Polyansky: la Russia esorta a sostenere la candidatura della Palestina all’ONU

La Russia invita tutti i membri della comunità internazionale a sostenere la candidatura della Palestina all’adesione all’ONU.

Come riporta RIA Novosti, lo ha dichiarato il primo vice rappresentante permanente della Russia presso l’organizzazione, Dmitry Polyansky, in una riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

In precedenza, la Palestina aveva chiesto ufficialmente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di considerare la sua richiesta di ammissione all’ONU.

Come ha osservato Polyansky, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU esaminerà la questione dell’ammissione della Palestina in un formato chiuso. 

“Donbass. Ieri, oggi e domani”. Il documentario che in Italia non deve essere visto

 

di Agata Iacono

 

Al teatro Flavio, a Roma, si è svolta la prima proiezione del documentario di RT “Donbass. Ieri oggi e domani”.

Il documentario è completamente tradotto e doppiato in italiano. 

La regista, la bravissima, Tatyana Borsch, collegata online per interagire direttamente col pubblico in sala e rispondere esaurientemente a tutte le domande, racconta, attraverso testimonianze e documenti, la vera origine del conflitto in Ucraina, dal 2014, soffermandosi sulle testimonianze dei sopravvissuti alla strage di Odessa, sui racconti dei civili, sulle sofferte narrazioni di giornalisti di tutto il mondo ed ex militari, che hanno deciso di raccontare la verità e aiutare i popoli dell DPR e del LPR.

Il documentario dà voce anche alla narrazione occidentale, è crudo e imparziale, ed è proprio questo taglio documentale e non propagandistico che evidenzia le vere ragioni che hanno portato la Federazione Russa ad intervenire militarmente. Per la prima volta conosciamo le indagini di giornalisti indipendenti e le testimonianze dei sopravvissuti ai crimini compiuti dai battaglioni nazionalisti ucraini.

Fosse comuni con civili dalle teste tagliate, torture e stupri di donne e bambini, piccoli orfani che non sanno cosa voglia dire pace.

Una realtà di vita quotidiana che stravolge totalmente la narrazione imposta nell’occidente che continua a voler mandare armi e addirittura soldati.

“Ma francesi, canadesi, statunitensi, polacchi e anche italiani sono già qui, fin dall’inizio” specifica amaramente la regista.

E mostra fattivamente come in prima linea a morire siano giovanissimi ucraini, le cui madri sanno che sono solo in campi di addestramento o le cui famiglie non hanno i soldi per salvarli e farli uscire dal Paese.

Dietro vengono i battaglioni nazisti, con i vessilli ben in vista e senza libri di Kant…

Il documentario ripercorre la storia del Donbass dalle manifestazioni di piazza contro il colpo di stato di Maidan fino ai pochi mesi precedenti al riconoscimento, da parte russa, delle due Repubbliche Autonome di Lugansk e Donetsk.

Nella presentazione del documentario è stata inserita anche una testimonianza recentissima di Vasily Prozorov, (ex tenente colonnello membro del Servizio di Sicurezza dell’Ucraina (SBU) a partire dal 1999), dal Crocus City Hall di Mosca, luogo del terribile attentato, che non ha dubbi sui veri mandanti dell’atto terroristico.

Sala strapiena, prima assoluta in Italia riuscitissima del documentario, nonostante atti di intimidazione verso il pubblico che voglio denunciare.

 

Quando mi sono recata al teatro Flavio per guardare il documentario, in pieno centro a Roma, insieme ad altri amici, mi sono ritrovata stretta tra due ali, in un passaggio obbligato: da una parte uno schieramento di forze dell’ordine e dall’altra un manipolo di persone con bandiere ucraine e megafono che urlavano e sputavano contro il pubblico che si recava in sala. “Assassini, vergognatevi, andate a combattere in Russia” e altri gentili epiteti, da parte di persone ospitate in Italia che, in teoria, dovrebbero essere precettati nell’esercito ucraino.

Buon per loro, se sono riusciti a sfangarsela.

Ma perché cercare di ostacolare in tutti i modi la proiezione di un documentario?

Qual è la paura?

Non bastava la censura cui sistematicamente viene sottoposto il fulm Il Testimone in Italia? https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_testimone_il_film_russo_che_in_italia_non_deve_essere_visto/39130_52227/

Adesso pure i corridoi dell’umiliazione e dell’intimidazione dobbiamo tollerare, per poter assistere ad un documentario e cercare di formarci una nostra opinione indipendente dalla propaganda filonato?

Appena messa al corrente, ieri sera stessa, Anna Soroka, consigliere del Presidente della Repubblica popolare di Lugansk, ha dichiarato al canale Donbass Italia del giornalista Vincenzo Lorusso, anch’egli come sempre in collegamento video:

“Nonostante gli sforzi dei complici dei neonazisti ucraini, a Roma (Italia) è iniziata la prima proiezione del film documentario di RT “Donbass”. Ieri oggi Domani”. Testimoni oculari riferiscono che l’auditorium è pieno. Il mondo intero deve conoscere la verità sulla vera essenza disumana dell’Ucraina moderna!”

 

La fine del Franco CFA: il declino dell’imperialismo francese e la “scheggia impazzita” Macron

 

di Domenico Moro 

 

Recentemente Macron, il presidente francese, ha dichiarato “Non escludo l’invio delle truppe in Ucraina, la Russia non può e non deve vincere”. Si tratta di una affermazione molto grave che, se messa in pratica, porterebbe all’allargamento della guerra in Europa. Per questa ragione, gli altri Paesi della Ue, a partire dalla Germania e dall’Italia, si sono affrettati a escludere l’intervento di truppe europee nel conflitto tra Ucraina e Russia. L’affermazione di Macron può apparire contraddittoria, anche perché nel 2022 la Francia aveva cercato di venire incontro alle ragioni della Russia, sostenendo la necessità di non umiliarla se e quando si fosse arrivati a un trattato di pace. Quali sono le ragioni che hanno portato Macron a cambiare atteggiamento e alle recenti dichiarazioni? La ragione principale è probabilmente da rintracciare nella crisi dell’imperialismo francese. In particolare, la dichiarazione di Macron è una risposta alla crescente presenza della Russia nell’area di influenza francese nelle sue ex colonie dell’Africa occidentale e equatoriale.

Per comprendere quello che sta accadendo è utile rifarsi a una categoria dell’economia e della politica, quella di imperialismo. La Francia, infatti, può essere definita, come gli Usa e più degli altri principali paesi avanzati dell’Europa occidentale, un Paese imperialista. La Francia è un paese avanzato che fa parte del centro dell’economia-mondo e che sfrutta i paesi periferici, in particolare quelli dell’Africa da cui drena ricchezze verso la propria economia. A differenza degli altri Paesi della Ue, la Francia è una grande potenza che, oltre a poter drenare ricchezza attraverso lo sfruttamento dell’Africa, ha due vantaggi: dispone di armi nucleari e ha un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu dove esercita il potere di veto.

La Francia è, però, una potenza e un imperialismo in crisi. I fattori che evidenziano questa crisi sono, oltre alla perdita di posizioni in Africa, la forte conflittualità sociale rappresentata dai movimenti contestativi che sono sorti negli ultimi anni in Francia, come i gilet gialli e gli imponenti scioperi contro la riforma delle pensioni. Inoltre, la Francia è minata da una forte crescita del deficit e del debito pubblico. In particolare, la Francia è tra i Paesi europei con un alto debito che si trovano schiacciati dal Patto di stabilità. Non caso, recentemente si è fatta capofila dei Paesi dell’Europa mediterranea, i quali reclamano che la spesa militare venga scorporata dal calcolo del deficit e sia finanziata con debito europeo, cioè con l’emissione di bond europei. Da ultimo, ma non per importanza, la Francia negli ultimi decenni si è caratterizzata per una forte deindustrializzazione, che ha indebolito la sua economia.

Ma torniamo alla categoria di imperialismo. L’imperialismo è una fase storica del capitalismo e si caratterizza per cinque condizioni: la forte concentrazione della produzione e del capitale, la fusione del capitale bancario con quello industriale, la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto all’esportazione di merci, il sorgere di associazioni internazionali di capitalisti che si ripartiscono il mondo e infine la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze imperialistiche[i]. La Francia presenta al massimo grado queste caratteristiche. In particolare, ha settori economici molto concentrati in poche imprese giganti, che figurano tra le principali multinazionali europee, come Total, LVMH, Sanofi, Airbus, ecc.

Soprattutto l’economia francese è caratterizzata dalla prevalenza dell’esportazione di capitali rispetto all’esportazione di merci. Negli ultimi anni è cresciuto il disavanzo commerciale, che è passato dagli 83 miliardi del 2019 ai 200 miliardi di dollari del 2022[ii]. Quindi, la Francia importa molto più di quanto esporta in termini di beni, anche se può contare su un surplus nell’interscambio di servizi, che tuttavia non è in grado di compensare il disavanzo commerciale di beni. Invece, per quanto riguarda l’importazione e l’esportazione di capitali, la situazione è completamente capovolta. A questo proposito, dobbiamo fare riferimento ad uno specifico indicatore statistico: gli investimenti diretti all’estero (Ide), che rappresentano sia gli investimenti sotto forma di acquisizione di imprese estere sia quelli green field, cioè nella forma di stabilimenti costruiti ex novo all’estero. Lo stock di Ide in uscita dalla Francia nel 2022 era di 1.525 miliardi, pari al 53,53% del Pil, mentre lo stock degli Ide in entrata era di 896,7 miliardi pari al 32,22% del Pil[iii]. La percentuale di Ide in uscita sul Pil della Francia è la maggiore tra le grandi economie della Ue.

Quindi, la Francia è esportatrice netta di capitali. Viceversa, come abbiamo visto, per quanto riguarda l’interscambio di beni presenta un considerevole deficit. Ciò significa che la Francia consuma molto più di quanto produce. Il punto è che, se può fare questo, lo può fare solamente grazie alla ricchezza che drena dai Paesi periferici, in particolare dalle sue ex colonie africane. Lo strumento principale che permette questo drenaggio di ricchezza è il franco CFA.

Il franco CFA fu creato nel 1945 in seguito agli accordi di Bretton Woods con l’intenzione di legare finanziariamente le colonie africane alla Francia. L’acronimo CFA stava per Colonie francesi d’Africa. Dopo la decolonizzazione e l’indipendenza delle colonie francesi il franco CFA venne mantenuto, pur mutando il significato dell’acronimo che divenne Cooperazione finanziaria in Africa. Oggi, Il franco CFA è adottato da 14 Paesi africani suddivisi in due realtà economiche distinte, la Uemoa (Unione economica e monetaria dell’Africa Occidentale) e la Cemac (Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale).

Quali sono le caratteristiche del franco CFA e come contribuisce a subordinare i Paesi africani alla Francia? Innanzi tutto il franco CFA, originariamente ancorato al franco, è ora ancorato all’euro da una parità stabilita dalla Francia mentre la sua convertibilità è stabilita dalle autorità monetarie francesi. Inoltre, i Paesi che adottano il franco CFA devono depositare presso il Tesoro francese la metà delle loro riserve valutarie e la Francia può intervenire nella definizione della politica monetaria della zona valutaria africana. Tra le varie conseguenze dell’ancoraggio del franco FCA all’euro c’è anche l’obbligo per i paesi che ne fanno parte di adottare le regole del Patto di stabilità europeo, in particolare il limite del 3% al deficit statale, che rappresenta un impedimento all’attuazione di quelle politiche espansive della spesa pubblica che potrebbero favorire lo sviluppo di Paesi arretrati.

Il franco CFA impedisce il cambiamento strutturale dell’economia dei Paesi che lo adottano. Ciò significa che non consente lo spostamento di risorse da settori a bassa produttività (come l’agricoltura) a settori ad alta produttività (come l’industria), mantenendo così statica e arretrata l’economia dei Paesi aderenti. Viceversa, il franco CFA permette alla Francia di perseguire i propri interessi economici, consentendo alle imprese francesi un accesso facilitato al mercato africano e alle enormi risorse naturali di quei Paesi. In particolare, vengono facilitate le multinazionali francesi che operano nel campo estrattivo e nel petrolio, come la Total, le quali beneficiano di tassi di cambio vantaggiosi.

Tuttavia il sistema basato sul franco CFA sta andando in pezzi, come scrive Alessandra Colarizi: “La Françafrique, il sistema di relazioni privilegiate intessuto da Parigi nel continente attraverso il franco CFA, garantito dal Tesoro francese, la firma di accordi militari, e la francofonia, sta attraversando una crisi esistenziale senza precedenti. Il sintomo più evidente è rintracciabile nell’accordo raggiunto dai Paesi dell’Africa occidentale il 21 dicembre 2019 per l’acquisizione di una moneta propria che permetterà (pare nel 2027) di abbandonare il franco CFA. La nuova valuta, l’ECO, potrebbe essere ancorata allo yuan cinese per evitare oscillazioni pericolose per i mercati. E c’è chi già parla di un passaggio dalla tutela francese alla tutela cinese.”[iv]

Oltre che del franco CFA, la presa imperialistica francese sull’Africa si è avvalsa anche dello strumento militare. Le truppe francesi sono intervenute in modo ricorrente dal 2002 ad oggi in Costa d’Avorio, dove nel 2011 hanno effettuato un vero colpo di stato, arrestando il presidente Laurent Gbagbo, colpevole di non essere troppo disponibile a cedere il controllo dei giacimenti di petrolio alla Total, e sostituendolo con Alassane Quattara, che, da ex alto dirigente del Fondo monetario internazionale, gode della fiducia della Francia e delle altre potenze occidentali, tra le quali c’è anche l’Italia. Di recente il presidente Mattarella, durante il viaggio che lo ha portato in diversi Paesi dell’Africa Occidentale, ha incontrato Quattara, per discutere del rafforzamento della presenza italiana nel Paese africano. Del resto, l’Eni ha scoperto e sta sfruttando a Baleine il più grande giacimento di gas e petrolio della Costa d’Avorio. La Francia, inoltre, è intervenuta militarmente dal 2013 in Mali, Burkina Faso, Ciad e Niger prima con l’operazione Serval e poi con l’operazione Barkhane. La Francia ha impedito che le questioni interne al Mali venissero risolte con il solo ausilio di forze militari africane, come era previsto dall’Onu. Evidentemente lo Stato francese non poteva permettere che Paesi ricchissimi di risorse minerarie fuoriuscissero dal controllo di politici locali legati alla Francia e alle sue multinazionali. Di recente, però, anche il controllo sul piano militare sta venendo meno. Le truppe francesi sono state espulse prima da Burkina Faso e Mali e poi, a fine 2023, dal Niger.

A sostituire la Francia, sul piano economico e militare è la Russia, come abbiamo accennato sopra, che sta rafforzando la sua presenza nell’Africa occidentale e centrale. Recentemente Putin ha concordato con la Repubblica del Congo un potenziamento della collaborazione economica e politica, e ha stabilito accordi con il Mali, con il quale ha siglato una partnership sull’industria del litio, e con il Niger, con il quale si sono rafforzati i legami su antiterrorismo, agricoltura, settore minerario ed energia.

L’imperialismo francese, come quello statunitense, è in netta difficoltà perché, grazie alla sponda offerta dai Paesi del Brics, in particolare da Cina e Russia, i paesi periferici sono entrati in una nuova fase storica, quella della decolonizzazione reale. Le economie periferiche, come quelle dell’Africa, dopo la metà del XX secolo si erano liberate dal colonialismo europeo ma solo formalmente, rimanendo legate ai Paesi colonizzatori, come la Francia. Ora siamo ad una svolta, rappresentata dalla decolonizzazione reale, ossia dalla liberazione dalla dipendenza economica e militare. Non sembra, però, che l’imperialismo occidentale voglia accettare di buon grado questa nuova situazione. Togliatti, a proposito dell’imperialismo fascista, sosteneva che l’imperialismo debole o in crisi è il più pericoloso, perché nel tentativo di affermarsi o invertire la tendenza al declino può far ricorso alla guerra. Così è accaduto nella Prima e nella Seconda guerra mondiale. A quel tempo la guerra scoppiata in Europa fu una resa dei conti relativa alla partita della spartizione delle colonie. Anche oggi la guerra in Europa rappresenta non solo lo scontro tra i due Paesi, Russia e Ucraina, ma anche il terreno sul quale l’imperialismo occidentale cerca di arrestare il proprio declino e mantenere la sua presa sulle aree periferiche e dipendenti dell’economia mondiale.

 

 

 

 

[i] Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in “Opere Scelte”, Editori Riuniti Roma 1965, pagg. 638-639.

[ii] Unctad, database, Merchandise: trade balance, annual.

[iii] Oecd, data, FDI stock.

[iv] Alessandra Colarizi, Africa rossa. Il modello cinese e il continente del futuro, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2022, pag. 81.

Il vero motivo per cui Yellen è tornata a Pechino

 

di Giuseppe Masala per l’AntiDiplomatico 

 

E’ certamente corretto sostenere che le motivazioni che stanno spingendo Washington a mettere sotto assedio Pechino sono di natura economica. Paradossalmente questa tesi è stata infatti espressa indirettamente dalla stessa Segretario al Tesoro Yellen, in una intervista della settimana scorsa che non ha avuto la risonanza che avrebbe meritato nonostante anticipasse i temi che la stessa Yellen sta trattando con l’élite politica cinese nel suo viaggio diplomatico in corso in questi giorni.

Di importanza capitale per comprendere la situazione a cui siamo di fronte è questo passaggio dell’intervista: «In particolare, sono preoccupata per le ricadute globali derivanti dall’eccesso di capacità che stiamo vedendo in Cina. In passato, in settori come l’acciaio e l’alluminio, il sostegno del governo cinese ha portato a sostanziali investimenti eccessivi e a un eccesso di capacità che le aziende cinesi cercavano di esportare all’estero a prezzi bassi. Ciò ha mantenuto la produzione e l’occupazione in Cina, ma ha costretto l’industria nel resto del mondo a contrarsi. Ora assistiamo allo sviluppo di capacità in eccesso in “nuovi” settori come quello solare, dei veicoli elettrici e delle batterie agli ioni di litio».

L’economista ha poi concluso in maniera sibillina: «L’eccesso di capacità produttiva della Cina distorce i prezzi globali e i modelli di produzione e danneggia le imprese e i lavoratori americani, così come le imprese e i lavoratori di tutto il mondo».

Tradotto in linguaggio semplice, la Yellen sta dicendo che il sistema produttivo USA non riesce a reggere la concorrenza cinese e che ciò danneggia enormemente le imprese ed i lavoratori americani. Chiaro che problemi del genere vanno affrontati e risolti rapidamente, anche perché Washington non ha più tempo da perdere. Il surplus commerciale della Cina nei primi due mesi di quest’anno è ripreso a crescere ed è stato il più grande della storia: + 125 miliardi di dollari. Contemporaneamente il Deficit Commerciale USA a Gennaio di quest’anno è stato pari a – 90,5 miliardi di dollari e a Febbraio pari a – 91,8 miliardi di dollari.

Cifre impietose che danno plasticamente l’idea di quale sia la situazione economica americana in relazione alla competitività del suo sistema produttivo rispetto a quello cinese. Se poi si vuole guardare a dati più di lungo periodo, basta andare a vedere quale sia la posizione finanziaria netta cinese e a quanto ammonti invece il debito estero americano, ormai riprecipitato alla siderale cifra di quasi 19800 miliardi di dollari, per comprendere come il divario di competitività tra USA e Cina sia enormemente a vantaggio del Celeste Impero.

La situazione USA non appare più sostenibile anche in considerazione del fatto che è in corso una emorragia di capitali esteri che compensavano lo squilibrio derivante dalla scarsa competitività del sistema produttivo che, a sua volta, provoca, appunto, il profondo rosso nei conti con l’estero. Da qui spiegate anche le crisi bancarie a stelle e strisce sempre più frequenti, essendo il sistema finanziario da sempre il più esposto a

fughe di capitali verso l’estero che aprono squarci nei bilanci degli istituti di credito.

Una situazione questa che – dal punto di vista americano – va velocemente risolta “o con le buone” grazie a trattative diplomatiche o “con le cattive” come hanno fatto in Europa facendo scoppiare un conflitto che ha fatto perdere irrimediabilmente la competitività del sistema produttivo europeo rispetto al resto del mondo.

Probabilmente il viaggio della Yellen nel Celeste Impero iniziato sabato è l’ultimo tentativo di risolvere diplomaticamente il problema. Si capisce questo dalla schiettezza quasi sfrontata con la quale il Segretario al Tesoro di Washington ha esposto i temi del contendere. Altrettanto stupefacente è stato constatare, nei resoconti di stampa, la sfrontatezza con la quale i cinesi – solitamente obliqui nelle posizioni espresse – hanno risposto alla controparte statunitense durante il vertice con il vicepremier He Lifeng che peraltro presiede anche la commissione per gli affari economici e commerciali Cina-Stati Uniti. I cinesi infatti hanno respinto la tesi secondo la quale esisterebbe una sovraccapacità produttiva da parte loro ed anzi hanno espresso gravi preoccupazioni per i provvedimenti che gli USA stanno ponendo in essere per tentare di tarpare le ali allo sviluppo cinese. Ricordiamo per esempio il provvedimento del Congresso degli Stati Uniti che vorrebbe imporre la vendita del social network cinese Tik Tok che ha ottenuto un successo enorme tra i giovani, oppure ricordiamo il divieto imposto dall’amministrazione Biden a tutte le aziende occidentali (soprattutto americane, giapponesi e olandesi) di vendita alla Cina di apparecchiature DUV per la produzione di microchip.

Ad aver rincarato la dose, se mai ce ne fosse stato bisogno, è stato l’ambasciatore cinese a Washington Xie Feng che in una intervista concessa a Newsweek ha contestato l’esistenza di una sovraccapacità produttiva da parte di Pechino e, anzi, ha sostenuto la tesi che: “A livello globale, la capacità industriale di alta qualità e le forze produttive che la spingono non sono eccessive, ma anzi insufficienti” concludendo poi che anche la competitività cinese nel nuovo settore delle automobili elettriche non è dovuto a sussidi statali e pratiche scorrette ma, in sostanza, a una miglior capacità di innovazione rispetto agli USA.

Non pare azzardato dire che sul tema dirimente degli squilibri commerciali tra Cina e USA siamo al muro contro muro, dove nessuno dei due contendenti sembra disponibile a fare un passo indietro. Medesima situazione la si riscontra sull’altro punto dolens discusso durante il vertice, ovvero il sostegno cinese alla Russia impegnata nella guerra in Ucraina. A darne conto è stata l’agenzia Reuters che ha riferito il fatto che la Yellen ha sostanzialmente minacciato “conseguenze” qualora il sostegno di Pechino a Mosca non si interrompa. I cinesi avrebbero risposto che la politica di Pechino prevede il supporto a Mosca e che questo argomento non è materia di discussione bilaterale tra Cina e USA.

In definitiva il viaggio diplomatico della Yellen in Cina si è rivelato un assoluto buco nell’acqua sui temi più scottanti. Un fatto questo che non può non essere che foriero di gravissime conseguenze che, molto probabilmente, riproporranno nei prossimi anni le stesse dinamiche viste in Europa a partire dal 2022, a partire dalle rivendicazioni territoriali da parte dei paesi vassalli degli USA (pensiamo a Taiwan, alle Filippine e al Giappone) con probabile scoppio di guerre locali e la conseguente imposizione di sanzioni alla Cina che avranno l’effetto di distruggere la competitività dei paesi filo-americani coinvolti e che, dall’altro lato, disaccoppieranno definitivamente l’economia cinese da quella occidentale.

Ovviamente un simile sbocco, sebbene molto probabile, va visto come pericolosissimo, sia per l’enorme potenza industriale e militare della Cina sia perché gli USA ormai sono economicamente all’ultima spiaggia e dunque pronti anche a soluzioni molto costose per l’intero mondo.

 

“Servilismo umiliante”. Milei consegna l’Argentina agli USA

Nelle prime ore di venerdì, il presidente argentino Javier Milei e il generale Laura Richardson, comandante del Comando Sud degli Stati Uniti (SouthCom), hanno avuto un incontro a Ushuaia, la città più meridionale del Paese sudamericano.

Durante un discorso al personale militare di entrambi i Paesi, il fanatico ultra-liberista ha ribadito la volontà di stringere una “alleanza strategica” con gli Stati Uniti e i suoi alleati, suggerendo che SouthCom parteciperà alla “Base navale integrata”.

Inizialmente proposta dall’amministrazione di Alberto Fernandez (2019-2023), questa base navale includerà un porto per la riparazione e il rifornimento delle navi, che sarà la struttura più vicina all’Antartide e “la porta d’accesso al continente bianco”, ha detto Milei.

La visita del comandante del SouthCom in Patagonia ha scatenato le critiche delle personalità argentine, che hanno sottolineato la subordinazione del presidente di estrema destra agli interessi statunitensi. 

“Milei, vestito da soldato coloniale per incontrare il comandante del SouthCom – il partner dell’invasore britannico – è determinato a cedere il controllo geopolitico, strategico e di sfruttamento delle risorse e dei beni naturali del nostro Paese”, ha dichiarato Alicia Castro, ex ambasciatrice dell’Argentina nel Regno Unito.

“Abbiamo già visto cosa hanno fatto gli Stati Uniti quando hanno collaborato in Iraq, Libia e Afghanistan… Abbiamo visto come il SouthCom, la CIA e la School of the Americas hanno partecipato e partecipano a tutti i colpi di Stato nella nostra regione”, ha commentato criticamente.

Tuttavia, Milei ha affermato che difenderà la sovranità argentina “costruendo alleanze strategiche con coloro con i quali condividiamo una visione del mondo”.

Martedì sera, il generale Richardson è atterrato a Buenos Aires per iniziare la sua terza visita ufficiale in Argentina. Nei giorni scorsi ha avuto incontri con alti funzionari dell’amministrazione Milei e con personale militare di alto livello.

Secondo le versioni ufficiali statunitensi, questi incontri hanno avuto lo scopo di approfondire le relazioni bilaterali in termini di cooperazione regionale in materia di difesa. A questo proposito, il portavoce presidenziale Manuel Adorni ha annunciato che la portaerei USS George Washington visiterà l’Argentina a maggio.

Milei è stato fortemente criticato dall’ex presidente argentino Alberto Fernández per il suo discorso “sottomesso” al capo del Comando Sud degli Stati Uniti, Laura Richarson.

Dal suo account sul social network X, Fernández ha espresso dure critiche al leader libertario, che ha accusato di aver espresso un “umiliante servilismo” rispetto a Richardson e il suo entourage.

“Il presidente argentino, parlando di ‘espansioni territoriali’, travestito da militare accanto a un’autorità dell’esercito statunitense, ci riempie di vergogna come nazione. Ha tenuto un discorso inutile che esprime la sottomissione dell’Argentina a una nazione straniera”.

Il Nicaragua rompe le relazioni diplomatiche con l’Ecuador

Il governo del Nicaragua ha annunciato sabato la rottura di “tutte le relazioni diplomatiche” con l’Ecuador dopo l’assalto delle forze di polizia ecuadoriane all’ambasciata messicana a Quito, con lo scopo di arrestare l’ex vicepresidente ecuadoriano, Jorge Glas, che il presidente messicano, Andrés Manuel López Obrador, aveva concesso l’asilo diplomatico.

“Di fronte all’azione inconsueta e riprovevole portata avanti questa mattina a Quito dalle forze che dovrebbero tutelare l’ordine e la sicurezza dei cittadini ecuadoriani e la loro vita”, esprimiamo “il nostro rifiuto forte, enfatico e irrevocabile, che trasformiamo nel nostro decisione sovrana di rompere ogni relazione diplomatica con il governo ecuadoriano”, sottolineano da Managua.

“Il 1° settembre 2020 avevamo ritirato la nostra ambasciata a Quito e con questa dichiarazione formalizziamo la rottura di tutte le relazioni diplomatiche. La nostra solidarietà e il nostro accompagnamento, in qualsiasi azione legale che ne possa derivare, al presidente e al governo del Messico, Andrés Manuel López Obrador”, conclude il comunicato.

Il governo nicaraguense ha inoltre espresso la sua “calorosa e costante considerazione per il caro popolo dell’Ecuador, che sta vivendo momenti di inconcepibile brutalità”, nonché il suo “attaccamento al diritto internazionale e alle convenzioni che regolano le relazioni civili tra gli Stati e i governi del mondo”.

“Vergogna mondiale”: condanna unanime dell’America Latina per l’invasione dell’ambasciata messicana in Ecuador

L’invasione dell’ambasciata messicana a Quito, venerdì notte, da parte delle forze di polizia ecuadoriane per sequestrare l’ex vicepresidente Jorge Glas, a cui era stato concesso asilo politico, è stata condannata in maniera unanime da politici, organizzazioni e i paesi latinoamericani, secondo quanto si apprende dai media e dai social network. 

Il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha dichiarato: “È un atto barbaro, mai visto prima in America Latina, il governo di destra filo-yankee dell’Ecuador ha violato brutalmente il diritto internazionale, assaltando l’ambasciata messicana in Ecuador e sequestrando un richiedente asilo politico, come riconosciuto dal governo messicano”.

“Il Venezuela alza la voce con forza per respingere questo atto fascista contro il diritto internazionale ed esprime la sua piena e assoluta solidarietà al presidente Andrés Manuel López Obrador e al popolo messicano”, ha dichiarato il presidente bolivariano.

Il presidente della Colombia, Gustavo Petro, ha affermato sabato che l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) e la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (CELAC) devono incontrarsi “con urgenza” per esaminare la violazione della Convenzione di Vienna da parte di uno Stato membro.

Il presidente ha annunciato che la Colombia promuoverà un’azione affinché la Commissione interamericana dei diritti umani (CIDH) emetta “misure precauzionali” a favore di Glas, “il cui diritto d’asilo è stato barbaramente violato”.

“La Convenzione di Vienna e la sovranità del Messico in Ecuador sono state infrante. Insisto ancora una volta sul fatto che l’America Latina e i Caraibi, a prescindere dalle costruzioni sociali e politiche di ciascun Paese, devono mantenere vivi i precetti del diritto internazionale in mezzo alla barbarie che avanza nel mondo e al patto democratico all’interno del continente”, ha aggiunto.

Da parte sua, il presidente cubano Miguel Díaz-Canel ha espresso la sua solidarietà al governo messicano di fronte all’irruzione della polizia ecuadoriana nell’ambasciata del Paese nordamericano a Quito per arrestare l’ex vicepresidente ecuadoriano Jorge Glas.

“Tutta la nostra solidarietà al Messico di fronte all’inaccettabile violazione della sua ambasciata a Quito”, ha scritto Díaz-Canel sul social network X.

Il leader cubano ha affermato che “la Convenzione di Vienna sulle Relazioni Diplomatiche, che è una componente essenziale del Diritto Internazionale, deve essere rispettata da tutti”.

A questo proposito, anche il ministro cubano delle Relazioni Estere, Bruno Rodríguez, ha condannato “fortemente” l’irruzione nell’ambasciata messicana nel paese sudamericano per arrestare Glas, al quale l’Esecutivo messicano aveva concesso asilo politico.

Il presidente della Bolivia, Luis Arce, da parte sua, ha espresso il suo rifiuto del rapimento di Glas nel violento raid contro la sede diplomatica messicana, in chiara violazione dell’Accordo di Vienna.

In un comunicato pubblicato su X, il presidente sostiene che: “Questo atto grave e inaccettabile è un attacco alla sovranità messicana e trasgredisce i principi stabiliti dalla Convenzione sull’asilo politico di Montevideo e dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche…”.

Arce ha ricordato che l’articolo 22, paragrafo I, recita: “I locali della missione sono inviolabili. Gli agenti dello Stato ricevente non possono entrarvi senza il consenso del capo missione”.

In questo senso, respingiamo la violazione del diritto d’asilo dopo il rapimento e la detenzione dell’ex vicepresidente dell’Ecuador, Jorge Glass, che aspettava un salvacondotto presso la sede diplomatica messicana, evidenziando non solo la violazione delle norme internazionali ma anche alla fratellanza e alla convivenza pacifica tra i popoli dell’America Latina e dei Caraibi.

In questo senso, il ministro degli Esteri Yván Gil ha pubblicato la posizione ufficiale del governo del Venezuela sul rapimento di Glas e sull’invasione dell’ambasciata messicana in Ecuador.

“La Repubblica Bolivariana del Venezuela esprime il suo più forte rifiuto nei confronti degli eventi perpetrati la notte del 5 aprile 2024, nella sede della Missione Diplomatica degli Stati Uniti Messicani, dagli Organi di Sicurezza del Governo dell’Ecuador, nei confronti di coloro che illegalmente hanno fatto irruzione e catturato l’ex vicepresidente Jorge Glas, al quale il governo messicano aveva concesso asilo politico, a seguito dell’atroce persecuzione di cui è stato vittima”.

In precedenza, Gil aveva scritto in un tweet: “Ho parlato telefonicamente con la segretaria Alicia Barcena e ho espresso l’assoluta solidarietà del presidente Nicolás Maduro al presidente Andrés Manuel López Obrador di fronte a questo atto barbaro che viola tutti i principi del diritto internazionale”.

Anche il governo del Brasile ha condannato con la massima fermezza l’azione compiuta dalle forze di polizia ecuadoriane presso l’ambasciata messicana a Quito.

“L’azione costituisce una chiara violazione della Convenzione Americana sull’asilo diplomatico e della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche che, al suo articolo 22, stabilisce che i luoghi di una missione diplomatica sono inviolabili e vi possono accedere solo gli agenti dello Stato ospitante con il consenso del capomissione”.

“La misura attuata dal governo ecuadoriano costituisce un grave precedente e deve essere oggetto di un vigoroso ripudio, qualunque sia la giustificazione della sua attuazione”, si legge nel comunicato del Palazzo Itamary. ‎

Il Governo brasiliano esprime infine la sua solidarietà al Governo messicano, ha aggiunto il Ministero degli Esteri brasiliano.

Pabel Muñoz, sindaco di Quito, la capitale ecuadoriana, ha definito l’irruzione nell’ambasciata messicana “inaccettabile, una vergogna globale”.

“Quello che è appena successo all’ambasciata messicana di Quito crea una situazione complessa per l’Ecuador di fronte al sistema internazionale e al diritto internazionale. C’è forse qualche dubbio sul fatto che Jorge Glas sia vittima di una terribile persecuzione? Il fatto è ancora più grave se si considera che gli è già stato concesso l’asilo politico”, ha dichiarato il funzionario ecuadoriano in un messaggio sul suo account del social network X.

“L’assalto all’ambasciata messicana da parte del governo dell’Ecuador, con l’obiettivo di sequestrare l’ex vicepresidente J. Glass, costituisce un atto intollerabile per la comunità internazionale, dato che ignora lo storico e fondamentale diritto di asilo”, ha scritto la presidente dell’Honduras Xiomara Castro sui suoi social network.

“Il governo cileno ricorda che la Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961 stabilisce che i locali della missione sono inviolabili e che gli agenti dello Stato ricevente non possono entrarvi senza il consenso del capo della missione”, si legge in un comunicato del ministero degli Esteri cileno.

“Inoltre, esprime la sua profonda preoccupazione per la violazione del diritto d’asilo, contemplato nella Convenzione sull’asilo territoriale del 1954 e riconosciuto come un contributo latinoamericano al diritto internazionale”, ha aggiunto.

“L’Uruguay si rammarica profondamente per gli eventi delle ultime ore in Ecuador, che hanno colpito le relazioni tra due nazioni sorelle, nonché il rispetto delle norme fondamentali del diritto internazionale e della coesistenza pacifica tra le nazioni latinoamericane”, ha dichiarato il Ministero degli Esteri del Paese.

Il Ministero degli Esteri ha sottolineato che “il Governo della Repubblica Orientale dell’Uruguay spera che presto sia il Messico che l’Ecuador, nazioni sorelle, possano intraprendere il cammino che porterà al ristabilimento delle relazioni diplomatiche”.

Anche il Guatemala ha espresso il suo “rifiuto per il mancato rispetto della Convenzione di Vienna di fronte alla grave violazione della sede dell’Ambasciata del Messico in Ecuador da parte delle forze speciali ecuadoriane”. Inoltre, le autorità guatemalteche hanno esortato “a rispettare e adempiere in ogni caso agli obblighi degli Stati rispetto all’articolo 22 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961, che stabilisce l’inviolabilità delle sedi delle missioni diplomatiche e che lo Stato ospitante, è tenuto non solo a rispettare detta inviolabilità, ma anche a tutelarla”. 

“Il Paraguay osserva con profonda preoccupazione gli ultimi avvenimenti accaduti presso l’Ambasciata del Messico in Ecuador. Invita le parti alla riflessione e al rispetto integrale del diritto internazionale”, si legge in un messaggio sui social network pubblicato dal Ministero degli Esteri del Paese.

Le autorità peruviane hanno respinto “qualsiasi violazione delle norme della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961 che garantiscono procedure di buona convivenza tra gli Stati”.

Sottolineando che “il rigoroso rispetto del diritto diplomatico, così come il rispetto degli obblighi stabiliti nei trattati internazionali, sono fondamentali per la coesistenza pacifica degli Stati”, il Governo del Perù ha invitato le due parti ad impegnarsi nel dialogo per risolvere la situazione.

“In quanto Stato parte della Convenzione sull’asilo diplomatico del 1954, che ha recentemente concesso questo status a leader politici venezuelani ed è in attesa del rilascio dei relativi salvacondotti, la Repubblica Argentina si unisce ai Paesi della regione nel condannare quanto accaduto la scorsa notte all’ambasciata messicana in Ecuador e chiede la piena osservanza delle disposizioni di questo strumento internazionale, nonché degli obblighi derivanti dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche”, si legge in un comunicato emesso dal Ministero degli Esteri di Buenos Aires.

Anche la Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (CONAIE) ha rilasciato una dichiarazione su X in cui definisce “estremamente gravi” le azioni del governo Noboa.

“La violazione dell’ambasciata messicana in Ecuador è un atto fascista di estrema gravità che viola le relazioni diplomatiche e il diritto internazionale. Le ambasciate rappresentano la sovranità dei Paesi che le ospitano e sono protette dal principio di inviolabilità sancito dalla Convenzione di Vienna”, ha dichiarato la rappresentanza che riunisce i più importanti popoli indigeni dell’Ecuador.

“L’azione del governo ecuadoriano che ha fatto irruzione illegalmente nell’ambasciata messicana a Quito costituisce una chiara violazione della sovranità messicana e un totale disprezzo delle norme internazionali.  È preoccupante osservare come il governo autoritario e fascista dell’Ecuador ricorra alla forza per assicurarsi i suoi trofei politici. Questa flagrante violazione non solo influisce sulle relazioni bilaterali tra Messico ed Ecuador, ma invia anche un pericoloso messaggio alla comunità internazionale”, ha denunciato la Conaie.

Il diplomatico boliviano ed ex segretario esecutivo di Alba-TCP, Sacha Llorenti, ha affermato che il governo dell’Ecuador “ha sequestrato l’ex vicepresidente Jorge Glas. Le sedi diplomatiche sono inviolabili. È un atto terribile, sia per la violazione della sovranità del Messico sia per il pericolo di vita di Jorge”.

“Hanno trasformato il diritto internazionale in lettera morta e minato le regole di convivenza nella regione”, ha dichiarato Llorenti in una pubblicazione sul social network X.

Claudia Sheinbaum, candidata alle presidenziali messicane per la coalizione di governo Sigamos Haciendo Historia, ha dichiarato che l’irruzione nell’ambasciata messicana in Ecuador “è una flagrante violazione della Convenzione di Vienna. È un affronto alla diplomazia e al diritto internazionale che è inammissibile. Esprimo tutta la mia solidarietà e il mio sostegno al presidente López Obrador nella difesa della nostra sovranità”.

La candidata alle presidenziali per l’alleanza di opposizione Fuerza y Corazón por México, Xóchitl Gálvez, ha affermato che “si può essere d’accordo o meno con l’amministrazione della giustizia in altri Paesi, ma le sedi diplomatiche di qualsiasi nazione straniera sono inviolabili”.

 

 

 

Edward Luttwak: Regno Unito, Francia e paesi nordici si preparano a inviare truppe in Ucraina

La pressione si fa sempre più intensa sulla comunità internazionale mentre la crisi in Ucraina continua a crescere. Secondo il professor Edward Luttwak, un esperto stratega e storico noto per le sue opere sulla geoeconomia, la storia militare e le relazioni internazionali, i paesi europei della NATO si troveranno presto di fronte a una decisione cruciale: inviare soldati in Ucraina o accettare una sconfitta catastrofica.

Luttwak ha espresso questa opinione in un articolo su UnHerd, sottolineando che l’invio di truppe NATO potrebbe essere necessario per evitare un risultato disastroso. Ha sottolineato che alcune nazioni europee, come il Regno Unito, la Francia e i paesi nordici, stanno già preparando silenziosamente l’invio di truppe, comprese unità d’élite e personale logistico e di supporto. Queste truppe, afferma Luttwak, sarebbero posizionate lontano dal fronte ma sarebbero fondamentali per sostenere gli sforzi ucraini contro la Russia.

Secondo il geostratega, il personale di supporto NATO potrebbe sostituire i soldati ucraini, consentendo loro di ricevere addestramento militare per affrontare in modo più efficace la minaccia. Inoltre, le truppe della NATO potrebbero essere impegnate nella riparazione e nella manutenzione dell’equipaggiamento danneggiato, aumentando così le capacità operative delle forze armate ucraine. Questa collaborazione, sostiene Luttwak, potrebbe compensare la “scarsità di manodopera” ucraina e migliorare la loro resilienza sul campo di battaglia.

Tuttavia, l’invio di truppe NATO in Ucraina non è privo di rischi e complicazioni. Innanzitutto, potrebbe innescare una maggiore escalation del conflitto, con il potenziale coinvolgimento diretto tra le forze della NATO e quelle russe. Inoltre, potrebbe aggravare le tensioni diplomatiche già tese tra Occidente e Russia, portando a conseguenze imprevedibili a livello globale.

 

France 2: nei villaggi ucraini non ci sono più uomini idonei al servizio militare

L’Ucraina ha abbassato l’età del servizio di leva a 25 anni, ma alcuni villaggi stanno esaurendo gli uomini utili, come riporta France 2. Nel villaggio di Luzanivka, nell’Oblast’ di Cherkassy, ci sono circa 400 uomini, 50 dei quali sono andati al fronte, tre dei quali sono morti negli ultimi sei mesi. Non ci sono abbastanza uomini in grado di scavare tombe.

Secondo le autorità locali, questa regione nel centro dell’Ucraina ha inviato il maggior numero di soldati nell’esercito. Nel vicino villaggio di Kamenka, per le strade si trovano solo donne con bambini e anziani. Con una popolazione di 20.000 persone, l’AFU ha preso 1.300 uomini, 60 dei quali sono già morti. Continua la distribuzione dei mandati di comparizione: chi non potrà combattere sarà mandato a scavare trincee.

La carenza di manodopera sta influenzando l’economia e le aziende sono costrette ad assumere donne per ricoprire posti di lavoro tradizionalmente occupati da uomini. Tuttavia, nelle regioni dimenticate cresce il senso di ingiustizia: da qui vengono inviate al fronte molte più reclute rispetto alle grandi città dell’Ucraina.

 

Maduro: “Il sionismo è il nuovo fascismo”

Il presidente Nicolás Maduro ha commentato le intenzioni del presidente argentino Javier Milei di promuovere nuove sanzioni contro il Venezuela.

Durante una nuova edizione del Maduro Podcast, il capo di Stato venezuelano ha affermato che ciò che è salito al potere in Argentina con Milei è “il fascismo, il sionismo, che è il nuovo fascismo”. 

“Ora Milei sta parlando di come condurrà una crociata in modo che il Venezuela sia sanzionato, assediato e sconfitto. Io dico da Caracas, dai ‘barrios’ di Caracas, dico a Milei, a te e a molti altri, Milei, guardati allo specchio di Bolsonaro, guardati allo specchio di Macri, chi si mette contro il Venezuela, ci rimane secco”, ha detto.

Il presidente si è intrattenuto con la prima combattente, la moglie Cilia Flores, e con il governatore dello Stato di Carabobo, Rafael Lacava, con il quale ha parlato della stella del calcio argentino, Diego Armando Maradona.

“Ho una tesi sulla morte di Maradona, l’ho già detto in passato. Credo che Maradona sia stato ucciso (…) Gli ho parlato il giorno del suo compleanno, giorni prima che morisse, e gli ho detto ‘Diego, vieni in Venezuela, qui ci prenderemo cura di te. Sono preoccupato per te”, perché a gennaio gli avevo detto personalmente ‘Abbi cura di te, Diego. Ci sono persone molto cattive, fascisti, e sanno che tu sei la voce della ribellione popolare, colui che dice quello che nessuno osa dire in Argentina e nel mondo’. Penso che sia stata un’operazione per eliminare i simboli dell’Argentina ribelle, dell’Argentina profonda, e prima hanno eliminato Diego, ne sono certo, e poi volevano eliminare Cristina (Fernández), la volevano uccidere in diretta televisiva”, ha denunciato il leader bolivariano.

Ha anche commentato che “uccidendo Diego e Cristina, l’Argentina sarebbe rimasta senza voci profonde e potenti. Credo in questo piano per l’arrivo del fascismo” e che è sicuro che un giorno la verità verrà alla luce.

D’altra parte, il presidente ha ricordato diverse situazioni vissute durante il periodo parlamentare 2000-2005, sottolineando che l’Assemblea Nazionale “è stata una grande scuola” in cui si sono apprese “grandi lezioni”, come la capacità di tolleranza e di dialogo “nelle peggiori circostanze, vedendosi in faccia, parlando” con settori dell’opposizione.

“L’Assemblea nazionale dal 2000 al 2005 è stata straordinaria perché abbiamo attraversato la cospirazione del 2001, i colpi di Stato del 2002, il lento processo di ripresa economica e sociale del 2003, il processo referendario di richiamo e la brutale cospirazione del 2004, la violenza, la prima guarimba”, ha ricordato.

Nel corso della conversazione, il il presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela ha proposto al governatore Lacava di far parte dei principali membri del Comando della campagna per le elezioni presidenziali del 28 luglio.

“Voglio che lei chieda al popolo di Carabobo il permesso di essere uno dei principali portavoce e membri del comando della campagna elettorale vittoriosa del 28 luglio, è una proposta che le faccio qui pubblicamente”, ha affermato il presidente.

Il governatore Lacava ha accettato e ha assicurato che “sarebbe un privilegio e un onore per me e so che il nostro popolo di Carabobo comprende l’importanza di questo nuovo compito che mi state affidando”.

Un altro punto sollevato nello scambio è stata l’affermazione dell’esecutivo secondo cui ci sarebbe stato un tentativo di sabotare il festival di Waikiki durante le vacanze di Pasqua.

“Hanno cercato di sabotare il festival di Waikiki. Abbiamo raccolto alcune comunicazioni quattro giorni prima per sabotarlo, sono state prese delle misure e la gente è rimasta in pace”, ha reso noto Maduro.

A questo proposito, il governatore Lacava ha espresso la sua gratitudine alle forze di sicurezza che hanno garantito la protezione delle oltre 150.000 persone venute a celebrare l’evento.

Il Presidente Maduro ha anche colto l’occasione per informare che il 1° Festival Internazionale Viva Venezuela, Mi Patria Querida, sarà inaugurato il 10 maggio con un grande concerto che si terrà allo Stadio Monumental Simón Bolívar, situato a Caracas.

“Il 10 maggio, qui al Monumental, si terrà il concerto inaugurale del Grande Festival Mondiale della Grande Missione Viva Venezuela, mia amata Patria”, ha dichiarato.

Nel suo annuncio, il Presidente ha affermato che quel giorno si prevede la partecipazione di oltre 60.000 persone per godere delle diverse espressioni culturali del Venezuela.

A questo proposito, ha spiegato che “60.000 persone parteciperanno a questo grande concerto della nostra musica, del nostro ritmo, del nostro modo di ballare, della nostra poesia, della nostra musica popolare, della nostra cultura tradizionale; è qui che inizierà la grande festa, il 10 maggio, non mancate”.

Ha aggiunto che dopo il concerto inaugurale, questo primo festival farà il giro del Paese, per risvegliare la speranza del popolo e unirlo “perché il 28 luglio vinceremo!”.

Il 1° Festival Internazionale Viva Venezuela, Mi Patria Querida, si svolgerà dal 10 al 19 maggio a Caracas, La Guaira e Miranda, per poi spostarsi in tutto il Paese.

Kuleba: “Tutte le batterie Patriot nel mondo devono essere consegnate all’Ucraina”

Il ministro degli Esteri ucraino Dmitri Kuleba ha incontrato i suoi omologhi occidentali presso la sede della NATO a Bruxelles e ha chiesto loro di fornire più armi all’Ucraina, in particolare sistemi missilistici antiaerei Patriot.

In questo contesto Kuleba ha discusso con il suo omologo polacco Radoslaw Sikorski delle capacità della Polonia di proteggere lo spazio aereo ucraino. “Tutte le batterie Patriot disponibili nel mondo e che possono essere fornite all’Ucraina devono essere consegnate al più presto possibile. Non c’è posto più importante per loro”, ha dichiarato il ministro degli Esteri ucraino.

Maduro denuncia l’installazione di basi militari USA nel territorio conteso con la Guyana

“Abbiamo informazioni verificate che basi militari segrete del Comando Sud sono state installate nel territorio della Guayana Esequiba, temporaneamente amministrato dalla Guyana. Nuclei militari del Comando Sud e nuclei della CIA per preparare aggressioni contro la popolazione di Tumeremo, per preparare aggressioni contro le popolazioni del Sud e dell’Est del Venezuela e per preparare un’escalation contro il Venezuela”. La denuncia è stata dal presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolás Maduro, prima della firma e della promulgazione della Legge Organica per la Difesa della Guyana Esequiba.

Dal Salón Elíptico dell’Assemblea Nazionale (AN), a Caracas, ha indicato che per questo il popolo venezuelano deve essere sempre pronto, “con la guardia alta e il morale alto, a difendere il diritto del Venezuela alla pace e alla sua integrità territoriale”.

All’evento, a cui hanno partecipato deputati del Parlamento nazionale, rappresentanti delle autorità pubbliche, vicepresidenti settoriali, ministri, sindaci, governatori, leader di diversi settori del Paese e lo Stato Maggiore delle Forze Armate Nazionali Bolivariane (FANB), ha sottolineato che il presidente della Guyana, Irfaan Ali, non governa la nazione. “La Guyana è governata dal Comando Sud, dalla CIA e dalla ExxonMobil, e non esagero, controllano il Congresso, i due partiti che costituiscono la maggioranza: il governo e l’opposizione. Controllano l’intero governo, controllano totalmente le forze di difesa e di polizia della Guyana”.

“ExxonMobil prende il controllo dell’establishment politico, militare e della politica estera della Guyana ignorando l’Accordo di Ginevra e si rivolge illegalmente e illegittimamente alla Corte Internazionale di Giustizia con una sospetta manovra di lobbying”, ha affermato.

Ha denunciato al mondo la posizione bellicosa della compagnia petrolifera transnazionale ExxonMobil e ha indicato che il presidente della Guyana, Mohamed Irfaan Ali, e il governo degli Stati Uniti, attraverso il Comando Sud, stanno perseguendo una politica sbagliata contro il Venezuela.

“La ExxonMobil, il Comando Sud e il presidente della Guyana si sbagliano sul Venezuela. Si sbagliano di grosso nella loro posizione di esproprio imperiale, nella loro posizione bellicosa, nella loro posizione minacciosa”.

Ha sottolineato che l’articolo 27 “autorizza il Presidente della Repubblica a vietare la conclusione di contratti o accordi con persone giuridiche che operano o collaborano con l’operazione nel territorio terrestre dell’Essequiba Guyana o nelle acque in attesa di delimitazione, nonché ad adottare misure reciproche sul territorio terrestre”.

AP: la NATO celebra il suo anniversario divisa sull’assistenza all’Ucraina

In questi giorni la NATO celebra i 75 anni dalla sua fondazione. L’Associated Press ripercorre le prove e le tribolazioni dell’alleanza. 

Una delle più recenti è l’operazione in Afghanistan, avviata nel 2003, è stata la più lunga e costosa e si è conclusa con una fuga caotica nell’agosto 2021.
 
Oggi, un nuovo banco di prova per l’alleanza è l’Ucraina, che vuole anch’essa un posto al tavolo della NATO.
 
I membri del blocco stanno cercando di raggiungere l’unanimità, ma finora non è andata bene. Non c’è consenso sul fatto che Kiev debba essere accettata. La maggior parte dei partecipanti si oppone all’ingresso formale dell’Ucraina. 
 
Finora a Kiev si può solo promettere che la porta rimarrà aperta, osserva l’agenzia. 
 
Non c’è unità nemmeno sulla questione dell’armamento dell’AFU. Come organizzazione, l’alleanza fornisce ufficialmente al regime di Kiev solo trasporti, carburante, medicinali e attrezzature per lo sminamento.

I 5 obiettivi militari mancati da Israele a Gaza

All’indomani del 7 ottobre Israele si era posta 5 obiettivi irrinunciabili per dichiarare vittoria a Gaza. Andrea Gaspardo, analista militare, li ricorda nel suo nuovo video di analisi per l’AntiDiplomatico.

“Ad oggi, a sei mesi dall’inizio della guerra, Israele non ha centrato nessuno degli obiettivi indicati”. 

L’intervista completa è disponibile sul canale Youtube de l’AntiDiplomatico in abbonamento a questo link

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L’AntiDiplomatico e LAD edizioni sono impegnati a sostenere l’associazione “Gazzella onlus”, in prima linea nel sostegno della popolazione di Gaza. 

Con l’acquisto di “Il Racconto di Suaad” (Edizioni Q – LAD edizioni) dal nostro portale, finanzierete le attività di “Gazzella”.


La Recensione del Libro

Maduro a Vucic: “Il Venezuela sostiene la Serbia nella lotta per la sovranità”

Il presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolás Maduro, ha riferito di aver avuto un contatto telefonico con il suo omologo serbo, Aleksandar Vu?i?.

“Ho avuto un contatto telefonico con il presidente della Serbia, Aleksandar Vu?i?, al quale ho ribadito il pieno sostegno del Venezuela nella lotta per la sovranità territoriale del suo Paese e la difesa della Pace; questo come riaffermazione delle nostre alleanze diplomatiche e anche, l’impegno a difendere il Diritto Internazionale in tutti gli spazi multilaterali”, ha scritto il capo di Stato venezuelano, nel suo account sul social network “X”.

Greenwald: Sindrome dell’Avana “teoria del complotto” resuscitata per attaccare la Russia

Un recente servizio di CBS News che implicava la Russia nei casi della cosiddetta sindrome dell’Avana ha resuscitato una teoria del complotto da tempo sfatata, ha affermato il giornalista e avvocato statunitense Glenn Greenwald sul suo canale YouTube.

Il giornalista e avvocato Glenn Greenwald ha definito quella della CBS News, una storia “incredibilmente squilibrata”, che ha resuscitato “la teoria del complotto a lungo sfatata chiamata Sindrome dell’Avana”.

Questa teoria risale all’amministrazione Trump. Secondo questa teoria, i russi svilupparono segretamente, come nota ironicamente Greenwald, “una tecnologia del 25° secolo” che consentiva loro di inviare onde di energia per influenzare il cervello dei diplomatici nordamericani e degli ufficiali dell’intelligence di stanza a Cuba.

“Anche il governo USA ha indagato e ha scoperto che era tutta una farsa, che nessuna di queste persone aveva lesioni cerebrali. Fecero una risonanza magnetica e furono condotti tutti gli studi possibili conosciuti dalla scienza moderna. Si giunse alla conclusione che le persone sviluppano questi sintomi in modo psicosomatico”, ha ricordato Greenwald.

Come spiega, per continuare il conflitto ucraino, le autorità USA e i media devono convincere i cittadini statunitensi che la Russia rappresenta davvero una seria minaccia per loro. Greenwald ha ricordato che la stessa cosa è accaduta quando gli Stati Uniti volevano invadere l’Iraq. Quindi le autorità USA dovevano convincere la popolazione del paese che il leader iracheno Saddam Hussein aveva fatto qualcosa di male agli Stati Uniti.

Nei media nordamericani cominciarono ad apparire materiali che alludevano attivamente alla presunta alleanza di Saddam Hussein con al-Qaeda e al suo presunto coinvolgimento nella pianificazione degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Di conseguenza, appena sei mesi dopo l’inizio della guerra in Iraq, il 70% degli americani credeva che dietro questi attacchi terroristici ci fosse Saddam Hussein.

Bravo maestro Zelenskyj: la propaganda ucraina ha raggiunto un livello hollywoodiano

di Jafar Salimov

Quando il conflitto in Ucraina passerà alla storia, le passioni si placheranno e gli storici professionisti inizieranno ad analizzare gli eventi del recente passato, rimarremo tutti scioccati: come è potuto accadere che abbiamo accettato per oro colato un’ovvia menzogna?

È consuetudine ironizzare sul passato di Vladimir Zelenskyj nel mondo dello spettacolo, ricordando come simulava suonare il pianoforte con i genitali per il divertimento del pubblico. C’erano altre battute di basso livello nel suo repertorio. Ma questo fu l’inizio, e Zelenskyj non si accontentò del successo del comico; migliorò e divenne il vero Elon Musk mondo dello spettacolo.

Zelenskyj ha percepito in modo molto sottile quanto piace alla gente comune, ciò che le persone si aspettano, ciò che vogliono sentire, quello in cui le persone credono con piacere. Così ha costruito narrazioni. E il fatto che le sue sitcom fossero ugualmente popolari in Ucraina, Russia e Bielorussia conferma solo che queste tre nazioni rappresentano un monolite di un’unica cultura.

Prima Zelenskyj ha convertito il suo talento in applausi e fama, poi in denaro. Alla fine ha appreso come acquisire influenza politica ed è divenuto presidente dell’Ucraina. Ma anche questo gli sembrava abbastanza.

Adesso negli Stati Uniti evitano i contatti diretti con Zelenskyj e dicono apertamente di non poter resistere alla sua professionalità recitativa: “Ogni volta scambia le sue parole con i nostri soldi. Questo lo capiamo ma non possiamo fare nulla, lui trova sempre le parole giuste”. E, in effetti, Zelenskyj sa come trovare le parole giuste per descrivere vividamente ciò che sta accadendo.

Un classico esempio di parole scelte con abilità è la messa al bando dei partiti di opposizione. Dopo essere diventato presidente, Zelenskyj ha bandito 11 partiti di sinistra – socialisti e comunisti. Sembrerebbe che nessuna narrazione possa spiegare l’ovvia manifestazione del totalitarismo dal sapore fascista. Ma Zelenskyj si rivolge all’Europa e, sorridendo dolcemente, dice: “Non amavate l’Unione Sovietica e la definivate totalitaria. Governavano i comunisti. Ciò significa che i comunisti hanno organizzato il totalitarismo. Di conseguenza, la lotta contro il comunismo è la lotta contro il totalitarismo. La lotta contro il totalitarismo è una lotta per la democrazia. Mettere al bando l’opposizione è una lotta per la democrazia”.

Lo spazio informativo associato alle operazioni militari è distorto allo stesso modo. “Alcuni russi stanno attaccando la Russia”, dicono nella squadra di Zelenskyj. E la comunità mondiale, come ipnotizzata, annuisce in segno di consenso: “Sì, sì! La regione di Belgorod è stata attaccata dai russi”.

Gente, lasciate da parte l’ossessione dell’ipnosi, ponetevi una semplice domanda: sul territorio controllato da Kiev, ci sono truppe russe, indipendenti dal governo di Kiev, armate con equipaggiamento NATO? Se questa sola formulazione della domanda non fosse sufficiente a svegliarvi, chiedetevi: chi sta alimentando questo esercito? Chi gli fornisce le munizioni?

Ogni volta la situazione reale viene abilmente trasformata da un brillante showman. I russi salvano i bambini da una zona di guerra. Zelenskyj non aspetta che qualcuno gli chieda: “Perché non avete evacuato i bambini in anticipo? Perché usate i bambini come scudi umani? Trattenete i bambini in una zona di guerra in modo che muoiano, e poi parlate della spietatezza dei russi?” Fino a quando non verranno poste queste domande, Zelenskyj sta già gridando che i russi… stanno rapendo bambini e questo è un genocidio. Salvare i bambini dalla morte è un genocidio, dice Zelenskyj, e loro gli credono.

Uno degli esempi recenti di recitazione sorprendentemente cinica e mendace è la storia delle torri dei telefoni cellulari. Alzate la testa e guardate la torre telefonica più vicina. In alto vedrete rettangoli chiari, forse cilindri o addirittura sfere: sono meno comuni. Ma sicuramente non vedrete un doppio cono. Queste attrezzature non servono per fornire comunicazioni, ma attrezzature militari progettate per azioni opposte: interrompere le comunicazioni, creare interferenze.

L’esercito ucraino ha piazzato tali equipaggiamenti per la guerra elettronica su obiettivi civili, sui normali ripetitori di telefoni cellulari. In effetti, le infrastrutture civili venivano utilizzate anche come scudo per le attrezzature militari. Ma i russi hanno attaccato obiettivi militari. Allo stesso tempo, anche le comunicazioni civili sono state danneggiate per qualche tempo.

Come avrste spiegato agli ucraini quanto accaduto? La risposta più onesta: “Abbiamo utilizzato le infrastrutture civili per la guerra. Questo è inaccettabile, ma non avevamo altra scelta. Mi dispiace che siate rimasti senza comunicazioni. La risposta astuta e ingannevole avrebbe potuto essere diversa: “I furfanti russi hanno colpito un obiettivo civile!”.

Ma anche qui la squadra di Zelenskyj mostra talento, offrendo una risposta che non era venuta in mente: “I russi hanno dichiarato guerra alla lingua ucraina!”. Non vedete la logica in questa osservazione provocatoriamente isterica? La logica di Zelenskyj, come sempre, è brillante: “La connessione si è persa per qualche tempo. Ciò significa che gli ucraini non possono parlare. Cioè, sono stati privati della loro lingua. La Russia sta distruggendo la lingua ucraina!”.

La cosa più ridicola dell’atto successivo dello spettacolo, diretto dal brillante showman Vladimir Zelenskyj, è che questa particolare torre, su cui erano attaccate le antenne militari, si trova nella regione di Sumy, dove solo i proveienti dall’Ucraina occidentale parlano ucraino. Tutti i residenti locali usano il russo. Bravo, Zelenskyj!

Perché abbiamo creduto a Zelenskyj anche quando la menzogna era evidente?

Perché crediamo che i giovani ucraini forti che camminano rilassati per le strade delle nostre città siano rifugiati e non disertori dell’esercito ucraino? Perché crediamo di dover pagare gli ucraini che arrivano con auto nuove e costose per ricevere un pacchetto di aiuti umanitari? Perché crediamo che sostenere una guerra che uccide il popolo ucraino significhi sostenere il popolo ucraino?

La propaganda ucraina in Europa è affascinante ed emozionante, come una performance brillante. E siamo pronti a simpatizzare con gli eroi dello spettacolo: piangere, indignarci, ridere e provare qualsiasi altra emozione che il brillante regista Zelenskyj abbia incluso nella sua opera.

“Non resteremo con le mani in mano”: il monito di Xi a Biden

 

Il Presidente cinese Xi Jinping, in una conversazione telefonica con il suo omologo statunitense Joe Biden martedì 2 aprile, ha mandato un messaggio molto chiaro agli Stati Uniti e all’occidente in generale. Mentre le relazioni tra i due Paesi “hanno mostrato una tendenza alla stabilizzazione” negli ultimi mesi, ha osservato il preside cinese “sono aumentati anche i fattori negativi che richiedono l’attenzione di entrambe le parti”.

Xi ha osservato che le relazioni sino-americane dovrebbero basarsi su diversi principi generali: sostenere il principio di base del non conflitto e del non confronto; le relazioni dovrebbero rimanere stabili, evitando controversie e attraversamenti di linee rosse; l’onorabilità degli impegni. “Le due parti dovrebbero rafforzare il dialogo nel rispetto reciproco, gestire le differenze con prudenza, promuovere la cooperazione in uno spirito di reciprocità e rafforzare il coordinamento internazionale in modo responsabile”, ha dichiarato il presidente cinese secondo le prime ricostruzioni dei media del paese.

Alastair Crooke – La guerra di Israele, l’azzardo di Netanyahu

di Alastair Crooke – Strategic Culture

Il sostegno del Partito Democratico statunitense a Israele si sta rapidamente incrinando – una “scossa ideologica”, la definisce Peter Beinart (editore di Jewish Currents). Dal 7 ottobre “è diventato un terremoto” – una “Grande Rottura”.

Si tratta della fusione tra liberalismo e sionismo che da tempo definisce il Partito Democratico:

“La guerra di Israele a Gaza ha dato il via a una trasformazione nella sinistra americana. La solidarietà con i palestinesi sta diventando essenziale per la politica di sinistra, così come il sostegno ai diritti dell’aborto o l’opposizione ai combustibili fossili. E, come è accaduto durante la guerra del Vietnam e la lotta contro l’apartheid sudafricana, il fervore della sinistra sta rimodellando il mainstream liberale”.

In parole povere, parallelamente allo spostamento di Israele verso l’estrema destra, il sostegno filo-palestinese negli Stati Uniti si è rafforzato. Entro novembre 2023, il 49% degli elettori ebrei americani di età compresa tra 18 e 35 anni si è opposto alla richiesta di Biden di ulteriori aiuti militari a Israele.

Questo è un vettore; una direzione di viaggio all’interno della politica nordamericana.

Dall’altro lato, gli ebrei statunitensi – quelli più devoti al sionismo; quelli che gestiscono le istituzioni dell’establishment – vedono che l’America liberale sta diventando ideologicamente meno ospitale. Stanno rispondendo a questo cambiamento creando una causa comune con la destra americana.

Netayanhu aveva osservato che Israele e un partito democratico wok erano su percorsi divergenti circa dieci anni prima – spostando il Likud e la destra israeliana dai democratici agli evangelici americani (e quindi, in generale, nella direzione del partito repubblicano). Come ha scritto nel 2022 un ex diplomatico israeliano senior, Alon Pinkas:

“Con Netanyahu è sempre stato transazionale. Così nell’ultimo decennio o giù di lì ha sviluppato la sua vile versione della ‘teoria della sostituzione’: La maggioranza dei cristiani evangelici sostituirà la grande maggioranza degli ebrei nordamericani. Poiché è una questione di numeri, gli evangelici sono l’alleato preferito”.

Beinart scrive: “I sostenitori di Israele non solo sono benvenuti nel Partito Democratico, ma sono anche dominanti. Ma i leader di queste istituzioni non rappresentano più gran parte della loro base”.

“Il senatore Schumer, il più alto rappresentante ebreo nella vita pubblica, ha riconosciuto questo divario nel suo discorso all’inizio di questo mese, quando ha detto – la frase più notevole del discorso – che ‘può capire l’idealismo che ispira tanti giovani, in particolare, a sostenere una soluzione con un solo Stato’”.

Una soluzione – per dirla senza mezzi termini – che non prevede uno “Stato sionista”: “Queste sono le parole di un politico che capisce che il suo partito sta subendo un profondo cambiamento”.

Il numero dei “cambiamenti” nei più giovani è maggiore di quanto molti riconoscano, soprattutto tra i Millennial e la Generazione Z; e questi ultimi si stanno unendo a un movimento di solidarietà con la Palestina che sta diventando sempre più ampio, ma anche più radicale. “Questo crescente radicalismo ha prodotto un paradosso: è un movimento che accoglie sempre più ebrei americani – ma di conseguenza trova più difficile spiegare dove gli ebrei israeliani si inseriscono nella sua visione di liberazione palestinese”, teme Beinart.

È per colmare questo golfo che l’amministrazione Biden ha assunto una posizione scomoda al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite questa settimana, quando gli Stati Uniti si sono astenuti da una “Risoluzione per il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi”.

La Casa Bianca intendeva che la risoluzione “affrontasse entrambe le direzioni”, facendo appello agli ebrei americani (più anziani) che ancora si identificano sia come progressisti che sionisti, e – guardando dall’altra parte – facendo appello a coloro che vedono la crescente alleanza tra le principali istituzioni sioniste e il Partito Repubblicano come scomoda, perfino imperdonabile (e che vuole che i massacri di Gaza finiscano adesso).

Lo stratagemma della Risoluzione, tuttavia, non è stato ben ponderato (quest’ultima lacuna è diventata una sorta di abitudine della Casa Bianca). Il contenuto è stato mal rappresentato dagli Stati Uniti, che hanno dichiarato che la risoluzione era “non vincolante”. Il New York Times ha in realtà riportato in modo errato la risoluzione, affermando che “chiede” un cessate il fuoco. Non è così.

“Le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sono documenti giuridicamente vincolanti. Usano quindi un linguaggio molto specifico. Se il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite “chiede” che venga fatto qualcosa, ciò non avrà conseguenze reali. La risoluzione sulla quale gli Stati Uniti si sono astenuti “non ‘invita’ Israele o Hamas a farlo; o quello – Chiede loro di fare qualcosa”.

La strategia a due facce dell’amministrazione Biden è caduta, come prevedibile, tra due sgabelli: Come dice Beinart, “non è così semplice”. Una risoluzione di facciata non risolverà il cambiamento strutturale in atto – Gaza sta forzando la questione. Gli ebrei americani che hanno dichiarato di essere sia progressisti che sionisti devono scegliere. E la loro scelta avrà enormi implicazioni elettorali in swing-states, come il Michigan, dove l’attivismo della sinistra americana potrebbe potenzialmente determinare l’esito delle Presidenziali.

La strategia delle Nazioni Unite di Biden probabilmente soddisferà pochi. I sionisti dell’establishment sono arrabbiati e la “sinistra” lo considererà un placebo. L’errata caratterizzazione “non vincolante”, tuttavia, farà infuriare gli altri membri del Consiglio di Sicurezza, che ora opteranno per risoluzioni ancora più dure.

Ancora più significativo, lo stratagemma ha mostrato a Netanyahu che Biden è debole. Lo scisma che si è aperto nel suo partito introduce una qualità di instabilità: il suo baricentro politico potrebbe spostarsi da una parte o dall’altra del partito, o addirittura servire a rafforzare i repubblicani che vedono la necessità di rispondere alle esigenze dei palestinesi attraverso gli “occhiali statunitensi”, equiparandolo alla loro politica identitaria.

Netanyahu (più di chiunque altro) sa come agitare le acque.

Anche lo stratagemma delle Nazioni Unite ha suscitato un’apparente tempesta di fuoco in Israele. Netanyahu ha reagito annullando la visita a Washington di una delegazione di alto livello per discutere i piani di Israele per Rafah. Ha detto che la risoluzione “dà ad Hamas la speranza che la pressione internazionale gli permetterà di ottenere un cessate il fuoco senza liberare i nostri ostaggi”: “La colpa è di Biden” è il messaggio.

Poi Israele ha richiamato la sua squadra di negoziazione degli ostaggi dal Qatar, mentre 10 giorni di colloqui erano arrivati a un vicolo cieco, innescando uno scambio di accuse tra Stati Uniti e Israele. L’ufficio di Netanyahu ha accusato l’intransigenza di Hamas innescata dalla risoluzione delle Nazioni Unite. Di nuovo il messaggio: “I colloqui sugli ostaggi sono falliti; La colpa è di Biden’.

La Casa Bianca, secondo quanto riferito, vede la “tempesta di fuoco” piuttosto come una crisi in gran parte creata ad arte, sfruttata dal premier israeliano per la sua guerra alla Casa Bianca di Biden. Su questo il “Team” ha ragione (anche se c’è vera rabbia nella destra israeliana per la risoluzione che è vista come un tentativo di compiacere i “progressisti” (“Biden è da biasimare”).

Chiaramente, le relazioni stanno peggiorando: l’amministrazione Biden è alla disperata ricerca del rilascio degli ostaggi e del cessate il fuoco. Tutta la loro strategia dipende da questo. E le prospettive rielettorali di Biden dipendono da questo. Sarà consapevole che decine di migliaia di palestinesi a Gaza probabilmente moriranno di fame molto presto. E il mondo guarderà, ogni giorno, ogni notte, sui social media.

Biden è furioso. Dal punto di vista elettorale le cose non stanno andando bene per lui. Lo sa e sospetta che Netanyahu stia deliberatamente attaccando briga con lui.

Giusto per essere chiari: la domanda chiave è, chi sta leggendo correttamente la “conformazione politica del territorio” qui? Netanyahu ha molti detrattori – sia in patria che nel Partito Democratico degli Stati Uniti – ma durante i suoi 17 anni complessivi al potere, la sua sensibilità intuitiva per i cambiamenti all’interno della scena politica statunitense, il suo tocco di pubbliche relazioni e il suo senso dei sentimenti degli elettori israeliani, non sono mai stati stato in dubbio.

Biden vuole che Netanyahu sia rimosso dalla leadership. Questo è chiaro; ma a che scopo? La Casa Bianca sembra avere grandi difficoltà ad assimilare la realtà che, se Netanyahu se ne andasse, le politiche israeliane rimarrebbero in gran parte inalterate. Su questo punto i sondaggi sono inequivocabili.

L’irascibile e frustrato presidente della Casa Bianca potrebbe trovare in Gantz un interlocutore più morbido e disponibile, ma allora? Come potrebbe essere utile? La rotta di Israele è determinata da un enorme cambiamento nell’opinione pubblica israeliana. E non c’è alcuna “soluzione” pratica evidente per Gaza.

E forse Biden ha ragione nel dire che il battibecco di Netanyahu è artificioso. Come sostiene il principale commentatore israeliano Ben Caspit:

“Negli anni ’90, dopo i primi incontri di un giovane Netanyahu con il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, Clinton espresse sorpresa per l’arroganza di Netanyahu. Le relazioni con Clinton finirono male. Netanyahu perse le elezioni del 1999 e lo attribuì all’ingerenza USA.

“Quando Netanyahu è tornato al potere nel 2009, ha affrontato un altro presidente democratico, Barack Obama. Avendo imparato la lezione con Clinton, che era popolare tra il pubblico israeliano, Netanyahu ha trasformato il presidente americano in un sacco da boxe all’interno di Israele.

“Ogni volta che Netanyahu si bloccava nei sondaggi, iniziava uno scontro con Obama e risaliva”, ha detto una fonte che ha lavorato con Netanyahu in quegli anni, parlando a condizione di anonimato. È riuscito a convincere il pubblico che Obama odia Israele e a posizionarsi come l’unico in grado di tenergli testa”.

Il punto qui è che la sfida di Netanyahu a Biden potrebbe servire ad un altro scopo. In parole povere, le “soluzioni” del Team Biden per Gaza e la Palestina sono impraticabili – in termini di sentimenti israeliani di oggi. Venticinque anni fa, forse? Ma poi, la politica prevalente degli Stati Uniti di “rendere Israele sicuro” ha sventrato tutte le soluzioni politiche, compresa la creazione di due Stati.

Netanyahu promette (ancora) la “vittoria totale” di Israele su Hamas, anche se sa che sottomettere completamente il gruppo è impossibile. La soluzione di Netanyahu per uscire da questo paradosso è quindi “incolpare Biden” per aver impedito la vittoria di Israele su Hamas.

Senza mezzi termini, non esiste una soluzione militare facile per Hamas – non esiste affatto. Le storie israeliane sullo smantellamento di 19 battaglioni di Hamas a Gaza sono solo pubbliche relazioni che vengono date in pasto alla Casa Bianca che, a quanto pare, si fida della parola di Israele.

Netanyahu probabilmente sa che Gaza diventerà un’insurrezione incessante – e darà la colpa a Biden, che è già considerato il “sacco da boxe” per aver tentato di imporre uno Stato palestinese a un Israele riluttante.

Allo stesso modo, la Casa Bianca sembra aver interpretato male il “terreno” rispetto all’accordo sugli ostaggi, immaginando che Hamas non fosse serio nelle sue richieste. Quindi non ci sono stati negoziati seri; ma piuttosto, gli Stati Uniti hanno fatto affidamento sulle pressioni – utilizzando gli alleati per esercitare pressione e minacciare Hamas al compromesso attraverso il Qatar, l’Egitto e altri Stati arabi – invece di rispondere alle richieste di Hamas.

Ma la pressione diplomatica, com’era prevedibile, non è stata sufficiente. Ciò non ha cambiato le posizioni fondamentali di Hamas.

“Siamo drammaticamente bloccati. Non è una cosa da poco. C’è un divario sostanziale. Possiamo giocare a scaricabarile, ma questo non riporterà indietro gli ostaggi. Se vogliamo un accordo, dobbiamo riconoscere la realtà”, ha dichiarato un funzionario israeliano, dopo il ritorno di Barnea e del suo team da Doha a mani vuote.

Avendo una certa esperienza diretta di questi negoziati, immagino che Netanyahu sappia che non sopravviverebbe politicamente al vero prezzo che dovrebbe pagare (in termini di rilascio dei prigionieri) per ottenere un accordo.

Quindi, in breve, lo scontro architettato con Biden sul “non voto” alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza potrebbe essere visto più come una gestione da parte di Netanyahu delle irrealistiche (dal suo punto di vista) prescrizioni politiche di Biden, tratte da una realtà separata dall’odierna frenesia apocalittica israeliana della “Nakba”.

Nel frattempo, Netanyahu radunerà le sue “truppe”. Verranno esercitate pressioni dirette sulle potentissime strutture politiche filo-sioniste statunitensi, che – insieme alle pressioni autogenerate dai repubblicani e dai leader istituzionali democratici filo-sionisti – potrebbero riuscire a contenere il timbro crescente dei progressisti.

O almeno, queste pressioni potrebbero creare un contrappeso per costringere Biden a sostenere silenziosamente Israele (continuando ad armarlo) e anche ad abbracciare pubblicamente l’allargamento della guerra di Netanyahu come unico modo per ripristinare la deterrenza israeliana, dato che sa che le operazioni militari a Gaza non contribuiranno a ripristinare la deterrenza, né a portargli una “vittoria” israeliana.

A dire il vero, “Biden” si è messo in un angolo abbracciando una “barra politica” obsoleta di fronte a un panorama israeliano e regionale in rapida evoluzione, non più suscettibile di tali irrilevanze.

D’altra parte, Netanyahu sta giocando molto sul futuro di Israele (e degli Stati Uniti) e potrebbe perdere.

(Traduzione de l’AntiDiplomatico)

 

 

 

Pagare le tasse in base alla ricchezza

 

di Michele Blanco*

Le disuguaglianze aumentano, inesorabilmente dal 2020: cinque uomini, Elon Musk, Bernard Arnault, Jeff Bezos, Larry Ellison e Warren Buffett, hanno più che raddoppiato il loro patrimonio, da 405 a 869 miliardi di dollari. Se facciamo un rapido calcolo, hanno guadagnato circa 14 milioni l’ora. Allo stesso tempo i 5 miliardi di persone povere sono rimaste lì dov’erano, nella stessa identica povertà, se non aumentata. Questo è quanto emerge dal rapporto Oxfam “Disuguaglianza: il potere al servizio di pochi”. In questo contesto il sistema democratico erge questi personaggi a esempi da seguire per arrivare al successo personale, mentre chi è povero viene considerato un fallito, nullafacente e un peso per la società. Negli Stati cosiddetti “canaglia” gente come questa è “oligarca”, mentre da noi sono considerati “imprenditori di successo”: fa niente se non pagano mezzo centesimo di tasse in proporzione ai loro veri e propri “furti finanziari”.

 Infatti chi è ricco non paga le tasse, l’1% della popolazione più ricco paga sempre meno tasse. Le imposte sono diventate regressive per i più abbienti mentre i redditi per la stragrande maggioranza della popolazione italiana continuano a diminuire. Le disuguaglianze fiscali sono in aumento con i ricchi che in proporzione pagano meno tasse di chi fa fatica ad arrivare a fine mese – 5% degli italiani più abbienti pagano un’aliquota inferiore al 95% di tutti gli altri contribuenti.

Le persone con redditi medio-bassi si impoveriscono ma per i ricchi l’attuale momento storico è sempre radioso e sempre più lo sarà, e lo conferma uno studio serissimo congiunto di Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e Università di Milano-Bicocca, pubblicato dalla rivista scientifica Journal of the European Economic Association.

 Il sistema fiscale italiano appare solo “blandamente progressivo” e, come sottolinea questo studio, “diventa addirittura regressivo”. Lo studio ha confermato – come si sospettava da tempo – che esistono importanti differenze in relazione alla tipologia di reddito prevalente: sono i lavoratori dipendenti a pagare più imposte, seguìti dai lavoratori autonomi, dai pensionati e, infine, da chi percepisce soprattutto rendite finanziarie e locazioni immobiliari.

 Lo studio, fatto con grande serietà e disamina di dati pluriennali, stima che dal 2004 al 2015, mentre il reddito nazionale reale si riduceva del 15%, il 50% più povero degli italiani subiva la maggiore perdita con un calo di reddito di circa il 30%. All’interno del 50% più povero, ad essere più colpiti sono stati i giovani tra i 18 e i 35 anni, che hanno perso circa il 42% del loro reddito. La disuguaglianza di genere risulta significativa per ogni classe di reddito e raggiunge valori estremi nell’1% più ricco della distribuzione, dove “le donne guadagnano circa la metà degli uomini”.

 Lo studio della Scuola Superiore Sant’Anna e dell’Università Bicocca mostra che il 50% più povero degli italiani maggiorenni detiene meno del 17% del reddito nazionale e vive con meno di 13mila euro all’anno. Invece, sottolinea Elisa Palagi, autrice dello studio e ricercatrice di Economia alla Scuola Superiore Sant’Anna “l’1% più ricco del Paese detiene circa il 12% del reddito nazionale, cioè una media di 310mila euro all’anno, ottenuti soprattutto da redditi finanziari, profitti societari e redditi da lavoro autonomo, in gran parte derivante dal ruolo di amministratori societari. Solo una ridottissima parte dei redditi dei più ricchi è ottenuta grazie ai redditi da lavoro dipendente. In particolare, i 50mila italiani che compongono lo 0.1% più ricco del Paese detengono il 4.5% del reddito nazionale con entrate medie superiori al milione di euro annuo, cifra che potrebbe essere raggiunta dal 50% più povero soltanto risparmiando l’intero reddito per 76 anni.

L’elemento più preoccupante riguarda il fatto che i ricchi non pagano le tasse come dovrebbero. La minore incidenza fiscale per i redditi più elevati è spiegata principalmente da fattori come l’effettiva regressività dell’IVA (che grava meno sui cittadini abbienti che risparmiano di più; dal minor peso dei contributi sociali per i redditi superiori ai 100mila euro; dalla maggiore rilevanza per i contribuenti più ricchi delle rendite finanziarie e dei redditi da locazioni immobiliari, tassati con un’aliquota del 12% o del 26%. Lo studio ha messo in luce “la necessità di avviare una profonda e seria discussione sullo stato attuale dell’iniquo sistema fiscale italiano. L’evidenza di una regressività che favorisce solo le fasce di reddito più elevate sottolinea l’urgenza di riforme mirate che non penalizzino i redditi più bassi, ma mirino a correggere gli squilibri presenti riducendo le disuguaglianze e promuovendo una distribuzione del carico fiscale in modo proporzionato”. Ma tutto quanto viene proposto al dibattito attuale, la flat tax e la riduzione delle aliquote vanno nella direzione diametralmente opposta.

Secondo l’ex Segretario al Lavoro americano Robert Reich durante la presidenza Clinton, la disuguaglianza, anche quella che si sta affermando nel nostro Paese, si è imposta con tale forza da far vacillare crescita economica e democrazia. Esistono collegamenti tra povertà e prosperità, esigenze di sviluppo e politiche sociali e si impone un ragionamento sulle regole del gioco, la governance economica e una emergente tendenza che il rapporto analizza con metodo, ovvero l’incontrollata espansione del settore finanziario, anche nella arena della agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

Cosa fare per contrastare la disuguaglianza? Diversi studi realizzati negli ultimi anni ritengono indispensabili alcune caratteristiche: fondamentale sarebbe un sistema fortemente progressivo per il pagamento delle tasse, con una tassazione più gravosa per le rendite finanziarie in modo tale da dare una spinta all’economia reale; importanti per una effettiva riduzione delle diseguaglianze sono misure come il miglioramento nell’accesso all’istruzione con un incremento nell’offerta di servizi pubblici e l’adozione di un salario minimo garantito. Come si vede si tratta di strumenti che richiedono un deciso intervento pubblico, spesso non gradito a chi detiene il potere economico finanziario (e la ricchezza) e difficile da attuare in un contesto di scarsità di risorse pubbliche e di limitazioni poste alla spesa pubblica.

Il World Social Report di UNDESA sottolinea in particolare come l’accesso universale all’istruzione sia la vera chiave per prevenire e contrastare le disuguaglianze. Tuttavia, occorre che il sistema educativo sia davvero accessibile a tutti altrimenti il rischio è di esacerbare le disuguaglianze. È impor tante agire su tutte le forme di disuguaglianza, non solo quella economica: tutte le forme di discriminazione che ostacolano la partecipazione sociale ed economica dei gruppi svantaggiati – donne, disabili, minoranze etniche – devono essere rimosse. Sono tutti processi a lungo termine, ma non c’è altra strada se si vogliono ridurre le disuguaglianze ed evitare che le conseguenze generino crescenti conflitti sociali.

In Europa, i Paesi con la ricchezza più equi-distribuita sono i paesi scandinavi, la Germania e addirittura alcuni paesi dell’est (Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca), con un indice di Gini compreso tra lo 0,25 e lo 0,30. La forza dell’economia tedesca e il sistema di welfare in vigore nei paesi nordici sono i fattori determinanti dell’equa ridistribuzione del reddito. Nel resto del mondo, l’unica “grande potenza” ad avere un indice di concentrazione così basso è il Giappone. In Italia negli ultimi venti anni, l’indice di Gini ha toccato il suo punto più basso nel 2001, quando era a 0,29, indice di una società più egualitaria. Da allora ha continuato a salire, seppur con fasi alterne, fino allo 0,331 del 2016, dato più alto degli ultimi venti anni.

In conclusione, lo studio ha messo in luce la necessità di avviare una profonda e seria discussione sullo stato attuale dell’iniquo sistema fiscale italiano e la necessità di una riforma in chiave più inclusiva, capace di sostenere una crescita economica sostenibile. Cosa aspettiamo a provare ad invertire questa preoccupante tendenza?

*Articolo già pubblicato su “La Fonte periodico dei terremotati o di resistenza umana”, aprile 2024, Anno 21, n. 4, pp. 18-19.