiarito a Radio Cusano:

non è su questi controfattuali insulsi che bisogna soffermare l’attenzione, ma sull’interazione fra la geografia politica del Parlamento europeo e di quello italiano. Il Governo Draghi era stato un tentativo di importare in Italia lo schema Ursula. Quello che il PD voleva (e io lo so perché uno di loro venne mandato a dirmelo, sì, mandato da me, dall’irrilevante parlamentare che nessuno considera… ma di cui non solo i giornalisti hanno timore!) era che noi ci astenessimo sulla fiducia e restassimo fuori. In questo modo FI avrebbe potuto saldarsi senza troppe remore alla sinistra, con un’operazione à la Nazareno, e il PD sarebbe affondato nelle vostre libertà e nei vostri portafogli come una lama calda nel burro. Noi questo lo abbiamo impedito: il tentativo di importazione è fallito quando l’ingresso della Lega ha creato una dialettica fra centrodestra e centrosinistra “di Governo”. Ci è costato molto. Alcuni, più avvezzi a misurare il consenso dalla lettura dei quotidiani, questo costo esorbitante non se lo aspettavano. Io sì, con pochi altri in segreteria politica (Siri e Ceccardi, fra quelli che si espressero).  Proprio perché me ne aspettavo i costi prima, sono in grado di vedere con precisione dopo i vantaggi di questa esperienza, perché ci sono stati anche vantaggi. Con FI in maggioranza e noi all’opposizione la riforma del catasto sarebbe passata, e questa non è fantasia né ideologia: sono numeri.

Ora lo schema si è completamente ribaltato: fallito grazie a noi il tentativo di importare la maggioranza Ursula in Italia, vediamo se riuscirà grazie a noi il tentativo di esportare la maggioranza di centrodestra (a tre partiti) in Europa. Non dipenderà solo da quanto succederà qui in Italia, dove è ovvio che le migliori speranze di cambiamento le dà solo chi ha dimostrato di avere, oltre a una ultradecennale capacità di analisi, anche un minimo di capacità politica. Dipenderà anche da quanto succederà negli altri Paesi, dove i nostri alleati all’interno del gruppo ID stanno crescendo nel consenso, mentre altre frange del centrodestra si trovano in maggiore difficoltà. Sappiamo bene che al Governo in Germania c’è un socialdemocratico che un domani passerà alla storia come quello che avrà sbriciolato il proprio partito (segnatevelo, così se non succede potrete rinfacciarmelo). Certo però che fintantoché questo non succede, resta il problema, cui vi ho più volte accennato, dell’estrema difficoltà di un disallineamento fra il colore del Governo nella potenza egemone e quello della Commissione. Un problema che, in quanto emerga con evidenza, avrà almeno il merito di chiarire ai tanti ignari in che mondo siamo: in un mondo in cui tutti gli elettori sono uguali, ma alcuni elettori (quelli tedeschi) sono più uguali degli altri, anche se nel frattempo hanno cambiato idea e oggi voterebbero maggioritariamente AfD!

Chi non vorrebbe vivere in un mondo così?

Sempre meno persone, ritengo.

Sta a noi aiutarle.

Mi avvio a concludere…

Il voto del 21 dicembre 2023 è stato un voto storico. Non si ricordano altri casi di un “no” pronunciato dal Parlamento italiano su materia di simile importanza, né, a dire il vero, su materia di importanza minore, fatti salvi alcuni voti in Commissione XIV, cui le sedi europee rispondono abitualmente con uno sberleffo. Ma di una mancata ratifica non si può non prendere atto.

“MES” è il ventunesimo tag per importanza nel nostro tagcloud, dopo “elezioni” e prima di “ortotteri”: tutti i post con tag MES li trovate qui.

Il più vecchio è del 19 dicembre 2015, ed era stato originato da un’intervista di una persona che non voglio nemmeno nominare, avendo ricordato in aula lo spessore della sua etica professionale, a Lars Feld. In quell’intervista Feld affermava che per risolvere la crisi del sistema bancario italiano innescata dalle decisioni della Vestager su Tercas, decisioni poi reputate illegali dai tribunali della UE in due gradi di giudizio, l’Italia avrebbe dovuto attingere al MES (che allora esisteva solo nella versione attuale, non riformata). Vi suggerirei proprio di rileggerlo, quel post.

Ma è da prima, dal 2012, a seguito della fatidica telefonata di Lidia Undiemi (“Professòòòòòòòòre!”) che qui ce ne occupiamo, per interrogarci sulla sua funzione nell’architettura dell’Eurozona, come fece Sandro il 12 agosto 2012, per delineare il suo ruolo nel porre le decisioni politiche “al riparo del processo elettorale”, come fece Cesare Dal Frate il 24 settembre 2012, per evidenziarne la funzione redistributiva dalla periferia al centro dell’Eurozona, come mi capitò di fare il 27 dicembre del 2012.

Il risultato che abbiamo conseguito abbattendo la sua riforma, sottoponendo al “processo elettorale” un’istituzione che se ne credeva schermata e che nasceva, in fondo, per inibirlo, ha dell’incredibile, se visto con gli occhi di allora. Ieri sera l’algoritmo mi ha portato qui, e, si parva licet, ho visto una logica, o forse un’analogica, in questa casualità. Ma la lezione più importante che traiamo da questo successo è che perché le cose avvengano bisogna crederci.

Qui ci abbiamo creduto, ed è soprattutto per questo che, per una volta, sento di dovervi ringraziare: è un dato oggettivo che senza il vostro sostegno, sul blog, nei social, nelle strette di mano ai nostri convegni, o semplicemente in mezzo alla strada, io per primo non avrei avuto la forza di crederci, di sostenere lo sforzo estenuante che Goofynomics mi è costato, uno sforzo di cui mi rendo conto solo ora, quando constato che per scrivere poche righe leggibili devo profondere un tempo e una concentrazione che mi stupisco di aver avuto in passato (e non mi soffermo sullo sforzo per organizzare la nostra vita in comune, a partire dai #goofy). Certo, nella mia vita precedente scrivere mi procurava piacere, ed è forse per questo che leggermi ne procurava a voi. Me ne procuravano, del resto, anche suonare, o andare in barca a vela. Sono una persona curiosa, e ho, o almeno avevo da meno anziano, un certo talento nell’affrontare nuove sfide. Ma come ho abbandonato la carriera musicale (quella che più mi avvicinava alle verità cui tengo), o quella filosofica (quella che più mi avrebbe avvicinato alla piddinitas), sostanzialmente per aver avuto più curiosità di nuovi orizzonti che fiducia in me stesso, così, se la vostra risposta al grido di dolore lanciato con Goofynomics non fosse stata così immediata e corale, non avrei mai avuto la forza di persistere. Quello che mi ha consentito di andare avanti, di espormi, di mettermi contro la mia professione, di mettermi contro il mio ambiente, maggioritariamente composto di secredenti intellettuali “de sinistra”, quello che mi ha consegnato all’imperativo morale di difendere questa trincea, è stato leggere le vostre parole, capire che questa battaglia non era solo mia, e trarne le dovute conseguenze.

Nostra è stata la battaglia, nostra è la vittoria. E ora riposiamoci, perché la guerra non è finita.

Tanti auguri di buon Natale a tutti, e di buone vacanze a chi può farne.

Se Dio vorrà, ci rivedremo per il post di fine anno.

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“L’impresa del MES” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Firenze

 (…chiedo scusa per il ritardo nella pubblicazione dei video del #goofy12: ci sono problemi tecnico-culturali non ancora compiutamente gestiti, ma riusciremo a venirne a capo…)

Dagli insalubri effluvi della Xloaca (suona azteco, ma insomma ci siamo capiti) apprendo che secondo l’eminente economista la soluzione è semplice e a portata di mano: l’UE deve diventare uno Stato. A chi come noi segue (o meglio: precede) da anni il dibattito sull’Unione Europea, sulla sua genesi (forse il più infimo momento di subalternità dei popoli europei), sulla sua evoluzione, sulle sue prospettive, a chi si è confrontato su questi temi con studiosi come Luciano Canfora o Giandomenico Maione, con analisti come Roger Bootle o Jens Nordvig, con politici come Laszlo Andor o Frits Bolkestein, queste parole non possono che suonare ingenue, espressione di un dilettantesco “ottimismo della volontà” totalmente ignorante degli ovvi motivi che precludono la costituzione di uno Stato europeo, ma soprattutto delle evidenti ragioni logiche che ne sconfessano la razionalità.

Oggi uno Stato europeo servirebbe solo a salvare dalla propria insostenibilità l’istituzione che ci siamo dati raccontandoci che ci avrebbe condotto naturaliter allo Stato europeo: la moneta unica. Per motivi sufficientemente intuibili ex ante, e riassunti ex post in questo mio articolo (e in tanti altri, beninteso), questa istituzione ci sta allontanando dall’obiettivo politico che ci si prefiggeva adottandola. Una specie di catch-22. Dato che quell’obiettivo è intrinsecamente ademocratico (la creazione di uno Stato a prescindere da un demos non può che essere ademocratica, è un banale dato semantico) allontanarsene è in sé più un bene che un male. Ma al contempo il fatto che l’obiettivo irraggiungibile perché assurdo, e assurdo perché irraggiungibile, by definition non sarà raggiunto non deve rassicurarci più di tanto. Come ci siamo detti mille volte molto ma molto prima che certe dinamiche recenti agissero da lente d’ingrandimento, nei convulsi conati di creare a colpi di propaganda il “demos che non c’è” germina la malapianta del totalitarismo, della negazione del dibattito, della propaganda squadrista e violenta, quella che procede dalla delegittimazione, con l’accusa di “disinformazione”, di ogni voce critica. E poi, naturalmente, non dispiaccia a chi mal sopporta l’egemonia dell’economico nelle dinamiche dei corpi sociali, il perseguimento ultra vires di un disegno economicamente irrazionale non può che lasciare morti e feriti, più o meno metaforici, sul suo malfermo cammino. Ed è questo il vero dato politico. Non #liperinflazzionediWeimar, come ripetono i cretini, ma l’austerità ha condotto al nazismo, come dimostrano studi scientifici.

Si torna sempre al solito punto: l’atto di sfiducia nel mercato consistente nell’inibire l’aggiustamento degli squilibri esterni tramite i prezzi relativi implica logicamente il ricorso a un aggiustamento tramite le quantità: l’austerità è questo, il taglio (svalutazione) del salario reso inevitabile, prima o dopo una crisi, dall’assenza di un aggiustamento meno traumatico, quello attraverso la manovra del cambio nominale. Ma questo l’eminente economista fa finta di non saperlo: ci parlava in aula di irreversibilità del progetti, pensando di urticarci, e noi sorridevamo sotto i baffi pensando alla sostenibilità politica di quel progetto, e quindi al (breve) futuro politico di quell’eminente economista. Finché ci sarà l’euro, cioè l’austerità, la destra si troverà di fronte praterie sterminate: i piddini li chiamano “costi politici dell’austerità”. Strano come un costo per il PD visto dalla Lega somigli a un’opportunità! Sorridiamo di compassione a chi, contro ogni evidenza, contro i risultati di studi scientifici accurati, continua a raccontarci la fola delle grandi praterie del centro, dell’anelito degli italiani verso la moderazione. Non è questo che dicono le urne, perché non è questo che leggiamo nelle più importanti riviste scientifiche internazionali!

Ora quindi sono preoccupati.

Lo mostrano le esternazioni scombiccherate da cui siamo partiti, che se non sono (e potrebbero anche esserlo) il sintomo di una miserevole ignoranza dei fatti (inclusi i risultati di ricerche scientifiche), sono il tentativo di precostituire una narrazione autoassolutoria. Quando le cose si metteranno male, la colpa sarà stata del popolo bue che non avrà voluto, oh umana ingratitudine!, lo Statone europeone che rende sostenibile la monetona pesantona (o meglio, millantata per tale…), non di chi ha voluto condurlo verso questo obiettivo assurdo col manganello dell’euro, cioè dell’austerità.

Lo si vede dagli articoli “di colore” che fanno ironia livida e a denti stretti sull’evento di Firenze.

Ma chi ha un minimo di dimestichezza col Dibattito lo vede anche da altri segnali deboli, come il riaggallare di nani e ballerine di varia risma, scorie di un passato da cui pensavamo di esserci depurati: dagli orologiai del debito pubblico, ai guitti di “memmeta” (la MeMMT: se non sapete o non ricordate che cos’è non perdete nulla), alla vari umanità in “in”, “ini”, ma soprattutto “oni” con cui a suo tempo ci divertimmo. Se rischierano (o comunque se riappaiono) questi Kindersoldat è chiaro che si prevede turbolenza!

I sondaggi dicono che se il PPE uscisse dal centrosinistra, alle prossime elezioni il centrodestra avrebbe la maggioranza al Parlamento europeo. Questo esercizio intellettuale, tuttavia, è piuttosto futile, per almeno due ordini di motivi: primo, il Parlamento Europeo conta il giusto; secondo, le sue maggioranze sono il risultato di due ordini di considerazioni: politiche, e nazionali. Sì, per uno strano paradosso (che tale non è, come qui sappiamo) l’istituzione in cui le nazioni dovevano dissolversi le ha potenziate e ne è diventata ostaggio.

(…arrivo a Firenze…)

(…riparto da Firenze…)

Non è quindi concepibile un radicale disallineamento politico fra la guida (il Führer) della nazione più nazione delle altre, la Germania, attualmente in mano ai socialdemocratici, e la presidenza della Commissione Europea; o, se volete, di converso, per aversi un vero cambiamento in UE, bisognerà aspettare che AfD diventi maggioritaria in Germania. Non siamo poi così distanti da questo obiettivo: nei sondaggi attuali AfD è seconda in Germania, e RN (la Le Pen) prima in Francia. Dice “ma oggi l’elettorato è liquido!”. Rispondo: sarà, ma l’alveo del fiume è tracciato (dai nostri avversari), e questo fluido scorre verso destra (vedi l’articolo sui “costi politici dell’austerità” citato sopra). Così, la risalita di ID dal sesto al terzo posto nello schieramento dei gruppi parlamentari a Bruxelles, o magari al secondo, sarebbe già un passo nella direzione giusta, e un eventuale mancato rovesciamento del fronte per la non improbabilissima défaillance del PPE, che in presenza di una Germania a trazione socialdemocratica preferirebbe verosimilmente fare da stampella al PD (ai socialdemocratici), sarebbe comunque un dato positivo, un elemento di chiarezza, perché metterebbe in forte imbarazzo i vari gruppi “popolari” nazionali, i cui elettori potrebbero pensare che se avessero voluto essere guidati dal PD, avrebbero votato direttamente per lui, cioè per la carne “coltivata”, per l’eutanasia, per l’auto elettrica, ecc.

Nel sacco ci si sono messi da soli.

Identificare l’Unione Europea con l’euro, cioè con l’aggiustamento di reddito (insomma: con l’austerità), ha inevitabilmente fatto emergere e sta rendendo nitida per tutti la “contraddizione principale”, che qui e ora non è quella fra destra e sinistra, fra capitale e lavoro, ma quella fra più o meno Europa, intesa, ovviamente, come Unione Europea, cioè quella fra più o meno austerità. Dalla logica economica non si sfugge: se voti Europa, voti austerità e muori, o imponi austerità agli altri e li fai morire (cit.)!

Quindi per noi è solo questione di tempo. La rabbiosa reazione identitaria delle sinistre piueuropeiste sul verde, sull’immigrazione, sui diritti cosmetici, ci aiuta, perché aiuta tutti gli elettori a vedere l’UE per quello che è: una minaccia.

Una minaccia per i cittadini, e una minaccia per l’Europa.

Come è stato bello e confortante constatare che in tutti i discorsi ascoltati a Firenze si distingueva accuratamente fra Europa e Unione Europea, fra un dato culturale e di civiltà e la più incivile e destabilizzante delle istituzioni concepibili! Quanta speranza ci ha dato vedere che così tanti leader europei distinguono accuratamente e motivatamente due concetti che qui da noi i cialtroni confondono con intenzione maliziosa!

Magari la von der Leyen avrà una maggioranza nel prossimo Parlamento (evitarlo sta a noi), ma chi gliela dovesse garantire non potrà sfuggire allo stigma di aver tenuto in vita il simbolo di tutto quello che di più assurdo e odioso l’UE ha prodotto nella sua non lunga storia: dalla fuga in avanti sui temi ambientali, reazione disperata e scomposta di un capitalismo tedesco sconvolto per essere stato chiamato dagli Usa a pagare il prezzo della propria arroganza, agli SMS scomparsi fra Ursula e Pfizer, un caso di scuola di cattura del regolatore, che tante nefaste conseguenze ha avuto sulla vita di tante persone.

E se anche fosse, se anche Ursula la spuntasse, se anche questa volta trovasse nove voti DECISIVI, beh, meglio così!

Come diceva Céline?

Pour que dans le cerveau d’un couillon la pensée fasse un tour, il faut qu’il lui arrive beaucoup de choses et de bien cruelles.

Un perfetto allineamento degli astri, che veda un Parlamento Europeo a maggioranza patriottica e governi nazionali patriottici in ogni Paese membro (e quindi una Commissione Europea composta da patrioti) non è imminente, forse non è possibile, e probabilmente nemmeno necessario.

Certo, esiste una contraddizione intrinseca in una coalizione di partiti che in nome dell’interesse nazionale si uniscono per accedere alle istituzioni unionali. All’opposizione questa contraddizione è meno visibile, in maggioranza diventerebbe probabilmente più evidente: l’interesse del Sud, si può sostenere, diverge da quello del Nord, e un conto è rivendicare l’interesse nazionale quando tanto non puoi farlo, un conto quando puoi farlo, ma contro quello dei tuoi alleati. Tuttavia, questa contraddizione è più apparente che reale, e certamente chi da noi la enfatizza è piuttosto disinformato. Intanto, Nord e Sud in questa fase di fallimento del globalismo un interesse in comune ce l’hanno, ed è riprendere il controllo di quanto avviene in casa propria. Poi, che lo si sappia, lo si capisca, lo si ammetta o meno, noi siamo molto più Nord di tanti altri, semplicemente perché siamo contribuenti netti, e perché le nostre riforme le abbiamo fatte (Germania e Francia sono due esempi di Paesi che devono ancora farle, al costo, laddove non se ne rendano conto, di inciampare sulla montagna di polvere nascosta sotto il tappeto). Quindi, come dire: sarebbe azzardato assumere che un confronto coi nostri alleati ci veda necessariamente in una posizione di svantaggio.

L’UE non diventerà mai uno Stato. Come abbiamo visto oggi a Firenze, a ognuno (inclusi quelli che ne sono stati pesantemente sussidiati) puzza questo barbaro dominio. La soluzione delle sue contraddizioni non potrà quindi essere l’ennesima fuga in avanti. La storia dei prossimi anni deve ancora essere scritta: la matita con cui scriverla ve la presteranno il 9 giugno prossimo.

Fatene buon uso.

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“Firenze” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

…è finita la pace: esistiamo!

Un paio di giorni fa qualcuno mi ha segnalato questa agenzia:

il che significa, evidentemente, che qualcun altro si era letto questo post.

Non ho mai dubitato della capacità del Dibattito di influire sui dibattiti: era evidente in tanti aspetti, sia di forma (la preminenza improvvisamente data alla “forma blog” dai nostri concorrenti perdenti) sia di contenuto (e qui gli esempi si sprecherebbero: praticamente ogni QED del nostro blog è originato dall’ammissione da parte della “stampa” di qualcosa che qui era stato affermato con anni di anticipo). Resta il fatto che, per quanto io sappia, questa è la prima volta che il blog viene esplicitamente citato come fonte da una fonte di stampa.

Sinceramente, non so se rallegrarmene o preoccuparmene.

Essi (come direbbe Luciano) sanno molto bene come vincere la guerra dell’informazione: il silenzio è la migliore forma di comunicazione, e il fatto che abbiano deciso di privarsene è un dato che va interpretato. Chi arriva qui trova una visione del mondo alternativa a che e soprattutto per il suo essere accanitamente fact-based. Non è esattamente quello che chi governa i flussi dell’informazione vuole trasmettere ai destinatari finali. Sarà stato un glitch della matrix? Vedremo. Una rondine non fa primavera, dice Lascienza (Aristotele, in questo caso).

Certo è che ci divertivamo di più, eravamo più liberi, quando non esistevamo. Ora che esistiamo, se esistiamo, dobbiamo stare attenti a come ci muoviamo. Resta il fatto che essere sorvegliati non solo ci snaturerebbe: ci annoierebbe!

La vita è troppo breve per correre questo rischio.

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“…è finita la pace: esistiamo!” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.

Spingitori di austerità: M.Buti, su Rieducational channel

Ieri abbiamo parlato di un fatto triste e di una persona animata da un genuino amore per il progresso della conoscenza.

Oggi prendiamola a ridere, che è meglio.

Rieducational channel, cioè il Corriere della Sera, sulla cui attendibilità ci siamo più volte intrattenuti (qui e qui, ad esempio) oggi ci fa sapere che:

Vediamo intanto il lato positivo. Gli “spingitori di austerità”, fra cui M.Buti, gettano la maschera. Tutto l’aulico e raffinato dibattito sulle nuove regole si riduce a un punto pratico molto semplice: tagli da dieci miliardi all’anno per i prossimi sette anni. Quest’anno vorrebbe dire, ad esempio, non rinnovare i contratti del comparto sanitario e non accorpare le aliquote IRPEF. Noi la sapevamo da un po’, questa verità, perché qualche simulazione delle nuove regole l’avevamo vista, ma è importante che a dirla siano loro, perché se l’avessimo detta noi loro avrebbero avuto l’opportunità di smentirla.

Ora non possono.

Vediamo allora il lato negativo.

Noi non solo sappiamo ora, ma avevamo previsto dodici anni fa, che i tagli non avrebbero risolto il problema del debito pubblico. Erano i famosi “salvataggi che non ci salveranno” (a proposito, i grafici dei post antecedenti al 2013 sono di nuovo visibili e suggerisco di guardarli).

Da allora questa verità è stata confermata dai dati:

(il periodo evidenziato dal rettangolo rosso è quello dell’austerità di Monti e Letta, che ha portato il rapporto debito/Pil dal 120% di fine 2011 al 135% di fine 2014: voi questo lo sapete, ma girano per gli studi televisivi saggisti scarsi di pubblicazioni scientifiche peer-reviewed che affermano il contrario).

Non solo! Con comodi dodici anni di ritardo oggi anche il Fmi ci fa sapere che “on average, fiscal consolidations do not reduce debt-to-GDP ratios” (in media, politiche fiscali restrittive – cioè tagli alla spesa o innalzamento di imposte – non riducono il rapporto debito/Pil), e ci fanno anche il disegnino:

(che trovate qui e di cui è strano che nessuno vi abbia parlato).

Non voglio annoiarvi coi dettagli tecnici, ma insomma la linea verticale nera è l’intervallo di confidenza dell’impatto dei tagli: se attraversa lo zero, vuol dire, in buona sostanza, che nel 90% non è possibile escludere che l’impatto delle politiche di austerità sul debito pubblico sia zero. Noterete anche che nelle economie avanzate l’impatto dei tagli sul rapporto debito/Pil è positivo, non negativo, cioè dopo i tagli il debito in rapporto al Pil aumenta, non diminuisce, e che in questi casi l’intervallo di confidenza al 90% è sopra lo zero (quindi nel 90% dei casi non è possibile escludere che i tagli facciano aumentare il debito pubblico).

Questo significa, in buona sostanza, che quanto abbiamo visto in Italia non è un caso particolare, un accidente del destino cinico e baro, ma una regolarità statistica che, dopo dodici anni di Dibattito, è attestata perfino dal Fondo Monetario Internazionale.

Dovremmo stupirci?

Direi di no. Noi qui un spiegazione ce l’eravamo data undici anni fa parlando dell’aritmetica del debito pubblico in Ruritania: visto che la spesa pubblica entra nella definizione di Pil (Y = C + G+ I + X – M), se tagli di uno la spesa pubblica (G) tagli di uno il Pil (Y), astraendo per semplicità da qualsiasi effetto indiretto. Morale della favola: se il rapporto debito/Pil è maggiore di uno, ad esempio è di 6/5 = 120%, togliendo uno sopra e sotto si passa a 5/4 = 125%, che è quello che è successo non solo in Ruritania, ma anche in Italia.

Se leggete il World Economic Outlook troverete una spiegazione molto più raffinata e scientifica: ovviamente devono farla complicata per non farvi capire che non hanno voluto capire una cosa semplice:

ma i matematicamente alfabetizzati vedranno subito che il succo del ragionamento è quello che ho esposto a beneficio dei non matematicamente alfabetizzati.

Obiezione: “Ma allora mi stai dicendo che devo spingere sul deficit per far diminuire il debito?”

Premesso che il discorso è più complicato di così, guardate quanto è diminuito il rapporto nel 2021 e nel 2022, quando le regole sono state sospese e i governi hanno potuto non tagliare! Ovviamente la verità sta nel mezzo, ma palesemente non è quella che ci raccontano gli spingitori di austerità, artefici di una stagione che ha messo in ginocchio il Paese e che gli italiani, alle ultime elezioni, hanno archiviato.

Tanto vi dovevo.

(…il lato negativo ha un risvolto che vale merita una sottolineatura: la qualità delle élite italiane lascia molto a desiderare. Non è ammissibile che un economista non legga il World Economic Outlook, o che, leggendolo, deliberatamente non ne tenga conto. Come vi ho detto più e più volte, il ricambio delle élite tecniche richiede molto ma molto più tempo del ricambio delle cariche elettive. Dovete avere persistenza, altrimenti ci troveremo sempre a vivere un eterno giorno della marmotta…)

(…oggi chiudiamo le prenotazioni per il #Goofy12. Se siete interessati a partecipare, il momento di iscriversi è adesso…)

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“Spingitori di austerità: M.Buti, su Rieducational channel” è stato scritto da Alberto Bagnai e pubblicato su Goofynomics.