Da “Elogio della passione”

di Carlotta Clerici

25 agosto – Traversata notturna

Alle volte la vita fa le cose per bene. Basta non forzarla e rimanere all’erta. Quella sera, con Pierre e Alice, eravamo andati a cena in un rifugio arroccato sulla montagna, un posto sorprendente che adoravo sin dall’infanzia e che piaceva molto anche a mio marito. Mezz’ora di auto, poi mezz’ora a piedi nei boschi. Una vista mozzafiato sui tre rami del lago, compreso l’essenziale: lo studio. Alla baita avevamo incontrato i Bondelli – marito, moglie e tre ragazzini scatenati – che avevano deciso, per completare l’avventura, di dormire lì, c’erano alcune camere a disposizione dei clienti. Alice, ispirata, chiese di poter restare: «Per favore mamma, papà, dev’essere magnifico! Mario mi ha detto che di notte vengono a bussare gli orsi». Pierre accolse la richiesta con entusiasmo. Io avevo troppo mal di schiena per dormire in un letto non mio e ultimamente soffrivo spesso di insonnia, proprio non potevo, sarei tornata a prenderli la mattina dopo. «Per la prima colazione!». Mi scaraventai giù per il sentiero che scendeva ripido tra i pini, poi guidai a tutta velocità, concentrata, fino a casa, mandai un sms, arrivo, mi sciolsi leggendo la risposta immediata, ma come hai fatto? sei meravigliosa…, mi lanciai sotto la doccia, mi pettinai e truccai, via i jeans e le mutande di cotone, infilai biancheria di pizzo e un vestito in crêpe di seta celeste che, più che vestirmi, mi denudava e mi precipitai verso la darsena.

La barca non c’era.

Fissavo l’acqua, inebetita. Non era possibile. Non era semplicemente possibile.

«Pierre! Stavi già dormendo? Scusami… e Alice? Tutto bene. Ascolta… è scomparsa la barca. Ah, l’hai prestata ad Antonello. Per andare a pescare di notte. Certo che hai fatto bene. Come? Ma no, non volevo prendere la barca a quest’ora, figurati, è solo… ho fatto un giro in giardino, ho visto che non c’era e mi sono domandata… No, no, hai fatto benissimo. E… quando ce la riporta? Domani a mezzogiorno? Perfetto! In tempo per andare tutti insieme a fare il bagno».

Imbecille.

Erano le undici passate. L’ultimo traghetto si accostava alla riva di fronte sotto i miei occhi pieni di lacrime. Avevo davanti a me una notte intera e la distesa calma e silenziosa del lago. Stavo lì in piedi in fondo alla scalinata di pietra. L’acqua mi accarezzava le caviglie e sembrava tiepida, nel fresco della sera. Avanzai di un passo scivolando nel lago fino ai polpacci, poi alle cosce, la seta incollata alla pelle. La luce della casa di Francesco tremolava nel buio davanti a me come una promessa. L’acqua era densa, mi avvolgeva dolcemente fino al ventre, poi fino al seno. D’un tratto sentii il cuore battere di eccitazione. Mi sfilai il vestito, lo gettai sui gradini e, dandomi un po’ di slancio, mi abbandonai all’acqua come in una vertigine. E mi misi a nuotare.

Avanzavo piano nella baia allontanandomi sempre di più dalla riva, dalle case, dalle luci, verso il largo. Euforica. La notte era silenziosa, sentivo soltanto lo sciabordio provocato dalle mie bracciate. Avanzavo tranquilla nell’acqua nera e spessa che ogni mio movimento trasformava in schiuma iridescente sotto i raggi della luna piena. Dieci, quindici minuti, mezz’ora… Le forze scemavano, ma ero fiduciosa, sapevo di poterne ancora attingere dentro di me. Certo, c’era il rischio che una barca non mi vedesse – puntino scuro nell’oscurità – e mi investisse, mi maciullasse. Un pericolo mortale, ma quante erano le probabilità che la traiettoria di una delle rarissime imbarcazioni notturne incrociasse la mia? Una su mille e non c’è vita senza rischio, non c’è vera bellezza senza pericolo. Mi sarei comunque perduta. Tra le braccia di Francesco o in fondo al lago. Non importa. Mi allontanavo da tutto, affondavo sotto la superficie, svanivo nell’abbraccio dell’acqua, mostro lacustre o pesce o sirena, ormai ero una cosa sola con quel lago scuro e vivo, ero libera, in comunione con l’universo. D’un tratto mi sembrava tutto così semplice, e la frontiera che separa la vita dalla morte e la terra dal cielo così sottile. Stavo per scoprire il mistero dell’esistenza, sarebbe bastato allungare la mano per afferrare la risposta.

Francesco mi aveva visto a un centinaio di metri dalla riva. Aveva scorto «una forma che si muoveva nell’acqua e si dirigeva verso lo studio» e pur credendosi vittima di un’allucinazione non aveva tardato a capire. Si era precipitato sul pontile e tuffato nell’acqua vestito per venirmi incontro, nuotando con tutte le sue forze.

«Sei matta!».

Ridevo. Ce l’avevo fatta, ero con lui.

«Stai bene? Ce la fai?» e con un braccio mi aveva cinto la vita, per sorreggermi.

«Sto bene, benissimo, non preoccuparti!».

«Sei matta…».

«Non avevo la barca».

E ci eravamo baciati, senza fiato, ancora al largo, soli in mezzo al lago deserto, nel bagliore opalescente della luna, ci baciavamo e ridevamo e nuotavamo verso lo studio che scintillava sulla riva.

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Carlotta Clerici, originaria di Como, vive a Parigi. Regista e autrice, ha messo
in scena e pubblicato una decina di testi teatrali, tutti scritti in francese, uno dei
quali, Ce soir j’ovule del 2010 (presentato in Italia con il titolo Stasera ovulo),
continua ad avere una circolazione internazionale. Uscito in Francia nel 2017,
Elogio della passione (Ventanas 2023) è il suo primo romanzo.

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“Da “Elogio della passione”” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

instamatic

di Mia Lecomte

Hay un tigre en la casa
que desgarra por dentro al que lo mira

(Eduardo Lizalde)

Numero nascosto, privato. Ma si può fare? Lo sapevo appannaggio di certe istituzioni. Un lusso del potere, insomma, qualcuno se lo può permettere. L’hanno fatto, ora. Ma chi, e perché?

Cerco con angoscia la risposta sulla faccia di questi due. Un uomo e una donna, a una prima occhiata totalmente sconosciuti. Me l’avranno mandata personalmente, la fotografia? Insieme, o uno solo di loro? Il fatto di non riconoscerli subito mi inquieta. Ma il peggio sta alle loro spalle: posano davanti alla casa dove sono nata e ho trascorso parte dell’infanzia. Casa mia, la prima. Da molti anni non sono più passata di lì, mi sono trasferita altrove. Ormai esiste solo nella distorsione del ricordo e in sogni ricorrenti, con orchi e assassini ad attendermi negli angoli più bui e la tavola da pranzo sempre apparecchiata.

Solo una fotografia, senza commenti, una firma. Tramite cellulare, messaggio con numero criptato. Una fotografia con due estranei mano nella mano, gli occhi fissi all’obbiettivo, l’espressione provocatoriamente neutra. E sullo sfondo, quella mia prima casa. Un piccolo condominio da cui il mattino uscivo assonnata nella nebbia: le scarpette tra le foglie sfatte, il montgomery aperto sul grembiulino bianco, l’incarto traslucido della focaccia nella tasca esterna della cartella. La casa dei primi Natali e del barboncino nero.

E questi due piazzati proprio fuori dal portone, nel mezzo. Piuttosto bassi, entrambi, la mezza età superata da poco.  Aspetto e abiti anonimi. Mi guardano insistentemente, mano nella mano, e non riesco a ricordare chi siano. Cosa stanno cercando di dirmi, cosa vogliono da me? Avverto solo la violenza del loro stare lì, insieme, la minaccia.

Uscendo dal cinema mi annodo la sciarpa e mi incammino verso la stazione della metropolitana più vicina. Infilo la mano in borsa per cercare il portamonete e un foglietto cade in terra. Mi piego a raccoglierlo.

Eccoli lì, ancora. Mi sollevo piano, con la fotografia tra il pollice e l’indice, la mano che mi trema. Sempre loro, vestiti allo stesso modo. Stavolta lui la tiene per la vita, lei gli poggia un braccio sulla spalla. Entrambi insistono a fissarmi.

La casa alle loro spalle però non è più la stessa. Non più la mia prima casa, stavolta hanno scelto quella dei miei nonni materni, in campagna. La casa dei raduni di famiglia e delle vacanze. C’è il piazzale con la ghiaia, tigli e castagni attorno, lo scalone che sale all’entrata principale. Loro due siedono in cima, su uno degli ultimi gradini. La stessa vacua intensità dello sguardo. Qualcuno mi deve avere infilato la fotografia in borsa durante la proiezione, oppure mentre entravo o uscivo dalla sala. Mi avvicino a una vetrina illuminata per osservare meglio i dettagli. Appoggiato accanto all’ingresso, c’è perfino il bastone che imbracciavo per andare a funghi con mia nonna. Chissà se lo sanno, questi due, che la nonna la mattina mi portava con sé a cercare funghi nel bosco. Se sanno delle partite a carte, delle canzoni e del minestrone.

Imperscrutabili, due sconosciuti, a quanto pare, tenacemente avvinti da un gioco che mi sfugge. Più mi guardano, più mi sento in pericolo. La mano di lui poggiata sul gradino di pietra è piccola, delicata. Al polso langue un vecchio orologio con il cinturino troppo largo, inabile al tempo. Lei è magrissima, il braccio sollevato evidenzia la gabbia friabile del petto, l’uccellino impagliato che vi è rinchiuso.

Non mi ero mai sentita realmente a mio agio in quel suo appartamento da scapolo seriale, la tela di un ragno bulimico intrappolato assieme alle sue vittime. Tutto pretendeva di essere lì in mio onore: il nudo a carboncino che lui diceva di aver comprato pensando a me, i fiori sulla cassettiera in camera, l’amaca nella terrazza. Ma c’era soprattutto la sua solitudine, palpabile, ad aspettarmi, e ugualmente, ovunque la mia assoluta estraneità. Come se fossi capitata sul set cinematografico sbagliato: Pinocchio tra i dinosauri di Jurassic Park, o viceversa un tirannosauro nel paese dei balocchi.

Chissà perché questi due ora hanno scelto proprio di piazzarsi nell’atrio di quella mia telenovela datata, accanto alla guardiola inutilizzata del custode, la porticina sghemba e polverosa.

Mi raggiungono dal volantino agganciato al tergicristallo della macchina che ho appena posteggiato fuori dalla farmacia. Di colpo sento freddo, salgo in macchina e richiudo la portiera. Appiano sul cruscotto il volantino recuperato, passo e ripasso il palmo della mano destra.

Se ne stanno lì in piedi, sempre nel mezzo, abbracciati, la faccia rivolta verso di me. Anonimi e solidali: l’accoppiata in vetta alla torta nuziale, vorticante nello scrigno carillon. Gli occhi a me, sempre a me.

Ho molto amato l’uomo che viveva nell’edificio in cui si sono introdotti, malgrado tutto, ancora mi capita di piangerlo. Qual è il legame con questi due, supposto che ce ne debba essere uno? Con che criterio scelgono i luoghi da cui affrontarmi? Ricordassi almeno qualche cosa di loro.  Ma forse quel che più conta qui è la parte, il ruolo a cui, come coppia, sembrano condannati: prigionieri dello zucchero glassato, nel loop del carillon. Con quello sguardo così osceno. E insieme straziante, il guaito di due cani tutt’occhi. Come posso placare il loro desiderio, alleviare tutta questa pena? Cosa posso, così spaventata che sono, se continuano a spaventarmi? Mi guardano, mi guardano. Mi gridano senza pace, all’unisono, dell’intimità violata. La mia e la loro.

Quando anni fa mi sono trasferita all’estero, avrebbe dovuto essere per qualche mese soltanto. Come spesso accade, non sono più rientrata. Nel frattempo, là da dove venivo è cambiata ogni cosa, la morte ha fatto visita a tutti quelli che più soffrivano la mia mancanza. Mi ha preceduta, come il lupo nel letto della nonna di Cappuccetto, e ora ad attendermi rimane solo un vuoto troppo grande – che orecchie, che occhi, che bocca… – malamente camuffato. Qui, intanto, mi sono fatta una vita. Si dice proprio così, come se ci fosse concesso fare altro.

Sul lungofiume, rientrando a casa, mi ritrovo a contare i corvi e i gabbiani fermi sulla spalletta. Ogni tanto mi fermo per approfondire la conoscenza di qualcuno meno pauroso. Inclina la testina, le penne in un’armatura vibrante, volta di scatto il becco verso il vento, l’acqua increspata dalla corrente. Gli alberi sono ormai quasi completamente spogli, posso seguire il corso del fiume fino al ponte di ferro all’orizzonte. Passato il mio portone, la luce gialla delle ultime foglie d’autunno è risucchiata dall’ombra. Un attimo di nero abbaglio e mi dirigo alla cassetta della posta. È un rito che ripeto ossessivamente ogni volta che rientro a casa, più volte al giorno, domeniche comprese. Ormai per posta ricevo solo quello che io stessa ordino in rete, pubblicità, qualche conto, ma mi è rimasta l’abitudine di quando, perennemente in attesa, correvo giorno e notte a controllare se il miracolo fosse avvenuto.

La chiavetta della posta per qualche motivo non funziona, gira a vuoto. Dallo spiraglio della buca intravedo qualcosa, cerco di arrivarci con la punta dei polpastrelli. Insisto, spingo, schiaccio le dita, incurante del dolore provo a distenderle, a fare presa con le unghie. Riesco ad agganciarlo. Esce strappato, un’orecchia piegata. A rovescio, l’immagine sull’altro lato del foglio. Lo giro con un gesto brusco, di scatto, per abbreviare il batticuore sfidando con finta sicurezza l’esito annunciato.

E subito confermato. Mi guardano. Nella mia cucina attuale, qui al terzo piano. Lei siede al mio posto, capotavola, di spalle alla finestra. Lui è in piedi accanto alla macchina del caffè, due tazzine pronte. Mi guardano. La luce dalla finestra si riversa sul tavolo bianco, le sedie di vimini, il pavimento a scacchiera. Irraggia i capelli di lei in un’aureola ambrata e riverbera sul vetro dell’orologio di lui, sui due cucchiaini argentati, il mestolo appeso al gancio, la maniglia del frigorifero. Un ordinario quadretto coniugale, cui la luce regala una pace pittorica.

Non so cosa fare. Se salire, rischiando di incontrarli. Oppure aspettare. O andarmene. Intanto, entro nel cortile e provo a sbirciare la mia finestra. Nessuna sagoma dietro il vetro, non giunge suono. Ma ora potrebbero essere passati in un’altra stanza. In bagno, una volta bevuto il caffè, o in camera da letto: fanno la doccia, si lavano i denti, si infilano sotto le coperte, spengono l’abat-jour, nel buio si girano, sbadigliano.  A me gli occhi, gli occhi sempre e comunque a me.

Cosa succederebbe se salissi e ci ritrovassimo realmente insieme? Aggiungerebbero una tazzina del caffè? Schiacceremmo a turno il tubetto del dentifricio, ci passeremmo il sapone? Mi sdraierei nel letto, tra loro, giusto il tempo di riaccendere qualcosa di perduto, per poi sporgermi a contemplare il fiume dalla finestra aperta del salotto, lontana dai sospiri?

Tutto è possibile. Molto più tragico, o molto meno. Anche niente. In ogni caso, sosterrebbero lo sguardo, se veramente ci guardassimo, se li potessi guardare davvero anch’io?

D’un tratto qualcuno dell’appartamento al primo piano apre la finestra per bagnare le piante. L’acqua comincia a sgocciolarmi sulla testa e mi sposto di nuovo nell’androne. Prima di rimettere il foglio al suo posto, rinfilarlo nella cassetta dove l’ho trovato, gli do un’ultima occhiata.

La coppia occupa la mia cucina di luce come una roccaforte, le quattro manine all’erta, pronte a difenderla senza alcuna pietà. Ma io non sono all’altezza di queste sfide, non lo sono mai stata. Sono solo capace di partire. Ripercorro in una carezza lenta la radio sul carrello turchese, accanto al quadernino delle ricette di famiglia, copiate da mia madre lungo gli anni. Il tostapane, e il bollitore, e la piantina di basilico. Lascio tutto quello che potrei ancora credere mio, compreso questi due.

Il portone si chiude, scatta alle mie spalle senza che l’immagine abbia il tempo di fissarsi in alcunché.

*

Mia Lecomte è autrice di poesia e narrativa, traduttrice e saggista. Nata a Milano da padre francese e madre italiana, ha trascorso gran parte dell’infanzia e dell’adolescenza in Svizzera. Si occupa di letteratura transnazionale italofona, in particolare di poesia, alla quale ha dedicato il volume Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona, 1960-2016 (Cesati 2018). Tra i volumi in versi ricordiamo Lettere da dove (Interno poesia 2022), con una nota di Ugo Fracassa, e Al museo delle relazioni interrotte (LietoColle 2016), con una postfazione di Carlo Bordini. Tra le sue traduzioni verso l’italiano: Jean-Charles Vegliante, Rauco in noi un linguaggio (Interno Poesia 2021). Il racconto “instamatic” fa parte di una raccolta inedita intitolata Diario sentimentale di una bambola gonfiabile e altri racconti. 

 

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“instamatic” è stato scritto da renata morresi e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Mozione del Senato accademico della Scuola Normale Superiore del 26 marzo 2024

Pubblichiamo il testo integrale approvato dalle componenti della Scuola Normale nella seduta dell’altro ieri, martedì 26 marzo 2024.

PISA, 28 marzo 2024. La Scuola Normale Superiore, richiamando integralmente i contenuti della mozione approvata dal Senato Accademico il 28 novembre 2023, rinnova con forza, anche alla luce della risoluzione ONU del 25 marzo 2024, la richiesta di rilascio degli ostaggi e di un immediato cessate il fuoco nella striscia di Gaza al fine di scongiurare l’ulteriore aggravarsi di una situazione umanitaria ormai disperata, che si configura ogni giorno di più come un’inaccettabile forma di punizione collettiva della popolazione palestinese.

A seguito di quella mozione, e in linea con il suo impegno consolidato nella rete “Scholars At Risk”, la Scuola ha deciso, come prima concreta manifestazione di solidarietà e per favorire il dialogo in Medio Oriente, di bandire due assegni di ricerca su tematiche relative allo studio del contesto e del conflitto di Israele e Palestina, indirizzati particolarmente a studiose e studiosi palestinesi e israeliane/i a rischio di incolumità fisica o che vedono compromessa la propria libertà accademica.

Oggi, in circostanze di eccezionale e crescente gravità, la Scuola Normale Superiore ritiene di essere chiamata, insieme a tutta la comunità scientifica internazionale, non solo ad attestare concretamente la propria solidarietà, ma anche a riflettere criticamente ad ampio raggio sulle ramificazioni del proprio lavoro.

A tal fine la Scuola Normale:

  1. afferma la necessità di ispirare le attività di ricerca e di insegnamento al rispetto dell’art. 11 della Costituzione della Repubblica Italiana, che prescrive il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali;
  2. si impegna, in coerenza con il dettato costituzionale, a esercitare la massima cautela e diligenza nel valutare accordi istituzionali e proposte di collaborazione scientifica che possano attenere allo sviluppo di tecnologie utilizzabili per scopi militari e alla messa in atto di forme di oppressione, discriminazione o aggressione a danno della popolazione civile, come avviene in questo momento nella striscia di Gaza;
  3. avvia le procedure per assicurare che tali principi abbiano piena espressione nei regolamenti della Scuola, integrandoli o modificandoli ove necessario;
  4. chiede al MAECI e al MUR di assicurare alla comunità scientifica che tutti i bandi e i progetti da essi promossi per favorire la cooperazione industriale, scientifica e tecnologica con altri stati rispettino rigorosamente i principi costituzionali, con particolare riferimento all’art. 11;
  5. chiede al MAECI, alla luce dei principi sopra richiamati, di riconsiderare il “Bando Scientifico 2024” emesso il 21 novembre 2023 in attuazione dell’Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica Italia-Israele.La Scuola Normale Superiore, inoltre:
  6. si impegna a promuovere il confronto e il dialogo tra tutte le componenti della sua comunità sugli sviluppi della situazione in Palestina chiedendo al Direttore di convocare entro la fine di aprile un’assemblea generale dedicata al tema e di favorire altre iniziative;
  7. conferisce al Direttore il mandato di farsi portavoce in ogni sede istituzionale, e in particolare presso il MUR, il MAECI e la CRUI, delle posizioni espresse nella presente mozione;
  8. dispone la pubblicazione del testo della mozione sul sito della Scuola nonché la sua diffusione attraverso gli altri canali mediatici della stessa.

(Fonte: https://normalenews.sns.it/mozione-del-senato-accademico-della-scuola-normale-superiore-del-26-marzo-2024)

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“Mozione del Senato accademico della Scuola Normale Superiore del 26 marzo 2024” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.

L’esplosione dei testi

Un viaggio incerto di Caroline Peyron e Il carosello delle ore di Marianna Iozzino in mostra alla Biblioteca Nazionale di Napoli

di Marco Viscardi

 

A sx, foto di Mariangela Levita; a dx, foto di Ferdinando Kaiser

 

La sintesi l’ha trovata uno dei visitatori delle mostre, che parlando con una delle due artiste le ha detto: hai liberato le figure. Stavano sul tuo taccuino e ora le hai dato una strada, uno spazio. Le hai fatte danzare. Forse era tutto un gioco di liberazione: davvero la partita era liberare figure e creature. Farle uscire dai libri, consentire loro di invadere spazi indifesi. Non stupisce che in una biblioteca ci siano ben due mostre ispirate ai libri, ma quello che colpisce è il carattere ‘eversivo’ delle due esibizioni. Così Carosello delle ore di Marianna Iozzino fa letteralmente esplodere il magnifico manoscritto del XI secolo delle Metamorfosi a cui si ispira, mentre da Un Viaggio Incerto di Caroline Peyron, inaugurata il giorno tradizionalmente indicato come quello dell’inizio del cammino dantesco, viene fuori da una lettura personalissima, intima della Commedia.

Si associa sempre Virgilio a Dante. Virgilio è il sapere, il dolcissimo padre, la guida umanissima e presente che arriva ai limiti dell’umano per poi sparire, dissolversi e tornare nelle regioni malinconiche del limbo. Virgilio è l’appoggio per sostenere la guerra | sì del cammino e sì della pietate | che ritrarrà la mente che non erra, come leggiamo nei primi versi del canto II dell’Inferno. ‘Cammino’ e ‘pietà’ sono parole profondamente virgiliane, fissano l’esistenza di Enea, la sua difficile missione, il suo sgomento di fronte alla violenza del mondo e delle cose. Violenza che a volte è giustificata dalla grande missione della fondazione di Roma. Quel fuoco finale che rischia di bruciare tutto. Eppure questo incontro di Dante e Ovidio esposti negli stessi spazi, sulle stesse severissime e lucide scansie della Biblioteca Nazionale, svela un aspetto della Commedia forse meno noto ai lettori. Ovidio è ovunque, ovunque sono le sue Metamorfosi, le sue trasformazioni, le sue ibridazioni e i suoi sogni.

L’ultima citazione letteraria di Dante, alle soglie della visione diretta di Dio, viene da Ovidio: Un punto solo m’è maggior letargo | che venticinque secoli a la ‘mpresa | che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

Lascio la spiegazione al più grande commentatore novecentesco del poema, Natalino Sapegno:

il poeta ha accennato all’impossibilità di esporre in modo chiaro e certo il contenuto della sua visione, perché la memoria umana, legata ai sensi, non è in grado di tener dietro al volo dell’intellezione pura; ora viene ad illuminare, di passaggio e rapidamente, la speciale qualità di questo oblio, non determinato, come solitamente accade, da lungo trascorrer di tempo, bensì dall’istantaneo contatto della mente con una realtà che infinitamente eccede le limitate forze dell’uomo: “un attimo solo (un punto) è cagione per me di più profonda, totale, dimenticanza, che non siano stati venticinque secoli per l’impresa degli Argonauti, quando l’ombra della prima nave che solcava le onde marine suscitò lo stupore di Nettuno”.

Il mondo fantastico di Ovidio dà a Dante le parole per fondere stupore e dimenticanza, meraviglia di fonte all’apparizione e dolore dell’oblio, della perdita, della difficoltà del dire.

Il lavoro di Caroline Peyron si intitola appunto Un Viaggio Incerto. Caroline è un’artista francese che vive a Napoli da decenni e che da sempre dialoga con la complessità sociale e intellettuale della città. Il punctum è quell’aggettivo: incerto. Per noi italiani, la Commedia rischia di diventare il testo meno avventuroso che possiamo incrociare. Perfetto e cristallizzato, è il racconto del viaggio dal male al bene, dal peccato alla salvezza, sono questioni capitali, ma che ci appassionano poco perché già sappiamo che finisce bene. Lo diciamo anche a scuola: si intitola Commedia perché inizia male e finisce bene. Ma i grandi lettori stranieri di questa impressionante poesia ci hanno restituito il senso avventuroso del poema, che tocca l’aspetto più incerto dell’esistenza. Quella dimensione da cui nessuno torna, quel confine che i nostri genitori, i nostri amici, i nostri legami attraversano ogni giorno e nel quale entreremo anche noi. In quella luce forse anche noi danzeremo.

 

Foto di Mariangela Levita

 

Passare dal male al bene, guardare tutto il male profondo, il dolore, la rabbia, la distruzione della persona e poi vederla lentamente ricomporre, tornare alla luce, riformarsi in una nuova compattezza, in una integrità che per noi, frammentari e narcisi, è impensabile. Questa forse è la Commedia che Caroline ha trasformato in forme di colore, in dischi che dal nero ostinato dell’abisso risalgono alla luce di puro oro del Paradiso. L’artista si è trovata senza Virgilio, la sua guida ha superato il confine, è passata dalla parte degli assenti, lasciando Caroline senza protezione.

 

Foto di Grazia Famiglietti

 

Quello che mi è piaciuto dei lavori di Un Viaggio Incerto è la rinuncia alla narrazione, il defilarsi dalla gloriosa tradizione di miniaturisti e degli illustratori, per seguire la strada meno segnata della visione, del diario fatto di linee e colori, sempre più accecanti, ma fra il nero dell’Inferno e l’oro trionfale del Paradiso c’è l’azzurro del Purgatorio. Per correr miglior acque….così inizia la cantica. È il regno della luce, ma non della luce divina che devasta, della luce del sole, del tremolare della marina, del cielo che si strugge nell’ora del desiderio e del tramonto. Una cantica marina, il Purgatorio è un’isola di riconciliazione, ci siamo tutti, qualcuno per poco, altri – e forse fra questi chi sta scrivendo ora – per un tempo più lungo. Riposa lo sguardo, guardando quei dischi, e tutto si riconcilia.

 

Foto di Grazia Famiglietti

 

I dischi, o lampi, con i quali Caroline Peyron, squaderna la Commedia non sono solo colore, ma su ognuno c’è un frammento di movimento. Corpi allungati e filiformi, essenze filanti, danzano in questi spazi e se nell’Inferno hanno la gravità del terreno, arrivati al Paradiso sono quasi linee, idee, accomodamento del gesto che li ha eseguiti, compiaciuta calma della fine.

 

Foto di Grazia Famiglietti

 

Anche noi che abbiamo assistito all’inaugurazione, siamo stati corpi fra i lavori di Caroline, anche noi ci siamo mossi fra i regni e le cantiche mentre attorno a noi si leggeva il capitolo di Se questo è un uomo in cui Primo Levi spiega, nell’orrore, il canto di Ulisse. Siamo stati parte della Commedia con la nostra incertezza.

 

Foto di Grazia Famiglietti

 

Da un altro luogo d’orrore, anche Mandel’stam leggeva Dante. In un passaggio della sua Conversazione leggiamo:

L’esempio è tratto dal sacco patriarcale della coscienza antica, per esservi poi rimesso dentro non appena non se ne ha più necessità. L’esperimento invece, estraendo dalla somma dell’esperienza questo o quel fatto a lui necessario, non lo restituisce poi come si fa con una lettera di credito, ma lo fa entrare in circolazione.

Caroline Peyron e Marianna Iozzino fanno esperimento dei loro testi, liberano le potenzialità, rompono la costrizione dello specchio di stampa. Quest’idea della liberazione me l’ha data un visitatore della mostra e tutte le foto che accompagnano questo testo vengono rigorosamente da visitatori a cui ho chiesto il permesso.

Il libro è il punto di partenza, ma l’oggetto – sia lo struggente manoscritto angioino che il rigoroso, ugonotto, volume della Pléiade Gallimard – è stato percorso e interiorizzato. Emoziona la copia della Commedia di Caroline che la serie delle letture hanno trasformato in libro d’artista, nel quale il disegno ha seguito il testo e occupato il bianco della pagina. Un bianco che per una volta non si è rivelato ostile ma accogliente e generoso.

 

Foto di Grazia Famiglietti

 

L’Ovidio napoletano di Marianna Iozzino si è messo in movimento, è stato appunto un carosello. Se nel Medioevo esistevano i devozionali libri delle ore, qui Marianna fa di Ovidio una bibbia laica che scandisce il corso del tempo aggiungendo dimensioni alla razionalità del quotidiano.

Marianna Iozzino è nata in Campania, ma cresciuta a Varese, anche il suo sguardo, in qualche modo, è sguardo dell’altro. La sua è una mostra felice, che mette gioia a chi la guarda: è Medioevo Fantastico rivisto, è gioco di figure araldiche che potrebbero petarci addosso, dall’alto della loro alta fantasia. Oppure indicarci la via dell’incubo, del cattivo ritorno.

È materia. Queste creature si accartocciano, si arricciano ai bordi, si muovono di una vita loro indipendentemente dalla vita di chi le ha create.

 

Foto di Ferdinando Kaiser

 

Nella grande sala del mappamondo, queste figure stanno in ironica immobilità, scartando di lato da un enorme quadro che sembra raffigurare solo la fantasia che esplode, l’assenza di confini, il gesto della creazione che non nasce dal niente, ma è il prodotto dell’arte personale, del cammino proprio di Marianna, delle sue abitudini e delle sue relazioni, ma allo stesso tempo ha alle spalle secoli di allucinazione e fiaba, di folklore e immaginazione.

Sono i marginalia, i sogni e i deliri dei miniaturisti che occupano tutto lo spazio, postillando un testo invisibile o forse inciso nella memoria. Ancora una volta lo spettatore partecipa al gioco dell’opera. Noi siamo movimento, metamorfosi, trasformazione. E lo spazio tradizionalmente chiuso della biblioteca si

apre al gioco delle trasformazioni e delle sperimentazioni.

 

Foto di Ferdinando Kaiser

Anche Marianna non abbocca all’amo della narrazione, del puntuale commento, dell’illustrazione, ma ingigantisce i mostri del margine, dà vita alle figure di contorno, agli abbellimenti, alle figure sinuose che perdono la loro aura aristocratica, il loro essere ornamento ad una dimensione, per farsi festa e pericolo, enigma e ghirigoro. Selva di figure ibride fra le quali resta l’inquietudine, il ricordo dell’oscuro.

Foto di Ferdinando Kaiser

Come per un Viaggio incerto, anche di questo Carosello delle ore vediamo il quaderno di lavoro: la serie dei bozzetti, lo scorrere dei primi tentativi che poi arrivano a una forma che eccelle, che non sta nella pagina, che è carta volante, foglio che come ho già detto prende vita.

Ed è incredibile la coerenza con la quale l’artista consente alle sue figure di occupare gli spazi del nostro quotidiano. Queste grottesche figure faranno compagnia ancora fino al 16 aprile al pubblico di lettori e studiosi che frequentano giorno dopo giorno le grandi sale della Biblioteca Nazionale.

Foto di Ferdinando Kaiser

Strappa da te la vanità ha scritto Ezra Pound in uno dei suoi versi più famosi. Strappare la vanità. Liberarsi del compiacimento e farsi da parte, cedere alla molteplicità senza dominarla. Ho avuto queste parole in testa mentre partecipavo alla mostra di Caroline e ho avuto la fortuna di vedere i lavori di Marianna. Ho pensato a Ezra Pound:

Ma avere fatto in luogo di non avere fatto
Questa non è vanità. Avere, con discrezione bussato,
Perché un Blunt aprisse
Aver raccolto dal vento una tradizione viva
O da un bell’occhio antico la fiamma inviolata
Questo non è vanità.

Aver raccolto dal vento una tradizione viva…questa mi sembra l’essenza delle due esposizioni, che sono anche due esplosioni. Questa la cifra che accomuna due lavori diversi di due diverse artiste che non hanno avuto paura a vivere nella traduzione, di guardare la fiamma viva degli ambigui occhi antichi.

Foto di Ferdinando Kaiser

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“L’esplosione dei testi” è stato scritto da ornella tajani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Materiali per un report (racconto di Palermo)

di Andrea Accardi

L’estraneo è arrivato al porto di prima mattina, in una luce già piena ma ancora mite, portando come un senso di cose ripetute negli anni senza venirne mai a capo. Da lì ha raggiunto a piedi un albergo vicino, dove senz’altro troverà saponette nuovissime e ancora incartate, che non danno l’impressione di un’intimità scabrosa come i saponi a metà nelle case degli altri. È uscito dalla mia visuale girando un isolato, simile a una vecchia contadina in un quadro che non ricordo più dove l’ho visto, lei appena fuori della porta di casa, pronta a girare sul retro del cortile che la casa mi nasconde, dove apparirà forse un pozzo, uno steccato, e poi più lontano una pianura ventosa e un cavallo che si dimena.

L’estraneo alloggia da ieri in una palazzina moderna che si affaccia su una piazza vuota. Dovrà prendere confidenza con i muri, gli spigoli, gli elettrodomestici e il loro ronzio. Dovrà superare quella fase iniziale in cui siamo noi i fantasmi di una casa. La piazza rimbomba di tanto in tanto per lo schianto di un pallone su una saracinesca. La luce in certe ore è ovunque. L’ho visto attraversare lo spazio come un’ombra, uno scarto, un rottame alla deriva, come un cruccio irrisolto che riemerge proprio quando la città ci respinge. Questa però non è la sua infelicità, ma la mia, da sempre. Tutta questa luce è sprecata e non illumina niente.

È di nuovo sera e la città ha strani incanti, pezzi di altre città che incontri dietro gli angoli, un senso improvviso di altrove e di rinascita. Si accendono le luci del castello sopra la montagna, e per un attimo pare sospeso, si raggiunge la spiaggia dopo chilometri di parco. Le ville liberty non tutte abitate, le foglie per terra e i fiori dai giardini, l’odore atemporale dell’estate. L’estraneo verrà presto qui, calpesterà queste foglie, si chiederà chi abitava quelle ville oggi sfitte.

Lui assomiglia nella mia testa ai corridoi di una scuola in estate, vuoti e pieni di luce, freschi silenziosi inutili, con fogli appesi al sughero della bacheca, gli alunni insieme in un’altra scena lontana, i loro zaini abbandonati sugli scogli o sopra un prato, un qualche numero di autobus a compiere tragitti che non so o non ricordo, e in ogni caso è tardi, mi hanno lasciato sul posto senza neanche un indirizzo e il nome di quell’allegria che adesso mi ferisce giorno dopo giorno.

La città percorsa dall’alto su Google Earth presenta una geometria ineccepibile, strade tetti auto posteggiate, gli alberi come un verde spalancato, dei negozi appena la luce sul marciapiede o l’insegna obliqua, non si vedono fioriere o cani.

Gli uomini sono il grande implicito, le macchie di colore riassorbite nella tela. Qualcuno si intravede dal balcone, a un passo dal rientrare. Un altro deformato, cancellato con il dito se allarghi l’immagine. I palazzi si avvicendano con apprezzabile regolarità, poi all’improvviso un’area sterrata. Potessi seguire l’estraneo sulla app, prevederne le intenzioni, spiare la sua nuca. Ma sono immagini prese dal satellite, vecchie di mesi o di anni, comunque in ritardo, come me.

Di certo l’estraneo conosce quel senso di disperazione che ti prende verso sera, quando il buio arriva da ogni lato e l’amore non può più proteggerti. Quando pensi alle case e agli appartamenti degli altri, davanti a una fotocopiatrice o ai limiti di un bosco. Eppure dobbiamo guardare senza angoscia l’incubo di cui siamo fatti (tante volte ho creduto di pensare di morire, ma incredibilmente mi sono poi ritrovato al di fuori di quel perimetro gelido).

L’estraneo imparerà che la città che ha girato le spalle al mare in realtà il mare lo costeggia per chilometri, ma lo fa con quartieri dove non ho mai messo piede e che ho piuttosto attraversato in macchina, per uscire dalla città e non per soffermarmi. Questo è bastato ad acquisire una forma se pur larvale di conoscenza dei posti, a intravedere piccionaie esposizioni di ceramiche un sole freddo tra i vestiti appesi una scuola elementare circondata dall’aria e poi murales sul fianco dei palazzi e vicoli che sembrano preludere a nascondigli. Dall’altro lato prati e aiuole mal tenute e riquadri di case perlomeno la vista conducono a un mare che sembra sempre fuori stagione. Per quanto il nome stesso della strada non faccia che rievocarlo, di quel mare non saprei dire altro se non: sta lì.

Un ritorno momentaneo del freddo sembra quasi fare da custodia al corpo. L’estraneo non può sapere che in un grande giardino elegante c’è uno scivolo che per molti di noi è stato da bambini incredibilmente alto, impossibile da scalare, e a rivederlo oggi sembra invece così poco. Cosa è una città senza un’infanzia dentro? Cosa saprà l’estraneo di quei grandi spiazzi tra i condomìni, quando alzavo la testa e il mondo intero sembrava una vertigine cattiva, e mi mettevo le mani sulle orecchie per non sentirlo fischiare?

Aprile, pomeriggio tardo. C’è una luce che ormai si estenua quasi fino alla cena. L’estraneo sbuca fuori da una farmacia davanti a una grande piazza con un obelisco al centro e anche lui sembra frastornato e come fuoruscito da una interminabile domenica in famiglia. Lo sente, l’estraneo, l’Estraneo del mondo, le cose come immagini perplesse vacillanti in una luce grigia, e gli odori residuali dei pranzi e il torpore astratto dei pomeriggi e i pasticci che fa la mente (lo abbiamo sempre chiamato amore, questo continuo sfilarci il tappeto da sotto i piedi). Se lo avessi qui davanti, gli direi che a volte vorrei solo nascondermi, che magari mi sveglio e non so dove mi trovo. Che nonostante tutto, è lui la cosa meno irreale che c’è, mentre guardo in alto, attraverso una finestra, una pianta da salotto e una libreria ordinata e un bambino che di certo sta giocando a un gioco senza senso.

(è così facile così facile così facile morire, oppure no)

Ma in questo odore ovunque di fioriture segrete (da qualche parte, in un quartiere appartato di ville e giardini, il glicine spinge fuori il suo blu fervido), non tutto sembra essere fatto per nuocere. Un corso fa come una strana serpentina, costeggia poi una chiesa dove ho passato del tempo, dall’altro lato una ricevitoria una boutique un meccanico, alcuni urlano per euforia o abitudine. L’aria fa come un velo, sono passato mille volte senza lasciare traccia, e nemmeno sulla mappa risulta il mio passaggio (a dire il vero, per anni si è trattato soltanto di un recarsi trasognato a sbagliare taglio di capelli, constatando il prima e il dopo nel riflesso sulle vetrine). L’estraneo si fa spazio nel marciapiede intralciato dalle auto in mezzo a quelle luci e mi sembra quasi indomito a camminare in mezzo a ricordi non suoi.

La strada di sempre sbuca sul corso che di notte sta nel più completo silenzio. Dietro un cancello si fronteggiano due dragoni di pietra. Si accende la luce bianca di una veranda, fa sembrare più nero il buio sotto i palazzi. Mi prende una improvvisa, la solita desolazione di cose lontane irrecuperabili, mi prende ogni volta che sembrava possibile il presente

(e poi forse non dovrei dirlo proprio qui ma è sempre la stessa cosa, sempre quella sensazione di essere a mia volta seguito da qualcuno che una volta chiamavo Diavolo e oggi non so neanche come, ma ricordo tanti anni fa in un paesino qui vicino all’ora di pranzo e il silenzio e il sole e ogni cosa che sembrava rivolgermi un bisbiglio di minaccia o ero sempre io a proferirla di nascosto, come se tutto in me andasse verso la distruzione di me).

I dolci del chiostro mandano un odore che ormai fa tutt’uno con la luce ferita dei compleanni.

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Andrea Accardi ha esordito nel 2019 con la raccolta di poesie Frattura composta di un luogo, cui è seguito nel 2020 Frattura composta di un nome, entrambi usciti per Ladolfi e poi riuniti in un volume unico nel 2022. Nel 2021 ha pubblicato il libro in versi Nosferatu non esiste con Arcipelago Itaca. Ha fatto parte per dieci anni della redazione di Poetarum silva e oggi è nell’organizzazione del Festival di Poesia Paolo Prestigiacomo (San Mauro Castelverde). Una prima parte di Materiali per un report è stata presentata durante il laboratorio di nuove scritture RicercaBo (dicembre 2022). Il testo completo fa parte di un progetto collettivo di scritture intorno alla città di Palermo.

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“Materiali per un report (racconto di Palermo)” è stato scritto da renata morresi e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Scienziati (superdotati) bussano alla porta della Meloni

L’Italia è uno dei paesi più ricchi al mondo di associazioni di scienziati superdotati. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, insieme con la ministra dell’Università Bernini e con il ministro della salute Schillaci  hanno celebrato il “Manifesto della scienza” promosso dalla Italian Scientists Association (ISA). Si tratta di una associazione fondata da presidenti, ex-presidenti e membri del direttivo ANVUR. Per farne parte non si deve essere particolarmente dotati: basta avere indicatori bibliometrici tali da svolgere il ruolo di commissario nell’abilitazione scientifica nazionale. Molto più esigenti le associazioni concorrenti: Gruppo 2003 e Top Italian Scientists. Tutte hanno comunque l’obiettivo di farsi ascoltare dal governo di turno, e guadagnare posti più o meno prestigiosi, più o meno ben remunerati, come consiglieri del principe. E tutte hanno anche in comune la presenza significativa di studiosi che sono stati segnalati da blog indipendenti dedicati alla integrità della ricerca o sono coautori di articoli segnalati per immagini sospette, testi duplicati e altro. Nel caso di ISA il presidente onorario è Louis J. Ignarro, vincitore di 1/3 di premio Nobel per la medicina nel 1998 e consigliere scientifico di Herbalife. Ignarro si è distinto durante la pandemia per aver dispensato fondamentali consigli alla popolazione per combattere il virus attraverso una respirazione corretta (inspirare con il naso, espirare dalla bocca). Ignarro ha una una lunga storia di collaborazioni con studiosi italiani con cui condivide decine di articoli segnalati immagini sospette, testi duplicati e altro. Parafrasando Brecht: “Povera la terra che ha bisogno di scienziati superdotati”.

L’Italia è uno dei paesi più ricchi al mondo di associazioni di scienziati superdotati. Ci sono infatti almeno tre associazioni di scienziati che richiedono ai propri adepti di essere superdotati. Si partì nel 2003 con il Gruppo 2003, che richiede ai propri membri di figurare negli elenchi degli scienziati più citati di Web of Science. Nel 2010 fu la volta dell’associazione Top Italian Scientists, i cui membri devono avere un h-index di dimensione almeno pari a 30 su Google Scholar. Buona ultima è arrivata, nel 2020, la Italian Scientists Association (ISA) che più modestamente chiede che ai suoi membri di essere dotati di indicatori bibliometrici tali da svolgere il ruolo di commissario nell’abilitazione scientifica nazionale.

Le tre associazioni condividono, oltre a diversi membri in comune, almeno tre caratteristiche: (i) l’obiettivo di farsi ascoltare dal governo di turno, e guadagnare posti più o meno prestigiosi, più o meno ben remunerati, come consiglieri del principe; (ii) una presenza significativa di studiosi che hanno fatto o fanno parte del consiglio direttivo di ANVUR, o hanno partecipato in ruoli prominenti agli esercizi di valutazione della qualità della ricerca; (iii) una presenza significativa di studiosi che sono stati segnalati da blog indipendenti dedicati alla integrità della ricerca o sono coautori di articoli segnalati su pubpeer per immagini sospette, testi duplicati e altro. [PubPeer è una piattaforma web che consente agli utenti di discutere e rivedere la ricerca scientifica dopo la pubblicazione. Il sito è usato principalmente come piattaforma di whistleblowing per segnalare misconduct e frodi apparse nella letteratura scientifica.]

Delle disavventure di un membro dell’attuale consiglio direttivo del Gruppo 2003 scrivemmo qualche anno fa. Di recente abbiamo pubblicato un lungo post sul giornale dei TIS. Qui ci interessa parlare della nuova arrivata Italian Scientists Association (ISA), che ha ha consegnato nelle mani della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni il Manifesto della scienza nel corso di un convegno tenutosi lo scorso 5 aprile 2024 dal titolo, invero un po’ inquietante, La scienza al centro dello stato.

L’obiettivo del Manifesto è ben chiaro: convincere la Presidente del Consiglio a istituire

un Ufficio Scientifico e Tecnologico che fornisca supporto alla Presidenza del Consiglio in alcuni ambiti strategici, per rafforzare e promuovere la scienza e la tecnologia italiane, collaborare con enti governativi locali e territoriali, per sviluppare strategie unificate e programmi efficaci nel campo scientifico e tecnologico, coinvolgendo  Industria, mondo accademico, associazioni e società civile, garantendo equità, inclusione e integrità in tutti gli aspetti della scienza e della tecnologia.

A ben guardare è la riproposizione della Agenzia della Ricerca alle dirette dipendenze del Governo immaginata da molti governi a trazione PD; e il sogno dell’agenzia della ricerca accarezzata anche dal dal Gruppo 2003. Solo che questa volta, nel Manifesto, è ‘la scienza’ stessa a consegnarsi nelle benevole mani della presidente del consiglio, con un documento le cui linee vanno in direzioni già dichiarate dal governo.

Probabilmente per errore, nel sito di ISA è ancora raggiungibile una bozza del manifesto, lunga oltre 90 pagine [versione comunque archiviata qua]manifesto-scienziati-isa–2023-10-18, dove gli intendimenti sono ancora più espliciti.

Si prenda per esempio il tema dell’uso dell’energia nucleare. Mentre nel Manifesto si accenna all’uso della fusione, nella bozza si prende esplicitamente posizione sull’uso del nucleare per la decarbonizzazione:

La Presidente del Consiglio non si è lasciata sfuggire l’occasione di riprendere il suggerimento nel suo discorso.

Si prenda ancora la questione dell’immigrazione. Il Manifesto della Scienza va in soccorso del “piano Mattei” del governo, suggerendo una sperimentazione basata su istruzione e formazione delle comunità locali:

Il testo della bozza è molto più chiaro e spiega bene l’orientamento degli estensori del manifesto:

Ma chi sono i membri di ISA?

La parte forse più divertente della storia riguarda la composizione del board di ISA. Di fatto ISA è una creatura di ANVUR. Il presidente dell’associazione è anche l’attuale presidente di ANVUR: Uricchio d’altra parte è un collezionista di cariche, poco sensibile a temi di conflitto di interesse. Sul sito di Anvur dichiara di ricoprire, oltre alla presidenza di ANVUR, altre sei cariche. Tra queste, ricordiamo l’essere componente del Board dell’AVEPRO (l’ANVUR del Vaticano), del Comitato LEP (in relazione all’autonomia differenziata), dell’Osservatorio nazionale del turismo e anche della Consulta per l’emissione delle carte-valori postali e la Filatelia.

Se a queste cariche aggiungiamo gli altri sette incarichi (alcuni retribuiti) da lui dichiarati, si ha l’impressione che la Presidenza dell’ANVUR, che gli vale 210.000 Euro annui, sia poco più che una sinecura conciliabile con ogni sorta di carica e incarico.

Tra i soci fondatori tutti gli ex presidenti ANVUR: Stefano Fantoni, Andrea Graziosi e Paolo Miccoli; Raffaella Rumiati, anche lei ex membro del consiglio direttivo ANVUR. Vincenzo Barone e Giacinto della Cananea furono coordinatori dei rispettivi panel valutazione nella prima VQR.

Questa filiazione diretta rende davvero, per così dire, sorprendente la lettura del passaggio del manifesto dedicato alla valutazione della ricerca, dove si critica l’uso di strumenti quantitativi perché inducono distorsioni. Forse che i maggiori responsabili della deriva quantitativa della valutazione italiana prendono atto che il loro sistema ha prodotto danni (probabilmente non reversibili) cui è necessario porre rimedio?

No, niente di tutto questo, lo chiarisce bene la bozza del manifesto. La valutazione continua a fare bene, ma deve essere un po’ aggiustata. Come? Con l’adozione di un nuovo modello in grado di valutare “le virtù” dei ricercatori italiani:

Chissà se l’idea solleciterà sviluppi da stato etico neo-gentiliano nelle politiche universitarie in generale e nella valutazione anvuriana in particolare.

Il presidente emerito

E veniamo adesso al Presidente emerito di ISA: Louis J. Ignarro, 1/3 di premio Nobel per la medicina nel 1998 e consigliere scientifico di Herbalife, “l’azienda di integratori alimentari che fattura piu’ di ogni altra azienda analoga al mondo” (wikipedia).

Ignarro si è distinto durante la pandemia per aver dispensato fondamentali consigli alla popolazione per combattere il virus attraverso una respirazione corretta:

Il modo corretto di respirare duante la pandemia: Inspirate dal naso ed espirate dalla bocca. Non è solo una cosa che si fa a lezione di yoga: respirare in questo modo offre infatti un potente beneficio medico che può aiutare l’organismo a combattere le infezioni virali.

Per chi non ci crede ecco l’inglese: “Inhale through your nose and exhale through your mouth. It’s not just something you do in yoga class – breathing this way actually provides a powerful medical benefit that can help the body fight viral infections.”

Secondo la ricostruzione di Leonid Schneider e Smuth Clyde: “Ignarro went on to sell dietary supplement for the company Herbalife (where he and his consulting firm were paid $15 mn  already by 2012), as well as pomegranate juice for the POM Wonderful Company. Some of that salesman activity found its way (without proper conflict of interest declaration) into Ignarro’s scientific research output, in form of peer reviewed papers”.

Perché Ignarro? Forse perché ha una lunga storia di collaborazioni con studiosi italiani. Condivide con Claudio Napoli 16 articoli segnalati su pubpeer, 15 con Filomena De Nigris, 2 con Stefano Fiorucci,  per immagini presumibilmente non corrette. Complessivamente Ignarro ha ben 28 articoli segnalati su pubpeer.

Qui e qui i lettori interessati potranno leggere per esteso la storia di Ignarro.

Parafrasando Brecht: “Povera la terra che ha bisogno di scienziati superdotati”.

 

 

 

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“Scienziati (superdotati) bussano alla porta della Meloni” è stato scritto da Redazione ROARS e pubblicato su ROARS.

25 aprile: corteo antifascista con la resistenza palestinese

Questo 25 aprile, come ogni anno, sfileremo in un corteo antifascista cittadino, ponendo in risalto quanto sta accadendo in Palestina, a Gaza, in Cisgiordania e caratterizzeremo il corteo schierandoci con la Resistenza del Popolo Palestinese, sottoposto a massacro dal governo sionista di Netanyahu e dall’esercito israeliano.

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“25 aprile: corteo antifascista con la resistenza palestinese” è stato scritto da underground e pubblicato su Underground.

Kwibuka. Ricordare il genocidio dei Tutsi.

di Andrea Inglese

Ieri, 7 aprile, si è tenuta a Kigali la trentesima commemorazione dell’ultimo genocidio del XX secolo, quello perpetrato tra il 7 aprile e il 4 giugno del 1994 da parte del governo di estremisti Hutu contro la popolazione Tutsi e gli oppositori politici Hutu. Parliamo oggi di più d’un milione di persone. “Kwibuka” (“ricordati”) è il nome che le autorità le hanno assegnato a questa commemorazione. Oggi vorrei che lo ricordassimo anche noi italiani, francesi, europei, occidentali bianchi, che abbiamo a lungo guardato in modo approssimativo questo genocidio, come fosse uno dei tanti episodi di quella guerra costante e inspiegabile che attraversa cronicamente il contenente africano. Ma non furono massacri qualsiasi, né la manifestazione cruente di un’ennesima guerra civile. E soprattutto non furono “cosa loro”. Un genocidio è sempre cosa di tutti, di tutta l’umanità. Lo sappiamo, da quando le istituzioni internazionali, per fragili e disfunzionanti che siano, hanno dovuto pensare un mondo dopo l’evento della Shoah. Ma questo genocidio è cosa anche nostra, di europei che hanno dietro di sé i crimini ormai palesi del colonialismo e quelli più ambigui e occultati del neocolonialismo. E nonostante il genocidio realizzato dagli Hutu (etnia immaginaria) contro i Tutsi (idem) sia stato opera di ruandesi contro altri ruandesi, e abbia avuto radici storiche che risalgono al 1963, a incorniciarlo storicamente vi troviamo due potenze europee. La prima è quella belga, che ha prodotto, per le esigenze dell’amministrazione coloniale, una razializzazione immaginaria, per dividere la popolazione colonizzata. Loro hanno inventato i documenti che permettevano di identificare all’interno di uno stesso popolo due gruppi etnici diversi, nonostante condividessero una sola lingua, cultura e religione. La seconda potenza è la Francia, che sostiene il regime al potere prima e durante il genocidio. Lo sostiene politicamente e militarmente. Ed è a conoscenza degli intenti genocidari di quest’ultimo, ancora prima dello scatenamento dei massacri. Al di là delle responsabilità estremamente gravi della Francia nel genocidio ruandese, va ricordata anche la debolezza vergognosa delle stesse Nazione Unite, che nel momento di maggiore scatenamento della macchina di sterminio decide di ridurre al minimo la presenza di caschi blu sul territorio ruandese.

Le responsabilità della Francia sono state riconosciute persino dal presidente Macron, che non ha però interrotto l’assenteismo che da trent’anni caratterizza la presidenza francese in occasione della commemorazione a Kigali. Anche il trentennale del genocidio non ha visto la presenza dei vertici dello Stato francese: né il presidente né il suo primo ministro erano presenti alla cerimonia.

Nel 2024, è uscito La France face au génocide des Tutsi. Le grand scandale de la Ve République (La Francia di fronte al genocidio dei Tutsi. Il grande scandalo della V Repubblica) di Vincent Duclert (Tallandier). Dopo una bibliografia prodotta soprattutto da un giornalismo d’inchiesta coraggioso e controcorrente, è giunto il tempo di primi bilanci storiografici. Duclert è uno storico importante, specialista delle società democratiche e della storia dei genocidi.

Vorrei sottolineare, infine, una cosa, che spesso viene dimenticata, quando si evocano i genocidi del XX secolo e in particolar modo quello della Shoah, centrale per proporzioni e ferocia. Nel caso ruandese, le forze genocidarie, da quello che istigavano ideologicamente a quelle che eseguivano sul territorio, si percepivano come vittime ingaggiate in una lotta per la sopravvivenza, di fronte a un nemico armato che le minacciava. Il nemico armato era il Fronte Patriottico Ruandese (FPR), guidato dall’attuale presidente Paul Kagame, che combatteva affinché fosse riconosciuto il diritto ai rifugiati Tutsi, da anni confinati in Uganda, di ritornare nella loro paese d’origine. Questo ritorno implicava anche una partecipazione al governo del paese. “Colui a cui non taglierete la testa, ve la taglierà”, questo era uno degli slogan degli estremisti Hutu, ed esso si riferiva alle truppe nemiche del FPR, che venivano dall’estero (dall’Uganda), ma anche alla popolazione Tutsi interna al Ruanda, considerata un’alleata “naturale” del nemico esterno. I massacratori si percepivano come vittime, sottoposte a una impellente e tremenda minaccia, ed è proprio questo che forniva loro l’alibi per massacrare senza rimorso alcuno i loro simili.

Concludo linkando un articolo mio e di Magali Amougou apparso prima su “il manifesto” e poi su NI nel gennaio del 2006: Revisionismi francesi. Esso riguardava il dibattito francese seguito al primo decennale del genocidio ruandese (2004). I negazionisti e i revisionisti erano ancora nel pieno dei loro sforzi di propaganda, ma già esistevano giornalisti e intellettuali in grado di dissipare la cortina fumogena delle mezze verità e delle menzogne.

Aggiungo una bibliografia, che presentai in un articolo successivo a quello citato. Andrebbe ovviamente aggiornata, ma fornisce uno scorcio significativo di cosa si produsse nel corso del primo decennio successivo al genocidio.

In italiano

Jean Léonard Touadi, Congo Ruanda Burundi. Le parole per conoscere, Editori Riuniti, Roma, 2004.

(Libretto breve, ma che fornisce un’adeguata immagine d’insieme sul genocidio ruandese, inserendolo nelle dinamiche politiche più ampie e regionali, che l’hanno preceduto e seguito.)

Michela Fusaschi, Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.

(Seria analisi di taglio antropologico sulle “pre-condizioni” del genocidio.)

Libri di testimonianza:

Tadjo Véronique, L’ombra di Imana. Viaggio al termine del Ruanda, Ilisso, 2005.

Hatzfeld Jean, A colpi di machete. La parola agli esecutori del genocidio in Ruanda , Bompiani, 2004

Boris Diop Boubacar, Rwanda. Murambi, il libro delle ossa, edizione e/o, Roma, 2004.

Gourevitch Philip, Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie. Storie dal Ruanda , Einaudi, 2000

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In altre lingue (sopratutto in francese)

1. Guerra civile e genocidio

Alison Des Forges, Leave None to Tell the Story: Genocide in Rwanda, New York: Human
Rights Watch, 1999 – trad. francese nello stesso anno

Braeckman Colette, Rwanda: histoire d’un génocide, Fayard, Paris, 1994 [trad. It., Strategia della Lumaca, Roma, 1995]
Terreur africain : Burundi, Rwanda, Zaire : Les racines de la violence, Fayard, Paris, 1996.

Chretien Jean-Pierre (a cura di), Rwanda : les médias du génocide, Karthala, Paris, 1995.

Verdier R., Decaux E., Chretien J. P. (a cura di), Rwanda : un génocide du XXe siècle, l’Harmattan, Paris, 1995

2. Reazioni internazionali

Coret L., Verschave, F. X., L’horreur qui nous prend au visage : L’État français et le génocide, Rapport de la Commission d’enquête citoyenne sur le rôle de la France dans le génocide des Tutsi au Rwanda, avec Laure Coret, 2005, Karthala

Klinghoffer A. J., The international dimension of genocide in Rwanda, Macmillan press, 1998.

Ould Abdallah A., La diplomatie pyromane : Burundi, Rwanda, Somalie, Bosnie…, Calman-Lévy, Paris, 1996

Willame J-C., L’ONU au Rwanda (1993-1995) : la communauté internationale à l’épreuve d’un génocide, Maisonneuve et Larose, Paris, 1996.

3. Inchieste sul ruolo della Francia nel genocidio

Gouteux J-P, La nuit rwandaise. L’implication française dans le dernier génocide du siècle, l’Esprit frappeur, Paris, 2002.

De Saint-Exupéry P., L’inavuable. La France au Rwanda, les arènes, Paris, 2004.

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“Kwibuka. Ricordare il genocidio dei Tutsi.” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Sulla singolarità. Da “La grammatica della letteratura”

[Presentiamo qui un estratto del saggio di teoria letteraria Grammatica della letteratura (Tic Edizioni, 2024, coll. «Gli Alberi») di Florent Coste nella traduzione di Michele Zaffarano. Nella stessa collana sono già usciti due importanti volumi, di Gian Luca Picconi La cornice e il testo (Pragmatica della non-assertività) e di Jean-Marie Gleize Qualche uscita (Postpoesia e dintorni). I passaggi che ho scelto di Coste contribuiscono a smontare criticamente uno dei miti che nutrono il campo letterario e artistico contemporaneo, quello della “singolarità”. a. i.]

 

di Florent Coste

traduzione di Michele Zaffarano

 

Esercizio 2. Singolarità

Il linguaggio ha pronte per tutti le stesse trappole; l’enorme rete di strade sbagliate ben praticabili.

(Wittgenstein 1980: 46)

[…]

[2] Per esempio, la singolarità. — Mi fai un esempio di gioco di linguaggio interno al campo letterario? — Allora, càpito su uno dei tanti siti culturali in rete e leggo alcuni passaggi di critica letteraria. Stanno presentando «un libro breve e allo stesso tempo singolare», e organizzano appositamente per me l’«incontro con una voce singolare», ricostruendo «il singolare percorso di un autore inafferrabile». Su un’altra pagina, stroncano un romanzo epistolare appena uscito sostenendo che non funziona perché i personaggi non hanno una loro «voce singolare». Poi mi metto ad ascoltare i discorsi di un artista che discute della propria pratica (in questo caso, è un uomo di teatro, però se fosse un pittore o un poeta, non cambierebbe nulla): «La singolarità non s’impara, è un divenire singolare. La presenza è come l’oro. È rara perché è preziosa, ed è preziosa per la stessa ragione che è rara. Lo stile è uno scarto rispetto al conformismo dei vari apprendimenti» (Mével 2015: 17). In ultimo, metto le mani su un libro un po’ più accademico, a metà tra critica universitaria e studio letterario, e sulla quarta di copertina leggo una difesa della «poesia come messa in valore della voce singolare». In una carrellata sulle scritture romanzesche contemporanee, si parla di come Tizio e Caio scelgano «un lavoro che sperimenta dispositivi formali singolari», di cui peraltro poi non si dirà più niente. — Già solo così, ci sono parecchie cose da chiarire. Il fatto che tutti questi protagonisti del campo letterario sfruttino il gioco di linguaggio della singolarità sembra essere una cosa del tutto normale. Perché a operare è la logica della distinzione: in un campo tanto caratterizzato dalla competitività e così radicalmente fondato sui valori dell’originalità e della creatività, quello della singolarità si rivela un elemento qualificativo decisamente necessario, anche se in sé è solo un significante vuoto; aiuta a smarcarsi, a mettersi in mostra, a ostentare una postura e a collocarsi al di fuori di tutto quello che è comune (Bourdieu 2005). Il termine viene però usato anche dalla critica. E chissà che non sia proprio questo il suo compito, cioè organizzare l’emersione all’interno del campo. — Questo aggettivo qualificativo, però, qualifica davvero qualcosa? Non riflette piuttosto una certa forma di pigrizia nelle operazioni di categorizzazione? Soprattutto, va sottolineato il fatto che il gioco di linguaggio della singolarità ha finito per infiltrarsi anche nei discorsi scientifici e accademici. Questo significa che il discorso teorico dovrà a sua volta riprendere i giochi di linguaggio sfruttati da questi operatori culturali? Si possono davvero riprendere le categorie “autoctone” del campo senza perdere vigore critico?

[3] La singolarità come grandezza. — Qual è la grandezza artistica dello scrittore, o del poeta? O meglio: su quale scala di grandezza punta a farsi valutare? A differenza degli artisti medievali (come i miniaturisti, per esempio), che lavoravano negli spazi collettivi delle botteghe seguendo le regole e sfruttando le competenze tramandate dalle corporazioni, e che collaboravano con i propri datori di lavoro, impegnandosi a portare a termine i propri compiti in conformità con i vari modelli, gli artisti moderni s’inseriscono in un regime di singolarità (e non in un regime di comunità) (Heinich 1996, 2005). Vivono nella «città ispirata» (Boltanski e Thévenot 1991). — Ci siamo ormai abituati a pensare (con un certo schematismo) che, in regime di modernità, il valore artistico sia inversamente proporzionale alla diffusione commerciale, al successo e alla notorietà; l’artista paga la propria singolarità con privazioni, marginalità, e cose del genere. — Può comunque puntare ad altri valori: la grandezza commerciale, se cerca di realizzarsi come autore di bestsellers o ambisce a raggiungere almeno un certo volume di vendite; la grandezza civica, se scrive letteratura impegnata o coltiva ambizioni politiche; la grandezza della fama, quando vuole diventare una star o cerca l’esposizione mediatica; e così via. — Detto questo, non sarebbe meglio relativizzare le scale di valori come quelle appena elencate? La professione di fede nella singolarità non è un mito da smontare? La singolarità non è qualcosa che sarebbe opportuno ridimensionare? Non potrebbero, magari, i sociologi, eliminare drasticamente questo tipo di discorsi sull’arte passando a spiegare le reti (più che le individualità), o le influenze (più che l’ispirazione)?

[6] Il campo letterario nel regime neoliberale. — Il problema non sta tanto nel fatto che l’artista si comporta da artista, perché questo è assolutamente normale. — E poi perché, in fondo, è vero: la singolarità anima e governa il campo letterario in maniera del tutto “naturale”, se vogliamo metterla in questi termini. Quello che però succede all’interno dello spazio neoliberale in cui lo scrittore si trova e da cui non può sfuggire è che il mercato letterario segue una serie di evoluzioni che rendono il regime della singolarità apparentemente più produttivo: la concentrazione oligopolistica dei grandissimi editori (che schiacciano la piccola editoria indipendente), l’aumento del numero di pubblicazioni all’anno, l’aggressione se non il vero e proprio smantellamento della catena del libro e del circuito delle librerie a opera del commercio online, sono tutti elementi che portano a indebolire gli assetti tradizionali dell’economia del libro e a sviluppare strategie e posture capaci di esibire la propria singolarità in un campo ormai sempre più caratterizzato dal regime della concorrenzialità. In ogni caso, anche se calamitata e assorbita dal sistema neoliberale, la letteratura sembra reggere bene la situazione. L’autore lavora a creare una propria immagine mediatica, ed eccolo allora che elabora una propria reputazione, che delinea un proprio carattere o un proprio marchio di fabbrica, che mette la sua “faccia” in gioco (al limite, nascondendosi dietro uno pseudonimo), tutto però senza mai rinunciare a prendere posizione su questioni letterarie o politiche. Insomma, lo scrittore performa sé stesso e lo fa in prima persona.[1] E qui, dobbiamo stare attenti a non fare confusione. Perché singolarità è un termine utile a capire e descrivere le tattiche e le modalità con cui ci si pone all’interno del campo (letterario). Si tratta di un termine critico, vale a dire di un termine che serve a oggettivare e a tenere a distanza (critica, appunto) tutti questi fenomeni. Di certo è un valore che i protagonisti non possono rivendicare con qualche diritto, o dare in qualche modo per scontato, senza doversi raccontare delle storie. Eppure, molti degli attori in campo, che scrivano, che commentino o che lavorino a editare testi, si lasciano catturare dai vari giochetti della singolarità. — E fino a qui, abbiamo ragionato solo all’interno del mondo del libro, oltraggiosamente dominato dalla prosa romanzesca. Passiamo ai poeti? I poeti, così drasticamente minoritari, così lontani e così persi nelle periferie di questo mondo, come si collocano, i poeti? Contribuiscono con forza raddoppiata al regime della singolarità o, al contrario, operano una sottrazione basata sulla riflessione e resistono? Probabilmente sarebbe il caso di cominciare a chiederci come un poeta o uno scrittore possa comportarsi per non andare a ingrassare gli ingranaggi di questo regime della singolarità.

[7] Individualismo, romanticismo, capitalismo. — La questione della singolarità viene a toccare in maniera decisamente più radicale le nuove forme di individualismo contemporaneo che strutturano l’ideologia implicita della letteratura. Di certo, non si può dire che il campo letterario sia particolarmente impermeabile ai valori individualisti. Cerchiamo però di non fare confusione. Quando parlo di individuo, posso intendere cose molto diverse tra loro. Innanzitutto c’è l’individuo, inteso come cittadino astratto, cioè il cittadino titolare dei diritti conquistati dalla Rivoluzione francese che aspira a conquistare la sua stessa autonomia; ovviamente qui parliamo di un principio giuridico-politico fondato sulla nozione di universalità volta a propagare un individualismo dell’uguaglianza. L’individuo, però, lo posso anche intendere in maniera completamente diversa, cioè partendo dai suoi tentativi di tirarsi fuori, di estrarsi dalla folla: l’individuo che entra in rapporti di dissidenza con tutto quello che pertiene al comune, l’individuo che fa un passo di lato per sottrarsi alla massa delle società democratiche, l’individuo che esalta varie forme di elitismo e valorizza le proprie capacità di creazione. Di questo individualismo della distinzione, l’artista è sicuramente ed evidentemente figura paradigmatica. A ben vedere, però, non è nemmeno questo l’individualismo che ci fanno vivere oggi. La società contemporanea conosce in effetti una serie di nuove trasformazioni che sembrano sbocciare dalle rovine del mondo industriale fordista, qualcosa che potremmo definire come «espansione della singolarità» (Martuccelli 2010). A dominare palesemente dopo le sostanziali e profonde trasformazioni della società e del capitalismo (Castel 2019; Giddens 1990) è la personalizzazione delle merci, la modulazione dei servizi in funzione dei vari tipi di pubblico, il consumo fluido e ritagliato su misura, con il marketing che, sull’altro versante, spinge sempre di più verso la vertiginosa complicazione delle tipologie dei fruitori. Pare che non esista ossessione più grande di quella dell’intercambiabilità e della standardizzazione. E che non ci sia sciagura peggiore del non vedere riconosciuta la propria particolarità, o del subire forme diverse di discriminazione (Rosanvallon 2013: 343 e sgg). In altre parole, quello che il singolarismo rivendica sopra ogni altra cosa è che la società non debba o non possa frapporre ostacoli all’espressione di sé. — Insomma: una forma abbastanza incandescente, addirittura hot di liberismo. — Proprio in virtù di questo principio, ognuno di noi dovrebbe portare a risoluzione il proprio «compito di essere» incarnando e scegliendo, con assoluta fedeltà e autenticità, una singolare combinazione di stili, forme e aspetti presi un po’ a prestito a destra e a sinistra. Si deve obbligatoriamente cercare di essere corretti e rispettosi nei confronti della propria persona e del proprio rapporto a sé, cosa che non manca ovviamente di produrre come naturale conseguenza la soffocante e ben conosciuta «fatica di essere sé» (Ehrenberg 1999). Alle intimazioni che ci spingono a essere qualcuno di incomparabile si accompagna poi sempre la ricerca del riconoscimento, del rispetto e dell’equità.[1] Si tratta, insomma, di un individualismo della differenza (totalmente diverso dall’«individualismo dell’uguaglianza» o dall’«individualismo della distinzione»): un ideale romantico dell’autenticità personale e del riconoscimento di sé, recuperato e ventilato dal capitalismo per riuscire a generalizzare e a democratizzare il (peraltro) molto aristocratico diritto a esprimere il proprio «talento».[2] — Ovviamente, sul rovescio di tutta questa situazione, ecco la fede in una società senza classi, una società in cui i determinismi sociali si vanno facendo sempre più complessi, e in cui le disuguaglianze scalano per così dire di un gradino, diffratte a larghissimo raggio in forma di segmentazioni interindividuali o di disuguaglianze intracategoriali. — È proprio questo, che potremmo chiamare singolarismo.[3]

[8] Le aporie del dandy. — Il singolarismo si è così ritagliato dei personaggi preferiti, e tra questi personaggi preferiti troviamo soprattutto il dandy, figura a cui gli artisti moderni hanno spesso ricondotto il valore dei propri gesti fondativi (Bourriaud 2015). Da notare che, così facendo, il singolarismo porta a estetizzare la vita attraverso un’«estensione del dominio dello stile» ben oltre il semplice ambito del testo (Macé 2010, 2016b),[4] oppure attraverso una specie di transfert dello stile che finisce per impregnare l’assieme generale dell’esistenza. Il problema non sta quindi tanto nella strampalata, superficiale e variopinta originalità che possiamo attribuire al dandy, ma alle regole che questo personaggio intende applicare alla propria vita seguendo modalità totalmente ascetiche. In questo, il dandy ricorda molto da vicino quei monaci che vivono nei loro monasteri e si attengono in maniera rigida alle proprie regole di vita,[5] affermando una sovranità quasi “insulare” delle proprie soggettività. «Il dandy non intende dipendere da regole morali comunitarie e si dichiara “l’unico autore dei propri obblighi”. Dopo che si è imposto delle regole, egli si forma dall’interno, emanando delle leggi di cui sarà l’unico destinatario, conformandosi a quell’etica creativa che annuncia queste “mitologie personali” caratteristiche dell’arte del XX secolo. Ecco perché l’artista moderno, seguendo l’esempio del dandy, nel suo lavoro non obbedisce che a regole personali, valide nel quadro di un’etica provvisoria: egli vi aggiunge solo la preoccupazione di una produzione» (Bourriaud 2015: 31). — I paradossi, comunque, rimangono difficili da sciogliere. Immaginare, come per il dandy e per l’artista che a quest’ultimo s’ispira, una legge da applicare a sé stessi e a nessun altro è un po’ come vincolarsi alle diverse mitologie del linguaggio privato. E cosa vuole dire che stabiliamo delle leggi e poi le applichiamo soltanto a noi stessi? Decidere il proprio codice, cioè decidere un codice così singolare che nessuno mai cercherà di condividerlo o sarà tentato di decodificarlo, diventa fatalmente un modo per sottrarsi a qualsiasi tipo di collettività. Ed è ovvio che un modello come questo non potrà mai essere esportato o esteso al di là del campo artistico, perché in quel caso avremmo conseguenze politiche incresciose, francamente difficili da accettare.

[1] Cosa di cui si fa portavoce un erede della Scuola di Francoforte come Axel Honneth (2002).

[2] «Il riferimento all’arte è utile perché ci ricorda che l’individualità per tutti significa di fatto ineguaglianza, non eguaglianza. […] L’individualismo espressivista è quando, in realtà, viene offerta solo ad alcuni la possibilità di mostrare le proprie opere a tutti quanti» (Descombes 2007: 219).

[3] Dumont 1991 e Descombes 2007 sottolineano che se ne può tracciare una genealogia che parte dal romanticismo tedesco.

[4] Rientra almeno in parte in quella «estetica dell’esistenza» investigata da Foucault nel corso delle sue indagini sulle tecniche del sé, a partire dalla filosofia antica e dal monachesimo cristiano.

[5] Sulle comunità idioritmiche del Monte Athos, cfr. Barthes 2002: 37.

*

[1] Su tutte queste questioni, cfr. le riflessioni nel corso degli anni di Meizoz (2007, 2011, 2016 e 2020).

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“Sulla singolarità. Da “La grammatica della letteratura”” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Mots-clés__Specchi

 

Specchi
di Daniele Ruini

Lucio Battisti, Specchi opposti -> play

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René Magritte, “Le faux miroir”, 1929

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Da: Andrea Zanzotto, Notificazione di presenza sui Colli Euganei [da IX Ecloghe, 1962])

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. La prima domenica del mese Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: [email protected]. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

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“Mots-clés__Specchi” è stato scritto da ornella tajani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Cari tutti

di Alberto Pascazio

Quando si lanciarono di sotto, Ada e Michele rimbalzarono.

Per sessantatré anni avevano superato insieme le loro ostili intimità. Le puzze, le macchie, le pelurie. Le ciabatte, le manie, le fisime. Le rinunce, i silenzi, i rumori dal bagno. Si erano trovati presto, per caso, e avevano trasformato quel caso in missione. Michele aveva aiutato lei a salire sul parapetto. Le aveva raccomandato di tenersi forte, perché dovevano lanciarsi insieme. Poi, con fatica, era salito anche lui. Preoccupato che il proprio ginocchio cedesse nello slancio o che Ada perdesse l’equilibrio prima che anche lui riuscisse a salire, aveva agganciato due corde al divano e le aveva poi legate una alla vita di lei e l’altra alla propria. Per fortuna, il parapetto era abbastanza largo e riuscirono a fare tutto con calma, senza tuffi al cuore.

 

Si erano decisi a farlo la sera prima, quando i ragazzi erano andati via. A letto, nel silenzio, dopo aver lavato i denti e riposto i vestiti, si erano guardati negli occhi minuscoli, aggrediti dalla pelle, e si erano scambiati un sorriso, senza parlare. Avrebbero evitato il dolore che avevano sempre scampato: perdere l’una l’altro, senza scegliere, come avevano sempre fatto. Non avrebbero lasciato fare al caso, che diventava ormai sempre più torreggiante, né sperato, come avevano cominciato a fare senza dirselo, di morire per primi.

 

Il capodanno era andato bene, le lenticchie erano piaciute a tutti, anche ai bambini. E le girandole, di cui ancora si scorgevano i segni sottili e neri sul pavimento del balcone, avevano fatto la loro parte nei festeggiamenti del quartiere. Sul tavolo, di fianco alle giacche, che avevano riposto con cura nonostante il freddo del mattino, una lettera spiegava le loro ragioni:

 

Cari tutti,

a un certo punto della vita hanno smesso di chiamarci per nome. Ci hanno prima chiamato papà e mamma, zio e zia, poi nonno e nonna. A noi questo non sta bene. Non è mai stato bene. Noi siamo Ada e Michele. Nient’altro e per sempre; vale a dire, ancora per qualche ora. Non abbiamo bisogno di un altro inutile e falso attributo: vedova o vedovo.

Non state a crucciarvi troppo: vi abbiamo voluto bene. Questo vi basti. Ma vi abbiamo anche odiato. Abbiamo odiato voi figli, solo per il fatto di averci trasformati in altri nomi, diluendo le nostre identità. Non soffritene, sappiamo che non è colpa vostra.

Abbiamo odiato anche i nostri nipoti, perché ci ricordano che siamo vecchi. Bella rogna. Raccontate loro la storia di Ada e Michele come quella di due persone libere, che non vogliono esistere in corpi inutili e stanchi. E non vogliono esistere l’una senza l’altro.

Speriamo apprezzerete il fatto che non vi lasciamo poi molto, neanche buoni consigli.

Ada e Michele.

 

Michele avrebbe voluto dire di più. Sciorinare le nozioni che aveva imparato in quarant’anni d’insegnamento, ma Ada lo aveva esortato a esser breve, a non girarci attorno, come sempre.

«Ma io voglio dirglielo che non c’è niente di nobile a essere vecchi».

«È una lettera, Miche’, non sono le tue memorie».

«Ma dobbiamo spiegare» — notò la spalla destra di lei che si sollevava, nello sforzo di stringere l’ultima Moka — «la chiudo io?»

«No no, che poi non riesco ad aprirla»

Ada rilassò le spalle e i pensieri, poi si girò a guardarlo, solo con la testa, e gli sorrise. Non pianse nessuno, però: «t’oh, divertiti, stringi più che puoi».

Risero. Poi lui ci riprovò, più per parlarle ancora che per convincerla davvero. Gli piaceva parlare con Ada, sentirsi intelligente e stupido, come se il cervello si contraesse a ogni risposta delle sopracciglia di lei:

«È che non abbiamo detto tutto».

«Miche’, tu quanti anni hai?»

«Ottantadue».

«E io?»

Michele sollevò il beccuccio della Moka, scottandosi un poco:

«Ottanta, quindi?»

«Quindi per dire tutto ci vorrebbero centosessantadue anni».

Lui bofonchiò, al solito, contro quella logica implacabile:

«Dai, hai capito, questi credono che noi pensiamo lenti perché siamo diventati lenti. Non capiscono che la tragedia è questa».

«Quale?»

«Che siamo ancora qui a dirci cose nuove. Che non vogliamo smettere di essere gli Ada e Michele che siamo sempre stati. Che è il ricordo a essere la nostra condanna».

«A morte».

«Eh, a morte, a morte. ‘Sti cazzo di ricordi prima servivano solo a vivere — tipo “la Moka scotta” — e noi li abbiamo trasformati in strumento per pensare. Abbiamo levato alla felicità l’unico luogo possibile: il presente. E ci siamo inventati anche i ricordi del futuro: le illusioni. Siamo la specie più stupida che esista e ci sentiamo anche intelligenti».

Ada lo guardava parlare come si fa con un liceale brillante. Che questo era ancora per lei: un liceale brillante.

«I ricordi non servono a niente, ma ormai ce li teniamo. Ecco: io non li voglio più. Non senza di te».

«Neanche io, Miche’» — si scosse da quella stupida tenerezza — «ma è una lettera di tutti e due. Fosse per me avrei scritto solo nessuno dei due vuole morire senza l’altro».

«Lo so».

Michele versò il caffè nelle tazzine bianche e marroni:

«Vuoi farlo ancora?»

Lei gli concesse un altro sorriso, senza rispondere. Poi lo abbracciò e infilò una mano sotto il pigiama.

 

Ad aspettare le loro sagome, pronte a saltare dal quinto piano, non c’era nessuno. Non un bambino col naso all’insù che dice “mamma, che fanno quelli?”. Non vigili del fuoco, eroi, o curiosi. Avevano scelto l’alba per questo: volevano essere soli. Nonostante l’attrito con l’aria, sempre più forte in quei pochi secondi, riuscirono a tenére strette le mani, tènere e forti come la prima volta. E caddero. Caddero e basta, senza pensare a niente: finalmente, i ricordi erano solo un ricordo.

 

Al momento dell’impatto, il marciapiede li respinse elasticamente. I loro corpi, ancora intrecciati nelle dita — e vivi, per quanto ne sapessero — furono rilanciati in aria con gentilezza, disegnando nel cielo due traiettorie oblique, quasi che la terra li rifiutasse. Stranamente, l’orologio di Michele non si fermò, ma continuò a battere i secondi. Era a carica manuale: un tempo virtualmente infinito.

 

La loro lettera avrebbe assunto tutto un altro significato, senza i loro corpi disarticolati e vividi. Forse erano scappati via. Irresponsabili, pazzi: i figli e i documenti, i nipoti, le chiacchiere. A chi sarebbero finiti gli ori?

A loro due bastava non mollare la presa, continuare a tenersi per mano, per proiettarsi insieme verso quello che non sapevano. Non avevano saputo tante cose, di quello che avevano visto fino ad allora, ma avevano saputo quelle mani, strette insieme. E quella Moka, a volte troppo stretta anche lei, che non si riusciva a riaprire.

 

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“Cari tutti” è stato scritto da Giorgio Mascitelli e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Lettera all’indirizzo degli uccelli

di Carmen Naranjo

traduzione di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli

 

da Idioma dell’inverno (1971)

 

Piove in questa città
piove… pioggia polvere
invidia piove notti e giorni
piove suoni di altre piogge

Metto avorio e non va
in questa città non c’è
avorio metto oro e non dice
in questa città non c’è
oro metto argento e
non rima
in questa città non c’è
argento metto l’idioma
della pioggia acqua
acquazzone acquitrino
metto paracqua ed ombrelli
metto pioggerella e giungo alla mia città

E non metto
nulla e tolgo
tutto terrazze
e luci balconi
e torri
e restano piogge

Oggi piove come
sempre da così presto
che non so come
iniziò a piovere
magari sia solo una
figura di rituali grifi
d’acqua
che danzano in suono di
gocce fiumi in finestre e
calli
occhi turpi dietro l’alba
e la lunga vetrata
dell’inverno con verdi
mani reumatiche

Dall’acqua
astratta tappeto
d’erba terrazza
d’alghe uscì
questo sogno di
cieli e barche

Io piovo perché amo
piovo verticale il mio
ritorno e non fecondo spighe
a volte piovo chiacchiere
quando non posso piovere
tanta pioggia di tante cose
gocce e gocce di miseria
nella cerimonia del viaggio
sulla memoria dell’acqua

 

*

 

da Nel circolo dei pronomi (2003)

 

Io

 

io alle sei della sera
con un cero nella mano
lentamente nella mia stessa strada
cerco il dio senza faccia
giocatore instancabile nella scacchiera delle stelle
io graffiando l’alba
disegno un segno astratto
e me lo ruba il vento
io alle 11 della notte
con un filo sulla fronte
trasparente e agile
do le mie droghe di silenzio
e ingrosso il capitale del mio grido
io mi sommo all’altro io
mi metto le sue scarpe
leggo il manuale di diplomazie
mi addormento con l’altro
e mi risveglio senza nulla
mi stanco della mia sostanza d’ore
e spremo le mie economie di tempo

al di sotto dell’acqua
ride un cristallo rotto

io una somma di espropriazioni
un inventario inconcluso
un punto senza azione e voce
nel circolo dei pronomi
un naufragio di sorti e occasioni
con esibizioni balbettanti
un libro sulle spalle
un peso perpendicolare dal cielo
e un ragno che scende da un
filo nero per la schiena
impiccagioni di equilibri senza spazio
saette costipate dalle stimmate
età che consumano la mia età
in un piatto greco con salsa romana
bilance ebree magneti indigeni

questi baci
che corrono sulla tua schiena

io – andarmene io – venirmi
l’aria tiene armonie di spade
equidistanti distanze spogliate
perdute devoluzioni indolenti
cerimoniosi cervelli lontani
condizioni che mi condizionano
un giro bancario atemporale
con numeri stranieri
la parola è una gomma da masticare
quando perde la menta si sputa

raccoglimi nelle stagioni
del tuo fidanzamento

mi odo nelle cerbottane
là nelle absidi
arabesche decomposizioni
dove non giunge la mandragora
e il mio sogno si sveglia nel sonno

non guardarmi più
lascia il tuo seme nei miei occhi

io faccio fessure agli eroi
dipingo occhiali agli idoli
e so ridere le mie solitudini
davanti alla sconfitta ghiandolare di domani

portami nei tuoi velieri
sotto il santo e segno della tua notte

io rotondamente calendario
alveare di bronzo senza briglia
sboccato nel quotidiano
imboscato in braccia e riti

fissati nei miei sintomi
e infermami di più

io con le mie amare dogane
con le mie litanie sbadate

voglio tremare nel tuo grembo

io con i miei ancoraggi di mummia
nel caos della polvere e dello iodio

la tua memoria è una vetrina
dove misi un centrotavola

 

*

Testi tratti da Lettera all’indirizzo degli uccelli, di Carmen Naranjo, edizione italiana a cura di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli (Edizioni dell’Orso 2023).

Carmen Naranjo (Costa Rica, Cartago, 1928 – Costa Rica, San José, 2012) è figura centrale nella storia letteraria costaricana. Scrittrice, diplomatica e attivista, ha lavorato per le Nazioni Unite, l’UNICEF e altre organizzazioni umanitarie, denunciando la deforestazione, la malnutrizione e lo sfruttamento che affliggono l’America Latina, e promuovendo i diritti dei poveri e delle donne. “Carmen Naranjo ha affondato la penna nella realtà, con rara capacità di suscitare stupore, empatia e compassione nei confronti dell’essere umano, restituendoci la fotografia interiore di un continente così grande da sembrare inconciliabile, così piccolo da sembrare un’isola.” (dall’introduzione)

Tomaso Pieragnolo vive da oltre trent’anni tra Italia e Costa Rica ed è traduttore e poeta; tra le sue raccolte di poesia, finaliste e vincitrici di premi nazionali, ricordiamo Portraits (Passigli 2022), Viaggio incolume (Passigli 2017), nuovomondo (Passigli 2010), L’oceano e altri giorni (Venezia 2005), Lettere lungo la strada (Venezia, 2002), Poesía escogida (Editorial de la Universidad de Costa Rica e Fundación Casa de Poesía, 2009). Dal 2007 traduce per la rivista Sagarana autori del Costa Rica inediti in Italia; tra di loro Eunice Odio, poi pubblicata in volume in Questo è il bosco e altre poesie (Via del Vento 2009) e Come le rose disordinando l’aria (Passigli 2015), con Rosa Gallitelli.

Rosa Gallitelli vive a Padova e dal 1992 tra Italia e Costa Rica, dove ha trascorso lunghi periodi a stretto contatto con le popolazioni native tra foresta vergine e Oceano Pacifico e cooperato a progetti di tutela del patrimonio naturale. Da questa esperienza discende la raccolta poetica Selva creatura leggera (Passigli 2015), Premio Nazionale di Letteratura Naturalistica Parco Majella 2023, Premio Minturnae 2016, finalista Premio Marineo e Morlupo 2016, selezione Premio Marazza 2016. Dal 2007 traduce con Tomaso Pieragnolo per la rivista Sagarana e per varie case editrici autori costaricani in anteprima italiana.

Lettera all’indirizzo degli uccelli è la prima opera di Carmen Naranjo pubblicata in Italia.

*

 

de Idioma del invierno (1971)

 

Llueve en esta ciudad
llueve… lluvia polvo envidia
llueve noches y días
llueve sonidos de otras lluvias

Pongo marfil y no va
en esta ciudad no hay marfil
pongo oro y no dice
en esta ciudad non hay oro
pongo plata y no rima
en esta ciudad no hay plata
pongo el idioma de la lluvia
agua aguacero aguazal
pongo paraguas y sombrillas
pongo garúa y llego a mi ciudad

Y no pongo nada
y lo quito todo
terrazas y luces
balcones y torres
y quedan las lluvias

Hoy llueve como siempre
desde tan temprano que no sé
cómo empezó a llover
quizás sea sólo una figura
de rituales grifos de agua
danzando en sonidos de gotas
ríos en ventanas y calles
ojos turbios detrás del alba
y el largo vitral del invierno
con verdes manos reumáticas

Del agua abstracta
alfombra de yerba
terraza de algas
salió este sueño
de cielos y barcas

Yo lluevo porque amo
lluevo vertical mi regreso
y no fecundo espigas
a veces lluevo palabrerías
cuando llover no puedo
tanta lluvia de tantas cosas
gotas y gotas de miseria
en la ceremonia del viaje
sobre la memoria del agua

 

*

 

 

de En el círculo de los pronombres (2003)

 

YO

yo a las seis de la tarde
con un cirio en la mano
lentamente en mi propia avenida
busco al dios sin cara
jugador incansable en el ajedrez de las estrellas
yo arañando el amanecer
dibujo un signo abstracto
y me lo roba el viento
yo a las 11 de la noche
con un hilo en la frente
transparente y ágil
doy mis drogas de silencio
y engroso el capital de mi grito
yo me sumo al otro yo
me pongo sus zapatos
leo el manual de diplomacias
me duermo con el otro
y me despierto sin nada
yo me canso de mi sustancia de horas
y estrujo mis economías de tiempo

debajo del agua
ríe un cristal roto

yo una suma de expropiaciones
un inventario inconcluso
un punto sin acción y voz
en el círculo de los pronombres
un naufragio de suertes y ocasiones
con exhibiciones tartamudas
un libro en la espalda
un peso perpendicular desde el cielo
y una araña bajando de un hilo
negro por el hombro
colgaduras de equilibrios sin espacio
saetas estreñidas por los estigmas
edades consumiendo mi edad
en un plato griego con salsa romana
balanzas hebreas imanes indígenas
esos besos
corriendo por tu espalda

yo – irme yo – venirme
armonía de espadas tiene el aire
equidistantes distancias desnudas
perdidas devoluciones indolentes
ceremoniosos cerebros lejanos
condiciones condicionándome
un giro bancario intemporal
con números extranjeros
la palabra es una goma de mascar
cuando pierde la menta se escupe

recogeme en las estaciones
de tu noviazgo

yo me oigo en las cerbatanas
allá en las ápsides
arabescas descomposiciones
donde no llega la mandrágora
y mi sueño despierta en el sueño

no me mirés más
dejá tu semilla en mis ojos

yo hago agujeros a los héroes
pinto anteojos a los ídolos
y sé reír mis soledades
frente a la derrota glandular de mañana

llevame en tus veleros
bajo el santo y seña de tu noche

yo redondamente calendario
panal de bronce sin bridas
desbocado en lo cotidiano
emboscado en brazas y ritos

fijate en mis síntomas y enfermame más

yo con mis amargas aduanas
con mis letanías majaderas

quiero temblar en tu regazo

yo con mis amarres de momia
en el caos del polvo y del yodo

tu memoria es un escaparate
donde puse un bibelot

 

*

 

 

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“Lettera all’indirizzo degli uccelli” è stato scritto da renata morresi e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Dal parco Don Bosco al Festival di Letteratura Working Class, il nemico si sfoga, sabota, massacra

Stanotte, nei pressi del parco don Bosco di Bologna, un attivista diciannovenne, studente del liceo Da Vinci, è stato inseguito, bloccato e pestato da un folto gruppo di carabinieri. Su di lui si sono accaniti non soltanto col manganello, ma anche con taser e spray al peperoncino. Gli è stato rotto un polso. È stato […]

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“Dal parco Don Bosco al Festival di Letteratura Working Class, il nemico si sfoga, sabota, massacra” è stato scritto da Wu Ming e pubblicato su Giap.

Benway Series

[Continua quella che vorrebbe essere non tanto un’indagine, ma una ricognizione ragionata e dialogata dell’editoria indipendente di poesia. Abbiamo già parlato di Le Mancuspie, una collana di poesia diretta da Antonio Bux per le edizioni Graphe.it e di Adamàs, per La vita felice editore, diretta da Tommaso Di Dio, Vincenzo Frungillo, Ivan Schiavone. a. i.]

Risposte di Mariangela Guatteri e Giulio Marzaioli

 

Che cosa ti ha spinto a fare l’editore e quale obiettivo ti poni con il tuo lavoro?

Come curatori del progetto Benway Series, la motivazione iniziale è da ricondurre alla nostra dimensione di “autori”: in quanto tali, all’epoca dell’ideazione del progetto (che inizialmente era curato anche da Marco Giovenale e Michele Zaffarano) ci concedemmo la possibilità di cercare altre scritture c.d. “di ricerca” consimili, soprattutto al di là della lingua italiana, e di pubblicarle in Italia in un contesto che non era così ricettivo rispetto a tali opere. Il vettore esplorativo si configurò come un progetto più che altro intellettuale e artistico aperto anche a opere in lingua italiana (rigorosamente tradotte a loro volta per consentire sempre un dialogo più ampio) e a proposte non strettamente legate alla scrittura, o solo ad essa, intendendo l’opportunità che ci siamo concessi come una sorta di factory in continua via di definizione.

Che regime di produzione hai? Ti soddisfa quello che riesci a mettere in opera (numero di titoli all’anno)?

Non abbiamo necessità e vincoli di produzione. Realizziamo i progetti che ci piacciono e ci convincono nei tempi e nei modi di cui siamo capaci, con tutti i limiti e le disponibilità che si possono immaginare per quanto riguarda un progetto indipendente e non finanziato.

Come è nata l’idea di questa nuova collana di poesia?

Vedi sopra.

Come scegli i libri che vuoi pubblicare? Quali sono i criteri che ti guidano? Sei interessato a difendere aree poetiche o correnti specifiche all’interno del panorama contemporaneo?

Fino ad oggi ogni libro è nato dall’appassionamento ad un’idea e alla condivisione di questa idea tra noi (M. Guatteri e G. Marzaioli), l’autore o gli autori e tutti color che possono e/o vogliono collaborare alla realizzazione dell’opera finale. Chiaramente sappiamo di avere un orientamento e di avere in qualche modo segnato un percorso di cui è giusto tener conto, ma non siamo affezionati a scuole o dottrine specifiche. Per quanto la storicizzazione sia inevitabile e anche imprescindibile, riteniamo che sia prematuro farne parte, sempre che qualcuno consideri in tal senso degno il percorso di Benway Series.

Cosa pensi dell’oggetto libro e dell’esperienza di lettura che veicola? È una forma di conoscenza in grado di distinguersi da quelle che circolano attraverso altri media e altri supporti? Come vedi la sua articolazione di vecchio media con i media attuali? Come ti poni nei confronti delle correnti convenzioni editoriali (tipografia, impaginazione, formato)?

Sicuramente il libro è una forma di offerta e di condivisione di idee che si distingue da altri, altrettanto degni. Per quanto in via di estinzione non sarà mai estinto, probabilmente riconfigurerà il proprio posizionamento nella vita quotidiana, al pari della lettura. Per quanto ci riguarda consideriamo che ogni limite è un’opportunità, e per quanto riguarda la minor diffusione del libro cartaceo, l’assenza di eccessive sponde di confronto e dimensionamento consente maggior libertà: siamo sempre più propensi a considerare l’oggetto libro come una vera e propria opera d’arte le cui potenzialità possono essere continuamente definite e ridefinite.

Quali sono i punti critici che impediscono alla tua azione di essere più efficace?

Non pensiamo in questi termini al nostro impegno di editori. Per quanto ci riguarda ciò che facciamo traccia un cammino da fare assieme agli autori con i quali collaboriamo e ai lettori che ci seguono, che siano 1, 10 o 100. La cosa più importante è stare in movimento e farlo assieme ad altri.

Che visione hai dell’editoria media e grande in Italia, soprattutto per quello che riguarda la poesia?

Ci sono e ci saranno sempre fasi e cicli. Alle volte proliferano collane di poesia, alte volte si celebra il funerale del genere. Potremmo enumerare varie e numerose teorie ed opinioni ben note a che si interessa di scritture diverse dalla narrativa, ma sarebbe di scarso interesse per chi legge ripetere quanto già ampiamente dibattuto. Forse una valutazione che potrebbe risultare utile sia per chi scrive che per chi si impegna a promuovere la scrittura, è che bisognerebbe sempre misurarsi con tre dimensioni temporali: quella attuale, quella di domani e quella di sempre. Scrivere, e promuovere scrittura, considerando che ciò che si fa dovrebbe valere per un tempo presente, un futuro e per l‘eternità.  Anche solo l’illusione di bilanciare in un’opera le tre misure temporali può essere una prospettiva nella quale inquadrare la propria attività, al di là delle circostanze del caso o dei casi che occupano la vita letteraria.

*

da Louis Zukofsky, 80 Flowers / 80 fiori
Traduzione di Rita R. Florit, Postfazione di Paul Vangelisti
Colorno: Tielleci,  2024. (Benway Series; 16). 
First Edition: Louis Zukofsky, 80 Flowers, Stinehour Press, Lunenburg, Vermont, 1978.


Aster
A star tow ash stow
rote crowd mickle mass daisy
frostflower lazytongs lightning aster risk
your fire anneal generous gentle
baited shadow some moss-burn’d summer
evergreen-winter connect a cut clay
aurous quick gnomon he’ll mellow
lucre head purple black study

* * *

Astro
Un astro traino cenere serba
ripetizione moltitudine mucchio ammasso margherita
fiordibrina pinzestesa luminescente astro rischio
tuo fuoco tempri magnanimo mite
adescata ombra qualche muschio-bruciato estate
sempreverde–inverno unisce un taglio creta
aureo rapido gnomone si calmerà
lucro testa viola nero studio



Daisy
Bellis perennis daisy of history
ing lace water-formed a hid
pin-eyed thrum-eyed brehon-rule eve adam
adam eve meadows birth-hymn drupe-studded
strawberry oversell spring-freeze whipperwill storm
pied-daisy rays vogue green-erin discs
may not excel white double-ray largess
sails-gold-discs heritage fort at Montauk

* * *

Margherita
Bellis perennis margherita della storia
merletto forma d’acqua un nascosto
perno-occhiuto sibilo-occhiuto legge-brehon eva adamo
adamo eva pascoli inno-originario drupa-punteggiata
fragola incensata sorgente-ghiacciata succiacapre bufera
margherita-variopinta raggi in-voga dischi verde-irlanda
forse non eccelle bianco doppio-raggio generoso
vele-oro-dischi eredità forte di Montauk

*

da Marlene NourbeSe Philip, ZONG! Come narrato all’autrice da Setaey Adamu Boateng.
Traduzione: Renata Morresi. Traduzione di «Notanda» e di «Gregson vs Gilbert»: Andrea Raos. 
Traduzione di «Ẹbọra»: Mariangela Guatteri.
Colorno: Tielleci, 2021. (Benway Series; 14).



*

da Forrest Gander, Essere con / Be With. Con 6 fotografie di / With 6 photographs by Michael Flomen
Traduzione di Alessandro De Francesco.
Colorno: Tielleci, 2020. (Benway Series; 14).

A few days later
their bliss grew
an impenetrable
skin. Then dissolved
itself completely, 
the liquid content of
that skin turning
to a sort of jelly
from which erupts
a new creature
whose organs
lack any identity
with what came
before.



Have I lived
something stupid?
Am I the coward
responsible for 
nothing?

* * *

Qualche giorno dopo
la loro felicità sviluppò
una pelle
impenetrabile. Poi si
dissolse completamente,
e il contenuto liquido di
quella pelle si trasformò
in una sorta di gelatina
da cui emerge
una nuova creatura
i cui organi
mancano di identità
con quanto era venuto
prima.



Ho vissuto
qualcosa di stupido?
Sono il codardo
responsabile di
niente?

–––––––
da Ron Silliman, Il quaderno cinese / The Chinese Notebook
Traduzione: Massimiliano Manganelli.
Colorno : Tielleci, 2019. (Benway Series; 13).

*
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“Benway Series” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

La minuscola

di Marta Barattia

La minuscola precipita nel tubo. Gli arti appena accennati protesi verso l’alto, una scia di cometa; la schiena curva – saranno non più di due centimetri totali – quasi solo una sottile catena di vertebre, come perline d’avorio. Cade senza un grido, trascinata in un abisso di vortice scuro che confluisce in un tubo più grande e poi in un altro e un altro ancora. E poi – si suppone – nel mare.

Non è un brutto posto il mare. Per finirci. E la minuscola è ancora una specie di pesce, dopotutto, un pesce abissale dagli occhi ciechi e dalle branchie amaranto. Fluttuerà sotto alla superficie per qualche giorno, dissolvendosi lentamente, trasportata dalle correnti in un ammasso di pulviscolo simile a plancton in cui altri minuscoli esseri bioluminescenti le viaggeranno accanto, protetti dai loro esoscheletri trasparenti, pronti a impigliarsi nei fanoni di balena.

Dentro a una balena, pensa Eva, la minuscola potrebbe anche viverci.

E la balena non ci farebbe nemmeno caso; non la sentirebbe crescere, non ne sopporterebbe il peso estraneo. Dev’esserci molto spazio, dentro a una balena, tanto che la minuscola potrebbe starsene lì per sempre e questo non modificherebbe la vita della balena, né la sua forma, né la sua libertà.

Eva abbassa la tavoletta e si costringe a restare ancora un poco, finché il carico dell’acqua è completo e il galleggiante galleggia e torna il silenzio. È tempo di andare.

Il corridoio fuori appare luminoso e sgombro.

Dieci passi.

Il parquet è lucido come una lastra di ghiaccio. Si potrebbe camminare velocemente, così velocemente da non rischiare di cadere, di precipitare in un ipotetico sottostante qualora la superficie dovesse creparsi all’improvviso.

Il pericolo ha odore di cera per pavimenti.

Conviene strisciare lungo le pareti, la schiena appoggiata all’intonaco fresco, le mani aperte. A guardare verso l’alto il corpo si fa più leggero, si solleva, il baricentro fluttua senza proiezione terrestre. I piedi scalzi, le dita allargate in raggi divergenti. Le pareti del corridoio trattengono la penombra. Eva desidera rimanere lì, sospesa tra il dentro e il fuori. Da lì potrebbe respirare senza sentire la fame, toccare senza dover vedere.

Un crampo la stringe sotto l’ombelico e d’istinto raddrizza la schiena: è una sensazione passeggera e la conosce da quando aveva undici anni. È cresciuta in fretta, Eva, il suo corpo è cresciuto in fretta, ma tutto il resto, il bisogno di non fermarsi, il disordine dei vestiti indossati un solo giorno e poi accatastati sullo schienale della sedia, i calzini spaiati nel cassetto, i compiti non fatti, i contratti a termine, lo smalto blu sulle unghie. Tutto il resto non cresce. È fatto di una sostanza instabile che non proietta ombre.

Sulla destra, al centro della camera, oltre la cornice della porta, si spande la chiazza bianca del letto sfatto. Eva è tentata di tornare a immergersi nelle lenzuola di cotone, di avvilupparsi in un bozzolo e riavvolgere i giorni fino al suo stato di crisalide, di sentirsi protetta dall’odore di crema idratante, sudore e ammorbidente, di farsi tagliare dalle lame di luce che filtrano attraverso le tapparelle appena sollevate. Ma sa che è venuto il momento di uscire allo scoperto e che c’è ancora modo di programmare gli eventi per far sì che tutto continui a riguardare soltanto lei. E che quel modo è sfilare con passo leggero sopra la superficie cerata del corridoio, zittire il tintinnio delle chiavi infilandole nella tasca interna della borsa, proteggersi con gli occhiali da sole dalla luce feroce del giorno che incombe, trattenere il fiato mentre il gomito cigola abbassando i finestrini a manovella e l’aria rovente dell’abitacolo scivola per convezione all’esterno. Se la vecchia carretta non fosse soltanto un 800 di cilindrata il rombo del motore coprirebbe la pulsazione ritmica dentro le orecchie con un fragore continuo e costante, invece si innesta sul battito del cuore.

Tutummmrrrr-tutummrrr-tutumrrrr.

L’auto è un piccolo parallelepipedo rosa: scorre all’interno delle arterie grigie che si snodano giù per la collina, appare e scompare sotto le fronde dei castagni, ed Eva sa che anche minuscola, nel frattempo, sta viaggiando in direzione del blu come se fosse compressa in una capsula di plexiglass. Eva non è certa di conoscere il funzionamento dei depuratori ma si immagina che siano una specie di enorme filtro, un colino gigantesco dentro cui si incagliano assorbenti, sacchetti di plastica, tappi di bottiglia, e attraverso il quale invece spera che la minuscola possa filtrare proprio grazie al suo essere soltanto in potenza. La minuscola arriverà al mare per prima, superato il Grande Colino e le rapide del Po e i banchi di alghe aggrovigliate e i becchi lunghi e sottili degli aironi e le bocche piatte e senza denti dei pesci gatto e le pale rotanti dei motori delle chiatte, o sarà prima Eva ad arrivare là dove qualcuno possa dichiarare la minuscola definitivamente scomparsa?

Non c’è più nulla qui, le diranno con voce soffice, accarezzando con la sonda fredda di gel il triangolo sotto l’ombelico. Ci dispiace.

A me non dispiace, penserà Eva, ma non potrà dirlo. Potrà solo tentare di calcolare il tempo impiegato dalla capsula di plexiglass per scivolare attraverso la pianura fino al delta. Anche il delta è un triangolo. Anche il santuario dei cetacei del Mediterraneo, dove ora probabilmente nuota la balena dentro cui la minuscola sta trasferendo il suo essere in potenza.

L’arteria grigia, dentro cui scorre la scatoletta rosa contenente il corpo di Eva da poco espulso dalla casa, confluisce in un’arteria più grande dove altre scatolette viaggiano su più corsie parallele. Dai finestrini si riversa nel fuori il rumore battente del motore in sincrono con la pulsazione vitale di Eva.

Tutummmrrrr-tutummrrr-tutumrrrr.

Sul sedile una piccola chiazza di bava umida e rosea si allarga in un’impronta che sarà quasi cento volte la minuscola. Il segno che lasciamo spesso non è proporzionato alla nostra dimensione. Siamo più grandi di quello che pensiamo, abbiamo più contenuto. Per questo la minuscola starà ormai scivolando tra i giunchi e i pontili, dalle parti di Chioggia, perché il suo potenziale di galleggiamento è molto superiore alle sue dimensioni apparenti, anzi con le sue dimensioni non c’entra nulla: c’entra più con il peso del liquido spostato e la minuscola sta spostando un enorme volume, costituito dalla somma di quello del corpo di Eva – benché privato della minuscola stessa e della sua bavosa scia residua che si allarga come chiazza sul sedile – e da quello della Cinquecento rosa più, in aggiunta, il mazzo di chiavi nella tasca interna della borsa.

Tutummmrrrr-tutummrrr-tutumrrrr. Tum.

La pulsazione si interrompe all’improvviso.

Proprio ora che mancano poche decine di metri allo sbocco nell’ultima via, al traguardo. Eva considera l’ipotesi di chiudere i finestrini e restare lì finché la temperatura salirà così tanto da perdere conoscenza, fino a sublimare in un passaggio di stato, e quando tutto diventerà reale Eva non ci sarà più, sarà evaporata e sorvolerà le risaie tra i gracidii delle rane e nugoli vibranti di moscerini. E della minuscola non avrà più notizie e nemmeno ne potrà avere perché le nubi di vapore non sanno e non si pongono domande.

Oppure.

Eva potrebbe telefonare e chiedere aiuto, ma ciò significherebbe ammettere la sua discesa lungo le arterie grigie e che la casa l’abbia costretta ad affrontare, con solo un mazzo di chiavi tintinnante, il bagliore da cui le lenti scure degli occhiali non riescono a proteggerla; ammettere che la minuscola sta viaggiando in direzione opposta in una capsula di plexiglass e che non ci sarà modo di avere sue notizie e che peraltro lei non desidera averne, preferendo di gran lunga scivolare sul parquet sollevata dal peso della minuscola e poi schiudere la propria crisalide di lenzuola, uscire e discendere la collina sotto l’ombra dei castagni senza avvisare nessuno, senza telefonare a nessuno. Senza far caso alla pulsazione regolare.

Tum.

La morte della pulsazione coincide, per un caso fortuito, con il luogo deputato ad accogliere ogni trapasso, giacché avviene esattamente in corrispondenza degli ingressi delle camere mortuarie che spalancano le loro bocche quadrate sul retro del Grande Ospedale.

Il Grande Ospedale sta a una via di distanza dal Piccolo Ospedale (anche detto Ospedale dei piccoli) che è là dove Eva sta andando e dove sarebbe andata comunque, anche nell’eventualità in cui la minuscola avesse deciso di non precipitare nel tubo in direzione della balena. In quel caso la minuscola sarebbe rimasta dentro Eva ed Eva avrebbe dovuto trovare un modo per farla uscire, a un certo punto, prima o dopo, ma dopo quanto sarebbe dipeso anche dal fatto che Eva decidesse di condividerne o meno l’esistenza. Esistenza che Eva non poteva fare a meno di identificare con la propria scomparsa.

Così Eva, che finora ha scelto di nascondere la minuscola dentro sé stessa, non è capace di fare altro se non ristagnare nel proprio silenzio. Apre la portiera e scende. Lì intorno non c’è nessuno. Sopra l’asfalto è sospeso uno strato mobile di calore tremolante. Eva appoggia la schiena alla lamiera rosa e calda e non guarda mentre la luce feroce asciuga la bava umida che è l’ultima impronta della minuscola; sente con piacere che la stretta sotto l’ombelico è più morbida e che ai lati della strada non ci sono letti sfatti con lenzuola morbide che sanno di crema idratante e sudore in cui desiderare di tornare a imbozzolarsi. Se sapesse come strizzare le palpebre potrebbe sollevare con due dita le lenti scure, appoggiare la montatura di tartaruga come un diadema tra le ciocche di capelli e mettere a fuoco un profilo umano a cui rivolgere un gesto qualsiasi. Allora l’estate entrerebbe nei suoi polmoni chiusi e lei piangerebbe e tutto, intorno a lei, inizierebbe a muoversi e dalle macchine in fila, bloccate in quell’imbuto a senso unico dietro alla sua Cinquecento rosa, davanti alle camere mortuarie del Grande Ospedale, scenderebbero persone urlanti, persone con una ragione per andare di fretta: un appuntamento, un compito, un lavoro. E quelle persone pretenderebbero da lei lo spostamento immediato della macchina dalla strada, pur non avendo lei idea di come si potrebbe spostare una macchina la cui pulsazione vitale si è interrotta così improvvisamente.

Tum.

A meno che l’auto non potesse precipitare in un tombino, incastonata in una capsula di plexiglass, e procedere dal tombino originario a un successivo tubo e poi in un tubo più grande e in un altro e un altro ancora. Fino al mare, pensò Eva. Impossibile. La Cinquecento è una macchina piccola ma non abbastanza piccola da passare tra le maglie del Grande Colino. Si incaglierebbe assai prima, tra il ghiaione del fondo, mischiata a legni grigi e altri rottami. Diventerebbe ruggine e non plancton, scheletro e non balena.

Ma.

Potrebbe andare così.

Eva potrebbe dire addio alla macchina, di colpo silenziosa e improvvisamente ferma e poi precipitata, e prendere un autobus. E andare in un posto che non è casa sua ma potrebbe presto diventarlo. Un posto dove ci sarebbe un fiume ghiacciato su cui pattinare e pavimenti di pietra e aria gelata. In ogni caso sarebbe meglio che raccontare della minuscola. Che ammetterne l’esistenza prima e la scomparsa poi.

Se andasse così sarebbe sostenibile.

Invece va che quattro uomini nerovestiti di tutto punto, becchini professionisti in pausa tra un funerale e l’altro, con passi simultanei e facce allenate a una seria e distaccata compassione, si accorgono del silenzio improvviso, dello sgomento di Eva e della sua apnea mentre la schiena frigge contro la lamiera e le braccia sono appese lungo i fianchi. E hanno la sensazione che le labbra serrate di Eva e le sue braccia appese lungo i fianchi non siano un buon segno e che non lo sia nemmeno il colorito bluastro che screzia il suo decolleté e che invece è soltanto il riflesso lucido del sudore più due gocce di inchiostro di penna a sfera che Eva ha trasferito toccandosi il petto con la punta delle dita. E per evitare il peggio – ma senza panico – con gesti fluidi e calmi scostano Eva e la posano sul marciapiede nell’ombra scura di un balcone, afferrano ai quattro angoli i paraurti della piccola automobile, la sollevano incredibilmente in alto, fin sopra le spalle, e muovendosi in una coreografia simmetrica e perfetta la inseriscono in un parcheggio appena poco più avanti, uno spazio ritagliato su misura, un loculo quadrato disegnato dalla striscia bianca della segnaletica orizzontale. Lì la macchina potrebbe riposare per sempre e venire dimenticata, sepolta sotto strati sovrapposti di polveri sottili.

Quando le sospensioni cigolano per l’ultima volta, nell’istante in cui l’auto viene depositata a terra, Eva schiude le labbra e l’aria rovente entra nella sua cassa toracica e insieme vi entra anche l’ombra scura del balcone. Come un grido.

Perché le grida silenziose entrano nei corpi invece di uscire.

Gli uomini nerovestiti salutano con un cenno del capo. Eva galleggia. Anche la minuscola.

Sono sospinte verso l’alto, entrambe.

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“La minuscola” è stato scritto da mariasole ariot e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

La banda Hood, le cariche e le ruspe

Oggi La vera storia della Banda Hood esce nelle librerie… e noi ci ritroviamo a subire le cariche con cui polizia e carabinieri tentano di sgomberare il presidio del comitato Besta in difesa di 42 alberi al parco Don Bosco di Bologna. Dal primo mattino, sul nostro canale Telegram, abbiamo reso conto degli eventi man […]

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“La banda Hood, le cariche e le ruspe” è stato scritto da Wu Ming 4 e pubblicato su Giap.

L’università dia il diritto totale di parola a tutti

Davvero c’è un’emergenza nell’università italiana? Se c’è, è nella mancanza di un sostanziale diritto allo studio in termini di alloggi e servizi. È nella minaccia mortale che l’autonomia differenziata rappresenta per la libertà dell’università sancita dalla Costituzione. È nella costante intromissione di una politica che interviene sulle idee e sulle parole dei docenti chiedendo dimissioni, o censure. È nell’interferenza inaudita di ambasciate di Stati esteri che contattano direttamente i rettori con richieste e moniti.
È nella crescita abnorme delle università telematiche, macchine di profitto capaci di assicurarsi l’indulgenza della politica verso l’applicazione di controlli e valutazioni ai quali sono invece sottoposti gli atenei pubblici: con la conseguenza che Pegaso sta superando la Sapienza per iscritti, diventando il primo ateneo d’Europa, in un ben triste primato italiano.

Non vedo, invece, alcuna emergenza nelle manifestazioni per Gaza che in queste settimane attraversano le nostre comunità accademiche. Le studentesse e gli studenti dicono, anzi gridano, cose che si possono condividere o meno. Io, per esempio, non condivido affatto la richiesta di boicottare le università israeliane, come non condivisi (e non applicai) quella governativa di fare altrettanto con le università russe. Ma non perché abbia alcuna simpatia per i governi di Netanyahu e di Putin: al contrario, perché le università di quei Paesi sono fra i pochi luoghi in cui si coltiva un vitale dissenso. Condivido, invece, la richiesta di ‘smilitarizzare’ le università italiane. In conferenza dei rettori votai contro la collaborazione con MedOr (la fondazione di Leonardo presieduta da Marco Minniti), e credo che nessun rettore dovrebbe sedere nel suo consiglio scientifico. Nell’aula magna della mia università abbiamo scritto una frase di Virginia Woolf: “E poi, cosa si dovrà insegnare nell’università nuova? Certo non l’arte di dominare sugli altri… di uccidere… ma l’arte dei rapporti umani, l’arte di comprendere la vita e la mente degli altri”. E il nostro Codice Etico dice che “nessuna ricerca di chi lavora e studia all’Università e nessun posto di insegnamento possono essere finanziati da imprese o fondazioni legate alla produzione e vendita di armi”.

Ma il punto non è essere d’accordo o meno con ciò che dicono le studentesse e gli studenti: è permettere loro di dirlo. I governi delle università devono avere l’intelligenza di costruire più spazi di libertà, in modo che a nessuno (con l’eccezione, imposta dalla Costituzione, di chi si professi fascista) venga negato il diritto di parlare, ma anzi tutti possano farlo: esemplare, in questo senso, il Senato accademico aperto voluto dal rettore di Pisa Riccardo Zucchi, che in otto ore ha dato tribuna e ascolto alle più diverse opinioni su Gaza e Israele. Quando le studentesse e gli studenti provano (sbagliando) a togliere la parola a personaggi mediatici invitati nelle università (secondo una prassi sulla quale dovremmo interrogarci), come si fa a non vedere che una generazione senza voce sta contestando chi, invece, può parlare ovunque? Perché è in fondo questo che chiedono: poter parlare, essere ascoltati. Dovremmo preoccuparci se non lo facessero, di fronte all’enormità del massacro di Gaza e alle complicità ipocrite dell’Occidente. Semmai, dovremmo interrogarci sui limiti della capacità di argomentare che vengono dolorosamente a galla in questa ondata di proteste: ma qui siamo noi professori a doverci battere il petto, per aver supinamente accettato un modello universitario assai più dedito a formare un disciplinato ‘capitale umano’, che non ad alimentare un solido e attrezzato pensiero critico.

Le università devono rimanere luoghi in cui si garantisce a tutti e a tutte la massima libertà di parola. E bisogna resistere al rischio (o al disegno) per cui la creazione a tavolino di una emergenza sia pretesto e legittimazione di qualunque forma di irregimentazione poliziesca, o di controllo politico. Perché è dall’alto, e non già dal basso, che sono sempre arrivate, in ogni Paese, le vere e più concrete minacce alla libertà delle università: la quale è uno dei termometri più sensibili della libertà tutta di un Paese.

Di fronte alla repressione giudiziaria delle proteste studentesche della metà degli anni Sessanta, quell’uomo misurato e mite che era Alessandro Galante Garrone scrisse: “Cerchiamo un po’ tutti di non inaridire, alla fonte, la sincerità dei nostri giovani, di rispettarne la dignità, di non indurli a una opportunistica cautela, di cui hanno già fin troppi esempi intorno a sé. Lasciamoli dire, senza veli, quello che pensano. Le manette, le museruole, le vessazioni grandi o piccole (come un tempo i biglietti della confessione) non possono che fare del male”. Parole sagge: ancora oggi perfetto manifesto di una università veramente libera.

(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano)

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“L’università dia il diritto totale di parola a tutti” è stato scritto da Tomaso Montanari e pubblicato su ROARS.

Il vecchio col bastone

di Giorgio Mascitelli

In occasione del centenario della nascita dello scrittore, la Fondazione Arnaldo Pomodoro pubblica un inedito di Francesco Leonetti (Il vecchio col bastone, a cura di Marco Rustioni, Milano, 2024, euro 10). Il volume è aperto da un’introduzione del curatore, si chiude con una postfazione dell’antropologa Aurora Donzelli, nipote di Leonetti, e riporta una copia fotostatica del quaderno originale da cui è stato tratto l’inedito. Il testo è un racconto incompleto suddiviso in tre paragrafi del quale abbiamo un io narrante di età avanzata, che dovrebbe rispondere al nome di Franco Bissone, il quale si rivolge a un amico coetaneo di nome Leonetti per interpretare la realtà in cui viviamo e quest’ultimo gli fa dono di alcune poesie dedicate a Eleonora Fiorani, che effettivamente  seguono e si inseriscono nella terza sezione del testo.

Tema principale della scrittura è lo stretto legame tra lo sfacelo del corpo e quello della società o piuttosto del mondo, con le movenze stilistiche tipiche dell’idioletto leonettiano, nel quale una sintassi ipotattica che descrive il quotidiano straniandolo viene illuminata da improvvise formule di rigorosa definizione o, addirittura, autopercezione teorica. Del resto questa stretta connessione tra dato biografico e riflessione teorica generale è una delle cifre anche delle opere più importanti di narrativa e poesia. Qui è evidente il tema ecologico: la sconfitta del progetto rivoluzionario della modernità non è semplicemente la sconfitta di un modello società, ma della specie stessa (“rendiamoci conto di tutti gli aspetti allegri, vitali, solo suoi ( del mondo), pur se siamo falliti come specie: si va in auto, non coi piedi;” p.37). Analogamente nelle poesie domina il rimpianto per l’albero (“Perché non sono un albero nel bosco?”, p.39) e l’orrore per la città, ma anche tale contrapposizione è sempre declinata leonettianamente con rigore materialistico, senza nessuna indulgenza all’idillio.

Marco Rustioni colloca il testo in questione, con argomenti inoppugnabili, nel 2007 circa quindi durante l’ultima fase della vita dell’artista che è mancato nel 2017 e ne riscontra affinità con la produzione di poco anteriore, in particolare “l’invariante del sogno” volta a “stabilire un contatto con la dimensione storico-sociale” e “la natura miscellanea ed enciclopedica della narrazione, che appare destinata più a una funzione paradigmatica che finzionale”. Di grande interesse anche le considerazioni che Aurora Donzelli rivolge alla scelta di riprodurre fotostaticamente i quaderni di Leonetti, che diventano una riproduzione almeno parziale del “ritmo del suo pensiero”, e in qualche modo ci impongono una riflessione di fronte allo scarto tra materialità dell’atto scrittorio e sua normalizzazione tipografica, divenuta seconda natura.

Più in generale questo volume ha il merito di riproporre alla nostra attenzione la figura di uno dei più interessanti e radicali interpreti del secondo Novecento, che ha rappresentato un modo di intendere la funzione intellettuale e letteraria come pungolo al dibattito culturale e alle critica sociale e politica; del resto quando la critica parla di Leonetti come l’uomo delle riviste (da Officina negli anni Cinquanta fino a Campo negli anni Novanta), allude con altre parole alla realizzazione tramite la sua lunga esperienza di redattore di riviste di questa prassi, che diventa parte concreta della sua opera letteraria. Il fatto che oggi una tale traiettoria di vita e di opere, se paragonata alle prescrizioni standard odierne per l’attività letteraria, possa sembrare esotica, è una misura eloquente della provincializzazione della nostra cultura.

 

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“Il vecchio col bastone” è stato scritto da Giorgio Mascitelli e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Tre teste

di Max Mauro

Come si fa a tagliare una testa?

Vorrei porgli questa domanda, ma dubito avrebbe una risposta da darmi. No, una risposta probabilmente l’avrebbe, ma sarebbe un’invenzione, un crudele gioco di immaginazione. Lui non ha mai tagliato una testa, ne sono sicuro. Come potrei essere seduto al tavolo con un tagliatore di teste? Così voglio credere, ma chi può assicurarmi del contrario?

La sua è una storia inventata, almeno in parte, come tutte quelle che raccolgo. Anche la mia lo è, ne sono cosciente. Tutti raccontiamo qualcosa che non ci appartiene, ricordi di altri, parenti, amici o perfetti sconosciuti incontrati sul tram o scoperti nei libri. Ricordi così limpidi e intensi da offuscare i nostri. Raccogliamo emozioni con un setaccio bucherellato e le attacchiamo malamente una all’altra come pezzi di plastilina rinsecchiti illudendoci di farne dei ricordi personali. Qual è la parte inventata e qual è quella vera?

Però la testa tagliata.

Non posso fare a meno di pensare a quelle tre teste allineate sul terrazzo del carcere a pochi metri di distanza da dove si trovava la mia, di testa, con annesso il corpo, appena alcuni giorni prima. Tre teste. Sono allineate in bella vista come fossero torte a un concorso di cucina. Tre terrificanti torte tonde.

Il viso, gli occhi, la bocca, non c’è bisogno di altro. Il resto è accessorio. E’ sparso sul terrazzo, un carnaio alla rinfusa. Due braccia, o spezzoni di braccia. Una scarpa. Una scarpa da trekking alta, di piede destro, come se ne vedono tante sui marciapiedi di Caracas, di gente frettolosa e distante. La scarpa è macchiata di sangue e contiene un piede attaccato a un pezzo di tibia. Accanto alla scarpa col piede dentro c’è un corpo, un corpo morto, ovviamente, quasi intero. Quasi. La testa è altrove. E sangue ovunque. Ma non attorno alle teste. Quelle no. Sono esposte in un angolo. Ripulite.

Gli occhi di tutte e tre le teste sono semichiusi. In una, la prima a destra, un viso tozzo, tondo e carnoso con capelli radi e ciglia folte, mi pare di scorgere uno sguardo di rassegnazione. E’ solo un’impressione. Che sguardo è possibile in una testa mozzata? Cosa avranno visto gli occhi in quell’attimo che hanno smesso di vedere? Forse hanno visto il vuoto, magari un soffitto, perché chi ha tagliato la testa agiva da dietro e voleva evitare di essere visto, come in quel quadro di Caravaggio, non quello con la testa del pittore, un altro, memoria aiutami tu.

E’ stato un machete vero o un coltellaccio ottenuto dalle gambe del letto di ferro affilato sul muro? Probabilmente le teste sono state tagliate dopo che gli uomini erano stati uccisi. Chi le ha allineate per fotografarle sapeva che qualcuno, un me qualsiasi, un me sconvolto, vedendo la foto ne sarebbe stato turbato al punto da non poter pensare ad altro e si sarebbe fatto molte domande.

Come si fa a tagliare una testa? Non come avviene il taglio, un atto di banale macelleria di cui non sono completamente ignaro, colmo dei ricordi di polli, tacchini e maiali visti uccidere a casa dei nonni durante la mia lontana infanzia. No, mi chiedo, perché avviene il taglio? Cosa spinge qualcuno a tagliare una testa, e ad esporla alla macchina fotografica, invece di accontentarsi della semplice, banale, uccisione di un essere umano?

La testa a sinistra è quella di un ragazzo, un giovane uomo coi capelli rasati e i tratti meticci. Ha un taglio profondo sulla fronte, poco sotto l’attaccatura dei capelli. Il taglio sembra di plastica perché è intonso come un marchio disegnato. Dove è finito il sangue? Comincio a ragionare come se tutto questo fosse normale e una testa mozzata potesse essere analizzata come si fa con un’immagine tratta da un film. O un’opera d’arte.

Il taglio mi ricorda un quadro. Di chi era? La mia memoria è fratta. Lucio Fontana, ecco, era lui. Il taglio di Lucio Fontana visto al museo di arte contemporanea, proprio quello di Caracas, questa mia città transeunte. Ecco cosa mi ricorda il taglio sulla fronte di quel ragazzo, anzi della sua testa. Un taglio chiaro, preciso, pulito. Ma quelli di Fontana erano tagli fatti sulla tela di quadri destinati a un museo o una galleria d’arte, e chi li osserva oggi si chiede cosa vogliono dire, perché li avrà fatti. Questo taglio è fatto sulla carne, su di un corpo spezzato, svuotato, spento. Eppure le domande per me sono le stesse. Cosa vorrà dire, perché l’hanno fatto.

Le tre teste ora, nella foto, sono solo un ornamento sulla terrazza che fa da tetto al carcere. Anche se non si trovano più lì e sono state portate altrove, la foto le rende parte integrante di quello spazio. Dopo quella foto non c’è più una terrazza senza teste. Non esiste più quel luogo che io ho visitato in incognito, ignaro di quello che vi sarebbe accaduto poco dopo, quando la rivolta sarebbe scoppiata.

“Copia queste foto nel tuo computer e poi ridammi la pendrive, è l’unica che ho”. Così mi disse il mio interlocutore al nostro primo incontro. E ora lo rivedo per restituirgli la pendrive. Mi sembra coli sangue, la pendrive. Le mie mani sono sporche, sporche di sangue. Mi sento stupido, ho paura di me stesso.

L. parla come se volesse aiutarmi, aiutarmi a capire in che luogo sono finito. Ha un modo nervoso di raccontare e raccontarsi. Io non so cosa vuole in cambio da me, credo sia solo bisogno di attenzione, la sua, o forse la ricerca di un contatto che potrebbe servirgli, prima o poi. Ho imparato dal prof K che in questa città senza contatti sei perduto. Io raccolgo storie e le scrivo, finché me lo permettono. I contatti sono importanti anche per me e L. è un contatto prezioso perché mi porta dentro alla storia che più di altre cerco di ca(r)pire, quella del senso del mio trovarmi in questo luogo, così diverso da ogni altro in cui ho messo piede prima.

L. ha poco più di quarant’anni, gran parte dei quali li ha trascorsi in Italia, dove ha dei lembi di famiglia con i quali fatica a mantenersi in contatto. Un fisico snello e solido, il viso affusolato, i tratti scavati abbrustoliti dal sole. Con la cravatta e un vestito adatto potrebbe reggere la parte del direttore di banca, una piccola filiale di un piccolo centro di provincia del centro-Italia. Da alcuni anni la sua vita è il carcere in Venezuela, da poco è stato inserito in un regime di semi-libertà che gli permette di lavorare fuori per alcune ore al giorno e di rientrare solo per dormire. Il carcere non è un luogo separato dalla vita reale. E’ un crocevia di contraddizioni dove il fuori e il dentro si confondono negli spazi vissuti e nelle storie individuali dei detenuti. La violenza del carcere è solo una versione lievemente amplificata di quella che anima e travolge le vite reali. E’ questo che mi tormenta. Cosa mi dicono le teste mozzate sulla mia scelta di vita? Ma è una la scelta, la mia?

“Le decapitazioni sono frequenti. Ogni rivolta in carcere, che poi rivolta magari non è ma semplice guerra tra bande per il controllo del carcere, può finire così. Le guardie non intervengono perché tutto avviene nel carcere interno, un territorio ‘auto-gestito’ dai detenuti, dalle bande. Le guardie lasciano che i detenuti si scannino, che ci sia un vincitore, perché un vincitore c’è sempre, ed è quello che rimane in vita. Quando tutto è finito, loro entrano e scattano le foto, prima che arrivino gli inquirenti. Alcune le scattano anche i vincitori e le conservano per far vedere chi comanda. Le guardie le scattano per aver qualcosa da mostrare ai colleghi che non erano in turno quel giorno, o solo per farsi grandi davanti alle donne. Vogliono far vedere che quello è veramente un carcere violento e che gli assassini sono dei veri assassini pronti a tutto e loro sono i guardiani di questo mattatoio”.

Allungo la schiena per stendere i muscoli contratti dal racconto e dalla memoria delle immagini viste sul computer alcune ore prima e fissate a lungo, troppo a lungo. Le sedie di plastica unta su cui siamo seduti da più di un’ora non sono fatte per conversazioni prolungate. Sono sedie da campeggio, come del resto i tavolini coperti malamente con una tovaglia gommata a quadretti, con macchie sparse qua e là. Il bar si chiama Inter ma non ha nulla di calcistico. Quando venne aperto probabilmente in questa zona vivevano degli immigrati italiani, ma negli anni si sono spostati altrove, in zone più “sicure” della citta, o sono rientrati in Italia. Qualcuno mi ha detto che i gestori del bar sono portoghesi, ma altri mi hanno detto di non credergli. Più d’uno mi ha detto di dubitare di tutto, sempre, è la regola per sopravvivere in questa città, ma non so se sono in grado, se sono all’altezza di questo compito. Sono nato innocente.

Dietro il banco della panetteria-bar si affollano varie giovani figure e mi paiono indistinguibili dalle migliaia che incrocio nelle strade. Se qualcosa di europeo, un’idea ingenua e balorda di alterità continentale, c’era in loro, è andato perso qualche decennio fa. Nulla è rimasto nei movimenti e negli sguardi di questi ragazzi che possa ricordarmi l’Europa.

Il tavolino è all’interno della sala ma la parete che dà sulla strada è una semplice saracinesca che è aperta. E’ sempre aperta, almeno fino alle cinque, cinque e mezza, quando il bar chiude, e con esso ogni attività nei dintorni. A quell’ora tutti spariscono rapidamente perché si avvicina il tramonto.

Sul tavolo, una birra, la mia, bevuta per metà e ormai calda, e una coca cola, quella di L.. “Non bevo alcolici durante il giorno, cerco di bere meno possibile”. Forse in lui c’è un passato di dipendenza.

“Io tra un po’ devo andare”, aggiunge tradendo una certa ansia. “Ho il rientro alle sette e prima devo passare a prendere una borsa da casa della mia donna”. Invece continuiamo a parlare e il racconto si ripete, come se ci fosse un bisogno catartico di liberarsi del vissuto e rincorrerlo a parole fosse l’unica soluzione.

Ha scontato tre anni e gliene restano altri sei, ma grazie ai contatti che ha creato fuori e dentro il carcere conta di averne abbuonati alcuni. Sogna l’estradizione in Italia, ma quella è più difficile da ottenere. Come lui, condannati per traffico di droga, ce ne sono a decine di italiani nel paese caraibico. E tutti hanno ottime ragioni per dirsi innocenti. Tutti viaggiavano per piacere o vacanza e si sono ritrovati, a loro insaputa, con qualche chilo di cocaina nella valigia.

Io credo a tutti, ho sempre creduto a tutti, fin da bambino. Il mondo adulto a cui appartengo mi vuole convincere a diffidare delle storie, soprattutto di quelle straordinarie. Eppure io non ce la faccio, continuo a credere alle persone. Chi sono io per dubitare delle loro vite? Io sono solo un umile raccoglitore di storie. Non sta a me giudicarle.

Ma le teste mozzate?

Mentre L. ripete per l’ennesima volta il racconto della sua vita io penso alle teste mozzate. Non sono invenzioni. Ho salvato le foto sul mio computer, che ora è sporco di sangue. Fisso chi me le ha date, quelle foto; la sua mano destra sfiora il bicchiere di coca cola quasi vuoto, il dito indice si avvicina al bordo, un movimento incosciente. E’ forse lo stesso dito che ha premuto il tasto della macchina fotografica sul tetto del carcere? Non oso chiederglielo. Una domanda di troppo. Fuori fa buio ed è meglio che mi avvii verso casa.

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“Tre teste” è stato scritto da davide orecchio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Acque alte

di Cristiano Dorigo

Il pezzo che segue è tratto da “Acque alte” (Meligrana Editore, 2024), di Cristiano Dorigo, per maggiori informazioni si veda la nota alla fine (NdR)

Come e quando ho imparato il prima e il dopo”
“Quando ero bambina mi divertivo tanto con mamma e papà, avevo una spensieratezza infinita, come tutti i bambini. Quello per me è il periodo dell’innocenza, delle corse nei campi, lungo l’argine del fiume, dello sguardo pieno di stupore dinnanzi alla natura: ero libera come un cucciolo d’animale, in sintonia con l’ambiente che mi circondava.
Questa era la mia vita finché stavo nei paraggi di casa, nella cittadina che mi pareva grande come un universo.
A volte mi capitava di accompagnare mamma giù al Sud dai suoi parenti. Mio padre, per una storia che non si è mai capita – so solo che riguardava una sorta di pegno con amici degli amici con i quali aveva un debito di qualche tipo – era andato a prendersela, l’aveva poi sposata pur non essendo più illibata, un’onta non rimediabile in quegli anni, in certo meridione rurale. Su al Nord invece, ci si poteva già chiudere un occhio su queste faccende d’altri tempi e latitudini, in cambio di lauta mancia al reverendo parroco.
Quelle incursioni, oltre ai viaggi interminabili mi piacevano, come fossero un momento tra parentesi fra due mondi così diversi. Li percorrevamo a volte in auto con papà, ma più spesso in treno, e mi rimaneva sempre impresso qualcosa, particolari a volte insignificanti: ricordo, ad esempio, la prima volta che vidi le vecchie andare in giro vestite tutte di nero, col caldo che faceva in paese, come condannate a un eterno lutto.
Solo le donne, gli uomini no.
Mia madre giù cambiava tono, umore, modo di esprimersi, come avesse introiettato un precetto che le imponeva di stare il più possibile in silenzio. Quando apriva bocca era per rispondere a una domanda, e lo faceva con quel dialetto faticoso, che quasi non capivo; ci ho messo diversi viaggi a digerirlo, ma non sono mai riuscita a parlarlo, se non qualche parolaccia, frequentando bambini e ragazzi, che poi sentivo ripetere a mia madre, una volta tornati a casa, esclamare ad alta voce quando si arrabbiava.
Al ritorno il viaggio sembrava più breve, come se andata e ritorno corrispondessero a salita e discesa; notavo in mia madre una certa frenesia di allontanarsi da quei luoghi, e al contempo mi sembrava che una malinconia sottile le velasse gli occhi, che cercava di nascondere al mio sguardo.
Tornate a casa con papà ricominciava a ridere, a usare il solito linguaggio sguaiato, a guardare quei film che a me all’inizio parevano strani, che facevano vedere anche a mia sorella e ai miei fratelli, tutti insieme, e che soltanto da grande sono riuscita a distinguerli da quelli normali.
E c’era anche lui, il figlio di mamma nato al sud, molto più grande di noi, lo stigma della vergogna.  Dopo quei film veniva sempre a trovarci, e a pretendere qualcosa che da bambina mi era sembrato normale benché fosse una scocciatura, una consuetudine noiosa come pettinarsi o farsi la doccia o prendere un ceffone dopo una marachella; a scuola mi ero confrontata con le compagne di classe e avevo capito che per le mie amiche non era normale, anzi, era proibito anche soltanto parlarne. Mentre io raccontavo, mi guardavano a occhi spalancati, chi con curiosità, chi con smorfie di sgomento, chi ancora con la mano davanti alla bocca a coprire spavento o ridarella, e io ancora non capivo, all’inizio: mi dicevo ma cosa ci sarà mai di strano? boh.
Mia madre rideva sempre, anche quando andavo a dirglielo: ah ah perché non è divertente Dalia? Ma dài, se proprio non ti piace, pensa che è solo un gioco, e che dopo lui se ne va e ti lascia stare. 
Mamma non capiva che a me non piaceva, anzi non sopportavo il prima di quel dopo, o se lo capiva, lo riteneva una tara ereditaria che tocca a ogni femmina, benché lei fosse riuscita, con ogni evidenza, a farseli andar bene entrambi: il prima e anche il dopo. .
E poi col tempo era diventata abitudine. E che sarà mai, mi dicevo: basta concentrarsi, convincersi che il dopo arriva sempre.
Ed è così che si fa con gli uomini, no? Se durante il prima si pensa che poi c’è il dopo, il gioco è fatto.
Ed è così che tanti uomini mi volevano un poco di bene ciascuno, e tanti poco, sommati, magari potevano diventare tanto; ho imparato così l’aritmetica, che pure mi confondeva: mettendo insieme tante cose, tante era più di poche.  
Tanto affetto formato da tanti piccoli poco affetti. Come nelle canzoni, nei film dove due si amavano tanto, solo in modo diverso, variabile: là era tutto in blocco, un amore grande; nel mio caso era una somma di piccoli amori.
Ma nessuno mi capiva e tutti pensavano male di me, mi giudicavano; e allora io andavo in confusione e facevo più guai – guai non per la considerazione che ne avevo io, ma per quelli che giudicavano: io mi ponevo sempre dopo con il pensiero, il quale veniva prima anticipato dall’azione.
Sapessi quanto mi è costato tutto questo: nessun uomo restava con me, le ragazze mi disprezzavano, dicevano che io la davo via a tutti.
Ma solo in questo modo mi sentivo viva.
Il resto del tempo era solo confusione.

Quando Dalia era arrivata in appartamento andava ancora a scuola, non aveva mai esperito un rapporto con un uomo adulto che non fosse come quelli che aveva raccontato.
Ma una volta capito che qui non serviva il prima e il dopo, che io non giudicavo, che rispondevo quando chiamava, che potevo ascoltare quasi tutto anche se certe volte mi faceva tremare di tenerezza e di rabbia, che potevo aiutarla a spingere la fatica durante quelle salite, siamo riusciti a fare un pezzo di strada insieme.
Prima da vicino vicino, poi un po’ più lontano.
Poi c’è stato il periodo intercorso tra la fine della scuola, i tirocini, le giornate di prova, i tentativi vari ed eventuali.
Quando finalmente è arrivato il lavoro vero, quello con uno stipendio, tutto è cambiato.
Allora era vero che lei e la normalità potevano stare insieme, o almeno provare a convivere per un po’.
Ancora tanti alti e bassi, rotonde, incroci, passaggi a livello; respira Dalia, prendi fiato.
Ok, si riparte.
Ci riprova, ce la mette tutta: anche per lei arriva un ragazzo che le offre una vita normale, mettono al mondo una bambina, tutto fila liscio.
Per un po’.
Poi ricomincia a fare quello che Dalia ha sempre fatto: scusa, scusa non lo farò più.
E si prova a ripartire.
Il tira e molla però ora non è più solo tra adulti, c’è una bambina, una suocera, incomprensioni, agiti, tradimenti, scontri, lotte.
Che fatica la vita.
Sempre in salita.
Chissà cosa ci sarà dietro quella curva a gomito.
C’è un prima, poi ci sarà un dopo.
Prima o dopo ci si rivede, Dalia.

 

NdR Questo pezzo è tratto da “Acque alte” edito nella collana “Priamo” di Meligrana Editore (2024), di Cristiano Dorigo, che si ispira alla sua lunga esperienza di operatore sociale a Venezia. Questa la presentazione nel risvolto dicopertina del libro:

Venezia è invasa dall’acqua alta. Le previsioni dicono che potrebbe durare ininterrottamente per giorni e notti. Il protagonista, chiuso in casa, isolato, decide che la clausura potrebbe essere l’occasione per scrivere il libro che troppo a lungo ha trascurato. Avrebbe voluto raccontare le storie delle ragazze incontrate durante la sua esperienza professionale di educatore, ma la chiusura forzata lo trasforma, anche, in un diario intimo dei giorni e delle notti trascorse nel suo piccolo appartamento. Il libro è formato da sette parti, suddivise a loro volta fra “giorno” e “notte”, che contengono ciascuna un racconto della giornata, un episodio delle “sue ragazze” – tutte chiamate con un nome di fiore per mantenerne l’anonimato –, e una notte in cui rievoca episodi della propria vita emotiva. I temi affrontati sono quelli del disagio sociale, della morte, dell’introspezione e elaborazione del lutto. E della possibilità di rinascere, ricominciare, per come si è, per come si può.

 

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“Acque alte” è stato scritto da giacomo sartori e pubblicato su NAZIONE INDIANA.