Vorrei Parigi adesso

di Giovanna Cinieri

 

Ho paura che un camion mi travolga. Temo di finire tagliata in due da una lamiera o che un tronco a punta trasportato da un vecchio furgone sulla strada provinciale per Martina Franca mi trapassi. Anni fa sfrecciavamo io e mio fratello sulla Taranto-Bologna senza soste a velocità inconcepibili e io ascoltavo musica: nessun terrore, avevo un cuore che era un mostro corazzato, tracimava luci dove manco Dio le avrebbe messe.

Sono tornata da Parigi da un mese, ho trovato Amilcare che non si tiene dritto sulle zampe: scivolano sul pavimento di marmo aprendosi come un mazzo di brugmansie arboree. Ho tenuto in mano un mazzo di brugmansie una volta: erano così bianche, le avevo prese dal giardino di mia madre, il loro albero le faceva nascere già appese, poi la notte diventavano lenzuoli abitati da fantasmi. Le brugmansie comunque mi davano sonno e Amilcare è così che lo vedo ora: come se dovesse dormire. Se penso al desiderio delle creature più piccole di restare sveglie sui bordi della terra mi viene da piangere.

All’appuntamento di venerdì scorso dal veterinario ci siamo andati in macchina, guidava mio padre: io tenevo Amilcare in braccio, ho pensato che il vetro dell’auto impattando con una qualunque delle auto della corsia opposta ci sarebbe scoppiato in faccia, saremmo stati io e il mio cane riflessi in centinaia di piccole schegge. Amilcare se ne sta andando, il veterinario me l’ha poi confermato: cosa pretende? mi ha detto guardando il suo corpo accasciarsi sulla lastra di metallo lì di fronte a noi — si stanno scaricando le batterie.

Soffre? Ho chiesto io.

Se non beve e non mangia, certo. Quindi ci pensi, ha detto mentre mi chiudevo la giacca prima di lasciare l’ambulatorio.

Andarsene a tratti, un boccone rifiutato alla volta, un goccio d’acqua che non scende, la sete che poi passa e non ritorna, che modi sono di farmi sentire l’eterno? Non riesco a contenere nessun infinito, se lo guardo da lontano già scompare, qui c’è è un mostro che lo terrebbe in vita anche a intermittenza, in un perenne panico, ma tra i fiori, amore caro, tra i fiori.

A Parigi ho visto per la prima volta Notre Dame, poi sono andata a inginocchiarmi ai piedi della statua di Giovanna D’Arco, sapevo che Amilcare era a casa di mia madre ad aspettarmi. Tutte le inutili preghiere bruciano, per questo a dieci anni diedi fuoco al giardino: la prima cenere caduta è stata quella delle brugmansie arboree, che magnifica danza hanno fatto, più belle di così non sono mai state. Mia madre gridava, eravamo sole dentro casa, io le presi la mano sudata e le dissi: siamo al riparo, pensa che sono solo luci dove Dio non le avrebbe messe. Poi vennero a spegnere tutto.

Ogni giorno è una parte di Amilcare che non risponde, ha la cuccia in camera da letto e intorno alla stoffa si annidano ciuffi di pelo rosso, li raccolgo piegandomi storta, il dolore che sento è imprecisato. Fuori dall’appartamento sono tutte auto che vorrebbero investirmi. Ogni ora della notte è anche peggio: posto che dalle diciannove in poi non ho nessun rimedio per Amilcare che si lamenta molto più che di giorno, la notte è una veglia su di lui che sonnecchia e sospira. Gli faranno male le ossa, le sue piccole ossa sottili; potessi mi farei una collana con le sue falangi e indossandola direi: questa collana è una mappa e se non vedi segnata Parigi è perché Amilcare non è potuto venire.

Vedessi invece i suoi occhi, pare che non abbia visto che questa stanza da letto in cui giace: una pupilla è ormai andata, non ci vede più per via della cataratta e il resto del colore scuro si è perso come un bambino in un parco dismesso. Vorrei Parigi adesso, l’albergo aveva una carta da parati con sopra stampati tanti cani diversi che indossavano occhiali da sole, ridevo di niente.

Ci pensi, mi ripete il veterinario quando lo richiamo. Io volevo solo avvertirlo delle feci liquide che ho trovato nella cuccia, se l’è fatta addosso mentre sdraiato guaiva.

Allora ho lavato Amilcare e l’ho preparato per uscire. Ho chiamato di nuovo mio padre per farci accompagnare. E siccome il mio cuore mostro non è più corazzato, una volta chiuso il telefono ho pianto per ogni singolo minuto che andava. Io ho messo quella giacca nera col pelo di orso, su di lui una coperta rossa da Cardinale. Abbiamo sceso le scale, sembravano altissime.

Ma è un perenne panico questo metterti tra i fiori, amore caro, tra i fiori. Le brugmansie arboree ancora bruciano.

Una volta aperto il portone i fari di enormi camion a tutta velocità ci hanno puntato addosso, autobus hanno deragliato e macchine ribaltate hanno cominciato a rotolare sulla strada. Sono rientrata nell’atrio, ho stretto più forte Amilcare, e senza avere più fiato ho richiamato mio padre: ci vogliono investire, papà, ci vogliono investire!

Rientrando dentro casa ho pensato alla lentezza. Ci sono solo porzioni minute di cose che si fermano, le altre si schiantano, perciò ho messo Amilcare nella cuccia e ho ripreso ad ascoltare musica.

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“Vorrei Parigi adesso” è stato scritto da Giorgio Mascitelli e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Spezzare l’Italia Le regioni come minaccia all’unità del Paese

Pubblichiamo il Prologo del libro Francesco Pallante “Spezzare l’Italia Le regioni come minaccia all’unità del Paese”

 

Uno scenario a breve scadenza: Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – le regioni piú ricche del Paese, che insieme valgono il 40 per cento del Pil nazionale – mettono fine call’unità d’Italia. Sanità, istruzione, musei, giustizia di pace, lavoro, sostegno alle imprese,
trasporti, strade e autostrade, ferrovie, porti e aeroporti, paesaggio, ambiente, laghi e fiumi, rifiuti, edilizia, energia, enti locali passano integralmente alla competenza delle tre regioni. Il Veneto acquisisce la laguna di Venezia. La Lombardia il controllo del sistema universitario. L’Emilia- Romagna tutti i musei presenti nella regione. Gli insegnanti diventano dipendenti regionali; le grandi reti infrastrutturali sono frammentate e ripensate dando priorità alle esigenze del sistema economico locale; comuni e province perdono autonomia e si trasformano in enti nella disponibilità delle regioni. Lo Stato si ritrova privo delle leve essenziali per realizzare politiche sociali, culturali, ambientali, economiche di respiro nazionale. L’amministrazione pubblica è disarticolata a causa della variabilità delle competenze, che in alcuni territori diventano regionali, in altri rimangono statali. Le imprese sono chiamate a fare i conti con una frammentazione normativa e amministrativa che complica le loro attività.

La solidarietà nazionale va in frantumi: assieme alle nuove competenze – individuate tra le oltre cinquecento funzioni attualmente gestite dallo Stato in ventitre materie – le tre regioni ottengono le risorse necessarie a esercitarle, calcolate a partire dal gettito fiscale generato sul loro territorio, senza compensazioni perequative. Nel Paese europeo segnato dalla maggiore diseguaglianza interna, un’enorme quantità di ricchezza (oltre 75 miliardi di euro all’anno) si sposta dai territori piú indigenti a quelli piú benestanti. Come se non bastasse, una volta assegnate le nuove competenze alle regioni, è pressoché impossibile tornare indietro senza il consenso delle regioni stesse, dal momento che la procedura esclude iniziative unilaterali dello Stato e rende oltremodo complicato, se non impossibile, il referendum abrogativo. Il tutto, senza nemmeno il fastidio di dover cambiare la Costituzione. Com’è stato possibile arrivare a tanto? È chiaro che siamo al compimento, sotto mentite spoglie, dello storico disegno secessionista della Lega. Ma, com’è successo che una rivendicazione di parte, vocata al culto delle piccole patrie, venata da pulsioni razziste, segnata da egoismi territoriali, alimentata da avidità economica, sorretta da ridicoli rituali – la Padania, i celti, Alberto da Giussano, le ampolle del dio Po, il “pratone” di Pontida – sia divenuta una questione nazionale capace di mettere in scacco la tenuta dell’unità del Paese? E che cosa ci fa, assieme al Veneto e alla Lombardia, l’Emilia-Romagna, storica roccaforte del Partito democratico? Di piú. Com’è pensabile che le preoccupazioni unanimemente sollevate da Banca d’Italia, Confindustria, Ufficio parlamentare di bilancio, Svimez – tutti contrari all’ulteriore incremento delle competenze regionali – siano lasciate cadere nel vuoto dal sistema politico? E com’è accaduto che il disastro regionale nella gestione della pandemia da Covid-19 non abbia innescato alcuna riflessione sul regionalismo e i suoi eccessi e abbia, anzi, finito per rilanciarlo sino alla sfida finale? All’origine di questo libro c’è l’urgenza di cercare una risposta a tali domande. Di provare a capire come si sia prodotto lo scivolamento, lento ma costante, apparentemente inarrestabile, verso il baratro che oggi si spalanca innanzi ai nostri piedi. E di tentare di individuare un possibile ancoraggio a cui aggrapparci, per impedire la caduta e avviare la risalita verso sponde piú sicure.

Le regioni non sono un male. Ma nemmeno un bene. Sono – devono essere – istituzioni rivolte, come tutte le istituzioni che compongono la Repubblica, al conseguimento dell’obiettivo ultimo della Costituzione: il pieno sviluppo della persona umana, condizione necessaria affinché tutti possano effettivamente partecipare alla vita politica, economica e sociale del Paese. Ciò che sancisce il secondo comma dell’articolo 3. E se, nel disegno costituzionale, nemmeno la realizzazione piú compiuta di noi stessi è uno scopo in sé, ma un ponte verso la partecipazione consapevole di ciascuno alla vita collettiva, figurarsi se può esserlo l’accrescimento del potere di un ente territoriale qual è la regione. Dalla prospettiva della Costituzione, gli appetiti della classe politica regionale sono un fine del tutto irrilevante. È ora di prendere atto che, spinto al limite del secessionismo, il  regionalismo ha peggiorato lo Stato senza migliorare le regioni. E, attraverso la confusione delle competenze, ha complicato e indebolito il sistema costituzionale complessivo, oltre ogni ragionevolezza. Sino al punto di mettere in discussione la tenuta della cittadinanza nazionale, oggi in procinto di esplodere in tante micro-cittadinanze regionali. Proseguire lungo questa strada è da irresponsabili. L’espansione incontrollata dei poteri regionali va fermata e le regioni devono tornare a essere strumenti al servizio della Repubblica e del suo disegno di emancipazione di tutti i cittadini: a prescindere dal territorio di residenza.

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“Spezzare l’Italia Le regioni come minaccia all’unità del Paese” è stato scritto da Francesco Pallante e pubblicato su ROARS.

Vigilanza nera, ascolto bianco. Considerazioni critiche sull’antirazzismo europeo

di Andrea Inglese

Nel numero doppio 66-67 di “Testo a fronte”, che raccoglie i due semestri del 2022, pur essendo in realtà in circolazione solo da qualche mese, vi è un ampio dossier monografico su Zong! di NourbeSe Philip, curato da Lorenzo Mari. Le circostanze, che hanno occasionato un tale lavoro collettivo, risalgono al doloroso scontro tra l’autrice, da un lato, e la traduttrice, il curatore e gli editori della versione italiana del libro: Zong! Come narrato dall’autrice da Setaey Adamu Boateng [2008], a cura di R. Morresi e A. Raos, Colorno, Benway Series / Tielleci, 2021. Assieme a una serie di articoli quasi interamente scritti da addetti ai lavori – studiosi universitari di traduzione, letteratura nordamericana, questioni postcoloniali –, è stato raccolto anche un mio intervento apertamente “non specialistico”. In un caso, che riguarda un’opera complessa come il libro della Philip, il riferimento alla letteratura specialistica è praticamente obbligato, ma le questioni di portata più ampia, politiche e culturali, che esso solleva – e ha sollevato in ragione del dissidio sopracitato – non possono rimanere confinate alle cerchie del mondo accademico.

Del mio saggio presento qui i due capitoletti più importanti. Aggiungo solo due parole sul titolo. Non esistono popoli neri o bianchi come non esistono popoli mori o biondi, alti o bassi. L’esistenza di popoli neri o bianchi è una finzione storica creata da certi popoli (europei) per consolidare il loro progetto di sfruttamento illimitato di manodopera e di risorse di altri popoli (dell’Africa subsahariana). Pur essendo frutto non di natura, ma d’invenzione umana, questa frontiera distintiva non ha però cessato di esistere in molte circostanze del mondo attuale, come le forme di razzismo ordinario o istituzionale, in occidente e altrove, dimostrano. Per questo motivo, affrontando le questioni relative al razzismo inscritto nella storia e nella cultura europea, qualsiasi riferimento a una immediata e trasparente umanità, priva di ogni colore, mi sembra insufficiente. Finché il “nero” non sarà per davvero un colore indifferente, neppure il “bianco” potrà esserlo. Siamone consapevoli, soprattutto noi (europei, occidentali) che ci credevamo fatti del “non colore” dell’universale umanità.

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4. Disumanità europee: Aimé Césaire, Primo Levi, Toni Morrison

Guardare la storia della tratta atlantica e del colonialismo europeo da vicino non è più facile nel secondo decennio del XXI secolo che nell’ultimo del XX secolo. L’oblio, l’ignoranza, la semplificazione sono innanzitutto dei meccanismi di protezione. C’è una storia di sofferenze e di crudeltà estreme, di disumanizzazioni e disumanità inconcepibili, da cui vorremmo essere tagliati fuori e che vorremmo tagliare fuori dalla nostra identità collettiva di europei bianchi. È una storia che è stata difficile da scrivere, e lo è ancora, in termini non soltanto di volontà, ma per questioni tecniche, che riguardano la natura delle fonti, e anche per i limiti espressivi, di colui o colei che la scrivono. E, a maggior ragione, è una storia difficile da leggere, perché ci confronta con una realtà abissale, che bisognerà in qualche modo avvicinare e fare nostra.

Nel suo Discorso sul colonialismo del 1950, Aimé Césaire dice due cose che la maggior parte degli europei non è stata probabilmente in grado di ascoltare all’epoca: 1) “questo nazismo, è stato tollerato prima di essere subito, è stato assolto, non lo si è voluto vedere, lo si è legittimato, perché fino ad allora non si era applicato che a dei popoli non europei”[1]; 2) “Al compimento del capitalismo, desideroso di sopravvivere, c’è Hitler. Al compimento dell’umanismo formale e della rinuncia filosofica, c’è Hitler”. La Shoah è stata a lungo considerata come un evento storico incommensurabile, unico nella sua barbarie, a tal punto da porre artisti e scrittori di fronte al dilemma di una sua possibile “rappresentabilità”. Storici e altri studiosi ne hanno cercate le cause nel razzismo cristiano nei confronti degli Ebrei, nei nazionalismi e nel razzismo scientifico dell’Ottocento, nella follia di una ragione strumentale ignara dei propri fini. Immagino che, per lungo tempo, non sia stato possibile leggere lo sterminio nazista degli ebrei in continuità con il colonialismo europeo e la tratta atlantica degli schiavi africani. Césaire semplifica la storia dell’antisemitismo europeo, affermando che il nazismo è divenuto insopportabile agli occhi degli europei quando ha applicato ai “bianchi” la violenza illimitata che i coloni applicavano agli algerini, agli indiani o alle popolazioni subsahariane, ma ci obbliga a riconoscere che un identico processo di “fabbricazione dell’Altro” – per usare un’espressione della scrittrice afroamericana Toni Morrison – ha funzionato nei confronti degli schiavi neri e dei popoli colonizzati, così come, più tardi, nei confronti degli ebrei e di altre minoranze quali i rom e i sinti. La fabbricazione dell’Altro, così come la descrive Toni Morrison, implica un duplice movimento di carattere intellettuale e affettivo: non solo disumanizzo un gruppo umano in base a una serie di tratti fisici, culturali o religiosi, ma confermo in questo modo la mia appartenenza all’umanità. Questa operazione è stata ben analizzata dai testimoni e dagli studiosi della Shoah, e Primo Levi per primo ha insistito sulla centralità dei dispositivi culturali ed educativi, in grado di produrla. Ma essa è indispensabile, come ricorda Morrison, anche per rendere possibile la pratica quotidiana della schiavitù: “La necessità di fare dello schiavo una specie aliena sembra un tentativo disperato per confermare che si è noi stessi normali. (…) Il pericolo di compatire lo straniero sta nella possibilità di diventare lo straniero. Perdere il proprio rango definito dalla razza, significa perdere la propria differenza, consacrata e apprezzata”[2].

Non è però sufficiente cogliere alla radice dello schiavismo e del colonialismo occidentale quella “fabbricazione dell’altro” che è all’opera anche nell’antisemitismo europeo e che ha prodotto, nel secolo scorso, quell’evento senza precedenti che è la pianificazione industriale del genocidio ebraico. Sia l’istituzione della schiavitù sia il razzismo, sono fenomeni ampiamente universali. Basterà ricordare in proposito la tratta transahariana e verso il Medio Oriente organizzata dai mercanti arabi tra l’VIII e il XIX secolo, che coinvolse secondo alcune stime 17 milioni di schiavi provenienti dall’Africa subsahariana. Se una continuità può essere vista tra la tratta atlantica, il sistema della piantagione, la dominazione coloniale e l’universo concentrazionario nazista, essa implica il riconoscimento di una singolarità europea nella storia immemorabile della sopraffazione e dell’annichilimento di certi esseri umani da parte di altri esseri umani. La Shoah, ricorda Levi nella prefazione ai Sommersi e salvati, ha costituito per l’umanità novecentesca, per le sue capacità di comprensione e raffronto, un unicum. “In nessun altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così breve tempo, e con una così lucida combinazione di ingegno tecnologico, di fanatismo, di crudeltà”.[3] Nell’articolare il suo ragionamento, Levi passa in rassegna una serie di eventi storici – dai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki ai Gulag, dalla guerra del Vietnam all’”autogenocidio cambogiano” – per affermare che nessuno di essi possiede “sia come mole sia come qualità” le caratteristiche crudeli e distruttive del Lager. È poi interessante notare come, a conclusione di questa riflessione, egli si soffermi su quello che potrebbe essere l’unico controesempio importante rispetto alla sua tesi, ossia il genocidio di “60 milioni di indios” provocato dai “conquistadores spagnoli” nel corso delle sedicesimo secolo. Per Levi, però, questo genocidio – nonostante l’enorme quantità di persone che ha travolto – non si è svolto né in modo pianificato né con il coinvolgimento diretto dello Stato. E chiude con questa frase: “Ed infine, non avevamo cercato di liberarcene, sentenziando che erano ‘cose di altri tempi’?”[4]

5. Per una società post-occidentale

È singolare che Levi, tra i più consapevoli e lucidi scrittori della sua epoca, non prenda in considerazione nel corso del suo ragionamento proprio la schiavitù atlantica, l’evento prolungato su diversi secoli che collega la conquista delle Americhe al colonialismo europeo sopravvissuto nel secondo dopoguerra. È lui stesso, d’altronde, a fornirci una chiave di comprensione che vale non solo per la sua generazione, ma anche per quelle venute dopo, e di cui io stesso faccio parte. Le navi negriere, le piantagioni, la dominazione coloniale sono state percepite a lungo come ”cose di altri tempi”, ossia forme residuali di barbarie in seno ai Tempi Moderni, aspetti marginali e infami, di una civiltà protesa verso nuovi valori come il progresso tecnico e sociale, e la felicità per tutti. Tutto questo ampio e articolato sistema disumano e disumanizzante ha rappresentato nell’immaginario comune la traccia di un passato sociale ancora dominato dall’oscurantismo e dall’irrazionalità, un sistema che ha coabitato in modo incoerente con le rivoluzioni, con le carte costituzionali, con i diritti dell’uomo e del cittadino, con la secolarizzazione dei saperi e l’avvento di una nuova tecnologia industriale. Gli studi recenti sull’argomento ci costringono a correggere questa visione consolatoria, che ha accompagnato la nostra educazione ed è stata largamente condivisa in Europa. Nel mondo anglosassone, in modo particolare, si è riaperto un dibattito tra economisti e storici intorno al ruolo fondamentale della schiavitù nello sviluppo del capitalismo in Occidente, nel sottosviluppo dei paesi colonizzati e nella genesi della stessa rivoluzione industriale. Quali che siano le differenti tesi in gioco, più nessuno studio specialistico, economico o storico, può minimizzare il nesso tra modernità europea e commercio coloniale.

Sono questioni, queste, che interessano anche lavori di stampo sintetico e divulgativo, come quello pubblicato dalla giovane storica francese Aurélia Michel nel 2020 dal titolo Un monde en nègre et blanc. Enquête historique sur l’ordre racial (Un mondo in negro e bianco. Inchiesta storica sull’ordine razziale). È l’autrice stessa che, in quanto studiosa bianca e specialista dell’America Latina, sottolinea il rischio ancora attuale di una distorsione “cognitiva”. Aurélia Michel scrive:

la Francia è probabilmente la nazione che ha portato il sistema schiavista e coloniale al suo apice e alla sua piena potenza. Pertanto, la connessione di questa storia con il razzismo è debole. C’è senz’altro l’ostacolo anzi l’impossibilità di dire una tale violenza. Ci sono anche, di fronte ai fatti, dei meccanismi di difesa ricorrenti, che consistono per esempio nel fare della storia dello schiavismo una storia marginale, una storia delle vittime, una storia del ripristino memoriale, o di contrizione. Ora, perché mai lo sviluppo del capitalismo atlantico, che è la base dell’economia industriale mondializzata nella quale viviamo tutti, e nella quale la schiavitù e la colonizzazione hanno avuto un ruolo maggiore, sarebbe periferico?[5]

Quello che Aurélia Michel, e altri studiosi[6] prima di lei ci dicono, è che non solo la tratta degli schiavi e il lavoro nelle piantagioni sono stati un elemento centrale nell’evoluzione del capitalismo, ma lo sono stati in quanto hanno prodotto un ordine inedito e moderno di sfruttamento delle risorse umane e naturali, e una nuova giustificazione ideologica – l’inferiorità della razza “nera” – che si sarebbe ulteriormente rafforzata con lo scientismo ottocentesco e le “teorie” biologiche. L’abbondante flusso di manodopera coatta subsahariana per i territori di conquista nelle Americhe ha prodotto simultaneamente la fabbrica della piantagione e la fabbrica dell’Altro in quanto “nero”. (Non è il razzismo che ha giustificato la schiavitù, come ricorda sempre Michel, ma “è proprio perché gli Europei hanno trasformato in schiavi gli Africani che sono diventati razzisti”[7]).

Il carattere moderno del sistema schiavistico e dell’ordine razziale presentano un ulteriore aspetto, che sollecita una considerazione filosofica estremamente attuale. Nel già citato Achille Mbembe, ne troviamo una formulazione chiara: “Quanto alla schiavitù, essa fu un modo di produzione, di circolazione e di ripartizione delle ricchezze fondato sul rifiuto d’istituzionalizzare un qualsiasi ambito del ‘non appropriabile’. Da tutti i punti di vista, la ‘piantagione’, la ‘fabbrica’ e la ‘colonia’ sono stati i principali laboratori dove è stato sperimentato il divenire autoritario del mondo, che osserviamo oggi”[8]. Il “divenire autoritario” di cui parla Mbembe è una conseguenza di quella cancellazione dei limiti di ciò che è “appropriabile” dall’uomo e dal suo armamentario tecnico e scientifico. Tocchiamo qui un punto centrale, sul quale ha insistito uno dei filosofi più importanti della seconda metà del Novecento, ossia Cornelius Castoriadis: “bisogna che l’immaginario capitalista di uno pseudo-controllo pseudo-razionale di una espansione illimitata sia abbandonato”[9]. Non è sufficiente, come è accaduto nei ranghi della tradizione marxista o in quella socialdemocratica, predicare un superamento del capitalismo in nome di una società più egualitaria, così come oggi non è sufficiente mutare le proprie strategie energetiche o dedicarsi a progetti di resilienza su scala locale, per limitare l’impatto della crisi ecologica. C’è un immaginario, radicato non solo nelle leggi e nell’organizzazione sociale, ma anche nelle nostre menti e nei nostri cuori, che va riconosciuto, analizzato e trasformato. E questa analisi comporterà anche un confronto tra bianchi e neri, intorno alla storia della schiavitù e del colonialismo moderni. È in quel contesto che si afferma per la prima volta in tutta la sua crudezza e hybris, come sostiene Mbembe, il delirio di espansione illimitata che ha caratterizzato l’evoluzione dell’Occidente in stretta connessione con l’evoluzione del capitalismo e dello sviluppo tecnologico.

La scrittrice francofona d’origine camerunese Léonora Miano, oggi residente in Francia, propone una via per uscire dall’immaginario capitalistico, una via che lei stessa definisce utopica, e che d’altra parte si oppone a scenari che, vantandosi di essere più realisti, non sono meno catastrofici. Un’Europa dei nazionalismi, e delle identità separate o in conflitto, non potrà che rendere velleitaria qualsiasi alleanza attiva per contrastare il riscaldamento climatico, oltreché indebolire ulteriormente la tenuta del patto sociale. Per Miano, l’unica strada percorribile passerà per una ridefinizione dell’identità collettiva, a cui lei dà il nome di Afropea, ossia di un’Europa che: 1) riconosce la componente africana della propria storia – e quindi gli afrodiscendenti che costituiscono una parte significativa della popolazione del continente, e che 2) in virtù di questa componente (grazie ad essa), sarà in grado di liberarsi da quello che Miano chiama: l’occidentalità. “Designo così il carattere dell’Europa conquistatrice e delle sue estensioni americane, che l’umanità ha dovuto sopportare a partire dalla fine del XV secolo. Si tratta di una maniera d’essere al mondo che fonda i rapporti con gli altri sulla violenza: l’invasione, l’appropriazione delle risorse, le reificazione o l’uccisione, l’egemonia epistemica”[10].

Il discorso di Miano si rivolge in larga parte agli afrodiscendenti sparpagliati nei vari stati europei, e difende un progetto politico che sia in grado di riconoscere e sostenere la specificità dell’esperienza “afropea”, distinguendola sia da quella afroamericana sia da quella delle varie popolazioni subsahariane. Miano critica ogni tentativo di evasione separatista, verso sogni identitari senza radicamento sociale, quali la negritudine o un vago panafricanismo. Questo non significa aderire, ad esempio, all’universalismo repubblicano della Francia, un universalismo astratto e ipocritamente color blind, che vieta per principio statistiche “etniche”, evitando così di constatare il livello di discriminazione della società francese. Quello sui cui la scrittrice insiste è quella che io chiamerei la “clausola d’appartenenza” e che mi sembra fondamentale in tutto il suo discorso, anche perché gli permette di rivolgersi simultaneamente a noi bianchi. Si tratta di un passaggio magistrale per lucidità, che riporto per intero:

È perfettamente possibile ricusare l’occidentalità, combatterla come lo fa Afropea. È possibile dire di no alla supremazia bianca indicando, nello stesso movimento, che è proprio in questa terra europea che siamo cresciuti e, poiché così stanno le cose, poiché bisogna che questo voglia dire qualcosa, ci diamo per compito di disoccidentalizzarla. La legittimità di una tale ambizione impone questo: è necessario appartenere. Senza ammettere il nostro legame con una società, con tutti quelli che la compongono, è impossibile chiederle conto, spingerla a trasformarsi.[11]

Se l’occidentalità di Miano corrisponde alla volontà di potenza di Mbembe e al delirio di espansione illimitata di Castoriadis, il compito degli afrodiscendenti d’Europa è, necessariamente, anche il nostro. Ma rigettare questa componente ingombrante e patologica della nostra storia, non significa rinunciare del tutto alla nostra eredità europea né cancellarla con un tratto di penna, per il semplice fatto che essa è plurale e contraddittoria. In questo compito di scelta del nostro passato, potremmo essere aiutati da coloro con cui, qui dove viviamo, è fondamentale costruire il nostro futuro: gli afrodiscendenti.

(…)

NOTE

[1] Aimé Césaire, Discours sur le colonialisme suivi de Discours sur la Négritude, Présence Africaine, Paris, 1995 e 2004, p. 13.

Ibid., p. 14.

[2] Toni Morrison, The Origin of Others, 2017; nella versione francese L’origine des autres, Christian Bourgois, Paris, 2018, pp. 34 e 35.

[3] Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 1986, p. 12.

[4] Ibidem

[5] Aurélia Michel, Un monde en nègre et blanc. Enquête historique sur l’ordre racial, Seuil, Paris, 2020, p. 12.

[6] Il punto di partenza di una riconsiderazione critica e militante della schiavitù nello sviluppo del capitalismo europeo e nordamericano risale alla storiografia “radicale” degli anni Trenta, promossa da autori come Eric Williams, originario di Trinidad, o l’afroamericano W. E. B. Du Bois.

[7][7] Aurélia Michel, Un monde en nègre et blanc, op. cit., p. 19.

[8] Achille Mbembe, Sortir de la grande nuit. Essai sur l’Afrique décolonisé, La Découverte, Paris, 2010, p. 81.

[9] Cornelius Castoriadis, Une société à la dérive. Entretiens et débats. 1974-1997, Seuil, Paris, 2005, p. 306.

[10] Léonora Miano, Afropea. Utopia post-occidentale e post-raciste, Fayard/Pluriel, Paris, 2021, p. 107.

[11] Ibidem, p. 200.

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Immagine: Adrian Piper, Decide Who You Are #1: Skinned Alive, 1991, photo-text collage, 3 panels

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“Vigilanza nera, ascolto bianco. Considerazioni critiche sull’antirazzismo europeo” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Calendario della Wu Ming Foundation, maggio – giugno 2024

Ci sono ancora appuntamenti negli ultimi giorni di aprile, ma è tempo di pubblicare il nuovo calendario. Come si vede, le nostre trasferte restano rade, per via degli impegni di scrittura. Con poche eccezioni, i nostri impegni pubblici si concentrano a Bologna e dintorni. Wu Ming 4, l’unico di noi a essere già uscito col nuovo […]

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“Calendario della Wu Ming Foundation, maggio – giugno 2024” è stato scritto da Wu Ming e pubblicato su Giap.

La storia come luogo delle possibilità

di Alessandro Zaccuri

Quella che segue è la postfazione di Alessandro Zaccuri al nuovo romanzo di Roberto Plevano “Di spada e di croce”, pubblicato di recente da Edizioni Biblioteca dell’Immagine

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Prosecuzione e compimento di un lavoro narrativo e di ricerca storica avviato da anni, Di spada e di croce di Roberto Plevano è un libro che in un colpo solo mette a tacere almeno due pregiudizi. Il primo – e più evidente – è quello che riguarda la natura del romanzo storico. Che non si basa sulla separazione delle carriere tra storia e invenzione, la prima delegata a servire da fondale più o meno accurato e la seconda incaricata di predisporre un adeguato armamentario di personaggi e passioni e colpi di scena. No, il romanzo storico è veramente romanzo quando è storico in tutto e per tutto, come accade appunto nell’opera di Plevano. Certo, il protagonista di questa piccola saga è l’immaginario Amalrico della Provincia, trovatore e filosofo che dal Sud della Francia elegge dimora nel Nordest d’Italia, diventando sodale del principe Ezzelino da Romano e perdutamente innamorandosi della sorella di lui, Cunizza. Il punto però non è questo, la verosimiglianza di una narrazione non può essere demandata alla mera presenza di un nome in un regesto diplomatico.

Di Amalrico, al lettore, interessa la perfetta adesione rispetto alla mentalità e perfino alla lingua dell’epoca che Plevano, medievista di provata esperienza, ha scelto per la sua cantafavola. In Di spada e di croce il fiore del romanzo germina direttamente dal terreno della storia, ne assorbe i succhi e i veleni, applica con ferrea coerenza il rifiuto di ogni anacronismo: culturale, psicologico, lessicale. Anche la passione impossibile tra Amalrico e Cunizza non ha nulla di artefatto, semmai può essere interpretata come rappresentazione estrema dell’amor cortese. Non potendo vivere insieme, gli amanti preferiscono attenersi alla norma di una lontananza che non rende meno acceso il reciproco desiderio. E poco importa se a stabilire le regole del gioco sia la sola Cunizza. Per quanto ignaro, Amalrico sa che questo può accadere. In un certo senso, è un bene che questo, e non altro, accada proprio a lui e alla sua diletta.

Per essere veramente romanzesco, insomma, il romanzo storico non ha alcun bisogno di tradire la storia. Se poi la storia è quella del Medioevo, ecco che un altro pregiudizio si presta a essere abbattuto. Tutt’altro che uniforme, il panorama dell’Età di Mezzo si rivela meravigliosamente accidentato e complesso. Per esempio, in Di spada e di croce eresia e ortodossia stanno a un’incollatura l’una dall’altra e a fare la differenza non è tanto la fedeltà all’Evangelo quanto la compiacenza verso un ordine di potere che spregiudicatamente confonde il sacro con il profano. Plevano sa bene che non esiste un solo Medioevo, e non soltanto perché nel millennio che dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente arriva fino alla scoperta dell’America (la periodizzazione è grossolana, ma proviamo ad accontentarci) si susseguono stragi e rinascite, albe luminose e notti all’apparenza interminabili. Il Medioevo è epoca di cambiamenti, non di immobilità. Si rinnovano tecnologie e conoscenze, il latino assume i connotati di una lingua franca vivacemente instabile, i confini si ridisegnano di continuo, sorgono imperi e si estinguono regni. Nei romanzi di Plevano, questo processo magmatico è colto nella sua manifestazione definitiva. Siamo in Italia, nel cuore del XIII secolo, mentre la corte mobile di Federico II si sposta tra la Sicilia e la Marca veneta, portando con sé un’irripetibile mescolanza di saperi e consuetudini. È in quegli accampamenti che si verifica il prodigioso contagio tra la poesia provenzale e la nascente lirica in volgare italiano: è per effetto di quella contaminazione che il notaro Giacomo da Lentini escogita il dispositivo del sonetto, che nei secoli successivi sarà per l’Europa una sorta di linguaggio comune, pressoché indifferente alla dislocazione da un idioma all’altro.

La modernità del Medioevo (che è, per inciso, il momento in cui l’aggettivo modernus assume il suo significato attuale) sta in questa commistione inestricabile di codici espressivi e di istanze concettuali. La stessa contrapposizione tra guelfi e ghibellini, spesso tristemente ridotta a una cruenta forma di campanilismo, trova la sua ragion d’essere nello scontro fra due diverse visioni della realtà. Per restare alla trama dei romanzi di Plevano, Amalrico non sceglie di schierarsi con lo Stupor Mundi per questioni di opportunismo, ma perché in “Friderico” ritrova la sua stessa febbre di conoscenza, lo stesso desiderio di libertà intellettuale che per primo l’imperatore persegue e sostiene. Allo stesso modo, Di spada e di croce – come e più del precedente romanzo di Plevano – non è, a rigore, il romanzo di Ezzelino e della sua corte, ma non si può fare a meno di notare come l’impresa di Plevano sottragga il nome del principe di Romano all’ambiguo fascino da cui è contornato fin dai primi anni del Trecento, quando Albertino da Mussato compone la sua Ecerinis. Una tragedia nello stile di Seneca, autore prediletto nel circolo del cosiddetto preumanesimo padovano. Prima di attecchire a Firenze, dunque, l’imitazione dei classici si annuncia in Veneto, con Albertino che costruisce il suo capolavoro attorno al mito recentissimo del tiranno della Marca.

A differenza di quanto cercano di fare gli storici, Plevano non pretende di fornire una ricostruzione incontrovertibile o, se non altro, a prova di smentita, Per lui, come per ogni romanziere, la storia è il luogo della possibilità. Una battaglia vinta anziché persa, un dispaccio arrivato per tempo, un inquisitore meno feroce degli altri: sarebbe bastato un nonnulla perché gli avvenimenti prendessero una piega differente. La vicenda di Amalrico si colloca proprio qui, sul crinale tra quello che è stato e quello che avrebbe potuto essere. Un terreno misterioso e sorprendente, nel quale solo la letteratura riesce ad avventurarsi.

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“La storia come luogo delle possibilità” è stato scritto da giacomo sartori e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Chi parla di “antisemitismo” non sa cosa sia l’Università

Le rassegna stampa delle scorse settimane pongono una questione non marginale: anche al netto della propaganda e della malafede di non pochi giornalisti, ciò che colpisce è la pressoché universale ignoranza circa la natura stessa dell’università. Intendiamoci, la colpa di questa eclissi è in gran parte dei professori stessi, che si sono piegati ad accettare la condizione tanto lucidamente descritta da Filippomaria Pontani: l’università ha così spesso e così tanto rinunciato a difendere la propria libertà, che quando oggi timidamente la rivendica quasi nessuno capisce di cosa si stia parlando.

Prendiamo il caso della Scuola Normale di Pisa, che è stata per giorni crocifissa da editoriali dei più grandi giornali italiani, e dal coro pressoché unanime della politica e addirittura dall’associazione dei suoi (begli) amici, perché avrebbe “chiuso i rapporti con Israele” (così un titolo di Repubblica). Ebbene, nessuno di coloro che hanno commentato in questo senso sembra aver letto ciò che stava commentando: la mozione del Senato accademico della Scuola, che non chiudeva nessun rapporto, ma chiedeva al Maeci di “rivalutare”, alla luce dell’articolo 11 della Costituzione, che ripudia la guerra, il bando “per la raccolta di progetti congiunti di ricerca per l’anno 2024, sulla base dell’Accordo di Cooperazione Industriale, Scientifica e Tecnologica tra Italia e Israele”.

Dov’è dunque la chiusura di rapporti con le università israeliane? Non c’è la chiusura, perché si chiede al nostro Ministero degli Esteri di rivalutare un certo protocollo: e non ci sono nemmeno le università. Perché, e questo è il punto cruciale, qua non si tratta di convenzioni e accordi tra liberi atenei, ma tra due governi: quello Meloni e quello Netanyahu. E in un momento in cui il Consiglio per i diritti umani dell’Onu chiede che Israele sia condannato per crimini di guerra a Gaza, come sarebbe possibile collaborare acriticamente non con le libere università di quel Paese, ma proprio con il governo responsabile di quei crimini? Come condannare l’Università di Torino che a quel bando ha deciso di non aderire?

Per questo trovo profondamente sbagliato l’appello a Tajani dell’Associazione degli Accademici e Scienziati di origine italiana in Israele, che chiede la realizzazione di una fondazione partecipata dagli stati italiano e israeliano che finanzi progetti scientifici, “in tutte le discipline, non solo scientifiche ma anche umanistiche, perché è noto che la maggior parte dei boicottatori contro l’Accademia Israeliana provengono da Facoltà Umanistiche, pertanto, mai come in questo momento, sarebbe vitale la creazione di tale Fondazione”. Immaginiamo quale sarebbe stata la reazione se gli studiosi italiani in Russia avessero chiesto al nostro governo di creare, con quello di Putin, una simile fondazione per aggirare il boicottaggio delle università russe.

Ora, personalmente sono profondamente in disaccordo con qualunque boicottaggio di una università contro un’altra: ma lo sono proprio perché le università non dipendono dai governi dei loro paesi, e non li rappresentano. Le università sono, fin dal Medioevo, il luogo in cui si coltiva un internazionalismo, un pensiero critico e un dissenso sistematico che sono il miglior antidoto ai nazionalismi e alle guerre: per questo ogni tentativo di far passare la ricerca attraverso accordi tra governi smentisce e nega quella libertà accademica che è la vera ragione per non boicottare le università. La richiesta degli studiosi italiani in Israele ha poi una motivazione che non è degna di chi dovrebbe coltivare il pensiero critico: “Il boicottaggio come l’anti-israelismo sono figli di un antisemitismo che si sta risvegliando anche in Italia”. Questo è un giudizio non solo sommario e fattualmente sbagliato, ma anche disonesto sul piano intellettuale. Ripeto: sono contrario ad ogni boicottaggio accademico, ma se una università italiana liberamente decidesse di annullare ogni suo accordo con università israeliane (o russe, o cinesi, o turche, o… americane) farebbe una scelta legittima, che nessuno potrebbe accusare di razzismo. E questo vale, deve valere, anche per Israele.

Questo uso estensivo, improprio e strumentale della categoria dell’antisemitismo (un uso che le stesse università hanno purtroppo implicitamente condiviso, quando la Conferenza dei rettori fece propria l’inaccettabile definizione di antisemitismo dell’IHRA, che considera antisemita perfino chi dica che in Israele si pratica una forma di apartheid: il che è un dato di fatto) mira ad impedire un dibattito libero, ed è irresponsabile perché rischia di banalizzare il vero antisemitismo, che esiste ed è assai pericoloso.

L’università fa il suo mestiere quando alimenta dubbi, distingue, discute, argomenta: non quando maledice, o interdice. E soprattutto non quando obbedisce ai governi, o peggio quando ne diventa un docile strumento. Diciamo di voler difendere ad ogni costo i valori occidentali: una università davvero libera è uno di essi.

(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano) 

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“Chi parla di “antisemitismo” non sa cosa sia l’Università” è stato scritto da Tomaso Montanari e pubblicato su ROARS.

Dalle fiamme (a volte) nascono libri: Contenuto Rimosso. Il fuoco nel Quadrato

di Alice Sartori Ongaro

Chiara Trivelli, Contenuto rimosso. Il fuoco nel quadrato, Viaindustriae Publishing, 2023

A Venezia il 30 luglio 2017 c’è la solita afa soffocante di mezza estate. Il pomeriggio è silenzioso e i masegni bollenti. Paolo mi prende per mano e mi dice: — stasera ti va di andare a Lorenzago di Cadore? C’è una cosa molto bella, cose così non si vedono spesso. Dovremmo andarci. È come una festa, ma è molto di più —. È un progetto d’arte pubblica e di comunità di Chiara Trivelli, artista visiva e ricercatrice indipendente. Progetto pensato per e con gli abitanti di Lorenzago. Camminando verso la stazione attraversiamo il campo di Santi Giovanni e Paolo. Sullo sfondo dell’ospedale si intravedono le cime delle Dolomiti. In mezzo al campo incontriamo Chiaretta. — Dove vai—? Le chiediamo. — Sto andando al mare, fa troppo caldo—, ci dice. —Vieni con noi a Lorenzago, torniamo in serata o forse, se ci ospitano, anche domani mattina. — Ma non ho niente con me —. Abbiamo preso Chiaretta sottobraccio, con il suo costume e telo da mare dentro lo zaino, e abbiamo guidato verso il Cadore.

Dal 2012 ogni 30 luglio Chiara Trivelli orchestra un’azione collettiva a cui prendono attivamente parte lorenzaghesi e associazioni di paese: Contenuto Rimosso. Durante la serata, viene interrotta l’illuminazione elettrica nelle strade del quartiere del Quadrato e vengono accesi 18 fuochi, 125 candele, 15 torce. Il coro del paese canta, i bambini giocano per strada, il Cai e l’Associazione Volontari Vigili del Fuoco organizzano banchetti di cibo e vino tra i vicoli, gli Alpini cantano e fanno gli Alpini, divertono e si divertono. L’evento commemora un incendio che nel 1855 distrusse l’intero quartiere del Quadrato. Nessuno morì quella notte, ma la zona venne distrutta e l’accaduto rimase un evento dalle conseguenze traumatiche nella storia di Lorenzago. Le cause dell’incendio non sono mai state chiarite, e a distanza di 150 anni gli abitanti del paese non smettono di ipotizzarne le dinamiche.

[Chiara Trivelli_Contenuto Rimosso, still da video, 2017]

Dopo 11 anni di lavoro, cura e attenzione al progetto, che diventa la festa più attesa da tutta Lorenzago, viene alla luce Contenuto Rimosso. Il fuoco nel quadrato (Viaindustriae, 2023). La straordinarietà di questo libro è dovuta a diverse ragioni. La prima: Contenuto Rimosso è caso-studio fondamentale nello sviluppo dell’arte pubblica e partecipata in Italia (e non solo). La seconda: la pubblicazione è stata fortemente voluta dal Comitato 30 Luglio (formatosi proprio per il progetto) che compare come promotore principale della pubblicazione, oltre che dall’artista. Il libro è l’emblema che le cose belle si fanno assieme, dall’inizio alla fine. La terza: ci sono due sezioni principali. La prima è una ricca sezione di contributi di importanti voci del panorama internazionale: una conversazione con l’artista Antoni Muntadas, riferimento internazionale dell’arte pubblica, un saggio della critica d’arte Alessandra Pioselli che ha riconosciuto Contenuto Rimosso come caso-studio e un contributo della geografa Viviana Ferrario, maggiore studiosa del caso del Rifabbrico in Cadore. La prefazione del Sindaco di Lorenzago Marco d’Ambros e un testo dell’artista restituiscono la complessità e le genuinità di un’opera artistica che negli anni è diventata una nuova tradizione locale, la festa principale del paese. Una sezione importante, la seconda: “Per un libro di comunità”. Compaiono interviste e ritratti fotografici di alcuni dei (tanti) protagonisti. Dagli Alpini, ai musicanti, ai volontari e volontarie della Pro Loco, dei Vigili del Fuoco, dell’Associazione Donatori di Sangue, e altri abitanti.

[Chiara Trivelli_Contenuto Rimosso, 2016]

Chiara Trivelli è sempre attenta, e guarda sempre verso l’Altro. Alla fine di ogni intervista che conduce, non si scorda mai di chiedere se anche l’intervistato ha domande da fare a lei. La preziosità di un progetto come questo è che cuce insieme un’umanità diretta e profonda, che parte, in primis, dall’artista. Come spiega Trivelli, una delle fatiche principali del libro e del progetto è un lavoro costante di traduzione tra un sistema dell’arte che si muove in dinamiche neo-liberali e un territorio che si esprime con necessità delicate e importanti con uno spirito di cooperazione. Ma c’è un punto importante. L’episodio è emblema del paradossale processo di ricostruzione urbanistica che è allo stesso tempo anche un processo di rimozione collettiva: il Rifabbrico in Cadore. Il Quadrato di Lorenzago ne rappresenta uno degli esempi meglio conservati. L’incendio del 1855 e il successivo rifabbrico segnarono un punto di svolta. Quando si parla di ‘Rifabbrico’ si fa riferimento a un processo di profonda trasformazione territoriale che ha interessato alcune vallate delle Alpi orientali nella seconda metà dell’Ottocento. Le case di legno degli antichi villaggi vennero ricostruite in muratura sulla base di nuovi piani urbanistici. La rapida trasformazione e la forza dell’imposizione, che non considerava gli effetti dei radicali cambiamenti sulla società e la cultura silvo-pastorale del territorio, determinarono un trauma per i suoi abitanti. Il libro indaga in maniera precisa e trasversale anche questo tema urbanistico, sociale e politico.

[Chiara Trivelli_Contenuto Rimosso, still da video, 2016]

Come spiega la storica dell’arte Claire Bishop in Artificial Hells (Verso, 2012), dall’inizio delle pratiche partecipative nell’arte contemporanea, l’artista è concepito meno come produttore o produttrice individuale di oggetti e più come produttore o produttrice di situazioni; l’opera d’arte vista meno come prodotto finito, trasportabile e mercificabile, è riconcepita come un progetto in corso o a lungo termine; mentre il pubblico, precedentemente concepito come osservatore è ora riposizionato come co-produttore o partecipante. Questo anche il caso di Contenuto Rimosso, che è, nella sua complessità, anche azione politica. Dal 2012, grazie alla dedizione e la visione di Chiara Trivelli, la rievocazione di quell’evento traumatico si è trasformata in un momento di rinascita per il paese, un’occasione per ricostruire la propria memoria. Prima dell’incendio, a Lorenzago il patrimonio silvo-pastorale era gestito come bene comune, dove i nuclei socio-economici di base, le famiglie locali, erano chiamate “fuochi”. Il sistema di fuochi a uso collettivo, ideato da Trivelli, facendo simbolicamente riferimento al passato, ha assunto una valenza catartica e si è trasformato in un nuovo rituale collettivo atto a consolidare l’identità della comunità. Il fuoco, elemento centrale, diventa il punto focale di quello che l’artista definisce “un esperimento di psicanalisi applicata all’ambiente”. Utilizzando il fuoco, si sublima la paura che esso stesso genera, trasformandola in un potente simbolo di unione all’interno di un rituale collettivo, e creando così una contro-immagine del trauma originario.

[Chiara Trivelli_Contenuto Rimosso, flyer da una foto di Giuseppina Pinazza, 2019]

Io, Paolo e Chiaretta passiamo tutta la notte a Lorenzago, il paese è un’esplosione di vitalità incontenibile. Incontriamo persone nuove, operose e accoglienti. Incrociamo amici di un tempo, anche loro venuti da punti diversi della regione. Chiara si prende cura di tutto, e anche di chi, come noi, viene da più lontano. Così ci svegliamo in Cadore, tra le primule rosse, e ci rimettiamo in macchina. Torniamo verso Venezia insieme a Chiara. Nel tragitto, assonnati e inebriati dal caldo e dalla notte, si parla di quello che è stato. Contenuto Rimosso è rimasto uno dei progetti partecipati più accorti, intelligenti e generosi che abbia visto nell’ambito delle pratiche artistiche contemporanee; perché ci sono stati spazio e tempo giusti, insieme all’attenzione di un’artista che ha fatto della relazione tra gli altri e della ricostruzione della memoria collettiva un punto di forza. A distanza di sei anni vedere la nascita del libro di Contenuto Rimosso è allo stesso tempo una testimonianza e una gioia doverosa, perché aveva ragione Paolo, cose così belle non si vedono facilmente.

[Chiara Trivelli_Contenuto Rimosso, still da video, 2018]

Una nota finale. In questi giorni la 60. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, a cura di Adriano Pedrosa, inaugura con il titolo “Stranieri Ovunque”. L’estraneità – come marginalità e l’essere al di fuori del conosciuto (geografico, sociale, politico, emotivo e identitario) – viene rimessa in discussione e celebrata come condizione universale. Scrivere di Contenuto Rimosso in queste giornate cariche di riflessioni che guardano alle geografie latino-americane, africane, pacifiche e del cosiddetto Sud Globale, mi hanno anche ricordato una cosa. Che spesso è proprio qualcosa vicino a noi che soffre tremendamente l’estraneità. Penso alle aree montane, isolate e spopolate del Cadore. E penso a come l’arte si possa trovare, nella forma più sincera, anche (e soprattutto) fuori dalle cornici espositive, dove le persone vivono, si riscoprono e festeggiano intorno a nuovi fuochi.

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“Dalle fiamme (a volte) nascono libri: Contenuto Rimosso. Il fuoco nel Quadrato” è stato scritto da jamila mascat e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Che il monologo di Antonio Scurati sul 25 aprile, censurato dalla Rai, diventi un coro a voce alta

Questa sera, nel corso della trasmissione Rai Che Sarà, Antonio Scurati avrebbe dovuto leggere un testo dedicato al 25 aprile e all’antifascismo. Ma questo intervento non ci sarà. È stato cancellato. Ne ha dato notizia la conduttrice del programma censurato, Serena Bortone. Le parole del monologo sono poi state pubblicate sul sito di Repubblica, e da lì le riprendo. La Rai, soprattutto l’informazione Rai “governata” dalla destra, sta censurando moltissimi fatti e notizie che riguardano da vicino le nostre vite e i nostri bisogni. Ma il bavaglio messo a uno scrittore che voleva parlare di antifascismo, Liberazione e quindi delle radici della nostra democrazia è evento che merita di scatenare un !Ya basta! collettivo, e il suo monologo dobbiamo poterlo leggere dappertutto, anche sulla pagina di questo blog culturale e libero che, senza la Resistenza e la Liberazione, non sarebbe proprio esistito. La destra non dovrebbe dimenticare, poi, che la Rai è servizio pubblico, e che la paghiamo tutti noi. Cioè la destra post-fascista non dovrebbe dimenticare che, anche se governa questo Paese, è minoranza in questo Paese. Mentre la maggioranza delle italiane e degli italiani – maggioranza purtroppo non elettorale ma numerica sì – non solo non è fascista ma è abitata da una componente ancora vitale di antifascismo. Quella voce, viva e vegeta, c’è ancora e saprà farsi ascoltare. Anzi cominciamo subito.

Il monologo di Antonio Scurati

«Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924. Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro. Mussolini fu immediatamente informato.

Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania. In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944. Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.

Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia? Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.

Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).

Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana.»

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“Che il monologo di Antonio Scurati sul 25 aprile, censurato dalla Rai, diventi un coro a voce alta” è stato scritto da davide orecchio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

La lezione di Estela Carlotto

Estela Carlotto mostra il diploma di laurea, foto di ©Università Roma Tre

Lo scorso 17 aprile l’Università degli Studi Roma Tre ha conferito a Estela Carlotto la Laurea honoris causa in Lingue e letterature per la didattica e la traduzione, “alla luce di un impegno civile, umano e culturale unanimemente riconosciuto” (si legge nelle motivazioni).

Estela Carlotto, 93 anni, è presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo (le nonne di Piazza di Maggio), l’Associazione che insieme alle Madres de Plaza de Mayo cerca, fino dagli anni più bui della dittatura argentina (1976-1983), non solo i propri figli ma anche i nipoti nati nei centri clandestini di detenzione, tortura e sterminio o, in alcuni casi, “rubati” dai militari durante i sequestri delle loro vittime. Candidata più volte al premio Nobel per la Pace per il suo straordinario impegno e la sua azione umanitaria, Carlotto ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti nazionali e internazionali, tra i quali spiccano l’Ordine al merito nel grado di Commendatore della Repubblica Italiana, il Premio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e il Premio Unesco per la Pace.

Due giorni dopo la cerimonia universitaria – prima di ripartire per l’Argentina, e dopo essere stata ricevuta dal Papa – Carlotto ha spiegato il “momento tragico” (parole sue) che sta attraversando l’Argentina, nel corso di un incontro con alcuni giornalisti e studenti. L’Argentina di Javier Milei, un presidente che governa “contro la società”, e che la sta già impoverendo con licenziamenti e tagli indiscriminati al welfare. Un presidente che favorisce posizioni negazioniste o riduzionistiche rispetto alla storia della dittatura argentina e delle sue vittime, i 30 mila desaparecidos che adesso qualcuno vorrebbe occultare di nuovo. Un presidente pericoloso in tanti modi diversi. “Ma noi andremo avanti”, ha assicurato Carlotto, “continueremo a lottare nella nostra ‘politica della vita’, sempre pacificamente e senza violenza. L’abbiamo fatto negli anni della dittatura, correndo mille pericoli, e a maggior ragione proseguiremo oggi”.

Una donna che non ha avuto paura di Videla non può avere paura di Milei.

Questo riconoscimento da parte dell’ateneo romano ha un grande valore culturale e politico: “Per me è il massimo”, ha confidato Carlotto, “questi giorni mi hanno dato una gioia enorme. In Argentina il governo, se potesse, mi farebbe a pezzi. Invece qui mi avete dato coraggio al cuore e all’anima. A ‘loro’ non piacerà per niente. Ma vado via contenta e orgogliosa. Il lavoro delle abuelas proseguirà. Stiamo ancora cercando i 300 nietos che mancano. E possono essere dovunque nel mondo”.

A seguire offriamo il testo integrale della Lectio magistralis tenuta da Estela Carlotto in un’Aula magna della Facoltà di Lettere gremita e commossa (davide orecchio).

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La Lectio Magistralis di Estela Carlotto

Innanzitutto, desidero ringraziare il Rettore dell’Università Roma Tre, Massimiliano Fiorucci, e con lui tutta la comunità educativa che oggi mi accoglie con tanto calore e mi onora con il titolo di Dottore Honoris Causa; il direttore del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere, Giorgio de Marchis, e la cara professoressa e amica Susanna Nanni, che ha promosso questo riconoscimento accademico. Ringrazio la Rete per il Diritto all’Identità in Italia, che collabora da molti anni con le Abuelas di Plaza de Mayo. Ringrazio tutti i cari amici che abbiamo in questo paese, sempre molto solidale con l’Argentina. E ringrazio tutti i presenti a questa meravigliosa cerimonia.

La dittatura civico militare che tra il 1976 e il 1983 usurpò il potere in Argentina, ha sequestrato e fatto scomparire migliaia di persone per ragioni politiche, compresi i nostri e le nostre nipoti.

In quel momento, come madri, ci siamo messe a cercarli. Quale donna non lo avrebbe fatto? Abbiamo iniziato a riunirci, prima come Madres di Plaza de Mayo, poi come Abuelas di Plaza de Mayo, e ci siamo rese conto che, insieme, potevamo farci ascoltare. E così, il nostro dramma personale si è convertito, negli anni, in una lotta pubblica e collettiva.

Nel mio caso, tutto è iniziato quando, grazie alla testimonianza di una sopravvissuta, venni a sapere che mia figlia aveva dato alla luce un bambino durante la sua prigionia, mio nipote. Allora, la mia consuocera mi disse di non cercarla da sola e mi consigliò di mettermi in contatto con altre donne che stavano cercando i loro nipoti. Così, mi unii alle prime Abuelas.

Le mie compagne furono felici del mio arrivo perché, siccome ero una maestra, potevo scrivere lettere e documenti. La prima volta che andai a Plaza de Mayo tremavo come una foglia. C’erano molti militari, cavalli, fucili. Ma le mie compagne continuavano a camminare e mi dicevano: “non aver paura, stiamo tutte insieme”.

All’inizio, i primi tempi furono molto duri, quando ancora aspettavamo il ritorno del figlio, della figlia, della compagna, del compagno, che mai tornò. Eravamo ingenue e pensavamo che i dittatori avrebbero dato delle risposte alle nostre domande: dove sono? Dove sono nati i nostri nipotini?

In molte abbiamo mantenuto la camera intatta, i vestiti puliti, il piatto al posto in tavola del nostro caro. Abbiamo preparato corredini per il nipote o la nipote che stava per arrivare, che militari avevano rubato alle nostre figlie e a cui avevano cambiato l’identità.

Tutte noi ci eravamo recate negli orfanotrofi, nei tribunali, nei ministeri, nelle chiese, e ovunque ci avevano risposto con il silenzio, il disprezzo o l’indifferenza. In quel periodo, ci riunivamo in segreto perché la repressione era feroce.

Il trascorrere dei mesi e degli anni ci convinse che non ci avrebbero restituito i nostri nipoti e che la nostra richiesta avrebbe dovuto resistere nel tempo, fino a che non li avremmo ritrovati tutti. Allora lasciammo le nostre routineper andare a reclamare i nostri figli e nipoti dentro e fuori il paese.

Ci organizzammo in gruppi, iniziammo a viaggiare in giro per il mondo per raccontare ciò che stava accadendo in Argentina e ricevemmo la solidarietà di governi, organizzazioni e personalità. Così iniziammo ad ottenere alcuni risultati: le prime restituzioni, e poi la creazione di un metodo di identificazione genetica che ci avrebbe dato la certezza che i bambini ritrovati fossero i nostri nipoti. Non avevamo il sangue dei genitori per identificarli – perché nella maggior parte dei casi erano scomparsi – e la scienza riuscì a trovare la soluzione con il nostro sangue e quello delle nostre famiglie.

Negli Stati Uniti, un gruppo di scienziati commossi dalla nostra lotta, lavorò per due anni per arrivare a ciò che si conosce come “indice di nonnità”. E subito dopo, in Argentina, riuscimmo a creare la Banca Nazionale dei Dati Genetici. Una Banca unica al mondo che raccoglie e conserva i profili genetici delle famiglie dei nipoti e delle nipoti che cerchiamo, e quelli delle persone che dubitano della loro identità, al fine di incrociarli.

Abbiamo anche favorito dei progressi in ambito legislativo, come l’inclusione degli articoli 7, 8 e 11 nella Convenzione Internazionale sui Diritti del Bambino, i tre articoli relativi all’identità, conosciuti come “gli articoli argentini”.

Siamo riuscite a convincere molti psicologi professionisti, alcuni scettici, che la verità è l’unica cura per alleviare il terribile dolore causato ad alcune persone dall’essere state rubate violentemente dalle braccia della propria madre, senza nemmeno essere entrati nella fase di sviluppo del linguaggio, il che provoca un trauma di dimensioni difficilmente quantificabili.

Nel 1992, abbiamo richiesto al governo di turno la creazione di un organismo statale specializzato nella ricerca dei nostri e delle nostre nipoti. E così si stabilì, per legge, l’istituzione della Commissione Nazionale per il Diritto all’Identità (CoNaDi), una politica pubblica unica al mondo che ha il compito di proteggere il diritto all’identità delle bambine e dei bambini.

Poco dopo, abbiamo iniziato a tessere la Rete per il diritto all’Identità, prima viaggiando in ogni provincia del nostro paese e creando un “nodo” in ogni località visitata, gestito da cittadine e cittadini solidali con la nostra lotta, che si fanno carico di diffondere la ricerca nel loro territorio. Questa rete iniziò poi ad estendersi all’estero, poiché i nostri nipoti possono trovarsi in qualsiasi parte del mondo, e oggi funziona anche qui in Italia, in Spagna, in Francia, in Canada e Stati Uniti.

Abbiamo sempre lavorato con l’obiettivo di ritrovare i nostri nipoti, che all’inizio erano bambini, poi divennero adolescenti, in seguito giovani, e oggi sono adulti. Man mano che recuperavano la loro identità e tornavano dalle loro vere famiglie, molti nipoti ritrovati e i loro fratelli e sorelle iniziarono a entrare a far parte della vita istituzionale.

Con l’arrivo della maggiore età, i nipoti iniziarono a collaborare attivamente nella ricerca. Erano più o meno coetanei e avevano gusti e necessità simili a quelli dei giovani che stavamo cercando. E così, noi Abuelas iniziammo ad ascoltarli attentamente. Nel 1997, per il ventesimo anniversario istituzionale di Abuelas, incoraggiate dai nipoti, abbiamo organizzato il primo festival “Rock per l’Identità”. Più di 50 mila giovani riempirono la Plaza de Mayo di Buenos Aires, partecipando ad un’attività che riaffermava la validità della nostra ricerca.

La cultura iniziò a costituirsi come ponte per raggiungere i giovani che avevano dubbi, i loro coetanei e la società intera, che cominciò a comprendere l’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità e la necessità di trovare i 500 bambini rubati dalla dittatura. Fu in quel festival gremito di gente che si piantò il seme di “Teatro per l’Identità”.

Prima dei gruppi rock, si mise in scena un’opera che interrogava il pubblico: “E tu, lo sai chi sei?”. L’anno successivo quel ridotto numero di attori, attrici e drammaturghi convocò centinaia di altri attori, attrici, drammaturghi e tecnici del teatro, che si unirono all’idea di realizzare un ciclo di teatro per aiutarci nella nostra ricerca.

Il ciclo iniziò a crescere, non solo in Argentina ma anche all’estero, Italia compresa, e ad ogni stagione teatrale si aggiunsero spettacoli e proposte. È da 25 anni che il ciclo accompagna ininterrottamente la ricerca e rende gli spettatori consapevoli del diritto all’identità attraverso centinaia di opere rappresentate nelle scuole, nei teatri, nei festival e in eventi in giro per l’Argentina e per il mondo.

Con i nipoti e le nipoti che iniziavano a farsi delle domande sulle loro origini, cominciammo a incrementare le campagne di diffusione per convocare coloro che avessero dei dubbi sulla propria identità e per renderli partecipi della loro stessa ricerca.

E così come le persone del mondo del teatro si unirono alla nostra lotta, anche i musicisti di ogni genere lo fecero, partecipando a “Musica per l’Identità”; e ancora, fotografi, illustratori, artisti plastici e cineasti. Iniziarono a collaborare anche coreografi e ballerini, fondando “Danza per l’Identità”. Abbiamo realizzato concorsi di letteratura e giornalismo. Insomma, in ogni ambito artistico siamo riuscite a diffondere la nostra ricerca e a trovare i nostri nipoti.

Allo stesso tempo, abbiamo creato una coscienza, nella popolazione, sul diritto all’identità. La lotta delle organizzazioni per i Diritti Umani e la decisione politica hanno permesso il consolidamento del processo di “Memoria, Verità e Giustizia”, che giunse nel 2003 per resistere nel tempo: si annullarono la “Legge di Obbedienza Dovuta” e la “Legge del Punto Finale”; ebbero inizio i processi ai genocidi e ai loro complici e ogni luogo di prigionia, di tortura e di morte fu trasformato in uno spazio di memoria.

Alcune di queste politiche di Stato continuano, e proseguono anche i processi per crimini contro l’umanità, nei quali noi Abuelas siamo le querelanti. Abbiamo ottenuto giustizia in centinaia di queste cause, la più emblematica il processo per il “Piano sistematico di appropriazione di minori” nel quale siamo riuscite a far condannare il dittatore Jorge Rafael Videla a 50 anni di carcere.

Oggi, alcune delle politiche di “Memoria, Verità e Giustizia” sono in pericolo. I discorsi dell’odio e del negazionismo, in molti casi pronunciati dagli integranti dei governi di turno, cercano di delegittimare la nostra lotta, e quella di tutti gli argentini, per la memoria e la democrazia. Ma il nostro popolo ha memoria e l’ultimo 24 marzo, quando si sono compiuti 48 anni dal colpo di Stato, è uscito in strada in modo massivo a riaffermare il suo impegno e a gridare ben forte “Mai Più”!

Guardando al nostro passato, sfilano nella nostra memoria molteplici e svariati ricordi, che avvalorano la nostra convinzione che l’unica strada è la lotta collettiva, con amore e perseveranza.

Uno dei giorni più felici della mia vita è stato il 5 agosto del 2014, quando ebbi l’immensa fortuna di ritrovare mio nipote. Fu lui a presentarsi spontaneamente alla nostra sede con dei dubbi sulle sue origini, si sottopose all’esame genetico e scoprì la verità. È musicista, come suo papà, e nel suo cuore arde la fiamma di mia figlia Laura. La sua apparizione è stata meravigliosa, come quella di ogni nipote che ha potuto recuperare la sua identità.

Attualmente, abbiamo ritrovato 137 nipoti. Continuiamo a cercare circa 300 persone che vivono con un’identità violata e che, in molti casi, sono padri e madri.

La perpetuazione del crimine di appropriazione, ora, ha raggiunto anche i nostri bisnipoti, anche per questo continuiamo a lavorare. Per capire come spiegare a quei bambini che sono figli di nipoti restituiti e nipoti di nonni scomparsi. Ed ecco che la cultura è venuta ancora una volta a tenderci la mano. “Teatro per l’Identità” ha creato opere per i bambini; dall’Associazione di Abuelas diffondiamo raccolte di racconti per bambini e ragazzi da leggere a scuola, ma anche come strumento per i nostri bisnipoti che stanno recuperando la loro identità insieme a quella dei loro genitori. Dobbiamo recidere questa genealogia falsa che il terrorismo di Stato ha imposto loro.

Per questo continuiamo con la diffusione della nostra lotta. Per questo continuiamo ad esigere giustizia. E per questo continuiamo a camminare, con le forze che ci rimangono, affinché mai più si ripeta, in nessun luogo, un crimine tanto aberrante.

Noi Abuelas di Plaza de Mayo lottiamo da quasi 47 anni. Ora ci accompagnano i nostri nipoti e decine di collaboratori. Da un po’ di tempo stiamo pianificando il ricambio istituzionale, integrando nipoti, fratelli e sorelle che sono alla ricerca dei loro cari nella Commissione Direttiva. Oggi sono gli stessi nipoti restituiti, i loro fratelli, le loro famiglie, a dare impulso al nostro lavoro. Sono loro ad aver raccolto il testimone e a svolgere le attività di cui prima ci occupavamo noi.

E anche se noi Abuelas oramai siamo rimaste in poche, perché molte compagne ci hanno lasciato, sentiamo di camminare ancora tutte insieme, tenendoci sottobraccio, come in quella Plaza de Mayo in piena dittatura, con la convinzione che continueremo a cercare i nostri e le nostre nipoti fino all’ultimo respiro.

Forse l’amore e l’orgoglio per i nostri figli e le nostre figlie, l’affetto per i nostri nipoti, possono farci sembrare le eroine di questa storia. Ma noi ripetiamo sempre che non siamo né eroine né diverse: siamo solo donne, madri, nonne.

All’inizio non sapevamo cosa fare, né come cercare o a chi rivolgerci, ma con il tempo abbiamo imparato ad esercitare la pazienza che è richiesta nella ricerca della verità. E i nostri passi sono stati quelli che abbiamo dovuto fare, e quelli che continuiamo a fare, seppure con il bastone.

Abbiamo brindato per ogni nipote ritrovato e per il ricordo dei nostri figli in ognuno di loro. Perché questo ci hanno lasciato in eredità e speriamo di continuare a tramandarla: ovunque ci sia un diritto umano vulnerato, noi ci saremo, per i nostri figli, per i nostri nipoti e per il nostro popolo. Continueremo a lottare per difendere la democrazia e a lavorare per trovare fino l’ultimo dei nostri nipoti.

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“La lezione di Estela Carlotto” è stato scritto da davide orecchio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Tech house e pulsione di morte

di Lorenzo Graziani

Che la quota di oscurità nella popular music – ascoltata in solitudine o ballata in compagnia – sia in costante crescita è un fenomeno sotto gli occhi di tutti. E non serve lambiccarsi troppo il cervello per notare la connessione con il ripiegamento nichilista che ha segnato la storia della controcultura: dagli inni soul per i diritti civili degli afroamericani e dal il rock pacifista dei primi Settanta, nel giro di dieci anni si è passati al punk, il cui spirito antisistema è stato ben presto assorbito dal mercato (discografico e dell’abbigliamento), capitalizzato e quindi disinnescato; poi è stato il turno dell’associazione a delinquere del gangsta rap, che del mondo se ne fregava e del ribellismo manteneva solo l’aspetto criminale; ora ascoltiamo le sbrodolate autotunizzate della trap in cui la reificazione capitalista raggiunge il suo culmine e la liberazione sessuale degli anni Sessanta sembra essere stata fagocitata dai circuiti neurali neoliberisti per generare la Perversa Equazione (PE) “sesso = soldi”, secondo cui il potere d’acquisto è tutto e si manifesta sotto forma di potere di fottere.

Stessa storia per la cultura della droga. Certo, le porte della percezione sono state aperte e poi sbattute in faccia già negli anni Settanta, in cui il riflusso dell’ondata psichedelica di dieci anni prima sembrava imprigionato in un terrorizzante flashback da LSD: “Siamo stati costretti a smettere da cose terribili” sono le amare parole della Nota dell’autore che chiude Un oscuro scrutare di Philip K. Dick, romanzo dedicato agli amici persi a causa della droga. Ma le sottoculture giovanili non hanno per questo smesso di fare uso di sempre nuove sostanze. Con la rave-culture degli anni Novanta si è diffusa l’ecstasy, e oggi è il turno di analgesici e ansiolitici come Xanax, Percocet e OxyCotin; ed è in particolare la codeina a giocare un ruolo fondamentale nell’informare il suono trap. In pezzi come “Codeine” – appunto – di Playboi Carti lo strumentale e la voce si fondono in un plasma di ricordi infantili liquefatti: tintinnii da camioncino dei gelati, jingle di cartoni animati e gridolini di bambini al parco che sembrano riprodotti da un Hal 9000 a cui David Bowman sta gradualmente cancellando la memoria. Drogarsi non serve più a meditare e nemmeno a medicare: l’irrealtà digitale di questi brani pare ricordarci come non ci sia più nessun altrove, nessuna alternativa all’infantilizzazione della società e alla schizofrenia neoliberista.

Tuttavia, è forse fin troppo facile rintracciare tendenze autodistruttive nella trap, e ancor più facile è metterle in relazione con la PE prodotta dal dominio capitalista dell’inconscio. Per motivi diversi, lo stesso vale per molta EDM (Electronic Dance Music) che, per decenni, pare aver seguito un trend da economie di scala passando dai 125 bpm della house-music ai 200 e rotti della gabber. Gli impulsi autodistruttivi sono palesi soprattutto nei generi più duri e freddi, “tutta macchina”, come la techno. Ciò che li rende meno interessanti dal mio punto di vista, però, è che, sebbene abbiano un certo seguito, rimangono comunque generi di nicchia, tradizionalmente e – almeno in parte – consapevolmente anti-sistema. Ho invece il sospetto che le tendenze autodistruttive siano ben più pervasive. E per trasformare il sospetto in una tesi non conosco metodo migliore che cercare di rintracciarle in luoghi dove non sono evidenti.

Effettivamente, queste tendenze si manifestano in molta (sotto)cultura musicale come vere e proprie pulsioni di morte, emersioni di un rimosso che solitamente sta al di sotto del livello di coscienza. Quindi la mia attenzione si è concentrata sulla tech house, un genere esploso solo di recente, ascoltato da persone che danno tutta l’impressione di essere integrate nel sistema.

Che cos’è la tech house?

Se si cerca online, le migliori definizioni disponibili suoneranno così: “La tech house è un sottogenere della house-music che combina elementi stilistici della techno”. Mi sembra una buona definizione perché ha quantomeno il merito di incasellare correttamente questo genere musicale: è un tipo di house che dalla techno prende in prestito soltanto qualche accessorio.

Dal punto di vista ritmico, infatti, è dominata da un classico house-beat four-on-the-floor. Indubbiamente, rispetto al genere di origine, bassi e cassa sono stati sottoposti a trattamento anabolizzante, avvicinandoli così al suono della techno, ma si cercherebbero invano altri procedimenti tipici di quest’ultima, come rumble e poliritmie.

Malgrado i vari generi EDM tendano oggi all’uniformità, tech house e techno vengono solitamente arrangiate diversamente. E, pure in questo caso, la prima mostra chiaramente la sua discendenza house poiché le manca la caratteristica più evidente della techno: la costruzione a strati, ossia l’accumulo graduale di tensione ottenuto attraverso l’aggiunta progressiva di materiale sonoro in loop. Questo rende la tech house un genere a prima vista molto meno ripetitivo della techno (le figure ritmiche e melodiche si ripetono mediamente di meno prima di cambiare). Ma la varietà guadagnata sul singolo pezzo viene meno sul lungo tragitto: se non si pone attenzione al campionamento vocale distintivo o a quell’unico suono dal timbro originale, anche dopo un certo allenamento è difficile distinguere un brano dall’altro tanto ritmo, melodia e arrangiamento si ripresentano invariati. Si tratta quindi di una ripetizione sicuramente meno palese di quella en plain air della techno, ma – forse proprio per questo – ancor più inquietante.

Enter the Freud

Proprio la coazione a ripetere ci mette sulle tracce di Freud poiché è il punto di partenza da cui egli parte per teorizzare la pulsione di morte. Non si può certo dire che colui che riteneva di poter ricondurre tutte le motivazioni umane alla volontà di sopravvivere e accoppiarsi abbia mai mostrato un atteggiamento particolarmente ottimista a proposito della nostra natura e civiltà. Tuttavia, il folle connubio di morte e tecnologia dispiegato sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale ebbe un forte impatto sul pensiero di Freud, tanto da indurlo a ritenere che fare appello alle pulsioni sessuali non fosse sufficiente a spiegare l’inclinazione all’ingiustizia e alla sopraffazione che caratterizzano la razza umana.

Sono queste riflessioni a guidare la scrittura di Al di là del principio di piacere, saggio che sin dal titolo allude a un noto libro di Nietzsche di cui condivide il disincanto nei confronti dell’etica ufficiale. Lo scritto risale al 1920 e prende le mosse dalle osservazioni compiute dal medico viennese su di un ampio numero di pazienti sofferenti di nevrosi traumatiche causate dal recente conflitto. Questi ultimi, mentre nella vita vigile si sforzano di non pensare all’evento traumatico da cui scaturisce la loro nevrosi, lo rivivono continuamente nei loro sogni. Si tratta di un fatto che colpisce Freud in quanto sembra contraddire la sua precedente teoria dei sogni che, come è noto, tendono all’appagamento di un desiderio. Ci deve dunque essere qualcosa di diverso dal principio di piacere che disturba e devia la funzione del sogno dai suoi scopi. Ancor più sconvolgente è però la scoperta che la tendenza a ripetere precedenti esperienze anche se spiacevoli è presente pure in soggetti sani. Troppi fenomeni sembrano pertanto a Freud rimanere senza spiegazione a meno di non postulare che la coazione a ripetere sia “più originaria, più elementare, più pulsionale di quel principio di piacere di cui non tiene alcun conto.”

La connessione tra pulsionalità e coazione a ripetere viene esplicitata attraverso quella che Freud chiama la “proprietà universale delle pulsioni, e forse della vita organica in generale”, che non è contraddistinta da una forza propulsiva, bensì conservativa e orientata a “ripristinare uno stato precedente”. In altre parole, la Vita di Freud è l’esatto contrario della Vita di Bergson: se per quest’ultimo la “vita pienamente vivente” è una granata che non cessa di esplodere, per il padre della psicoanalisi è un elastico teso che tende a riassumere la forma di partenza una volta cessata l’azione di forze esterne, o un motore che, esaurito il carburante, procede per inerzia. Data la natura conservativa delle pulsioni, esse non possono spingere le forme di vita verso uno stadio successivo; al contrario, le pulsioni le riconducono alla comune partenza, ossia la morte, in quanto gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi.

Accanto alle pulsioni sessuali o di vita, fa così la sua comparsa la pulsione di morte che – con linguaggio schopenhaueriano – viene presentata da Freud come “più originaria”. Infatti, nonostante il proclamato dualismo, verso la conclusione dello scritto, l’attenzione viene posta su due caratteristiche delle pulsioni di vita che suggeriscono una loro possibile discendenza da quelle di morte. La prima è la componente sadica delle pulsioni sessuali, che si esprime nella fase orale attraverso l’impossessamento e l’annientamento dell’oggetto erotico; qualora non venga superata, nel corso dello sviluppo diviene una perversione che prevede la sopraffazione del partner nell’atto sessuale. La seconda riguarda il meccanismo regolato dal principio di piacere che in questa sede viene definito – usando l’espressione di Barbara Low – “principio del Nirvana”: poiché ha il compito di scaricare l’energia psichica in eccesso per mantenerla al minimo, esso stesso pare derivare dalla pulsione di morte.

Pulsione di morte, società della performance e tech house

Ora, torniamo alla tech house. Fin dall’iconografia – pasticche, K di ketamina e lingue estroflesse dominano la scena – questo genere musicale si presenta come un inno alla “festa” in cui sballo e sesso sono padroni indiscussi. Nonostante la professata levità, però, dopo un po’ le voci abbassate di tono, i suoni patinati ma aggressivi e l’insistenza di frasi come “You take another” fanno sprofondare questa compulsory happiness in un mare di inquietanti incubi stroboscopici.

“I think I took too much, I can’t feel my bones, I can’t feel my soul, don’t take me home” recita il testo di “Too Much” di TOBEHONEST. Le frasi vengono pronunciate con quel tono a metà strada tra l’inquieto e il narcotizzato che si ha quando si è preoccupati per le proprie condizioni, ma troppo fatti per comprenderne la reale gravità. “I lost my mind”, ma la musica è trascinante; dopo aver ballato per ore, l’effetto ancora non è finito: stai male, eppure il tuo sistema limbico – ancora sovraeccitato – ti impedisce di tornare a casa. L’overdose sarà pure un incidente, un divertimento finito in tragedia, ma l’abuso di droga viene qui invocato con una consapevolezza e un cinismo inquietanti: “You’re not in control” (Beltran, “Warning”). Gli stessi saliscendi ritmici che caratterizzano il genere ricordano la sensazione di disorientamento temporale causata da alcol&MD.

A ben vedere, le pulsioni di morte che scorrono al di sotto della patina lucida sono tutte collegate a un fenomeno fin troppo evidente nella nostra società: la pressione a dare il massimo. In pezzi come “The Game” di Pleight e Bess Maze il processo pare lambire le soglie dell’Io, pur rimanendo almeno in parte inconscio: nell’intermezzo in cui la tensione si rilassa e la cassa picchia di meno si distinguono a stento le parole immerse nel riverbero di quello che verosimilmente è un discorso sulle cause dell’ansia da prestazione (“everybody must join, everybody must work, everybody must belong, then freedom disappears”). La stessa tipologia della droga menzionata così tante da volte da entrare in un certo senso a far parte dell’identità del genere musicale ci fa riflettere su quanto sia forte l’ossessione per la prestazione. Non è la codeina della trap, bensì ecstasy: un eccitante, non un ansiolitico. La droga serve a continuare la festa, a continuare la performance, a far vedere che non ci si ferma mai (non sto dicendo che la trap non sia, a suo modo, un genere esibizionista; qui mi riferisco solamente agli effetti della droga utilizzata).

Sicuramente l’essere riconosciuti dagli altri è una necessità dell’essere umano, animale sociale per eccellenza; ma da dove deriva questo bisogno di mettersi in mostra per far vedere la propria forza? Non credo che nemmeno in questo caso si debba cercare a lungo per trovare la risposta. In una società come la nostra in cui tutto è merce, e deve quindi essere esibito per essere, l’esibizione diventa valore assoluto. La concorrenza è spietata, se non ce la fai è meglio che te ne resti a casa: “You should’ve stayed at home, stayed away” (NightFunk e Ranger Trucco, “In The Club”). Per esibirti devi reggere il confronto e saper sfruttare le tue armi: “Money, power, beauty, fame: choose your weapon to beat the game” (Chris Lake, Grimes e NPC, “A Drug From God”). Ma la concorrenza è spietata: per andare avanti devi “prenderne un’altra”, fino a perdere il controllo.

Secondo il filosofo contemporaneo Byung-Chul Han, la logica neoliberista dell’autorealizzazione è l’arma anti-rivoluzionaria definitiva: se la dialettica materialista prevedeva che l’alienazione del lavoratore dovuta al suo sfruttamento da parte del padrone si trasformasse in desiderio di ribellarsi al dominio di quest’ultimo, ora che il padrone è divenuto evanescente è il lavoratore stesso a sfruttarsi fino alla morte, credendo di realizzarsi. La ricorrente espressione “essere imprenditori di sé stessi” equivale metaforicamente a puntarsi alla tempia la pistola della rivoluzione, e dunque ad annullare ogni spinta anti-sistema insita nello sfruttamento capitalistico. Perciò, se il neoliberismo riduce l’essere umano a soggetto di prestazione che ottimizza sé stesso fino a morire, la tech house ne è il manifesto sonoro.

Pur avendo ragioni socio-econimiche, la tendenza autodistruttiva della società della performance pare dunque confermare la teoria di Freud: la nostra società, che intona peana all’immortalità digitale e si sforza in tutti modi di rimuovere la morte dalla vita, non solo si rivela ossessionata dalla morte (ipocondria e vigoressia sono facce della stessa medaglia), ma più la nega, più pare corrervi incontro. La vita che rimuove la morte, rimuove sé stessa. Si vuole l’estasi (o l’ecstasy) per tentare di dimenticare la paura di morire, e si finisce così per accelerare il processo di autoannientamento, a livello personale e – grazie alle migliorate capacità dell’uomo di influenzare l’ambiente esterno – (inter)planetario: “Moving beyond the Earth, heading for the stars, interplanetary, we’re running out of time” (Walto, “Planetary”).

Nella società della performance essere non è essere percepito, ma essere esibito. Questo genera odio verso sé stessi, mai all’altezza di ciò che pensiamo ci venga richiesto, oltre a un’angoscia strisciante eppure insostenibile, ben rappresentata da pezzi come “Don’t Wanna Be” di Broken Future (un moniker molto appropriato). Qui viene adoperato un sample vocale in cui soggetto e completamento del verbo sono talmente distorti da non risultare intellegibili. E non è un caso, allora, che il titolo della canzone li elimini completamente, restituendo all’ausiliare il suo significato proprio di esistere e alla proposizione il suo contenuto esistenziale: il desiderio, acefalo e adespota, di non essere.

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PLAYLIST

Trap

  1. Playboi Carti, “Codeine”: https://www.youtube.com/watch?v=Pxw6s4iMG7c
  2. Lil Gotit, “Uzi Anthem”: https://www.youtube.com/watch?v=q5IhSiiewNE
  3. X-Kappe, “Lalah”: https://www.youtube.com/watch?v=rGnWTVqfJJg

Techno

  1. ABYSSVM, “Achtung”: https://www.youtube.com/watch?v=7_OQU1xk1Ac
  2. Znzl, “As The Fire Consumes Us”: https://www.youtube.com/watch?v=OsixURKSBUw
  3. BXTR e NN, “Asimov’s Law”: https://www.youtube.com/watch?v=6rBtwoOqcTk
  4. NTBR: “Eskalation”: https://www.youtube.com/watch?v=wPaexaXDUCs
  5. Minus Magnus, “inside Pax”: https://www.youtube.com/watch?v=d4sqV2kXsfg

Tech house

  1. TOBEHONEST, “Too Much”: https://www.youtube.com/watch?v=nfGzHERR9Tg
  2. Beltran, “Warning”: https://www.youtube.com/watch?v=k9FiwBYjwdc
  3. Pleight e Bess Maze, “The Game”: https://www.youtube.com/watch?v=Fdoiixwcc1k
  4. NightFunk e Ranger Trucco, “In The Club”: https://www.youtube.com/watch?v=RdveZ3jeL5M
  5. Chris Lake, Grimes e NPC, “A Drug From God”: https://www.youtube.com/watch?v=nsmvBR37xps
  6. Walto, “Planetary”: https://www.youtube.com/watch?v=ItheVZ3F9sA
  7. Broken Future, “Don’t Wanna Be”: https://www.youtube.com/watch?v=Dmhc681oixw
  8. Maximo, SCHMIDT e Ben Yen, “Back Then”: https://www.youtube.com/watch?v=HzjuJubb4mY
  9. Roddy Lima, “Guzman”: https://www.youtube.com/watch?v=urTZ-qNbg70
  10. Dead Space e G. Felix, “Mighty Real”: https://www.youtube.com/watch?v=lYivFOI3HUQ
  11. James Hype, “Say Yeah”: https://www.youtube.com/watch?v=JE4WUGzU76I
  12. TOBEHONEST, “Conga”: https://www.youtube.com/watch?v=cf4PPS_2fhw
  13. House Divided, “Get Twisted”: https://www.youtube.com/watch?v=Vtqf7SqH244

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Immagine: Illustrazione editoriale di Norberto Filotto Design

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“Tech house e pulsione di morte” è stato scritto da andrea inglese e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Les nouveaux réalistes: Luigi Macaluso

 

 

L’Ovarola o la Moglie del Serpente

di

Luigi Macaluso

 

Narrano le cronache non scritte di Trizzulla, paese dell’entroterra madonita, che all’indomani della legge Merlin l’arrivo del nuovo parroco don Basilicò fu accompagnato dalla presentazione d’un prodigio: la nipote Lina, meglio nota alla memoria dei fedeli come l’Ovarola o la Moglie del Serpente. Appena salito sul pulpito l’ecclesiastico liquidò i convenevoli di rito con l’apocalittico annuncio: la giovane, ricevuta in sogno la conoscenza biblica del biblico rettile, aveva ottenuto il carisma di porre fine all’altrui procreazione sessuata. “Partenogenesi la chiamano gli scienziati. Ma io vi dico che il Serpente si è congiunto in Spirito alla mia diletta parente per lasciare un segno dell’imminente redenzione cosmica. Il nostro gregge non avrà più bisogno di sporcarsi le coscienze per dare la vita”. La vita, assicurava il teologo, sarebbe sgorgata grazie alla fede degli aspiranti padri che, uniti in preghiera alla devota erede, avrebbero fatto ritorno a casa con un uovo. Un uovo comparso ex nihilo come lógos spermatikós dall’oscurità feconda della Santa che, se usato con temperanza teologale per soffocare i tormenti labiali del Dio di carne celato all’ombra crurale delle pretendenti madri, le avrebbe ingravidate. Prima o poi. Prima gradita una libera offerta di 4.000 lire. La resistenza eretica da parte maschile fu spenta quando Lina si rivelò: contorta nelle sue forme emiliane, limpida come solo l’afa, era la migliore puttana mai apparsa a Nord dello stretto di Magellano.

 

La risposta degli accaniti ospiti del Caffè del Corso non si fece attendere: occorreva un piano d’azione e, nel codice militare dei digestivi alcolici o dei calici d’acqua e zammù, ciò equivaleva a mandare in avanscoperta Totino Baiamonte. Totino era un artista e aveva esplorato il mondo. Demiurgo dei fregi del carro di San Calemonio abate – patrono di Trizzulla che, nel 1141, era riuscito a scongiurare un’epidemia di herpes zoster trucidando dozzine di massari sospetti – aveva acquisito maestria nella lavorazione della cartapesta dopo essersi trasferito per qualche tempo a Viareggio. E delle donne del continente non aveva mai smesso di millantare le più mirabolanti prodezze in favore della sua virilità titanica. Tanto più inverosimili in quanto le notti toscane, nella memoria dell’affabulatore, restituivano la scena di lunghe degustazioni di rosolio al rosmarino a casa della zia emigrata. In verità l’espatriato aveva compromesso l’onorabilità della cugina Agata e, per questo, si era affrettato a isolarsi nell’isola, lasciando in pegno una promessa riparatoria. Ma il segreto fu protetto e lo scandalo impedito grazie all’impegno da lui profuso nel ruolo di sensale nel fidanzamento in casa (quantunque a distanza) tra Agata e Arcangelo Marinaro, virgulto della premiata merceria “Saro Marinaro & Figlio”.

 

Come Achille, di cui forse era pure discendente, Totino aveva una gloria da preservare e, indossato il completo bianco d’ordinanza, opportunamente inzuppato di colonia Vallý, acconsentì a farsi accompagnare fino alla porta della Chiesa Madre dagli sguardi ammirati dei suoi Mirmidoni trepidanti. “Che è sto profumo di zagara? Ah, sei tu?”, disse Don Basilicò, per niente sconvolto. “Voscenza, posso avere udienza con la Vostra purissima nipote?”. Il pellegrino stava per giustificare il motivo del suo buen camino di trenta metri quando il prete, incurante del dato che il visitatore non avesse moglie, lo invitò ad accomodarsi nella camera dell’ex perpetua. Difficile descrivere l’eternità, se non come assenza di tempo. Ma il tempo smise di battere davvero nel cuore di Totino dopo che apparve Lina, ammantata di soli simboli alla maniera della verità gnostica, nuda di tutto e del tutto. Quando, genuflessa ai suoi piedi, questa verità sensibile cominciò a scuotere la testa come davanti al muro del pianto, a piangere fu lui, Totino, che finalmente avrebbe vissuto la gioia di spiattellare un segreto autentico.

 

Era Maggio. E un anno passò veloce, schiacciato da una smania di metafisica generazione da parte di tutti gli uomini in età d’erezione, seconda soltanto a quella di Dioniso disceso in India. Per le consorti non fu un gran problema: a parte la seccatura di vedere i mariti titillarle per qualche secondo con un uovo in mano, beneficiarono di una consistente riduzione delle prestazioni appaganti il solo immaginario dei loro baffuti passionnés, unita a un forte incremento del numero di frittate settimanali. Un evento pubblico molto sentito fu invece il ritorno in Sicilia di Agata, convolata a nozze con Arcangelo proprio a inizio estate. Fu un matrimonio che imbavagliò molte malelingue, ree di avere sbandierato la fondata insinuazione che il rampollo in fondo in fondo fosse un po’ troppo francese. La ragazza dal canto suo, avendo ormai raggiunto la veneranda età di ventisette anni, sapeva che, se anche il coniuge transalpino l’avesse sfiorata con il pensiero, cioè con l’unico contatto tattile di cui poteva essere capace, non avrebbe obiettato nulla di fronte alla scoperta della sua natura illibata quanto quella di un pacchetto vuoto di sigarette Macedonia. Questo equilibrio entrò presto in crisi a causa del patriarca Marinaro che reclamava con urgenza un nipotino a cui lasciare in eredità il nome (Saro, proprio Saro, non Rosario nè Baldassare). Il vegliardo era un uomo intensamente religioso che a compieta alternava i grani del rosario alle bestemmie e, preferendo giocare d’anticipo, obbligò il figlio a recarsi dall’Ovarola.

Istruita da Don Basilicò la Moglie del Serpente, tutta contenuta in uno scialle nero, ebbe modo di manifestare la sua sapienza cabalistica. “Mi astegno [mi astengo] dal darle troppo speranze, in questi giorni sono stata ammaraggiata [ho avuto la nausea, come in preda al mal di mare]. Preghiamo, hai visto mai che l’uovo spunta lo stesso”.  Saro Marinaro però aveva fatto fortuna con i filati intrecciati all’ostinazione e non era certo uomo da mollare la presa. Ecco allora che anche Agata fu costretta a partecipare alle riunioni, nella speranza di un travaso di fertilità per osmosi.

 

Gli incontri tra le due donne, l’inseminata dall’Angelo refrattario e l’impenetrata dall’Arcangelo trizzullario, divennero frequenti durante il viaggio di quest’ultimo a Bruges, dove si teneva l’Esposizione Universale di merletti. Il Prestigio, il Portento, il Miracolo accadde al suo ritorno: Agata aveva ricevuto in dono l’uovo e, nell’ordine straordinario delle cose, il suo uovo cresceva di settimana in settimana. L’organizzazione delle megere del paese fu teutonica, simile a quella del servizio d’ordine della live di Nilla Pizzi a Pompei, e una processione di Pateravegloria emananti come l’Uno plotiniano dalle rigorose gonnelle impregnate di naftalina fu preposta a separare la Benedetta dalla corruzione dell’universo esterno. Ingresso privilegiato nelle stanze familiari di Palazzo Marinaro restò consentito a Totino, incaricato di farsi carico dell’occorrente utile ad allietare la cova. L’iniziativa della Chiesa fu annunciata nel corso di una funzione domenicale in cui Don Basilicò comunicò di avere affidato a Totino la realizzazione di una piccola coppia di Telamoni atta a sorreggere l’uovo che, conti alla mano, ne era convinto, si sarebbe schiuso il 20 Aprile, Festa di San Calemonio abate (e per coincidenza della nascita di Adolf Hitler).

 

Nel giorno della celebrazione la piazza era gremita e in tripudio. Da Privitera, da Cacciapuoti e addirittura dall’esotica Ninnibòva le masse erano accorse per non perdersi l’evento. Al centro stava un palchetto con sopra i Telamoni e sulle loro spalle, con timore adagiato dai pompieri in livrea, l’uovo che, borgesianamente fantastico al punto da sembrare quasi di cartapesta, era ormai alto circa un metro e mezzo; un separè circolare copriva parte del femminil gamete e all’interno di esso mamma Agata provvedeva alle sue amorevoli cure sussurrando parole tranquillizzanti. Un coro di voci bianche dava il ritmo a Don Basilicò per stringere le mani con la dovuta solennità alle autorità convenute, il Sindaco, il Maresciallo dei Carabinieri, il Barbiere, e accanto a lui l’Ovarola dispensava sorrisi educati, spostando con la dovuta discrezione le molte mani venute a pizzicarle il culo. Totino osservava compiaciuto l’opera prodotta, Arcangelo non si tratteneva dalla felicità saltellante abbracciando ogni due per tre Iano, il figlio del macellaio, Saro Marinaro imprecava contro una colomba di pace, colpevole di aver cagato sulla sua giacca di lino color sorbetto al limone.

 

Gli angioletti avevano appena intonato lo Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, quando successe. Coloro condannati a vedere per speculum in aenigmate instillarono il dubbio di una porticina tratteggiata che venne giù come pan di zucchero. Ma non fu così. A prorompere fu una paffuta bimbetta di forse tre anni, brutta come l’herpes zoster e avvolta da una tunica bianca recante le insegne del mite patrono (la frusta e l’argano) che, messo piede sul palchetto, allungò il braccio indicando Totino e urlandogli “suca”. I sostenitori del materialismo dialettico spiegarono l’accaduto adducendo come prova che la bambina fosse la figlia del peccato consumato da Totino e Agata, e che questa, ricompensata con i denari della famiglia acquisita la permanenza della piccola presso l’Ordine delle Carmelitane col Tacco, capillarmente presente in molti anfratti delle Madonie, avesse escogitato il trucco per giustificarne la legittimità agli occhi del popolo. O almeno a quelli del suocero che lanciò comunque una santiata quando scoprì che il proprio sangue si sarebbe chiamato Sara. Per coloro la cui fede rimaneva un fragile vaso di terracotta custodito in Timore e Tremore quel che seguì, invece, fu un’assurda conseguenza: il timore di Don Basilicò a trasferirsi in missione in Congo per volontà inappellabile della Curia romana (poi ammorbidito nel ‘65 a seguito della sua fortunata partecipazione al colpo di Stato di Mobutu); il tremore di Lina, l’Ovarola, che qualcuno scovò in un club di Parigi intenta a fare con un serpente “cose che non si vedevano nemmeno ai tempi di Tiberio”. Ma quale che sia la verità, se un viaggiatore oggi si reca a Trizzulla e lancia un roboante “suca”, la risposta può essere soltanto una: “Sempre Ubbidito Calemonio Abate”.

 

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“Les nouveaux réalistes: Luigi Macaluso” è stato scritto da francesco forlani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Difficile come guardare dentro i sassi

di Giacomo Verri

(Proponiamo un estratto da Storie di coscienti imperfetti, la nuova raccolta di racconti di Giacomo Verri, pubblicata da Wojtek, 2024)

Perciò fu l’inserviente, entrando in camera, a farglielo nota­re. Signora, cos’è capitato?, disse ridendo. Lei non s’era accorta di nulla. A dire il vero, qualcuno aveva appoggiato sul tavolino da notte il bicchiere con le medicine da prendere a colazione; ma solo quello aveva notato Adelina Gioniso, e non sapeva se si trattasse della stessa persona che aveva fatto il resto; per lasciare le pastiglie non avevano di certo acceso la luce e, co­munque, lei dormiva ancora. Che cafonaggine, andare e venire dalla stanza di una vecchia signora assopita e inerme. Più volte s’era immaginata qualcuno del personale aprire i suoi cassetti, rovistare tra le cose che le erano rimaste – le uniche di una vita intera, per la miseria –, le foto dai colori sbiaditi di quando erano stati in Zaire a prendere Elsa, i biglietti che le aveva scritto Silvio mille anni prima, vecchi gioielli che non metteva più, il cappellino della sua dolce Mila. Maledetti! Lo diceva nella sua testa senza pronunciarlo a voce alta; ma, poniamo che di lì a qualche anno si fosse trasformata in una di quelle vecchie incapaci di tenere a freno la lingua, le sarebbe piaciuto allora togliersi il capriccio di coprire d’insulti quella gente che non faceva altro che spingere sedie a rotelle, chiederti se sei andato di corpo e, se non sei più in grado di farlo, imboccarti col cucchiaio e ripulirti la bocca e il mento.

Che le è successo ai capelli?, ripeté la ragazza. Non era di quelle che le stavano più antipatiche. Adelina si toccò la testa, sporse il labbro, chiedendosi se la stesse prendendo per il culo. Non so, disse. Dev’esserci uno di quegli specchi rotondi là dentro. Indicò un cassetto del comò di pessima qualità appoggiato sulla parete di fronte.

La ragazza frugò finché non l’ebbe trovato.

Dai qua, aggiunse Adelina facendo segno con una delle mani scarne e nodose. Ciò che vide non le piacque ma nemmeno la turbò; più di tanto brutta non poteva diventare e questa certezza le offriva un’indubbia superiorità sulla schiera di giovani donne che a turno le stavano tra i piedi. È vero quello che dicono?

Cosa? Cosa dicono?, domandò la ragazza, fingendo di non aver capito. Dato che ora stava aprendo la tenda per far entrare il sole, si era dovuta voltare e Adelina le notò un’ombra di paura negli occhi.

Dicono che sia scappato approfittando del viavai delle pompe funebri, aggiunse Adelina. Si riferiva a Sebastiano – come faceva di cognome? –, scomparso da due giorni, e lei continuava a pensarci, a quel vecchio testardo. A quanto pare sarebbe dovuto morire cinquant’anni prima per un tumore – sosteneva lui – ma poi la diagnosi si era rivelata scorretta e così era sopravvissuto alla moglie – una ex puttana, dicevano altri – e pure alla seconda moglie, se era una moglie, e forse anche al figlio.

Probabilmente è così, rispose la ragazza, riavvicinandosi per darle il termometro – da quando era iniziato quel casino, mi­suravano la febbre a tutti i vecchi tutti i giorni –, e forse sorrise ma Adelina ne dubitò; mezzo volto era coperto dalla masche­rina chirurgica, e come se non bastasse portava quegli occhiali grandi e spessi che facevano il resto.

La ragazza soffiò aria col naso, come se ce l’avesse un po’ chiuso o non riuscisse a respirare là sotto. Mi sembri impaurita, le disse Adelina. È così? E poi aggiunse, dato che quella non apriva bocca, Si può sapere come diavolo ti chiami?

Patrizia, rispose in tono affaticato.

Va bene, Patrizia, disse Adelina cercando di tener stretta l’a­scella attorno al termometro. Tu hai paura. Non hai bisogno di dirmelo. Fece una pausa e poi disse ancora, Ritira questo dan­nato specchio. Ormai non ci posso fare niente.

Quando Patrizia se ne fu andata, si chiese se fosse ancora pos­sibile vivere senza paura. Lei non ne aveva, alla sua età, figuria­moci – ormai sfiorava i novanta – e comunque non lo avrebbe ammesso. Ma quella donna – quanti anni avrà avuto, trentacin­que, quaranta? – doveva davvero averne.

Adelina non s’era fatta mettere la televisione in camera, perché sarebbe finita per non uscirne più; preferiva seguire i telegiornali in sala comune, accanto alla mensa, con un gruppetto di altri ospiti della casa di riposo. Nella maggior parte dei casi era gente con cui non aveva mai parlato né le interessava farlo. Ci fosse almeno un bel gattino da coccolare, pensava a volte, ma niente. Comunque i figli e i nipoti che venivano a trovarli sostenevano che in quella sala facesse terribilmente caldo. Può darsi. E lei stessa era convinta che il volume della televisione fosse tenuto a un livello demenziale tan­to era alto. Ma adesso nessuno poteva uscire dalla propria stanza, sgranchirsi le gambe, fare quattro chiacchiere con altri vecchi rot­tami come lei, figurarsi stare tutti appiccicati in sala comune. Ave­va capito che il virus colpiva soprattutto loro, la gente di una certa età, i nonni. Perciò che diavolo di paura doveva avere Patrizia?

Più tardi si appisolò e sognò se stessa giovane, diciamo più o meno all’epoca in cui avevano preso Elsa. Da qualche tempo le capitava di addormentarsi nel corso della mattina per poi ri­scuotersi di colpo per un rumore, una sedia trascinata a terra o lo zoccolo di una di quelle infermiere che urtava la gamba di metallo del letto; si trattava di risvegli volgari, come uno sbadi­glio fatto senza metterci davanti la mano.

Ora sognava di trovarsi a cavallo della sua vecchia biciclet­ta forse per portare un messaggio a qualcuno. Di sicuro c’era un’urgenza ma non sapeva quale. Però, mentre stava lì a darci dentro sui pedali, si ripeteva nella mente una cosa curiosa che aveva letto da qualche parte e che riguardava la ragione per cui si usa il punto interrogativo. Da dove diavolo saltava fuori quel fronzolo ricurvo?

Stava arrivando comunque; c’era un’ultima svolta e un pezzo di strada in salita. Quel posto non era Giave ma le suonava fa­migliare lo stesso. In fondo al sentiero una gabbia. Ecco la meta. Accanto alla gabbia – la loro gabbia di un tempo – suo marito. Silvio. Dovevano dare da mangiare alla leonessa.

Adelina aprì improvvisamente gli occhi e si leccò le labbra perché erano secche. Be’, che diamine ci fai qui? Luca Sulfo era entrato in camera, l’aveva spiata mentre dormiva e ora stava lungo disteso sotto le sue lenzuola. Siamo due vecchi, disse lei. I vecchi non dovrebbero stare così vicini. Poi c’è quel maledetto virus.

Hai paura di morire?, domandò Luca.

Falla finita, disse Adelina.

Se li avessero scoperti sarebbe di sicuro scattato l’allarme; da giorni era più che vietato avvicinarsi gli uni agli altri, figurarsi vedere quel vecchio topo coricato nello stesso letto con lei.

Quanti ne sono morti oggi?, disse Adelina. Sapeva benissimo che erano undici dall’inizio dell’emergenza, lo chiedeva per spa­ventarlo anche se non era certa di volerlo mandare via. Comun­que sì, disse, Ho paura di morire. Che domande.

Ma guarda, disse lui. Quello che sento mi piace. Le aveva appoggiato la mano sulla pancia, una vecchia pancia molle e priva di elasticità. Aveva il buon garbo di metterla al posto giusto, la mano, né troppo sopra né – per fortuna – trop­po sotto, dove iniziava il bordo del pannolone. Gesù santo, quell’uomo era un cavaliere.

Ho sognato mio marito, aggiunse lei.

Quando?, domandò Luca.

Un attimo fa, sai. Mentre dormivo e tu ti facevi strada come un ladro nella mia camera. Toccò con la propria la mano di lui.

E?

E niente. Entravamo nella gabbia della leonessa.

Una storia che Luca Sulfo conosceva perfettamente. Adelina e suo marito l’avevano comprata a un costo irrisorio, alla fine degli anni Settanta, da un tizio dello Zaire che trafficava animali eso­tici. A quell’epoca le leggi lo consentivano, almeno così diceva Adelina. Non ci crederai, gli aveva raccontato una volta, Ma per qualche tempo se n’è stata in centro a Giave, a casa di un amico, sul terrazzo. Poi però, quando non poterono più tenerla libera, sistemarono la gabbia lungo la strada così che tutti potessero vedere Elsa passando in auto; e ce n’era di gente che si fermava, altroché se ce n’era. Mentre i vicini, quelli no, erano stati orribili, gliene avevano fatte di tutti i colori. Oddio, diceva Adelina con una certa fierezza, Negli occhi di Elsa splendeva qualcosa di vec­chio come l’Africa. Una cosa che non ho mai visto dentro a degli occhi umani. Poi Silvio, un giorno, era stato ferito, dopo la mor­te dei cuccioli. Quando lei si accorse che qualcosa non andava, si precipitò alla gabbia e trovò un disastro. Forse non avremmo mai dovuto prenderla, ripeteva spesso, Ecco tutto.

Okay, disse lui. Quindi hai sognato l’incidente?

Elsa ci fissava, raccontò Adelina, E Silvio voleva che lo seguis­si in un angolo. Vedi tu, in realtà non credo che sarebbe stato possibile farlo davanti a quella bestia.

Luca tolse la mano dalla vecchia pancia ma lei frugò sotto il lenzuolo e gliela riprese. Sei calda, disse lui. Potresti avere la febbre.

Dove credi sia finito Sebastiano?

A camminare lungo la ferrovia.

Lungo la ferrovia?

Lo facevamo, prima. Prima che fosse vietato, intendo dire. Si mise dritto, perfettamente supino, accanto alla donna. La porta era socchiusa, dalla camera di fronte proveniva il borbottio di un televisore acceso ad alto volume, ovviamente. Sei calda ma hai i piedi freddi, disse Luca. Lui indossava le calze ma la tem­peratura della pelle di Adelina oltrepassava la stoffa.

Credo di aver fatto questo pensiero, disse lei. Luca si voltò a guardarla, in attesa. Ora provo a dirtelo, ma tu non ridere, siamo intesi? Adelina Gioniso si sistemò cercando di portare le spalle e la schiena un po’ più su. Disse, Se questo fosse l’inizio di una pandemia permanente? Luca intrecciò le dita e le appoggiò sul petto. Va’ avanti, fece. E lei continuò, Potrebbero non tro­vare mai un rimedio, un… come si chiama, una terapia. Il virus potrebbe modificarsi eludendo ogni risorsa dei medici. Potreb­be essere un virus più intelligente degli altri, una canaglia, uno che ce la farà pagare e porterà tutti a… non so. Morire soffocati? Un sasso che sprofonda dentro un lago fu ciò che le venne in mente, compreso il cupo suono dell’acqua che ne inghiottisce il peso.

Luca cercò di mantenere un respiro lento e profondo. Non è mai successo, disse.

E lei disse, Può sempre succedere, può sempre accadere qual­cosa di nuovo su questa maledetta Terra. Quel virus potreb­be modificarsi molto più velocemente di quanto noi saremo in grado di porvi un argine. Adelina rise un po’, poi aggiun­se, Cribbio. E ancora, dopo aver dato un’occhiata alle mani di Luca, Santo Dio.

Le venne da starnutire ma non starnutì. Si sentiva strana, aveva ragione Luca. Quella cavolo di Patrizia le aveva detto se aveva la febbre? Non lo ricordava. Ma se l’avessi avuta me l’a­vrebbe detto, diamine. Mi avrebbe chiusa qui dentro a chiave. Sorrise. Lui aveva lasciato nel letto un ovale di calore che durò qualche attimo, poi si confuse col suo. Adelina provò ad alzarsi, con fatica appoggiò i piedi a terra e li infilò nelle ciabatte di stoffa da signora anziana con la suola di gomma e la chiusura in velcro. Le trovava orribili ma comodissime. Perché diavolo non mi hai chiesto di aiutarti?, avrebbe detto lui se fosse stato ancora nei paraggi.

Con l’ausilio del bastone a quattro piedi andò in bagno, ap­poggiandosi con una mano alle pareti, poi con l’intero avam­braccio cacciò il pollice nell’elastico del pigiama e trascinò giù le braghe, quindi slacciò quel maledetto pannolone e lo lasciò cadere a terra. Era gonfio e pesante. Dunque ti sei ridotta così, signora Gioniso, pensò dandosi un’occhiata allo specchio. Infi­ne sedette sul water e fece qualche goccia di pipì, poca roba, a dire il vero. Quindi strappò un po’ di carta igienica e la tenne in mano, senza usarla.

Mentre stava lì ferma, ripensò a Patrizia. Certo non avrebbe mai saputo come faceva di cognome perché in quella stupida casa di riposo bisognava fare finta di essere amici e darsi del tu. Una cosa idiota, no? Senza parlare di quell’urlarci nelle orecchie come fossimo tutti sordi. Io non lo sono, perlomeno. Le tornò in mente un episodio. L’anno prima erano venuti i ragazzi del liceo di Giave a presentare i loro esperimenti scien­tifici; c’era stata una ragazza tutta vestita di rosa – mio Dio – che aveva colpito col martello un diapason, e poi un altro diapason, accanto al primo, aveva iniziato a vibrare; l’esperi­mento consisteva proprio nel percepire il suono del secondo diapason. Adelina c’era riuscita, eccome, ma molti altri no. Rimasero intontiti coi loro bastoni, le ciglia spettinate, chie­dendo che l’esperimento fosse ripetuto perché non avevano capito un accidenti; dunque la ragazza tutta rosa lo rifece ma quelli avevano continuato a non sentire nulla di nulla, e la stupida stava per mettersi a piangere, che ebete. Quanto a Pa­trizia, okay, lei non è male, ma è una donna scialba. Sì, credo sia una donna poco interessante, pensò, mentre finalmente infilava la carta igienica tra le gambe per darsi un’asciugata.

Eppure loro comandano e noi zitti. Non si fa questo, non si fa quello, il pranzo è all’ora tale e alle nove a letto. Per non parlare di quando si poteva ancora uscire: ti toccava snocciolare per filo e per segno un sacco di informazioni, dove saresti anda­to, con chi, per quanto tempo. Oddio, disse Adelina Gioniso, mentre cercava di tirarsi su dal water.

Prima di spegnere la luce diede un’occhiata al pannolone get­tato a terra e poi chiuse la porta. Se l’era già tolto in passato e l’aveva lasciato lì, senza buttarlo. Che storia era quella?, le ave­vano detto; e dopo i rimproveri lei aveva promesso di non farlo più. Ma aveva aggiunto, In cambio vorrei poter dormire con un’altra persona qualche volta. L’infermiera aveva sorriso, Vuole qualcuno in camera con lei? E Adelina aveva scosso la testa, No, diamine, Desidero solo coricarmi nello stesso letto con un uomo, stringergli la mano e addormentarmi.

Ovviamente non si poteva fare. Da bambina aveva doman­dato a sua madre perché lei dovesse stare da sola, mentre loro, i genitori, erano in due nel lettone. Dormirai per il resto della vita con qualcuno, le aveva risposto, Quindi accontentati. Non era vero. S’era messa sotto le coperte con suo marito sì e no per trent’anni, qualcuno di più, poi basta.

D’accordo, disse dopo qualche secondo, Diamo un’altra oc­chiata. Fece perno sul bastone, allungò il viso nello specchio so­pra il comò, girò la testa a destra e a sinistra piegandola in basso per vedere meglio. Qualcuno le aveva tagliato i capelli, quella notte, e non è che il lavoro fosse venuto un granché.

Credi che la tua vita valga di più di quella che sta vivendo quella donna, vero? Luca Sulfo era riuscito a tornare da lei, nel pomeriggio. Stava in piedi, accanto alla porta chiusa, tenendo vicine con la mano le ali del cardigan sbottonato.

Può darsi, disse lei. E grossomodo le pareva di non avere altro da aggiungere, ma si sforzò di farsi venire in mente il viso di Patrizia – se doveva formulare un giudizio tanto severo, era giusto che almeno l’aspetto di lei ce l’avesse presente – sen­za riuscire però a immaginarselo, tranne che per una leggera asimmetria che le dominava gli occhi, dietro le lenti. Credo che abbia paura di qualcosa, fece Adelina, poi rettificò, O for­se è solo triste.

Luca sorrise, ponderò per un attimo le parole della vecchia amica, e infine disse, Cara mia, tu sai osservarla, la gente.

La responsabile dell’area assistenziale riunì gli inservienti, compreso il personale delle cucine, nella sala comune, tutti ri­gorosamente a un metro di distanza gli uni dagli altri con le ma­scherine e i guanti, e disse loro che c’erano notizie del fuggiasco. Delle brutte notizie. Il cadavere di Sebastiano era stato trovato quel pomeriggio alla stazione di Giave. Patrizia Chitti avvicinò, fino a farle incontrare, le punte degli zoccoli che indossava ai piedi. E bravo Sebastiano, pensò, immaginando il silenzio della stazione, i binari invasi dalle erbacce perché a Giave il treno non arrivava più da almeno… quanti anni?

Non credo sia il caso di andare a spifferarlo a tutti gli ospi­ti della casa, aggiunse la responsabile. Ne abbiamo abbastanza, qua dentro, di morti.

Alcuni annuirono e molti pretesero informazioni aggiunti­ve. C’era da biasimarli, dopo tutto? Un po’ di morbosa curio­sità era quello che ci voleva, pensò Patrizia. Per sopravvivere tra quelle mura. A lei, poi, da giorni capitava di essere terroriz­zata non da quanto le accadeva attorno ma da ciò che succe­deva dentro la sua testa. Per un sacco di tempo – troppo tem­po, maledizione – non aveva fatto altro che vivere tra quelle persone anziane con crudele leggerezza, come se non avessero niente da dirle, niente da insegnarle. A volte alzava la voce con qualcuno di loro – mai con Adelina, che probabilmente ci aveva visto giusto –, insofferente per i tempi rallentati con cui sembravano vivere.

Si sentiva in colpa, ecco. Adesso che morivano uno dopo l’al­tro – come i cattivi di un film –, si sentiva tremendamente in colpa ed era atterrita, perdio.

Nei giorni successivi i controlli divennero più serrati ed era impossibile uscire dalla propria camera e, tanto più, recarsi in quelle altrui. Be’, è una cosa triste, ripeteva Adelina ogni tanto. Non stava per niente bene, le mancava il fiato e si sentiva debole. Se le cose fossero continuate così, l’avrebbero spostata nell’ala dei non autosufficienti. Una seccatura che voleva proprio evitare.

Luca le mandò un messaggio sul telefonino. Non lo usava quasi mai, tranne che per chiamare sua figlia. C’era scritto, Ciao. Lei rispose, Ciao, e lui continuò con, Non ci vedremo per un pezzo, e la frase era accompagnata da una faccina sorridente, vagamente idiota.

Lei scrisse, Non sto bene, senza aggiungere altro. Poi attese qualche minuto senza che arrivasse una risposta. Alla fine Luca replicò, Hai informato i tuoi?

I tuoi chi?, scrisse con rabbia Adelina.

I tuoi cari. Altra faccina sorridente.

Lei si risistemò la dentiera in bocca. I tuoi cari, suonava come un annuncio funebre. I tuoi cari, un corno. Pensava a come for­mulare la risposta, una cosa del tipo, Tanto non possono venire a trovarmi, loro sono in un mondo, io – noi – in un altro, non ci vediamo da settimane – era vero, cribbio –, non so neppure se mi pensano. Sì che la pensavano! Adesso, con quello che stava accadendo, certo che la pensavano. Più di prima, probabilmen­te. Le mancava Roberta, ma dopo cena le avrebbe sicuramente telefonato, come faceva ogni giorno. I nipoti invece… loro dav­vero non si facevano mai sentire.

Fissò ancora un attimo lo schermo del telefonino, quindi scrisse, Tutto è difficile come guardare dentro i sassi, ma poi cancellò la frase perché sarebbe stato troppo complicato spie­garla, dirgli che quando era piccola scendeva con lo zio lungo il fiume Sesia a scagliare sassi contro altre pietre finché non si spezzavano, e dentro sembravano più belli e più preziosi rispet­to a come apparivano da fuori. Voleva dire che, se oggi i loro figli avessero potuto fare una visita, li avrebbero trovati anch’essi più preziosi, e infinitamente più fragili.

Alla fine scrisse solo che sì, li aveva informati. Mise un punto e aggiunse, Non so ancora chi mi abbia tagliato i capelli.

Così arrivò la domenica e nella notte era cambiata l’ora, da quella solare a quella legale. Si era dormito di meno ma Ade­lina non se ne accorse neppure; in questo posto non ti accorgi di nulla, di quale temperatura c’è fuori, se fa bello o brutto, se l’aria è umida; figuriamoci se cambia l’ora. È tutto uguale, fa sempre terribilmente caldo, che sia inverno o estate. Pensò che una volta terminato il virus – se non ci fosse stata quella tremenda pandemia permanente di cui aveva fantasticato – le cose non sarebbero poi cambiate tanto. Le pareva che un dopo, per lei, non ci fosse comunque; non sarebbe uscita da lì, non avrebbe avuto nuovi amici, né nuovi impegni che l’emergenza aveva congelato per qualche settimana o mese.

Fu invasa da una nostalgia violenta e si sentì soffocare quan­do vide Patrizia. Toccò il petto e cercò di inghiottire un po’ di ossigeno per poterle parlare. Disse, Guarda un po’ quell’aggeg­gio, e indicò la sveglia elettronica sul comodino da notte. C’è da sistemare l’ora, è rimasta indietro. Dopodiché lasciò andare la testa sul cuscino.

La donna diede un’occhiata fuori dalla finestra – lungo la strada c’era una vecchia lattina di birra schiacciata – poi si voltò e raggiunse il letto di Adelina. Prese in mano la sveglia e sistemò l’ora. Infine toccò Adelina su una spalla e Adelina riconobbe una dolcezza infinita dentro quel gesto. Una cosa che non sen­tiva da anni, dai tempi dei grossi abbracci di Elsa, da quando aveva sepolto Mila, la sua tenera scimmietta – oh, cara Mila –, o da quando Silvio se n’era andato per sempre. Quella era malin­conia pura, signori miei, unita però a un senso di riconoscenza per quanto la sorte le aveva serbato, nonostante tutto. Diamine, la vita non è stata poi così male, pensò, e fu grata di ascoltare la solita voce di Patrizia – una voce fastidiosa, di sicuro poco interessante – che diceva, guardandole i capelli, Dovresti dargli una bella sistemata, non credi?

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“Difficile come guardare dentro i sassi” è stato scritto da davide orecchio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Gli incontrollati fantasy su Norma Cossetto, 4a parte | Miti e bugie intorno a una laurea

Tutte le puntate dell’inchiesta sul caso Norma Cossetto sono qui. di Nicoletta Bourbaki (*) INDICE 0. Antefatto 1. La versione di Canfora: problemi di metodo 2. La versione di Sessi: quando «problemi di metodo» è un eufemismo 3. Allargando l’inquadratura tutto cambia 4. L’origine della leggenda (1983) 5. L’uovo di Colombo: leggere i documenti 6. […]

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“Gli incontrollati fantasy su Norma Cossetto, 4a parte | Miti e bugie intorno a una laurea” è stato scritto da Nicoletta Bourbaki e pubblicato su Giap.

Peter Sloterdijk: Regole per il parco umano

 

È in uscita per Tlon Edizioni Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger di Peter Sloterdijk. Clonazione, scoperte geografiche e coscienza delle macchine, umanismo e pessimismo, mostri e metafisica sono solo alcuni dei temi che attraversano i dieci saggi che compongono questo affresco di filosofia e storia della cultura contemporanea.
Ne ospito qui un estratto.
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Una risposta alla Lettera sull’“umanismo” di Heidegger

I libri, così ha detto una volta il poeta Jean Paul, sono delle lettere un po’ più consistenti inviate agli amici. Con questa frase ha definito con grazia e in modo essenziale, la natura e la funzione dell’umanismo: una telecomunicazione che istituisce amicizie attraverso il medium della scrittura. Ciò che dai tempi di Cicerone risponde al nome di humanitas è, sia in senso lato che in senso stretto, una conseguenza dell’alfabetizzazione. La filosofia, da quando è diventata un genere letterario, acquisisce nuovi adepti scrivendo in modo contagioso di amore e amicizia. Non solo è un discorso sull’amore di sapienza, ma vuole anche riuscire a conquistare gli altri a questo amore. Il fatto che la filosofia scritta possa farsi degli amici tramite i testi le ha permesso di mantenere il suo potenziale di contagio dai suoi inizi, più di 2500 anni fa, fino a oggi. Si è continuato a scrivere filosofia di generazione in generazione come se fosse una lettera a catena, e nonostante tutti gli errori di copiatura, o forse proprio grazie a questi, la filosofia ha sedotto copisti e interpreti con il suo influsso socializzante.

L’anello più importante in questa catena di lettere fu senza dubbio la ricezione degli invii greci operata dai Romani. Solo l’assimilazione romana ha reso comprensibile il testo greco per l’impero e perlomeno mediatamente lo ha reso accessibile alle culture europee più tarde, dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente. Certo gli autori greci si sarebbero meravigliati se avessero saputo quali erano gli amici che un giorno avrebbero ricevuto le loro lettere. Ma fa parte delle regole del gioco della cultura scritta che i mittenti non possano conoscere in anticipo i loro reali destinatari, e ciononostante gli autori si lanciano nell’avventura di inviare le loro lettere a degli amici non ben identificati.

Le spedizioni postali, che noi chiamiamo tradizione, non avrebbero mai potuto venire consegnate, se la filosofia greca non fosse stata codificata su rotoli di pergamena trasportabili. E i Romani stessi non sarebbero stati capaci di stringere amicizia con i mittenti di questi scritti, se i lettori greci non si fossero messi a loro disposizione, aiutandoli a decifrare le lettere venute dalla Grecia. L’amicizia che matura nella lontananza ha dunque bisogno di entrambe le cose: delle lettere e di quelli che le consegnano o le interpretano. Certo se i lettori romani non fossero stati pronti a stringere amicizia con le trasmissioni a distanza dei Greci, non ci sarebbero stati i riceventi, e senza l’entrata in gioco dei Romani con la loro grandiosa recettività, le trasmissioni greche non avrebbero mai raggiunto lo spazio dell’Europa occidentale, abitato ancor oggi da gente interessata all’umanismo. Non ci sarebbero così né il fenomeno dell’umanismo, né una parte significativa dei discorsi filosofici latini, né le più tarde culture filosofiche di lingua nazionale. Il fatto che oggi, qui, stiamo parlando in tedesco di questioni che riguardano l’uomo, lo dobbiamo non da ultimo alla prontezza con cui i Romani lessero gli scritti dei maestri greci come delle lettere inviate agli amici in Italia.

Se prendiamo in considerazione le conseguenze epocali della posta greco-romana, appare evidente la stretta parentela con lo scrivere, l’inviare e il ricevere testi filosofici. Certo il mittente di questo tipo di lettere d’amicizia spedisce i suoi scritti in giro per il mondo senza conoscere i destinatari, oppure, nel caso li conosca, è convinto che la trasmissione delle lettere continui al di là di essi, e possa provocare una molteplicità indefinita di amicizie possibili con lettori anonimi, che spesso non sono ancora neanche nati.

Dal punto di vista erotologico l’amicizia ipotetica tra lo scrittore di libri e di lettere e quelli che li ricevono, rappresenta un caso di amore a distanza. E proprio nel senso in cui lo intendeva Nietzsche, secondo il quale la scrittura è il potere di trasformare l’amore per il prossimo e per ciò che ci è più vicino in un amore per la vita sconosciuta, lontana e a venire. La scrittura non sarebbe solo un ponte telecomunicativo tra dei vecchi amici, che al momento dell’invio della lettera vivono distanti l’uno dall’altro, essa comporterebbe invece anche un’azione di seduzione nella distanza, una seduzione che si spinge verso l’ignoto. Detto con il linguaggio magico della vecchia Europa: la scrittura opera una actio in distans, con lo scopo di stanare l’amico sconosciuto, e di spingerlo a aderire al circolo degli amici. Il lettore che si cimenta con la “lettera più consistente” infatti può intendere il libro come una lettera d’invito e se si lascia sedurre dalla lettura finisce per entrare nella cerchia di coloro che sono chiamati a testimoniare della ricezione della trasmissione.

Si potrebbe ricondurre così il fantasma comunitario, che sta alla base di tutti gli umanismi, al modello di una società letteraria, i cui membri scoprono, attraverso le letture canoniche, il loro amore comune per dei mittenti che fungono da ispiratori. Nel cuore dell’umanismo così inteso scopriamo una fantasia di setta o di club, il sogno cioè della solidarietà destinale tra coloro che sono stati scelti perché capaci di leggere. Per il vecchio mondo infatti, fino alla vigilia dello Stato nazionale moderno, la capacità di leggere ha significato qualcosa come l’appartenenza a una élite basata sul segreto. Un tempo la conoscenza della grammatica veniva considerata in molti luoghi come il simbolo della fascinazione. E difatti già nell’inglese medievale dalla parola grammar derivò la parola glamour.[1] ciò vuol dire che chi è capace di leggere e scrivere sarà capace di fare anche altre cose impossibili. Gli umanizzati innanzitutto non sono nient’altro che la setta degli alfabetizzati e come in molte altre sette anche in questa vengono in luce dei progetti espansionistici e universalistici. Inoltre lì dove l’alfabetismo divenne fantastico e pretenzioso, nacque anche la mistica grammatica o letterale, la kabbala, animata dall’entusiasmo nell’osservare i tipi di scrittura usati dal creatore del mondo.[2] Dove invece l’umanismo divenne pragmatico e programmatico, come nelle ideologie classico-umanistiche degli Stati nazionali borghesi del xix e xx secolo, il modello della società letteraria si estese sino a diventare la norma della società politica. Da quel momento in poi i popoli si organizzarono all’interno di uno spazio nazionale in associazioni di amicizia forzosa, totalmente alfabetizzate e votate a un canone di lettura vincolante.

Accanto agli autori antichi, comuni a tutta l’Europa, vengono mobilitati ora anche i classici nazionali e moderni, le cui lettere rivolte al pubblico assurgono, grazie al mercato dei libri e alle scuole superiori, a fattori determinanti nella creazione delle nazioni. Che cosa sono infatti le nazioni moderne se non la finzione efficace di un pubblico di lettori che proprio grazie a questi scritti diventano una cerchia di amici affiatati? Il servizio di leva per la gioventù di sesso maschile, e il servizio di lettura dei classici per i giovani di entrambi i sessi, ecco ciò che caratterizza l’epoca borghese classica; quell’epoca dell’umanità armata e acculturata, cui oggi i nuovi e vecchi conservatori guardano con nostalgia, e contemporaneamente senza speranza, del tutto incapaci di elaborare un canone letterario mediatico-teoretico. Chi voglia farsene un’idea aggiornata dovrebbe riflettere su come sono falliti penosamente i tentativi di un dibattito nazionale, tentato di recente in Germania, sulla presunta necessità di un nuovo canone letterario.

In realtà gli umanismi nazionali, amanti delle letture, hanno avuto la loro epoca di fioritura dal 1789 al 1945. Al loro centro risiedeva, cosciente del proprio potere e compiaciuta di sé, la casta dei vecchi e nuovi filologi. Questi si sentivano incaricati di iniziare i nuovi arrivati al circolo di quelli che ricevono le autorevoli “lettere più consistenti”. In quest’epoca il potere degli insegnanti e il ruolo centrale dei filologi si fondano sulla conoscenza privilegiata di quegli autori che erano considerati i mittenti degli scritti che fondano la società. L’umanismo borghese per sua natura non è altro che il mandato di imporre alla gioventù i classici, e di sostenere la validità universale dei testi nazionali.[3] Le stesse nazioni borghesi sarebbero così in certa parte dei prodotti letterari e postali, finzioni di un’amicizia destinale con lontani connazionali, con lettori legati da un comune sentire, lettori di autori semplicemente appassionanti, propri e comuni nel contempo. Oggi quest’epoca appare irrimediabilmente perduta, ma non perché gli uomini non sarebbero capaci di adempiere al loro compito letterario a causa di una disposizione decadente. L’era dell’umanismo nazional-borghese è giunta a compimento perché l’arte di scrivere lettere che ispirino amore a una nazione di amici, anche se venisse esercitata in modo ancora così professionale, non sarebbe più sufficiente a tenere insieme il filo telecomunicativo tra gli abitanti di una moderna società di massa. Attraverso lo stabilirsi mediatico della cultura di massa nel Primo Mondo, la coesistenza degli uomini nelle società attuali è stata posta su nuovi fondamenti: dopo il 1918 con la radio, dopo il 1945 con la televisione, e oggi ancora più con le attuali rivoluzioni della rete informatica. Come si può facilmente vedere, questi fondamenti sono decisamente post-letterari, post-epistolari e di conseguenza post-umanistici. Se per qualcuno il prefisso “post” in queste formulazioni è troppo drammatico, può sostituirlo con l’avverbio “marginalmente”.

La nostra tesi allora consisterebbe nel dire che le grandi società moderne possono produrre le loro sintesi politiche e culturali solo marginalmente ormai attraverso i media letterari, epistolari e umanistici. Ciò non significa affatto però che la letteratura sia alla fine, essa piuttosto si è trasformata in una sottocultura sui generis, e sono passati i giorni della sua esaltazione come portatrice degli spiriti nazionali. Il legame sociale non è più, nemmeno in apparenza, qualcosa che ha principalmente a che fare con libri e lettere. Nel frattempo sono passati a condurre il gioco i nuovi media della telecomunicazione politico-culturale che hanno ridimensionato di molto il modello delle amicizie nate dalla scrittura. È finita l’era dell’umanismo moderno come modello di scuola e di formazione, poiché non ci si può più illudere di poter organizzare le macrostrutture politiche ed economiche in base all’amabile modello della società letteraria.

[1] L’espressione “magia, fascinazione” viene dalla parola “grammatica”.

[2] Che il segreto della vita dipenda strettamente dal fenomeno della scrittura è anche la grande intuizione della leggenda del Golem. Cfr. M. Idel, Le Golem, éd. du Cerf, Paris 1992; nella prefazione al libro H. Atlan si richiama al rapporto di una Commissione insediata nel 1982 dal Presidente degli Stati Uniti con il titolo Splicing Life. The Social and Ethical Issue of Genetic Engineering with Human Beings, i cui autori si rifanno alla leggenda del Golem.

[3] E naturalmente anche la validità nazionale dei testi universali.

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“Peter Sloterdijk: Regole per il parco umano” è stato scritto da Giorgiomaria Cornelio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Barcelona Declaration on open research information: verso dati sulla ricerca aperti e trasparenti

E’ stata appena lanciata la Barcelona Declaration on open research information. I firmatari si impegnano a perseguire una serie di impegni che prevedono che strumenti aperti, accessibili e trasparenti affianchino i tradizionali strumenti proprietari, superandone i limiti (legati al riuso, alla copertura geografica e linguistica, alla assegnazione a specifiche subjects categories). Un ulteriore passo avanti verso i principi espressi da COARA (Coalition for Advancing Research Assessment).

Ormai da anni, e soprattutto nel nostro paese, ci siamo abituati a ragionare sulla ricerca prodotta e disseminata sulla base di informazioni di ricerca che derivano da banche dati chiuse e commerciali, come Scopus o Web of Science. Queste informazioni, denominate metadati, includono (1) riferimenti bibliografici, titoli, abstract, autori e loro affiliazione, ma (2) anche metadati su software o metodologie di ricerca, campionamenti e strumenti utilizzati, oppure (3) informazioni sui finanziamenti e le sovvenzioni così come (4) informazioni sulle organizzazioni, e sui collaboratori che hanno contribuito alla ricerca. Questi metadati non includono i “contenuti” della ricerca o della pubblicazione, ma rappresentano un patrimonio informativo rielevante, che spesso svolge un ruolo fondamentale nella distribuzione delle risorse e nella valutazione dei ricercatori e delle istituzioni: le organizzazioni che si occupano di ricerca e di finanziamento della ricerca utilizzano queste informazioni per valutare e stabilire le priorità strategiche, così come per analizzare le collaborazioni e valutare l’impatto dei propri lavori.

Queste metadati, mediante l’uso di banche dati chiuse e commerciali, sono la fonte utilizzata da Anvur e dal Ministero dell’Università e della Ricerca per la definizione, ad esempio, delle soglie ASN e degli indicatori individuali per la Abilitazione Scientifica Nazionale. A queste banche dati ci si affida quando si tratta di definire gli indicatori della qualità scientifica dei membri dei collegi di dottorato per l’accreditamento, o nello scorso esercizio di Valutazione della qualità della ricerca: da queste banche dati sono state ricavate le citazioni e gli indicatori di rivista.

Queste banche dati non sono prive di errori, di omissioni e di importanti limitazioni. Sdoppiamento di profili, errata attribuzione, mancata indicizzazione di interi fascicoli o di articoli all’interno dei fascicoli, ad esempio. Ma anche scelta “dall’alto”, operata direttamente dalle società proprietarie di queste banche dati, di quali riviste indicizzare e quali no, quali lingue considerare e quali no, quali discipline includere e quali no. A livello di analisi macro questi errori potrebbero non essere considerati significativi, ma per chi decide utilizzando questi dati, questi errori, insieme alla mancanza di trasparenza e inclusione, potrebbero rappresentare un grande problema.

Un argomento comunemente avanzato è che queste banche dati offrono una garanzia sulla qualità delle riviste scientifiche e dati integrati. Tuttavia, tale argomento è sempre più oggetto di discussione oggi, poiché la decisione su quali riviste siano considerate di ‘qualità’ non dovrebbe essere lasciata a un provider privato, spesso in conflitto di interessi con gli editori delle riviste (ad esempio, Scopus è di proprietà di Elsevier), ma piuttosto affidata alla comunità scientifica di riferimento o agli organi di valutazione nazionale.

Queste banche dati proprietarie e chiuse sono anche la base per costosissimi strumenti di business intelligence in cui vengono messi a disposizione strumenti per generare indicatori spesso opachi e difficili da riprodurre, contribuendo a generare una proliferazione di indicatori quantitativi non replicabili e di dubbio valore, ai fini della valutazione della ricerca scientifica e della presa di decisioni.

A chi voglia effettuare analisi approfondite e descrittive della ricerca di singole istituzioni o Paesi, o su aree specifiche, o relative a gruppi di ricerca, vengono messi a disposizione i dati solo in modalità protetta da diritti di proprietà intellettuale, per cui non è possibile renderli disponibili alle comunità, come è ormai pratica diffusa (e richiesta) per le ricerche e le analisi che utilizzano e producono dati.

Lo sanno bene i ricercatori del CWTS che pubblicano il ranking di Leiden e che fino a quest’anno non hanno mai potuto esporre i dati di Web of Science utilizzati per il loro ranking, anche se su quei dati hanno sempre dovuto effettuare un grosso lavoro di pulizia e rielaborazione. Lo sanno bene le numerose università che puliscono in maniera certosina i dati relativi alla propria istituzione per apparire nei rankings universitari internazionali, ma anche in questo caso, questi dati non vengono poi restituiti alla comunità, generando uno spreco di risorse ed energie pubbliche.

Da quest’anno al CWTS hanno cominciato a produrre un secondo ranking basato su dati aperti provenienti da infrastrutture come OpenAlex e ROR (Research organization Registry) che garantiscono la completa trasparenza dei dati utilizzati. L’esercizio che è stato poi fatto è quello di comparare i risultati del ranking basato su dati proprietari con quello basato su dati aperti, confrontandone punti critici e punti di forza. In un post sul blog Leidenmadtrics i ricercatori responsabili del ranking spiegano come procederanno nei prossimi anni:

In the next one or two years, we expect the traditional Leiden Ranking and the Open Edition to co-exist. In the somewhat longer term, CWTS will make a full transition to open research information. Within the next few years, all bibliometric indicators produced by CWTS, including those in the Leiden Ranking, will be based on open data.

I ricercatori del CWTS non sono però gli unici ad avere compreso l’importanza dell’utilizzo di dati sulla ricerca aperti. Alla fine dello scorso anno l’università della Sorbona ha deciso di non rinnovare il proprio abbonamento a Web of Science (quello a Scopus non è mai stato sottoscritto) , e il CNRS non ha rinnovato l’abbonamento a Scopus. Entrambe le istituzioni hanno dichiarato di voler utilizzare dati aperti per la analisi e descrizione della ricerca.

E’ all’interno di questo contesto che, alla fine del 2023, in un incontro a Barcellona fra 25 esperti rappresentanti di istituzioni di ricerca, enti finanziatori e enti di valutazione è stata definita la dichiarazione sui dati sulla ricerca aperti (Barcelona Declaration on open research information), attraverso la constatazione che il panorama dell’informazione sulla ricerca richieda un cambiamento fondamentale e che pertanto sia necessario che le istituzioni decidano di impegnarsi attivamente ad assumere un ruolo guida nella trasformazione delle pratiche attuali verso soluzioni completamente aperte.

La dichiarazione, che ha ricevuto la firma di oltre 40 istituzioni è stata pubblicata oggi, martedì 16 aprile e si basa su una serie di impegni che le istituzioni firmatarie intendono perseguire:

1 Fare in modo che l’apertura sia la norma per le informazioni sulla ricerca che utilizziamo e produciamo.

2 Lavorare con servizi e sistemi che supportano e consentono l’apertura delle informazioni sulla ricerca.

  1. Supportare le infrastrutture per le informazioni aperte sulla ricerca

4 Sostenere azioni collettive per accelerare la transizione verso l’apertura delle informazioni sulla ricerca.

Sono già molte le istituzioni che hanno aderito alla dichiarazione di Barcellona, per l’Italia hanno già firmato l’Università Di Milano e l’Università di Bologna, il Museo Galileo e la Regione Toscana.  Altre hanno avviato una riflessione interna e presto si aggiungeranno all’iniziativa.

 

 

 

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“Barcelona Declaration on open research information: verso dati sulla ricerca aperti e trasparenti” è stato scritto da Paola Galimberti e pubblicato su ROARS.

Adriano Aprà: «ancora verso lidi inesplorati»

È morto Adriano Aprà, uno dei più grandi e instancabili studiosi di cinema italiani. Lo saluto ospitando qui un suo intervento che mi aveva donato qualche mese fa, in risposta a una mia “inchiesta sul visibile” formulata per un libro ancora a venire. Rileggere oggi queste parole mi ricorda quanto avventurosa e vasta sia stata la sua idea del cinema, e il suo amore: «affidiamoci senza paure a questo cinema “extraterrestre”, che non grida ma sussurra, che ci conduce per mano verso lidi inesplorati dove, forse, potremo rivivere.»

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Caro Giorgiomaria,

le domande che formuli richiedono una riflessione approfondita, che per me è piena più di incertezze che di certezze. Cercherò di risponderti ma in modo indiretto, aggiungendo al visibile anche l’udibile.

Una premessa. Ormai da qualche tempo nel pensare al cinema del futuro si profila un’ombra che mi tormenta: quella della catastrofe irreversibile del nostro pianeta. E dovrei aggiungere imminente, anche se io non vi assisterò, ma sono già testimone di molti segnali premonitori.

Nel 1951 esce un film di fantascienza di Robert Wise, The Day the Earth Stood Still (da noi Ultimatum alla Terra, ma il titolo originale suona “Il giorno in cui la Terra si è immobilizzata”), in cui si narra di un alieno che, in forma umana (un nuovo Cristo?), cerca di convincere i terrestri di scegliere la pace contro la guerra. L’umanità è scioccata dal messaggio ma nel film non sappiamo se lo seguirà. Nella realtà sappiamo che non lo ha seguito.

Nel 1972 viene pubblicato da The Club of Rome di Ginevra per le Edizioni Scientifiche e Tecniche di Mondadori I limiti dello sviluppo (rapporto del System Dynamics Group del Massachusetts Institute of Technology per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità), in cui, con analisi statistiche approfondite, viene previsto che, in assenza di interventi immediati che hanno a che vedere con il cambiamento climatico, l’aumento della popolazione mondiale, le risorse alimentari, il nostro pianeta collasserà negli anni che stiamo vivendo adesso. Da allora non solo non ci sono stati interventi immediati ma l’umanità ha fatto di tutto per accelerare il collasso, e tutti i provvedimenti che si stanno adottando, e di cui tanto si parla, giungono troppo tardi.

In un altro film fantascientifico di Richard Fleischer del 1973, Soylent Green (2022: i sopravvissuti, Soylent è il nome di una ditta che produce gallette alimentari, di cui quelle verdi, dopo quelle gialle e quelle rosse, sono l’ultimo ritrovato), il protagonista scopre dopo complesse peripezie che le verdi sono ricavate dal riciclaggio dei cadaveri umani.

Non siamo ancora arrivati a questo (ma al suicidio assistito, che è un altro elemento del film, sì).

Fatta questa premessa, che relativizza ogni mia considerazione, sono convinto che il cinema (diciamo per ora digitale) si stia evolvendo sottotraccia, ma visibile per chi si sforza come talpe di individuarlo.

Intanto c’è il cinema espanso, che data da diversi anni, sia in pellicola sia in digitale. Penso, sul versante artistico, al doppio schermo di The Chelsea Girls (1966) di Andy Warhol, agli spettacoli multimediali di Mario Schifano (Grande angolo, sogni e stelle al Piper Club di Roma, 1967) o di Alexander Kluge (ne ho visto uno a Berlino, credo nel febbraio 2002), allo split-screen (più immagini in contemporanea nella stessa inquadratura) inaugurato da Richard Fleischer nel 1968 con The Boston Strangler (Lo strangolatore di Boston), alle istallazioni; sul versante commerciale che cosa sono le pubblicità luminose, semoventi e in continua alternanza che invadono 24 ore su 24 Times Square a Manhattan e altre megalopoli?

Il digitale, per sua natura, non è fatto per riprodurre la realtà. Quelli che in pellicola erano “effetti speciali” in digitale sono effetti normali; l’effetto speciale è appunto la riproduzione della realtà. L’impiego che se ne fa è ancora in prevalenza quest’ultimo, ma in campo sperimentale le cose, anticipate in cinema dalle varie avanguardie, sono ben diverse.

Si sta elaborando la creazione di realtà “altre”. Il videocinema inventa e inventerà altri mondi, sarà multi o pluriverso.

La soggettività che ha fatto capolino nel cinema di ieri, quando ha cominciato a dire “io” e “tu”, e non più soltanto “lui” e “lei”, ha aperto la strada per poter dire non “noi di carne” ma “noi di spirito”: noi che fantastichiamo, immaginiamo, sogniamo.

L’uomo non può fare a meno di immaginare. E il cinema è l’invenzione che meglio riproduce tale bisogno.

Affidiamoci senza paure a questo cinema “extraterrestre”, che non grida ma sussurra, che ci conduce per mano verso lidi inesplorati dove, forse, potremo rivivere.

Assistiamo alla dissoluzione progressiva delle classiche distinzioni fra cinema di finzione, documentario, animazione e sperimentalismo.

Una delle conseguenze è p. es. quello che io definisco, con molta prudenza, cinema “quantistico”: un cinema in cui la linearità e la consequenzialità spaziotemporale vengano superate, in cui l’indeterminazione e l’ondularità della rappresentazione siano fattori fondativi.

C’è poi il problema, per me complesso e ancora poco chiaro, della Intelligenza Artificiale.

Che cosa può apportare al cinema?

Non penso certo all’idea di film “fatti a macchina” sulla base di sceneggiature che tengano conto dei “gusti medi” del pubblico incorporando i big data di ciò che già è stato fatto.

Secondo il manifesto di Lev Manovich (studioso di origine russa, fondatore nel 2007 del Software Studies Initiative presso il California Institute of Telecommunications and Information Technology, Calit2) A Letter to a Young Artist del 20 ottobre 2023 (https://www.academia.edu/109991543/A_Letter_to_a_Young_Artist), «ciò che è interessante riguardo all’arte umana sono i nostri limiti, e le nostre ossessioni»; «bisogna lavorare sulle micro-scale» e scavare, scavare…

Ma quando arrivo ai suoi Software Takes Command (Bloomsbury Academic, 2013) e Cultural Analytics. L’analisi computazionale della cultura (Raffaello Cortina, 2023; ed. or. Cultural Analytics, MIT 2020) o The Digital Humanities Coursebook di Johanna Drucker (Routledge, 2021) mi perdo.

Cerco di ritrovare un filo conduttore. Nel 2017 è stato aperto l’Arctic World Archive (AWA), un bunker scavato a 250 metri di profondità dentro una ex miniera di carbone dell’isola Spitsbergen, che fa parte dell’arcipelago Svalbard in Norvegia (https://en.wikipedia.org/wiki/Arctic_World_Archive). Le informazioni, comprese le istruzioni per poterle decodificare, sono conservate su pellicola 35mm convertita in un immutabile medium di preservazione digitale chiamato piqlFilm, a sua volta racchiuso in un contenitore di sicurezza. Perché su un supporto analogico come la pellicola? Perché, oltre a essere più duraturo (da 500 a 1000 anni, dicono), garantisce la preservazione dei dati da possibili attacchi informatici.

Non so però se i dati conservati, oltre a essere statici, possano anche essere in movimento, come i film. Che però sono comprimibili digitalmente ad alta risoluzione.

Chi saranno i destinatari di tali mega database?

Posto che l’AWA sia stato concepito in vista di una possibile catastrofe ecologica (e per cos’altro sennò?), tutto questo sarà per gli “alieni”, quelli di The Day the Earth Stood Sill o di Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, Steven Spielberg, 1977)?

Potrebbe invece essere più probabile che i prossimi destinatari siano le “creature superiori” prodotte qui in Terra – come profetizzano i “transumanisti” – dall’Intelligenza Artificiale, o altre consimili macchine incorporee, dotate di un “contenitore” non così fragile come il nostro corpo biologico e mortale e, in quanto tali, non soggette agli effetti catastrofici del collasso del pianeta, “immortali”, come suggerisce Mark O’Connell in Essere una macchina (Adelphi, 2021; ed. or. To Be a Machine, 2017).

Caro Giorgiomaria, mi rendo conto della confusione delle mie riflessioni: tante domande senza vere risposte.

Ma è così che mi sento adesso.

Spero tuttavia che possano incuriosire te e i tuoi lettori.

 

Adriano Aprà

12 febbraio 2024

 

 

 

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“Adriano Aprà: «ancora verso lidi inesplorati»” è stato scritto da Giorgiomaria Cornelio e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

Avanguardia Vintage: l’intervista

RICORDI ALL’ALFABETO
Incontro con Lamberto Pignotti e Francesco Muzzioli
a cura di Nadia Cavalera

Modena, 12 novembre 2017

NADIA CAVALERA
A come avanguardia? Cominciamo con l’avanguardia. Si direbbe che tu prenda un po’ le distanze dall’avanguardia, anche se a me sembri proprio un poeta d’avanguardia che ne abbia, assolutamente, pieno diritto.

LAMBERTO PIGNOTTI

Bisogna mettersi in testa che cosa può significare questa parola. Cosa si intende in arte per avanguardia? In particolare ovviamente quelle forme d’arte che cercano di prendere le distanze dal gruppo, dal “grosso”, per spingersi in avanti a trovare il “nuovo”. E va benissimo. Se poi come avanguardia si intende qualcosa e poi viene, come dire, omologato e standardizzato anche dalla moda e dal mercato, a quel punto l’avanguardia diventa una cosa che serve per …per i grandi media, per i giornali in Europa e altrove, anche per le riviste d’arte, ma non va bene. Sulla parola avanguardia, avevo preso le distanze da tempo. Già nel primo convegno del gruppo 70 che è stato nel 63, in cui c’era anche Umberto Eco. E sia io che Umberto si dice che non solo è morta l’avanguardia, ma è morta anche l’arte, in quanto l’arte muore nel momento in cui la presenti, cioè appena si prospetta una novità, qualcosa che rompe quella che chiamavo la tradizione o tardizione perché appena il messaggio avviene è come se fosse classificato e quindi?

Se questa cosa l’hai fatta in questo momento, nel momento successivo, in teoria ovviamente ti fa vedere quello che hai fatto. Prendo allora le distanze dall’arte che viene fatta in questo momento come avanguardia, ma prendo la distanza da quello che ho fatto in questo momento io come artista, io come poeta. Cioè quella cosa che tu hai fatto secondo me, ti deve apparire già di antiquariato. Perché? Perché appunto l’arte o la poesia, la cultura eccetera non va considerata come una cosa progressiva, ma come un processo, un processo che contempla dei fatti, che sono in divenire e dei fatti invece in cui ci sono dei ritorni, per cui certe volte (non so, ne parlavamo anche per telefono), ci sono delle situazioni nel passato prossimo o remoto, che sono molto più attuali di quello che viene considerato, fra virgolette, “avanguardia” oggi.

NADIA CAVALERA

Sentiamo la posizione di Francesco.

FRANCESCO MUZZIOLI

L’ho espressa già tante volte… Per me la parola avanguardia ha un risvolto polemico, soprattutto nel momento in cui sentiamo dire da tutte le parti che l’avanguardia è impossibile. Se tutti continuano a dire che l’avanguardia è impossibile, allora bisogna farla. In questo senso mi sento obbligato a sostenerla, poverina, visto che è attaccata da tutte le parti. Proprio così, perché da una parte, il postmoderno dice che non ci può più essere niente di nuovo, tutto è già stato fatto, e dall’altra i neotradizionalisti accusano l’avanguardia di aver aperto la porta al postmoderno rovinando la grande arte del passato. Quindi è presa a cannonate da tutte le parti. Dopodiché è ovvio che avanguardia è una parola che tiene insieme tante cose, tante tendenze anche molto diverse tra loro. Ci sono i futurismi di ogni tipo, italiani, russi, eccetera eccetera, il dadaismo… E anche negli anni Sessanta… è giusto che Lamberto rivendichi la priorità dei verbovisivi del Gruppo 70 sul Gruppo 63, segnalando che non c’è solamente quel nucleo dei Novissimi e degli autori a loro vicini. In quel periodo ci sono anche altri autori che non sono entrati nel Gruppo 63, c’è tutto un discorso più ampio da fare. Dopodiché mi sembra importante che esista un ruolo alternativo nell’ambito dell’arte e della scrittura, che siamo soliti chiamare avanguardia letteraria. Poi certo c’è il problema del postmoderno, c’è questa teoria, portata avanti da più versanti, che dice che ormai il mondo è tutto unificato è non ci sono più sacche di resistenza. Dopodiché la storia è ricominciata. Ma questo mondo così globale è solcato da tante contraddizioni, per cui forse è ancora possibile insinuarsi dentro di esse in modi combattivi. Personalmente io, se vogliamo andare sulla metafora militare,

mi sento di appoggiare non tanto il gruppo che sta più avanti del grosso che sta arrivando, che sta vincendo, quanto invece vedo l’avanguardia nella figura dell’infiltrato, che è stato paracadutato oltre le linee. Paracadutisti che stanno lì in territorio nemico… e non sanno quando gli altri arriveranno.

NADIA CAVALERA

E se arriveranno …

FRANCESCO MUZZIOLI

Quando sbarcherà il proprio esercito? Sbarcherà? E quindi mandano messaggi preoccupati.

NADIA CAVALERA

Bella questa metafora. È proprio rispondente alla realtà.

FRANCESCO MUZZIOLI

L’assicurazione in quei molti non c’è più, il gruppo è diventato arduo da costituire nell’individualismo imperante, però ci sono artisti che separatamente portano avanti discorsi che non sono omologati al resto della situazione.

NADIA CAVALERA

E questo è il bello. Eccoci alla B, il bello appunto…Che cos’è il bello per te?

LAMBERTO PIGNOTTI

Certo… però prima volevo dire che sì, posso condividere quello che Francesco ha detto. La metafora del paracadutista va benissimo. Io qualche volta però, molto ironicamente, mi definisco “genio guastatore” (ho proprio il distintivo). Il genio guastatore, sì, è anche quello che prepara l’avanzata, ma è soprattutto (e questo è molto importante) quello che distrugge i ponti per il “grosso” che sta arrivando. Il grosso per noi, nell’arte, è il sistema, cioè l’ordinamento consolidato.
Allora il problema dell’avanguardia è quello non solo di andare avanti, ma di non farsi raggiungere.

Le volte che l’avanguardia si identifica col nuovo…il nuovo è bellissimo. Però il nuovo è pericoloso perché se ne appropriano quelli della pubblicità, i media, eccetera. La moda in particolare, ha bisogno del nuovo, ma ha bisogno del nuovo come ricetta. Il pericolo nostro, cioè quello che abbiamo relativamente alla poesia visiva e ad altre forme d’espressione, è di essere stati un ufficio studi o un laboratorio di sperimentazione che ha fatto comodo a quelli che venivano dietro. Io qualche volta, anni fa, ho fatto delle trasmissioni televisive su avanguardia e cinema, avanguardia e pubblicità, per la Rai, che avevano coinvolto anche Argan e Dorfles. In quella circostanza siamo andati a fare delle interviste a pubblicitari come Testa, Sanna, Pericoli, Pirella e altri, che hanno ammesso di essere debitori alla Poesia Visiva, perché aveva dato loro delle sollecitazioni, delle suggestioni. Quindi, il problema è quello non solo di andare avanti ma di guardarsi alle spalle. Appunto per questo mi riferisco al ruolo del “genio guastatore”, colui che fa saltare i ponti alle spalle.

NADIA CAVALERA

Ed è difficilissimo. Come fare ad andare avanti e impedire che altri ti vengano dietro…

LAMBERTO PIGNOTTI

Prendendone coscienza! Perché tanto ti raggiungono. L’immagine più aderente è quella non di uno ma di due serpenti che reciprocamente si mordono la coda. Da una parte la comunicazione di massa che attinge all’arte più avanzata, dall’altra la cosiddetta avanguardia che si serve dei media per capovolgere il sistema. Il problema è: chi mangia prima la coda dell’altro?

NADIA CAVALERA

Per questo quelli del Gruppo 63 suggerivano poi di non farsi capire, proprio per ostacolare il sistema nel non farsi comprendere.

LAMBERTO PIGNOTTI

Io ti racconto una cosa mia personale. Quando frequentavo il Gruppo 63 non portavo mai le mie ultime cose, portavo le penultime. Questo accadeva e accade tutt’ora perché l’ostensione non fa parte dei miei interessi, tanto che dimentico di comunicare le mie ultime ricerche. Anche di recente mi capita di trovare reperti di miei lavori inediti e inutilizzati che addirittura dimentico, non per trascuratezza o gelosia ma perché l’agire creativo è sempre un flusso vitale che muove in avanti e indietro.

Hai visto il mio libro New Vita Nova? Ebbene, quel testo stava lì da qualche anno. Cioè ho diversi lavori, anche lontani nel tempo, magari poi li rivedo. Insomma, no? Mi succede qualche volta di fare delle cose che io stesso intuisco, ma non capisco. L’ultima volta quello che ho portato da te, al Premio, io lo avevo lì dagli anni 70. Queste son belle immagini mi son detto e le ho utilizzate.

Però, in qualche modo le ho attualizzate. Certe volte non riesco a farlo. Probabilmente non è un fatto solo mio, credo sia dell’artista in particolare che usa quel che gli capita così spontaneamente.

NADIA CAVALERA

Per intuito?

LAMBERTO PIGNOTTI

Sì e mi sembra strano. Ti faccio un esempio. Ero a Firenze, a San Frediano, fra artigiani e bottegai e mi chiedevo che cosa erano quei profumi di legname, di cere, di vernici, cosa erano quelle vetrine caotiche dei cartolai, dei merciai; mi interessavano senza sapere perché. Poi ho capito, insomma, che invece poteva essere quella cosa che tempo dopo è stata chiamata, variamente, New Dada, kitsch, insomma, il brutto, le pessime cose di buon gusto.

NADIA CAVALERA

Cos’è… Gozzano?

LAMBERTO PIGNOTTI

Mi sorprendo io stesso di sentirmi legato ad una cosa che non so. È una cosa vecchia, mi dico, come mai? Magari dopo un certo tempo puoi anche teorizzare questa cosa. Io posso essere stato incolpato per esempio di avere scritto le Istruzioni per l’uso degli ultimi modelli di poesia nel ‘68, perché quel libro è stato preso come un ricettario per fare poesie visive. Ma non è, non è più la poesia visiva di avanguardia degli anni sessanta. Allora c’era stato il surrealismo, il dadaismo, eccetera eccetera. No, invece la consapevolezza era che quella roba lì, rifatta a distanza di anni, che pure qualche volta era fatta bene, non era stata ancora inquadrata bene. Cioè era stata presa come arte, invece il problema consisteva nel non prenderla come arte. È un altro, un altro codice. Per questo qualche volta io oscillo tra definirmi poeta o artista.

NADIA CAVALERA

Ti senti stretto in una sola definizione?

LAMBERTO PIGNOTTI

No, ma è come per la parola avanguardia, quando la uso mi riferisco a quanto già detto, ma non escludo che la parola significhi la stessa cosa che intende chi ho di fronte. È qualcosa sicuramente che anche a me deve sfuggire. Quando io andavo a fare lezione, avevo ovviamente uno schema, arrivavo lì, e mi accorgevo che quello che avevo scritto il giorno prima non mi soddisfaceva più. Facevo un’altra lezione partendo da quella. Per qualcosa di istintivo, non di consapevole.

NADIA CAVALERA

Sì, ecco ti autoaggiorni in continuazione. È un aggiornamento continuo.

LAMBERTO PIGNOTTI

Ripeto, non lo faccio perché sono un artista ma perché mi annoio.

NADIA CAVALERA

E quindi ti superi.

LAMBERTO PIGNOTTI

Lo facevo con la stessa, più o meno, poesia aggiornata.

NADIA CAVALERA

La spinta è quella.

LAMBERTO PIGNOTTI

Ecco, come ne usciamo? Col superarsi di continuo insisto. E poi quello che ho detto ultimamente, mi sembra, al museo del Novecento a Firenze: tanto l’arte non va capita, va fraintesa.

NADIA CAVALERA

È bella questa. Deve essere sempre uno stimolo per una interpretazione personale.
LAMBERTO PIGNOTTI
Come uscirne? Non so. Ecco perché non mi hanno dato il Premio Nobel.
NADIA CAVALERA
Beh, ci si può pensare ancora. Come funziona il Nobel? C’è qualcuno che lo suggerisce?
FRANCESCO MUZZIOLI
Bisogna essere tradotti in svedese.
NADIA CAVALERA
Tu sei tradotto in svedese?
LAMBERTO PIGNOTTI
No.
FRANCESCO MUZZIOLI
C’erano noti autori che si facevano tradurre in svedese in quanto aspiranti Nobel.
NADIA CAVALERA
Ah, e chi era, chi era? Vorrei saperlo.
FRANCESCO MUZZIOLI
Si dice il peccato e non il peccatore.
LAMBERTO PIGNOTTI

Va bene, nel ‘58 io ho scritto sul Quartiere un articolo “No Bel”, in occasione della consegna del premio a Salvadore Quasimodo, che oggi è stato quasi dimenticato ma non è un poeta così brutto come lo si dipinge oggi. In quell’occasione ho escluso la mia candidatura.

NADIA CAVALERA

Anche tu Francesco prendi le distanze da Quasimodo?

FRANCESCO MUZZIOLI

Insomma, ora non lo so, c’è di peggio.

LAMBERTO PIGNOTTI

Forse la valutazione è stata un po’ ingiusta

FRANCESCO MUZZIOLI

Poi ci sono sempre reazioni al Nobel.

NADIA CAVALERA

Infatti anche Dario Fo non era accettato da tutti.

FRANCESCO MUZZIOLI

Certo. Il buffo è che la questione dello specifico letterario emerge solamente quando si è toccati nel portafoglio, per cui quando vince Dario Fo, allora insorgono “ah, non è letteratura!” Ma allora? Non si discute mai di che cosa sia la letteratura, la si dà per scontata, finché non viene fuori qualcuno che ti porta via il premio!

NADIA CAVALERA

E tornando al bello, allora?

LAMBERTO PIGNOTTI

Beh, guarda, ieri sera ho letto una cosa…

NADIA CAVALERA

L’autoaggiornamento continuo…

LAMBERTO PIGNOTTI

Stavo sfogliando il catalogo di una mia mostra alla Galleria Clivio intitolata Il mondo? Dove? (2017) e ho trovato una mia poesia che dice: “Tornerò indietro per vedere se erano belli quei luoghi che da sempre furono indicati con questo attributo”. E allora mi viene da pensare che bisogna tornare a vedere se quelle cose che sono state definite belle possano ancora reggere….

Accanto alla poesia c’è una fotografia che immortala una ragazza con uno sfilatino di pane che si volta indietro a guardare una grande palizzata di legno alle spalle. E che cosa nasconde? nasconde gli Uffizi. A me è venuto in mente questo rapporto, tornare indietro a cosa? Sì, bisogna tornare indietro per vedere se certe opere, comprese quelle che stanno agli Uffizi, sono belle o no, se quelle che stanno fuori sono meglio di quelle che stanno agli Uffizi. Insomma, io da giovane, d’estate, quando m’annoiavo andavo agli Uffizi, tanto non c’era, non c’era nessuno, mai. Purtroppo, era un modo di fare le vacanze. Non è che andavo a vedere i quadri, andavo a vedere le cornici, oppure i cieli e come erano conservate le cose. Ebbene una volta davanti all’Annunciazione di Leonardo che è una tavola, trovo due forellini con la segatura dei tarli. Vado dal custode glielo comunico e lui venne tranquillamente a pulirla con uno straccio. Bene, quando si trattò di mandare l’Annunciazione a Pechino, la si inviò in un’apposita bacheca sottovuoto spinto. Dove sta la considerazione del bello? Il bello è quello del custode degli Uffizi, il mio, quello della speciale bacheca? L’idea del bello cambia con i tempi, come nel caso di Quasimodo?

NADIA CAVALERA

Tutto è relativo.

LAMBERTO PIGNOTTI

Ma si, sicuramente. Però non ci si può riferire alla relatività con quella frenesia e accelerazione che hanno caratterizzato il discorso sul postmoderno, da cui lo stesso Derrida ha preso le distanze. In un mio saggio critico, a suo tempo, avevo stigmatizzato quell’accelerazione frenetica fin dal titolo che ironicamente si domandava: “e dopo il neo-post-moderno che cosa?”.

NADIA CAVALERA

Beh, potrebbe anche adombrare proprio questo cambiamento, un modo come un altro per indicare il cambiamento. È qualcosa che viene dopo e quindi è qualcosa anche di nuovo.

Bisognerebbe però inventare dei nomi per ogni cambiamento, sarebbe più giusto, altrimenti si rimane nel generico post. A me per esempio non piace l’indicazione generica di neoavanguardia. L’avanguardia è una cosa e deve essere quella sempre. Poi si caratterizza in forme diverse, a secondo i periodi e deve avere un altro nome, secondo me, ben preciso. Ecco, preferisco dire I novissimi, la poesia visiva degli anni 60 nella seconda ondata di avanguardia …

Prima però avevi nominato qualcosa che iniziava con la lettera C. Non ho preso nota e mi è sfuggito. Quale ricordo può cominciare con la lettera C?

LAMBERTO PIGNOTTI

Non saprei…

NADIA CAVALERA

E tu Francesco?

FRANCESCO MUZZIOLI

Beh, a proposito di formule a un certo punto, io ho provato a lanciare la catamodernità.

LAMBERTO PIGNOTTI

È quasi K eh.

FRANCESCO MUZZIOLI

Un po’ certo, sì, però non ha attecchito e quindi ormai ho rinunciato.

NADIA CAVALERA

Il catamoderno è stata un’esperienza importante. Puoi ricordarne i tratti essenziali?

FRANCESCO MUZZIOLI

È derivato dal moderno, ovviamente; però invece del post- il cata- parla del basso, di questa discesa verso il basso. Portare la modernità fino in fondo.

LAMBERTO PIGNOTTI

Forse non ha avuto fortuna perché ricordava catacomba, catastrofe, cataclisma. Come idea, insomma, è quella diciamo, della vecchia talpa di Marx.
FRANCESCO MUZZIOLI
Sì con varie sfumature.
NADIA CAVALERA

Oddio, ma nemmeno a me stanno venendo parole con la C. Passiamo quindi alla D.

La prima parola che ti viene in mente con la D a cosa la colleghi subito?

LAMBERTO PIGNOTTI

Dolce, dolcezza.

NADIA CAVALERA

La situazione più dolce che hai vissuto?

FRANCESCO MUZZIOLI

Hai fatto poemi con i dolci? Eat Art?

LAMBERTO PIGNOTTI

Eat Art…Ho fatto Chewing gum, Ostie di poesia da deglutire e Sweet poems; performance più o meno dolci…Ma nella vita ….le donne forse…Però in realtà ora penso proprio ai dolci. Perché io da piccolo ho sofferto molto della mancanza dei dolci durante il tempo di guerra, quindi ne andavo proprio alla ricerca. Mi fanno schifo, letteralmente, i ragazzi di oggi che li aborriscono, non so come facciano. Per me il dolce era proprio il non plus usa della felicità perché mi mancava. Tipo i bambini che rubano il vasetto della marmellata, o ingoiano lo zucchero a cucchiaiate. Passando ad altre situazioni, sì ricordo il “Dolce stil novo”.

NADIA CAVALERA

E dolce, per Dante, secondo te che accezione particolare aveva?

LAMBERTO PIGNOTTI

L’accezione per lui non era sempre dolce, nel senso che da una parte c’era l’amore dolce della Vita Nova, ma dall’altra non era così dolce quella sua virtuale Beatrice, che insomma, non voglio dire che ne facesse di tutti i colori, ma poi neanche lui ne pensava bene, dato che sogna che lei gli mangia il cuore, cosa che nel Medioevo usava.  Pensa a Boccaccio, a quante ragazze gli viene propinato il cuore dell’amante.

Quindi ecco sì il dolce nell’ambito dell’arte, della poesia, anche quella del dolce stilnovo, con varie accezioni.

NADIA CAVALERA
E tu Francesco…
FRANCESCO MUZZIOLI

Dolce, o amaro… Che l’arte debba essere dolce, non so fino a che punto possa dirsi.

Ecco, piuttosto, ci sarebbe da tornare anche sul bello: dolce… bello. Il problema, appunto, di una certa estetica proveniente dal passato, peraltro, perché la si può far risalire fino alla Poetica di Aristotele con, per esempio, la questione dell’equilibrio, l’arte vista come equilibrio, quindi armonia, quindi, appunto, il suono dolce, il suono armonico, la proporzione.

NADIA CAVALERA

Dolce come equilibrio.

FRANCESCO MUZZIOLI

Sì, la sezione aurea, per esempio. La sezione aurea esattamente è una matematica del bello, dopodiché invece è chiaro che la bellezza è storica, che è legata alle culture. Anche i nostri stessi parametri cambiano durante la nostra vita, durante i cambiamenti della società. Da cui la modernità, questa modernità da spingere fino in fondo a un altro tipo di estetica. Io la chiamo l’estetica dello strano. Pensando allo straniamento di Šklovskij che dice appunto che l’arte deve farci vedere le cose, quindi deve rompere l’abitudine. Possiamo dire quello diceva Lamberto sul grosso che è pericoloso. È il senso comune, sostanzialmente. E quindi anche la dolcezza… Che dolcezza c’è in Kafka? Forse sì, c’è, ma sotterraneamente, una dolcezza anche nell’onirismo kafkiano. Però poi chiaramente c’è un’arte che si presenta semmai sotto forma di crudeltà. E in fondo, anche nei confronti del suo fruitore, non c’è benevolenza.

C’è un brano di Kafka che dice che la scrittura deve essere come un’ascia, che rompe uno strato di ghiaccio. Per cui, sostanzialmente, al povero lettore gli diamo, come dire, delle botte sulla testa.

E questo appunto, comporta il fatto che ci sia una resistenza nei confronti di questo tipo di arte, che oggi tendenzialmente si tende a rinchiudere nel 900, per dire poi che il 900 è finito. Evviva, finalmente possiamo goderci un’arte di intrattenimento che però, tra l’altro, quest’arte di mercato, bisogna vedere fino a che punto rispetta quei canoni di bellezza del passato. Perché a loro volta i cultori della tradizione si lamentano, dicono, ma com’è brutta questa narrativa… Come scrivono male questi scrittori…

NADIA CAVALERA

Visto che hai tirato in ballo il 900 puoi darmi, Lamberto, un giudizio sul 900? Un tuo parere complessivo?

LAMBERTO PIGNOTTI

Ma … c’è il primo 900, c’è il 900 dei futuristi, ma c’è il 900 anche degli scapigliati, c’è il secondo 900 dei novissimi, c’è quello della poesia visiva. Ma ad ogni modo, diciamo col senno di poi, che il 900 ha rappresentato forse più specificamente cosa si intenda per avanguardia. Insomma, questa parola di avanguardia prima del 900 non esisteva, quindi in qualche modo…

NADIA CAVALERA

Quindi, potremmo dirlo, il secolo dell’avanguardia.

LAMBERTO PIGNOTTI

Seppur riscattando come abbiamo fatto, la parola avanguardia, perché il concetto di avanguardia, come dire, è un denominatore comune delle ricerche artistiche dei poeti del 900 quindi perché no? Insomma, ecco, uno può dir male del Novecento, accidenti… socialmente e politicamente almeno il Novecento è più quello delle grandi guerre, della rovina dell’Europa; questa Europa oggi avrebbe potuto fare la vita di pacchia se non avesse fatto due guerre mondiali. Invece no, si è proprio autodistrutta masochisticamente con queste due guerre.

NADIA CAVALERA

Allontanando la possibilità di una qualche felicità. E per te cos’è la felicità?

LAMBERTO PIGNOTTI

Beh, quello là, l’amore.

NADIA CAVALERA

In generale quando dici Felicità, a che cosa pensi? La prima cosa è amore?

LAMBERTO PIGNOTTI

Agli amori,

NADIA CAVALERA

Quindi la felicità è legata agli amori.

LAMBERTO PIGNOTTI

Sì, ma per me possono essere vari i momenti di felicità. Per esempio quello che noi stiamo facendo ora probabilmente non è solo una chiacchierata. Ma una forma d’arte. Anche sorbire o assaggiare il tuo brodo vegetale durante un pranzo d’artista, no? Quindi per me la felicità è varia, tutto ciò che mi piace mi dà felicità. Ovviamente incontrare degli amici come oggi. O piacevoli incontri al femminile.

NADIA CAVALERA

Ieri eri particolarmente felice con l’assessora Guadagnini, palesi avances sul palco.

LAMBERTO PIGNOTTI

No, m’ha fatto piacere di trovare un rappresentante ufficiale della cultura, che sia anche una rappresentante della bellezza. Beh sì io ovviamente preferisco la bellezza femminile, preferisco le veneri agli apolli. E poi penso, ecco che sostanzialmente, quando si parla di bellezza, si identifichi la bellezza, in arte, al femminile. Magari forse sto buttando giù come un’overdose questa mia impressione, ma penso che la bellezza sia femminile.

NADIA CAVALERA

Ma credo che si desuma anche da quei tuoi lavori che hai fatto dal 72 al 78.

LAMBERTO PIGNOTTI

Beh sì, bene o male, ho usato diciamo delle belle ragazze. Ma per un altro motivo.

NADIA CAVALERA

Forse, però, per recuperarle e quindi toglierle dal loro ruolo.

FRANCESCO MUZZIOLI

Le hai anche un po’ cancellate…

LAMBERTO PIGNOTTI

Insomma, sì le ho cancellate…anche perché io preferisco la venere di Milo che non è intera, cioè…

se fosse rimasta integra o intera, praticamente sarebbe stata meno affascinante.

Ecco allora a me piace molto la bellezza imperfetta, cioè odio la bellezza quando è troppo. Quando è, come dire, pronunciata, ostentata, la trovo offensiva per cui in effetti diciamo che non solo nell’arte ma anche nelle donne reali preferisco che non ci sia una bellezza da rotocalco cinematografico.

NADIA CAVALERA

Perché quella è piatta, poco significativa. La bellezza va scoperta.

LAMBERTO PIGNOTTI

Sì, ecco, a me piace la bellezza espressiva e nell’immagine femminile preferisco quella che è espressiva sì, ma che nella sua espressione abbia un qualcosa di deficitario. Ecco la Venere di Milo è un non plus ultra. Mozzate è meglio.

NADIA CAVALERA

Un’incitazione a sfregiare, le donne vanno mozzate?

LAMBERTO PIGNOTTI

No, ci mancherebbe; nell’arte comunque amo molto le donne intere, amo molto anche Monna Lisa…

NADIA CAVALERA

Potrebbe essere che così, deficitaria, la donna sia più gestibile? Forse una bellezza statuaria blocca? E l’uomo ha bisogno di sentirsi superiore, per affermarsi meglio?

LAMBERTO PIGNOTTI

No, questa è un’interpretazione cattiva. Un oltranzismo pessimista. Può anche essere. È come per una bella poesia, serve talora essere decisamente brutta… un mio verso di centomila anni fa più o meno diceva questo: la teoria potrebbe dar significato alla poesia più brutta del mondo, almeno come estremo di una serie. Cioè se è veramente brutta, rientra nelle cose estreme. È come la maglia nera all’ultimo classificato nella competizione ciclistica del Giro d’Italia. Ambìta da chi non ha alcuna prospettiva di arrivare primo. Almeno si fa notare. Sai quante volte ho notato delle poesie proprio per la loro bruttezza?

NADIA CAVALERA

Un primato nuovo, quello della bruttezza. Bruttezza, Eh? Abbiamo parlato del bello e della bruttezza no.

LAMBERTO PIGNOTTI

La bruttezza non è l’opposto del bello.

NADIA CAVALERA

Può essere ostica.

LAMBERTO PIGNOTTI

I “Novissimi” in particolare esprimono l’idea della comunicazione negata, cioè “io non voglio comunicare con te perché sei uno stronzo”. Invece noi della poesia visiva, non escludevamo la comunicazione. Ritenevamo che si potesse comunicare con la stessa modalità e lo stesso linguaggio dei media ma in maniera diversa.

NADIA CAVALERA

Rivoltargli contro lo stesso linguaggio.

FRANCESCO MUZZIOLI

Per dirgli… sei uno stronzo.

LAMBERTO PIGNOTTI

E qual è la differenza? Fra i novissimi, grosso modo, non tutti (Balestrini era diverso da Pagliarani…) e noi? Il nostro primo convegno “arte e comunicazione” verteva proprio su questo: si può comunicare, solo che bisogna comunicare in modo diverso. La funzione della comunicazione non è intransitiva ma è transitiva. Io non voglio escludere il lettore, ma lo voglio trascinare dentro.

NADIA CAVALERA

Ma poi sono addivenuti a questa posizione anche i Novissimi. Prima erano più intransigenti, poi no. L’ultimo Sanguineti era molto comunicativo.

FRANCESCO MUZZIOLI

Sì. sì, ma dipende, ci sono degli esperimenti che hanno sostanzialmente uno scopo provocatorio per cui sono irripetibili. In parte alcune cose di Balestrini… Per esempio, il suo primo romanzo, Tristano, che è fatto mescolando queste stringhe narrative, per cui certamente tu lì non ti ritrovi nessuna storia, ma semplicemente dei pezzi che non combaciano mai. Oppure sì, forse il Laborintus di Sanguineti, ecco. E su altre cose, certamente tutto Pagliarani non è diciamo che sbatta la porta nei confronti della comunicazione. Io, però, toccherei un punto che per la lettera i andrebbe bene: l’ironia.

NADIA CAVALERA

Ecco, sì sì bene.

FRANCESCO MUZZIOLI

Perché c’è questa definizione di Lamberto come “genio guastatore” nell’utilizzo delle forme della comunicazione di massa, ma vorrei precisare una cosa, cioè che in quel momento il linguaggio della poesia era il linguaggio degli ermetici, sostanzialmente Ungaretti, Montale…

LAMBERTO PIGNOTTI
Il neorealismo anche.

FRANCESCO MUZZIOLI

C’era un po’ di neorealismo ma in poesia cosa conta?

LAMBERTO PIGNOTTI

La distanza sociale.

FRANCESCO MUZZIOLI

Poi, Quasimodo lì che si era un po’ politicizzato, “come potevamo noi cantare”, sì, va bene, ma con gran retorica. Far entrare le comunicazioni di massa a quel punto è effettivamente far compiere alla poesia l’assorbimento di un linguaggio non poetico. C’è un’operazione esattamente di aggiornamento del linguaggio. Però, appunto, questo viene fatto attraverso l’ironia. Questo è anche un distinguo dal futurismo perché il futurismo nel primo 900, dice in fondo la stessa cosa, no? Voi parlate come se andaste ancora in carrozza, ma ci sono le automobili, ci sono gli aerei, ci sono le navi transoceaniche. È vero? La stessa cosa dice il Gruppo 70, il mondo è cambiato, ci sono le merci, c’è la televisione, c’è la pubblicità. Però, mentre il Futurismo è tecnolatrico, loro sono ironici in questa operazione, quindi in questo senso “dite al fruitore che è stronzo” perché gli dite quello che lui vede nelle comunicazioni di massa, ma attraverso questo montaggio straniante e l’uso dell’ironia. Vorrei sentire appunto Lamberto, perché poi l’ironia è pure una forma che può avere diversi modi di presentarsi, no? Ultimamente ho rivisto il nostro noto personaggio immortale quando prende in giro Schulz al Parlamento europeo, e quando il Parlamento europeo si ribella, lui dice, ma voi non capite l’ironia. Quella è un tipo di ironia che serve in qualche modo per difendersi e per dire le cose peggiori, ma con una via di fuga in modo tale da non essere poi sanzionati. L’ironia polemica è un’ironia mordente… Nel caso dei verbovisivi è sottile perché appunto l’immagine è quella, però ritagliata, contrapposta ad un’altra, montata poi insieme alla parola, perché appunto si fa poesia visiva e quindi c’è un’intersemiosi, si usa il linguaggio e si usa l’immagine. C’è un intervento che dovrebbe poi costituire la presa di coscienza, no? ma vorrei sentire Lamberto su questo.

LAMBERTO PIGNOTTI

Sull’ironia, certo. Anche questa è una cosa che ci differenzia dal primo 900, cioè dal futurismo, che è di per sé serioso, noi no. Ci siamo mostrati, in genere sempre in maniera accattivante, non per nulla io presentando, mi sembra, la prima antologia di poesia visiva, in una delle prime cose scritte parlavo di cavallo di Troia. Bisogna entrare nella Cittadella del nemico, dicevo…

NADIA CAVALERA

Anche la serie dei francobolli credo che rispondessero a questo intento.

LAMBERTO PIGNOTTI

Tutta la poesia visiva, anche quella verbale, tecnologica, no? Essa nasce dalla poesia, prima dal connubio dei linguaggi, “la poesia me lo dice prima, la poesia me lo dice meglio” che era una forma pubblicitaria, non mi ricordo di quale prodotto. Infatti in Nozione di uomo c’è tutta quella parte che si chiama L’industria poetica, che prende proprio origine dagli slogan della pubblicità. Cosa che per esempio non mi è stata perdonata dal Gruppo dirigente di Mondadori che ha fatto le note di copertina. Ne parlano male perché io parlo male della poesia, quando dico “poesia con rispetto parlando”. Ma ovviamente ne parlavo così per far reagire i lettori. Anche qualcosa che ho letto ieri era sul fatto di presentare un tipo di poesia che non è quello, che ne so della televisione.

NADIA CAVALERA
Una spoesia insomma.

LAMBERTO PIGNOTTI
Per esempio Duchamp quando fa i baffi alla Gioconda non è che irride Leonardo, ma quelli che vanno a vedere la Gioconda pensando di trovarla nella forma conosciuta. Ah sì? e io ti faccio i baffi. Questo discorso non era la polemica contro il Rinascimento o contro Leonardo ma contro la massificazione della Gioconda.

NADIA CAVALERA

Per svegliare il pubblico, lo spettatore.

LAMBERTO PIGNOTTI

Sì, certo, certo sì.

NADIA CAVALERA

Toglierlo dall’assuefazione.

LAMBERTO PIGNOTTI

Quanto ai premi Nobel a Fo e Bob Dylan, in effetti, posso dire che non sono piaciuti neanche a me, però è vero che si è svecchiata l’idea di letteratura. La letteratura non è solo quella cosa che sta nella pagina o nel libro, ma può essere altro. Non amo né Bob Dylan, né Dario Fo, fino a un certo punto. Dario Fo mi piaceva per una cosa, perché era nato nel 1926 come me. Certo ha scritto e recitato delle cose favolose, no? Quei suoi linguaggi inventati sono strepitosi. No, la letteratura di Fo diventa un’altra cosa, diventa canzonetta, diventa sberleffo e quindi bene, in questo senso.

NADIA CAVALERA

C’è lo svecchiamento, comunque.

LAMBERTO PIGNOTTI

Quanto all’ironia di cui si parlava prima, non si tratta solo di ironia, ma di autoironia.

Era un concetto che non piaceva molto a Vittorio Sereni e ai redattori di Mondadori nel cui ambito però sono usciti prima gli scritti sulla “Poesia tecnologica” e poi due miei libri. Da Sereni, Vittorini, Montale e altri, ho ricevuto nel ‘61 anche un premio il “Cino del Duca”, che era di un milione di lire.

NADIA CAVALERA
Però…e che hai comprato con quel milione?

LAMBERTO PIGNOTTI
Comprai la Treccani che costava mezzo milione, e poi mezzo milione l’ho investito in titoli pubblici.

NADIA CAVALERA

Ah, quindi li hai investiti innanzitutto in cultura.

LAMBERTO PIGNOTTI

La Treccani, per me era cosa sacra. La Treccani è legata ad un altro ricordo, alla Biblioteca Nazionale di Firenze in cui si potevano incontrare verso la fine della Seconda Guerra Mondiale e subito dopo, le “Parole in libertà” Futuriste, i collages cubisti e dadaisti, dei libri sul neo-positivismo, certe pagine dell’Ulisse di Joice, dei testi di psicanalisi, qualche riproduzione dei pittori surrealisti. Confesso di aver scritto sui muri “viva la psicanalisi, viva il surrealismo”.

Correvano gli anni ‘42, ‘43, ‘44…arrivai alla Biblioteca Nazionale di Firenze a diciassette anni, un anno prima che vi potessero accedere gli studenti. Mi ero fatto fare un permesso da un mio professore, Luigi Fallacara, un poeta che compare fra i nomi del primo Novecento, a partire da Lacerba, e siccome ero anche piccolino di statura quando entrai mi fermarono gli addetti. Fu così che incominciai a sfogliare libri. Per farla breve, mi sono trovato sottomano le opere sia delle avanguardie letterarie e artistiche, sia i primi saggi che arrivavano su quelle stesse avanguardie. Ricordo, ad esempio, un libro illustrato bellissimo uscito nel 1938 di Christian Zervos proprio sulle avanguardie, Histoire de l’art contemporain. Queste le mie fonti di ispirazione. Si, erano gli anni in cui Alberto Arbasino ha poi sostenuto che bastava un salto a Chiasso per informarsi; ebbene io questo salto lo facevo quasi ogni giorno nelle biblioteche di Firenze: La Nazionale, ma anche la Marucelliana. Avendo questi supporti e queste inclinazioni scrivevo anche parole di un insolito tipo e facevo un atipico genere di “disegnini”. Li chiamavo “disegnini”. Soprattutto nell’estate quando mi annoiavo, tratteggiavo certe cose che poi ho scoperto essere post-surrealiste, post-dadaiste, post-futuriste… Parallelamente ho cominciato a buttar giù delle frasi che potevano anche sembrare, o erano poesie…

NADIA CAVALERA
I tuoi primi passi nella poesia…

LAMBERTO PIGNOTTI
Ma nel ‘44 ero stato chiamato alle armi come tutti i ragazzi che avevano 18 anni. Allora, c’era la Repubblica di Salò. Io non mi presento. Renitente alla leva mi rifugiai nello studio di mio padre, posto all’interno di un ex conventino, dove si erano rifugiati altri pittori, scultori, artigiani; erano tutti antifascisti. Si trattava insomma di un covo di partigiani; vi si stampava clandestinamente «L’Unità». La fortuna volle che abbandonassi quel posto tre giorni prima che facessero irruzione i fascisti. Il tutto si trasformò in una vera e propria strage, testimoniata da una lapide. Ne ricordo ancora la data: 17 luglio 1944. Diverse persone furono coinvolte, tra cui un bambino di nove anni. Per la cronaca in quei giorni, in quel conventino, si trovava con il padre e lo zio, anche la giovane Oriana Fallaci che faceva la staffetta partigiana.

Come si può dedurre da quello che ti sto dicendo, mi faccio poco scrupolo di obbedire alla consecutio temporum, alla successione e all’ordinamento di tempi e avvenimenti. Come al solito tendo a procedere di palo in frasca, accostando parole che si facciano vedere e immagini che si facciano leggere.

NADIA CAVALERA

Suggestivo.

FRANCESCO MUZZIOLI

Forse però possiamo aggiungere una cosa alla lettera F, il fumetto; perché giustamente tu ricordavi i francobolli, e c’è una tecnica che Lamberto ha usato ricorrendo al fumetto, dove non è più importante che l’immagine sia presa dalla pubblicità, dal linguaggio moderno, ma a essere decisiva è la forma fumetto. Mediante il fumetto, il linguaggio che si aggiunge e che fa parlare l’immagine (ovviamente muta di per sé) lo fa con funzioni di abbassamento parodico. Questo straniamento che abbassa il livello della comunicazione lo ricordo non solo nei francobolli, ma anche nella Biblia Pauperum, che mi colpì molto quando la vidi in una presentazione.

LAMBERTO PIGNOTTI
Ah se lo vuoi ho le copie, posso fartele avere.

FRANCESCO MUZZIOLI
Ringrazierei molto, perché effettivamente lì c’è il testo sacro spiegato ai semplici e con questi momenti straordinari demistificanti al massimo. Tant’è vero che poi, dopo avere assorbito il Pignotti, a me capita spesso di trovarmi nelle pinacoteche e di vedere l’arte, soprattutto quando è abbastanza banale, soprattutto in certe immagini sacre con espressioni molto artefatte, con gli occhi dei fumetti pignottiani. Ti ho introiettato in un certo senso e ti ringrazio per questo perché è una medicina, appunto rispetto all’arte troppo stereotipata e vanagloriosa.

NADIA CAVALERA

L’argomento mi interessa molto. Come hai trattato i primi versi della Genesi?

LAMBERTO PIGNOTTI

Non mi ricordo più… ma tutto cominciava con un messaggio pubblicitario.

NADIA CAVALERA

Neppure la nascita dell’uomo?

LAMBERTO PIGNOTTI

No, ma c’è Dio padre come regista e Cristo come uomo politico che parla al popolo.

NADIA CAVALERA

C’è l’ironia, anche nei riguardi della fu pop-art, credo.

LAMBERTO PIGNOTTI

I fumetti e le foto a me servivano in quel libro per dire che è una forma di narrazione, perché in genere si concepisce l’arte visiva come qualcosa di statico.

Ogni quadro sarebbe, è inteso, come una storia fermata nel tempo, invece cosa prospettano e hanno di bello il fotoromanzo e i fumetti? La narrazione. E quindi mi interessa sì la poesia visiva, ma anche la narrazione, per questo sul romanzo ho detto diverse cose, già dal 1965, quando le portai a Palermo.

FRANCESCO MUZZIOLI

Al convegno sul romanzo sperimentale.

LAMBERTO PIGNOTTI

La narrazione è tante cose, non solo il romanzo. In uno dei miei pseudo fotoromanzi appare Marx che dice “sì, sì, verrò”. Durante il ‘68 a Berlino in un Manifesto venne usato Marx in una maniera simile alla mia. Probabilmente non era conosciuta quella mia opera, però è andata così…

NADIA CAVALERA

Coincidenze che sorprendono. L’arte è nell’aria, come già la poesia per qualcuno. E deve stimolare la meraviglia nello spettatore, nel fruitore. Che altro? M…M come meraviglia… La tua più grande meraviglia.

LAMBERTO PIGNOTTI

Quando mi è apparsa quella che sarebbe poi diventata mia moglie.

NADIA CAVALERA

L’avevo immaginato.

LAMBERTO PIGNOTTI

L’ho conosciuta a casa di amici. Vado a casa loro e trovo questa ragazza, carina, ci siamo messi a parlare, lei sapeva già del gruppo 63, e poi era molto ironica. Mi ha colpito insomma. Ecco, questo è il momento. E poi ovviamente dopo qualche tempo, ci siamo rincontrati. Quindi ci siamo trovati bene e frequentati. Pensa che le prime volte che andavo con lei in albergo, seppure non si usava, le chiedevano la carta d’identità perché pensavano fosse minorenne. Sembra più giovane della sua età. Allora io avevo 45 anni, lei ne aveva 30. Sembrava una ragazzina, appunto una minorenne. Ancora oggi è molto giovanile.

NADIA CAVALERA

Credo di averla vista una volta a Bologna ad un convegno sul gruppo 63. E tu, Francesco, vuoi ricordarci il tuo incontro con Carmela?

FRANCESCO MUZZIOLI

Dovrei parlare? Dell’incontro con mia moglie?

NADIA CAVALERA

Certo. Non ne sappiamo nulla.

FRANCESCO MUZZIOLI

Noi ci siamo conosciuti in una biblioteca, giusto per rimanere in tema. Sì, però, vorrei parlare anche di un altro incontro, quello con le avanguardie, mi sembra interessante, perché spesso quando appunto vedo che nel pubblico si è lontani da questo tipo di testo, mi chiedo sempre, ma io come ho fatto? Come è successo? Come mai? E quindi ricordo che fu attraverso la televisione. Perché io da giovane, a scuola mi ero un po’ fissato, diciamo sugli ultimi autori, perché a scuola non si studiano mai. E il mio ultimo era Ungaretti. Io stavo lì, diciamo nell’ultima classe del liceo con quest’Ungaretti, quando a un certo punto vedo L’Approdo, una trasmissione televisiva. All’epoca c’erano delle trasmissioni culturali in orario abbastanza accettabile. Dove c’era la presentazione dei Novissimi e lì ho avuto questa rivelazione: ma allora c’è qualcuno dopo Ungaretti.  Poi naturalmente ci sono stati tutti gli eventi del 67, del 68, naturalmente.

NADIA CAVALERA

Che anno era quando hai visto questa trasmissione?

FRANCESCO MUZZIOLI

Non ricordo più bene, sarà stato forse proprio il 67, nell’ultimo anno del Liceo. Poi è necessario che questi incontri casuali fruttifichino, ci vuole una spinta che porti a voler capire delle cose. Che attorno ti dicono che non vanno bene, no, e tu per tigna ti metti da quella parte, dalla parte sbagliata sostanzialmente.

NADIA CAVALERA

Ci vuole la predisposizione ad un’altra collocazione.

FRANCESCO MUZZIOLI
Ci sarebbe, alla lettera R, la parola rivoluzione. Oggi si parla di rivoluzione, l’anniversario della rivoluzione, ma purtroppo tutti i nostri problemi stanno nell’assenza di una rivoluzione anche per i giovani, cioè come fanno ad appassionarsi? Noi abbiamo avuto questo secondo momento, che poi si è rivelato anche questo poco rivoluzionario, è stata una rivoluzione fallita, però indubbiamente lì abbiamo maturato questa utopia. Quando manca questa spinta, la prospettiva del futuro, gli impulsi si possono incanalare. Oggi per i giovani qual è? Cambierà questo sistema? Loro non ci credono più. Mi pare che questo sia un punto importante anche per le avanguardie artistiche. Come fanno senza spinte rivoluzionarie? Dopodiché poi è vero che, nella storia, rivoluzione sociale e rivoluzione artistica non si sono mai incontrate, forse non si possono incontrare.

LAMBERTO PIGNOTTI

C’è stata l’esperienza di Majakovskij…

FRANCESCO MUZZIOLI

Majakovskij si è suicidato però, e all’inizio pure lì… I dirigenti gli dicono: gli operai non vi capiscono. C’è un brano dove Majakovskij risponde all’Ufficio della Cultura e dice che mettere gli operai in grado di capirlo è una operazione politica.

NADIA CAVALERA

Ma ci può essere una rivoluzione pacifica.
FRANCESCO MUZZIOLI
Sì, indubbiamente, ma è ancora più difficile.

NADIA CAVALERA

Perché la rivoluzione può essere una risoluzione temporanea che sembra efficace ma poi tutto rientra. Come invece creare una rivoluzione che possa essere pacifica? Non fare dei morti e basta. Una rivoluzione che possa anche stabilizzarsi in una realtà accettabile?

FRANCESCO MUZZIOLI

Il problema della democrazia, come tu sai (sei intervenuta di recente in maniera polemica su questo tema), è di superare i propri limiti, altrimenti se tutti sono uguali, ma alcuni più uguali di altri è una democrazia sbagliata. Forse perché il demo è poi questa società ristretta…

NADIA CAVALERA

È ristretta molto ristretta ma c’è democrazia oggi?

FRANCESCO MUZZIOLI

Democrazia e rivoluzione. Occorre metterle insieme.

LAMBERTO PIGNOTTI

No, io vorrei riallacciami al discorso di prima. Brutalmente, volevo dirti che io non sono rivoluzionario, non credo alla rivoluzione violenta. No, davvero. Penso a tutto il 68, tanto per dire. Io credo alla rivoluzione del linguaggio, per me solo questa è valida. Non credo alla rivoluzione messa in scena da quei nostri amici come Fortini, Raboni che si prestavano ad iniziative per far finta di fare rivoluzione. No assolutamente a quella rivoluzione, con l’orario, che dice sì, ci sto fino ad un certo punto, ma all’una e mezzo, arrivederci e grazie, torno a casa. No, no. Il poeta fa la sua rivoluzione col linguaggio.

NADIA CAVALERA

Bella questa descrizione. Impiegati della rivoluzione col cartellino. Meglio puntare è vero sulla rivoluzione del linguaggio.

LAMBERTO PIGNOTTI

Sarà un caso che i poeti più rivoluzionari del 900 sono di destra? Marinetti, Pound, Celine sono di destra, però fanno la rivoluzione. Perché se tu riesci a far parlare diversamente il cosiddetto popolo, quella è la rivoluzione. Cioè devi far cambiare se vai come intellettuale, poeta. A questo proposito avrei tanto da dire, ma si svicolerebbe un po’ troppo. Solo questo. Nel 68 avevo dato luogo a Firenze, a una serie di manifestazioni sperimentali a cura dell’Associazione degli Artigiani, dal titolo “Situazione 68”, da farsi nel dicembre di quell’anno, una letteraria e una pittorica. Quella letteraria era diretta da Anceschi, quella pittorica da Dorfles. Avevano aderito tutti i poeti sperimentali (Balestrini, Sanguineti, Leonetti, Di Marco, Giuliani)…. e gli artisti più avanzati (Kounellis, Paolini, Mattiacci, Fabro, Ceroli…).

Ma è arrivata l’estate calda del ‘68 e si ritirarono quasi tutti. E chi venne, venne a dirne male perché disse, la rivoluzione è quella che si fa in piazza. Io ce l’ho ancora questi documenti di “Situazione 68”, manifestazione che doveva dare l’idea di quello che si intendeva o si poteva fare. Erano stati coinvolti, come ho detto, i maggiori poeti e i maggiori pittori del momento, e altri che poi sarebbero venuti fuori. Avevano aderito tutti e invece poi per certi finti barricaderi non si è andati avanti. Per me ad ogni modo la rivoluzione deve essere quella che fa cambiare, come dire, la weltanschauung o lo Zeit Geist, come chiamarla?

NADIA CAVALERA

Bene, e questa infatti è la filosofia alla base del mio progetto etico-linguistico, per il quale propongo di cambiare la parola umanità con umafeminità per garantire la presenza della donna (con -fem) nella parola che indica l’insieme delle donne e degli uomini. Ma tu non usi molti neologismi, mi pare.

LAMBERTO PIGNOTTI

Beh sì, nella poesia tecnologica, ce ne sono.

NADIA CAVALERA

Più che neologismi, mi sembrano nomi presi dal quotidiano che prima non comparivano nelle poesie e che invece compaiono nelle tue.

LAMBERTO PIGNOTTI

Dal quotidiano ho preso la classica coppia di “maschio e femmina” e l’ho trasformata, nel titolo di un mio libro “femminista” in Marchio & Femmina. Io ho sempre odiato la figura maschile tradizionale. Sarà che sono cresciuto con le donne. L’estate andavo a Forte dei Marmi da mia zia che era una seconda mamma. L’aiutavo nelle faccende e facevo parte di una banda di bambine che andavano a rompere le scatole ai maschi. E forse le due guerre mondiali, se fosse dipeso dalle donne non ci sarebbero state. Così la società fatta dalle donne non sarebbe stata così aggressiva. Io non solo non sono aggressivo, ma neppure competitivo.

NADIA CAVALERA

Non tutti gli uomini sono aggressivi per fortuna, ma quelli che dettano le leggi sì.

LAMBERTO PIGNOTTI

Sto sulla difensiva, faccio contropiede e controllo l’avversario. E così sin da piccolo. Io non ho mai corso con gli altri, non ho mai fatto caso agli altri. Facevo i miei giochi e poi erano gli altri che finivano col fare i miei. No, io non andavo a fare i loro giochi. Me li inventavo i giochi.

NADIA CAVALERA

Eri un trascinatore, insomma.

LAMBERTO PIGNOTTI

Siccome i miei studi li finanziava la zia, alle superiori io ho fatto ragioneria, e sono un ragioniere, poi dottore commercialista, ma non so fare le somme. In questa sezione di ragioneria, siamo partiti in 44 e il secondo anno eravamo 16. Questi 16 hanno cominciato a leggere Ungaretti, a sapere cosa era il futurismo e non si faceva nulla di finanziario. I docenti, per fortuna erano intelligenti.

NADIA CAVALERA

Li trascinavi tu in questo discorso?

LAMBERTO PIGNOTTI

Il termine “trascinatore” mi sembra eccessivo. Non posso negare però che certe mie idee, che certi miei comportamenti hanno avuto particolare attenzione. Ho avuto l’attenzione spesso da persone che avevano idee diametralmente opposte alle mie. Emblematica in tal senso è stata per me la stima di Argan. Durante gli anni scolastici, a cui prima accennavo, avevo la stima affettuosa del mio temutissimo professore di matematica, materia in cui non sono mai stato capace di fare un compito scritto. Trascinatore forse no, ma neppure competitivo. Non sono competitivo, e neppure aggressivo e se corro, non è perché devo vincere. Mi farebbe anche piacere, ma lo faccio per mettermi alla prova. L’unica gara che io concepisco è quella del primato dell’ora, vincere contro me stesso. Di cosa fa quell’altro non me ne frega nulla o quasi. Anche con le ragazze era la stessa cosa. Se a me piaceva una ragazza, che piaceva anche a un altro, lo lasciavo fare. Se è più bravo di me, pensavo con un certo fastidio, se la prenda lui. Non insistevo. Peraltro ho sempre evitato di essere il primo della classe…

NADIA CAVALERA

Sei in gara solo con te stesso. Bella questa immagine di te solitario intento a eseguire i tuoi giochi, e questi compagni di classe che facevano più letteratura che matematica…Stavi dicendo che in classe si faceva più letteratura, che matematica. Avevi un percorso segnato.

LAMBERTO PIGNOTTI

Sì, ma era una classe particolare in tempo di guerra, si poteva fare un coretto ritmato sui banchi e ballare il tip tap sulla cattedra. Mio padre poi era pittore, e qualcuno si era messo a dipingere come lui; venivano a casa mia, che allora diventava una specie di centro studi alternativo.

NADIA CAVALERA

È rimasta una domanda, sospesa sul collezionismo. Che cos’è per te il Collezionismo? Come mai c’è quest’ansia collezionista anche in te? E che io condivido (forse si vede anche dai lumi e gattini intorno).

LAMBERTO PIGNOTTI

Mi interessano le cose curiose, non però il collezionismo.

NADIA CAVALERA

Che cosa ti incuriosisce?

LAMBERTO PIGNOTTI

Mazzi di vecchie carte da gioco, dischi a settantotto giri, libri d’artista, libricini minuscoli magari della dimensione dell’unghia di un pollice, oggetti in forma di libro, carillon; ma sono partito dai santini perché mia nonna aveva un libro di preghiere dove c’erano questi santini. Mia nonna era una che stava tutto il giorno a leggere di arte in Toscana. Peraltro mi chiamo Lamberto, perché a Firenze c’è Via dei Lamberti, via Lambertesca e cose così…è un nome tradizionalmente fiorentino.

NADIA CAVALERA

Una nonna molto legata alla storia della città.

LAMBERTO PIGNOTTI

Certo, ma…

NADIA CAVALERA

Parlavamo di collezionismo.

LAMBERTO PIGNOTTI

Ah, ecco allora la prima forma di collezionismo sono state le immaginette devozionali. Ma guarda quanto sono belle mi dicevo…

NADIA CAVALERA

I santini. E quanti ne hai?

LAMBERTO PIGNOTTI

Non è la quantità che conta. Ho dei santini, alcuni veramente belli a vedersi, proprio belli, altri li vedo legati all’inizio della storia delle avanguardie. Il collage e il fotomontaggio nascono dai santini. C’erano monache che facevano questi lavori, incollavano di tutto, non solo carta, ma anche perline, pagliuzze dorate, stoffe e piccole fotografie. È nell’ambito del dadaismo che il fotomontaggio è diventato una forma d’arte, derivato da certe stampe popolari, che le avanguardie, appunto, guardano con altri occhi.

NADIA CAVALERA

…erano oggetti normali, comuni, insomma, che vengono trasformati in oggetti artistici.

LAMBERTO PIGNOTTI

A guardarli oggi certi santini sembrano anticipare addirittura l’arte povera, il concettuale…Io conservo un santino con dei fiori secchi incollati che dicono raccolti sull’orto di Getsemani, un altro con listarelle di legno che dicono di provenire dalla croce di Cristo. Per l’occhio del fedele la cosa non è simbolica, ma reale. Dipende dalla lettura che se ne fa. Non solo nei santini l’arte sacra può essere letta come pornografica: le estasi e i tormenti di qualche santa vergine seminuda sconfinano alquanto in amori sacri e profani.
NADIA CAVALERA
Ma io non li conoscevo sotto questa forma. Li devo riconsiderare. Ma passiamo per concludere alla lettera V. V come valore?
LAMBERTO PIGNOTTI
Valore, direi ma non mi evoca niente.
NADIA CAVALERA
E Venezia?
LAMBERTO PIGNOTTI
Niente. Ciao Venezia…. Niente, non so.
NADIA CAVALERA
Francesco cosa ti evoca la lettera V?
FRANCESCO MUZZIOLI

Io direi Voce. La voce ci porta a considerare l’altro ramo dell’opzione verbovisiva che è la poesia sonora.
NADIA CAVALERA
La voce. Sì, è vero, voce.
FRANCESCO MUZZIOLI
La poesia sonora è l’altro ramo, parallelo alla poesia visiva. Forse Lamberto l’ha praticata meno, attraverso la performance, però, è stato anche vicino ai poeti sonori. Anche la poesia sonora è stata eminentemente sperimentale, sia nel versante del vocalizzo puro e dell’uso delle parti meno significative della parola, sia nell’avvicinarsi al teatro. Credo che la lettura a voce sia diventata un veicolo possibile della poesia. La poesia se resta nel libro ormai è, come si dice, lettera morta e quindi certamente i poeti penso siano stimolati alla recitazione; certo la lettura a voce può essere fatta (e spesso è fatta, effettivamente) in modi banali, però è comunque un veicolo importante. Attraverso il video, per esempio, si potrebbero certamente realizzare delle presentazioni utili a farla vivere, nella voce, la poesia.
NADIA CAVALERA
Molto praticata dagli anni 80 in poi. Penso di sì, potrebbe essere quello l’aggiornamento della poesia futura.
FRANCESCO MUZZIOLI
Dopodiché, succede che gli attori fanno un servizio ai poeti non sempre buono, perché quando l’attore va a leggere la poesia, siccome non è pagato, non l’ha mai provata. Aggiunge la sua tecnica e non sempre capisce quello che sta leggendo. Appunto, si dovrebbe passare attraverso gli autori… E forse gli autori stessi, stanno guadagnando in vocalità, mi sembra. Si torna all’origine. Perché la poesia nasce certamente orale, nasce insieme alla musica.
NADIA CAVALERA
Magrelli, se non ricordo male, sarebbe contrario, lui dice che la musica è una protesi della poesia, che la poesia dovrebbe già contenere praticamente musicalità all’interno.
FRANCESCO MUZZIOLI
Sono d’accordo ma diciamo che la musica potrebbe funzionare da supporto.
NADIA CAVALERA
Certo, si dovrebbe ritornare alle origini. Poesia e musica.

John Samborn e Gianni Toti, 1987. Archivio La Casa Totiana gestione Poetronicart

FRANCESCO MUZZIOLI
Sì, attraverso il video si potrebbe andare verso una sorta di arte totale, come ha fatto Gianni Toti con i suoi esperimenti di videopoesia, in anni, tra l’altro, in cui quella cosa era molto pionieristica. Quindi forse potrebbe essere un modo anche per impattare un pochino sul pubblico. Che ne dici, Lamberto?
LAMBERTO PIGNOTTI
Personalmente non pratico quella che viene definita poesia sonora. Ho fatto però delle letture con Gianni Fontana e Tomaso Binga. Al tempo del Gruppo 70 ho registrato in cassetta delle “poesie auditive”, con voci, rumori, musiche di consumo e messaggi pubblicitari, in cui appariva anche la voce del Papa Paolo VI, e anche quella di Celentano. Con il Gruppo 70 abbiamo fatto per alcuni anni, dal ‘65 in poi uno spettacolo chiamato Poesie e no che cominciava con la sigla dell’Eurovisione. L’abbiamo fatto anche a Spoleto, nel 1966, nella stessa Piazza in cui recitò Ezra Pound. Questo spettacolo, che non rientra nella poesia sonora, lo abbiamo eseguito in diverse sedi, anche all’estero, anche alla Rai. Da una trasmissione radiofonica ho registrato anche delle mie poesie lette da Vittorio Gassman in modo deludente perché non aveva capito dove stavano le virgole. Ad ogni modo io penso che la lettura di una poesia sia preferibile, non quella di un attore, ma quella del poeta che l’ha scritta. Lui sa dove spezzare la lettura, dove riprendere fiato, dove fare una pausa. Del resto la poesia è nata con i gesti, con la vocalità, magari con qualcosa che oggi è definito performance. Qualcosa che un tempo la Pizia o la Sibilla cumana, andavano cantando e scrivendo sulle foglie affidate al vento…

NADIA CAVALERA
E al vento affidiamo noi queste parole di ricordi perché li semini lontano a rigenerarsi ancora. Grazie.

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“Avanguardia Vintage: l’intervista” è stato scritto da francesco forlani e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

I nemici dell’università: burocrazia e affari

Molti osservatori ritengono che la disposizione recentemente introdotta dal governo Meloni sui nuovi test attitudinali per i magistrati – per come è scritta finora – dispieghi un tristo valore propagandistico superiore alla sua reale pericolosità. Più insidiose, forse, le norme che negli anni (fino alla Cartabia) si sono rincorse nel tentativo di quantificare e pesare il lavoro dei giudici ordinari partendo dall’assunto che essi siano dei fannulloni, obbligandoli a soddisfare i “carichi attesi” (senza che vi sia un tetto a quelli esigibili), ed esortandoli de facto a mettere in cassaforte processi semplici e “sicuri” anziché cimentarsi in procedimenti scivolosi e dall’esito incerto come – par excellence – quelli che toccano il potere.

È sotto questo profilo che vorrei segnalare una certa analogia rispetto a quanto già accaduto nell’altro grande comparto non contrattualizzato della Pubblica Amministrazione, quello dei professori universitari. Spesso presentati (sulla base di casi non rari ma minoritari) come alteri, assenteisti, corporativi, i docenti sono stati dati in pasto nell’ultimo ventennio (da diversi governi, dunque, e di diverso colore politico) a una vera tenaglia.

Da un lato la burocrazia primaria, fatta di un monte infinito di verbali, relazioni, monitoraggi, linee-guida, rapporti di riesame, ma anzitutto di riunioni (dal Covid in poi, sovente via Zoom) volte a rivedere piani didattici, a spartire fondi ridicoli, a correr dietro alle modifiche normative del Ministero, a redigere “Piani strategici”, “Piani di sviluppo”, “Piani inclinati” da dare in pasto alle temutissime commissioni ministeriali (CEV) che una settimana ogni 5 anni passano a verificare che tutto sia in ordine, essenzialmente sul piano kafkiano della produzione di carta (la vita reale dell’Ateneo – gli studenti, le aule, le biblioteche, i laboratori, la socialità, l’idea culturale – sta da tutt’altra parte). Ogni cosa si fa – con enorme dispendio di tempo – perché si possa certificare ed esibire ai commissari, talché l’organo più importante della baracca è diventato (fantozzianamente) il Presidio, quello che “assicura la qualità”, come per la trippa o la passata di pomodoro. È lì che si fissano scadenze imperative, è lì che si producono gli ukase senza possibilità di contraddittorio.

Dall’altro lato stanno le simplegadi dell’Agenzia Nazionale per la Valutazione della Ricerca, organismo nato non già – come sarebbe stato ragionevole – per pungolare o punire i ricercatori che scrivono poco o nulla, ma per mettere in competizione tra di loro – su base essenzialmente quantitativa – i docenti e gli Atenei, creando sofisticati sistemi di “peso” delle pubblicazioni (pardon, dei “prodotti”), terrorizzando tutti quanti con “valori-soglia” e “mediane”, dando vita a un periodico costosissimo sistema di “Valutazione della Qualità della Ricerca” (decine di riunioni preparatorie, commissioni e sotto-commissioni), e partorendo algoritmi opachi come quelli del concorso nazionale per ottenere il bollino di “Dipartimento di Eccellenza”, che dà qualche lira in più. Un ambaradàn che tra l’altro finisce per favorire la ricerca “comoda” mainstream, scoraggiando quella più ambiziosa destinata magari a fiorire in luoghi marginali o a imporsi a distanza di anni, e dunque poco “monetizzabile” nei tempi brevi di cotali esercizi.

Tutto avviene per distogliere l’attenzione dai problemi veri, che sono il drammatico sottofinanziamento della ricerca italiana rispetto ad altri Paesi, le scarse risorse per il diritto allo studio, la carenza di spazi, la percentuale irrisoria di laureati. Basterebbero azioni assai più semplici per censire e riparare le aule cadenti, riformare i corsi che non vanno, sanzionare i docenti inattivi, incentivare le cooperazioni internazionali, sanare gli squilibri. Ma la tenaglia ha una funzione dirigista e anestetica: i docenti, imbottiti di verbali, linee-guida e mediane (e magari tra un po’ anche loro di test psicoattitudinali), hanno sempre meno tempo e coraggio di guardarsi attorno, di parlarsi, di prendere parola (può essere, tra l’altro, rischioso per le progressioni di carriera, per i finanziamenti cui uno mira, per i propri allievi), proprio mentre l’università pubblica (a tacere di quella privata; un discorso a parte meriterebbero le telematiche) subisce una preoccupante torsione verso i corsi “professionalizzanti”, verso i finanziamenti esterni, verso una reale subalternità, rinunciando a farsi promotrice, come istituzione, di autonomo pensiero critico. Intendiamoci: i laureati devono poi lavorare, la ricerca può e deve giovarsi della collaborazione coi privati, il rapporto col “mondo produttivo” è sacrosanto e ineludibile. Ma bisogna sempre capire chi ha il pallino in mano, e qual è il prezzo che si paga.

Se un Ateneo, puta caso, struttura un corso di laurea con una grande catena di alberghi, potrà poi intervenire contro la monocultura turistica o l’overtourism delle città d’arte? Se un altro corso di laurea è concepito di concerto con l’ENI, si potrà poi eccepire ove mai – pura ipotesi – si creassero legami privilegiati con i gerarchi di un Paese ricco di gas, o ove mai – puta caso – l’ENI piazzasse un inceneritore per i Pfas in mezzo a un Sito di Interesse Nazionale? Se un Ateneo, mettiamo, chiude un accordo-quadro con un Aeroporto per la pratica delle lingue, potrà poi proclamare “non sostenibile” la costruzione della seconda o della terza pista d’atterraggio che mette a repentaglio un intero ecosistema? Se un Ateneo, ancora, entra a far parte come istituzione del Consorzio per la Laguna, potrà poi dirsi perplesso sul tremendo scavo dei canali per far passare le Grandi Navi da crociera, che quel Consorzio impavidamente avalla? Se un Ateneo bordeggia la Fondazione delle Olimpiadi Milano-Cortina, ospitandone eventi in pompa magna, potrà poi sommessamente segnalare che abbattere centinaia di larici per fare una pista da bob non sembra un’idea molto green? Se la più importante Accademia del Paese vara un’intera scuola sull’aerospazio (coinvolgendo in un singolare potpourri filosofi, ministri, ingegneri e politici di lungo corso) assieme alla Fondazione di un gigante privato il cui fatturato dipende per tre quarti dal settore Difesa, risulterà credibile quando sbandiera ideali di pace?

Con la loro talora scomposta genuinità, e le loro domande semplici, gli studenti (una minoranza, è vero: ma una minoranza attenta e informata) provano a rompere il muro di conformismo che domina il sistema, garantito iconicamente dalla corporazione dei Rettori (con qualche luminosa eccezione) e dai professori che “contano” nel sistema (sempre i soliti). Per le smagliature inattese – come quelle che vediamo in questi giorni – vale il motto “troncare, sopire”. E tu, professore, attento a dirti d’accordo coi giovani, pure quelli radicali e non-violenti: in men che non si dica ti arriva addosso l’etichetta di “cattivo maestro”.

(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano 5 Aprile 2024)

 

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“I nemici dell’università: burocrazia e affari” è stato scritto da Filippo Maria Pontani e pubblicato su ROARS.

Per I Tolki di Ida Travi

di Daniele Barbieri

Otto anni*

Quasi otto anni sono passati dalla pubblicazione di Tà. Poesia dello spiraglio e della neve, e quindi certamente più di otto dalla sua ideazione. In questi otto anni i lettori di Ida Travi, anche quelli più fedeli, hanno ovviamente pensato anche ad altro. Pure l’autrice, non c’è dubbio, non si è occupata solo di questo. Però, altrettanto indubbiamente, il mondo dei Tolki ha dovuto essere centrale in lei, come una specie di ossessione che ritorna, che ritorna a parlare.
Chi ha mai visto Ida Travi recitare le proprie composizioni ha certamente presente quello stato di estrema concentrazione, occhi chiusi, voce come trattenuta rispetto al grido, una trasmissione di emozione fortissima da lei a noi. Voglio credere – e non penso di essere così lontano dal vero – che uno stato simile a quello caratterizzi i suoi momenti di creazione. Solo che non è lei a parlare a noi, in quei momenti; sono i suoi personaggi che parlano a lei: è Inna, è Katrin, è Dora.
In realtà non è detto del tutto che sia così, ma la sensazione è che, in tutti i componimenti, il personaggio che parla, che dice io, sia una donna. Gli uomini ci sono in questo mondo: anzi, se percorriamo i nomi di persona che attraversano tutti i cinque volumi, gli uomini sembrano essere maggioranza. Però sono coloro cui ci si rivolge; sono i compagni, gli interlocutori. La voce che parla è comunque femminile, come femminile è la sua attenzione ai dettagli, alla casa, all’ambiente, agli affetti.
Detto questo, Sunta non è Dora e non è Katrin e nemmeno Inna. Ciascuna di loro ha i suoi specifici problemi e le sue relazioni, e i suoi particolari sentimenti. Ma sono loro che noi possiamo percepire da dentro, con cui possiamo vivere quella loro esistenza che ricorda la nostra, eppure le è al tempo stesso differente, estranea. Gli uomini sono altra cosa: sono quelli che collaborano, che agiscono, che subiscono, che devono crescere. Ed è proprio la sensazione di essere a contatto diretto con queste vite sensibili che parlano da dentro, che parlano nell’emozione e nella quotidianità, a caricare di fascino il discorso.
Non è mai chiaro del tutto che cosa distingua il mondo dei Tolki dal nostro. Forse c’è stata una catastrofe, in passato, a marcare la cesura, come suggerisce Alessandra Pigliaru nelle sue note ai diversi volumi, o forse no. Di fatto ogni tanto si accenna ad automobili, al bus, allo schermo, elementi tipici della nostra quotidianità; ma non sembrano realtà centrali o importanti. Magari i Tolki sono solo una comunità un po’ isolata; magari il loro isolamento è solo psicologico. Eppure sembrano vivere una dimensione un po’ primitiva; o magari forse è solo che ciò che è più moderno fatica a entrare nei discorsi delle donne che si esprimono pagina dopo pagina. Ci sono i campi, l’insalata, l’asino, il bambino, la neve, la terra, il casolare, la campana, il vento, la farina, il lupo… Un mondo di campagna, insomma.
Però c’è comunque qualcosa che non quadra. Attraversa tutte le cinque raccolte la sensazione che qualcosa di terribile possa sempre accadere; che si viva, insomma, sull’orlo dell’abisso. Non se ne parla mai, in verità. Il discorso è sempre legato al dettaglio, alla situazione del momento, alle piccole paure o necessità del presente. Ma è forse il tono a tradire la potenzialità della tragedia: non quello che le parole dicono, insomma, ma il modo in cui lo dicono. Questo grande non detto che traluce attraverso i discorsi del quotidiano è alla fine più forte di loro, e finisce per essere il tono complessivo, il mood attraverso cui il lettore percepisce ogni cosa.
I Tolki sono stati battezzati così perché sono esseri fatti di sola parola: they talk, insomma. Ma la parola, in generale, non consiste solo di quello che essa dice; è fatta anche di silenzi, di omissioni, di ripetizioni. E questo basterebbe per caratterizzarla in questo contesto. Se poi, però, abbiamo avuto la ventura di ascoltare anche il suono della voce dell’autrice quando recita i propri versi, ecco che la parola acquisisce pure una dimensione di fiato, di vento, di lontananza. Queste poesie sono piene di interlocuzioni: è come se ci fosse sempre qualcuno che si sta rivolgendo a qualcuno lì presente. Questo crea una fortissima sensazione di immediatezza, di essere lì, che tutto stia succedendo ora. La parola, quella che caratterizza i Tolki, quella che li fa essere, secondo la intrigante espressione lacaniana, dei parlêtre, non è la parola della poesia, e nemmeno quella della letteratura in genere: è scritta, ma suona come parlata; è pensata, ma suona come spontanea, presente, non meditata; sulla pagina è muta, ma ha ugualmente tono, suono, intonazione.
È per questo che questi versi si possono permettere di usare parole ormai difficilissime in poesia: luna, vento, cuore, fiore… Parole il cui abuso ha in generale reso banali, inutilizzabili. Gettate nel tempo presente di queste enunciazioni, pronunciate da persone che non sembrano poter avere nessuna consapevolezza di nessuna letteratura, straniate attraverso una sonorità diversa da quella che normalmente le accompagna, queste parole proibite riprendono vita, riprendono senso, trovano colore: insomma possono nuovamente essere dette, e le si dice senza nessun pudore, e senza aver ragione di preoccuparsene.
Questo è – io trovo – una delle prove della qualità della scrittura di Ida Travi: ridare alla poesia la possibilità di nominare i sentimenti, ridonando peso a parole che l’avrebbero perso – e che continuano altrove a essere deleterie, esteticamente devastanti, quando utilizzate senza le necessarie precauzioni.
Sicuramente, anche la natura incerta di questo mondo contribuisce a costruire il quadro di riferimento in cui queste parole riprendono la loro forza primitiva. Ho provato talvolta, leggendo i cinque libri della saga, la sensazione di essere una sorta di antropologo intento a studiare, magari a spiare, la vita delle persone che la abitano. Questi discorsi immediati, emotivi, profondi senza la volontà di esserlo, non si rivolgono a noi, ma a qualcun altro dello stesso mondo, a volte esplicitamente nominato: Olin, Zet, Katrin, Kiv. Per questo è come se li sentissimo un po’ per caso, come quando in treno o sull’autobus ci arriva all’orecchio una conversazione tra sconosciuti: il più delle volte essa è fatta di dettagli irrilevanti per noi; e invece di quando in quando ecco che qualcosa ci cattura: non conosciamo niente delle persone e delle situazioni cui si fa riferimento, ma c’è quel dettaglio di umanità comune che nella sua diversità ci tiene lì, ci interessa.
Se invece di essere una sola conversazione a catturarci, ve ne fosse un’intera serie, e collegate tra loro, ecco che finiremmo per cercare di ricostruire una rete di rapporti, di vite vissute, di modalità di relazione. Ci ritroveremmo insomma a tentare una sorta di ingenua antropologia. Che è proprio quella in cui, inevitabilmente, ci immergiamo leggendo questi libri. Chi sono i Tolki? Che relazione intrattengono con noi, con la nostra società? Indubbiamente essi ci sono simili; sembrano provenire, per certi versi, da qualche piega del nostro passato antropologico. Per altri versi tuttavia essi ci sono troppo simili per arrivare così da lontano. Siamo noi, insomma; o quasi-noi. Di nuovo: c’è davvero stata una catastrofe tra loro e noi? Stiamo davvero leggendo una sorte di Cronache del dopobomba? Probabilmente sì. Altrettanto probabilmente no. Forse è solo la tensione costante che pervade la voce che dice io a produrre la sensazione di un pericolo incombente, di una difficoltà costante.
Ma è così, ugualmente, che queste piccole vicende, nella loro banalità, diventano il tono della nostra stessa inquietudine, della nostra stessa quotidiana incertezza. Ed ecco che io posso essere Dora, Inna, Katrin… Posso sentire la bellezza delle piccole cose che colpiscono la loro attenzione, aver paura per il bambino, desiderare Usov, vivere insomma quelle vite un po’ come se fossero la mia.
Proprio in questo modo la saga dei Tolki finisce per assumere l’aspetto di un’epica. Non un’epica eroica e gloriosa, certo – ma qualcosa di glorioso comunque emerge in questa quotidiana resistenza vitale, in questo perseguire gli affetti, i piccoli doveri, le relazioni con il mondo circostante. Cinque volumi per esplorare il mondo dei Tolki possono apparire tanti, ma se ci si rende conto che si tratta di un’epica si capirà anche quanto sia necessaria un’immersione, una presa prolungata di respiro per riuscire a vibrare davvero con quella frequenza. Non l’eroismo vittorioso, ma l’inquieta persistenza è forse l’unico motore possibile di un’epica del presente, di un’epica in cui noi cioè ci possiamo veramente riconoscere, senza che qualcosa appaia falso, posticcio, eccessivo.
Per otto anni i Tolki hanno respirato e sussurrato con continuità nel presente della loro autrice, uscendo uno dopo l’altro alla luce del discorso, o rientrando per un po’ nell’ombra o nel silenzio della memoria. Adesso che l’autrice è forse uscita da questa fertile ossessione, potrebbe valere la pena ripartire noi da capo, rileggerci tutta la saga, riviverla da dentro nel suo respiro, nelle sue voci, nelle sue voci.

 

*In occasione dell’uscita de I Tolki, di Ida Travi, che raccoglie in un solo tomo di oltre 450 pagine gli otto volumi della saga omonima, ho pensato di riproporre qui la postfazione che avevo scritto, su invito dell’autrice, al quinto volume, Tasàr, che all’epoca sembrava dover essere l’ultimo. In seguito, inaspettatamente, ne sono usciti altri tre. Ma la mia postfazione alla saga, a parte qualche dettaglio cronologico, continua a esprimere quello che questo lavoro evoca in me. Gli anni non sono più otto, bensì quattordici, i volumi non più cinque, bensì otto, ma la sostanza evocativa non è cambiata, e i volumi successivi sono stati una sorta di naturale espansione dei precedenti.
Ora c’è il tomo complessivo pubblicato da Il Saggiatore. L’occasione per un’immersione totale, avvolgente, una discesa prolungata (o ricorrente) nell’oceano del mito, della parola dentro il mito.

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“Per I Tolki di Ida Travi” è stato scritto da renata morresi e pubblicato su NAZIONE INDIANA.

La prima notte al mondo

di Luigi Finucci

 

Da “Ho assistito a scene da manicomio”

 

È nato un bambino sulla terra,
tutti hanno descritto
l’evento come consueto.

Un essere piccolo scaraventato
su un globo sparso in un
indefinito spazio nero:
una catastrofe vista da fuori
diventa un miracolo.

Tutto il senso si racchiude
in una stanza di ospedale.
Il nascituro numero due
del venti aprile duemilasedici
non proviene dalla matematica.

L’unico comandamento a cui
appellarsi, è che l’uomo
assomigli ad un fiore.
Il fiore non reclama il diritto
di possesso, ma di dono.

Da “La prima notte al mondo”

 

La prima notte al mondo
ho piazzato una tenda al Polo Nord.

La luce lunare splendeva ovunque
e il ghiaccio si scioglieva
solo in determinati punti.

Ero spoglio e sotto di me
le foche nuotavano aspettando
il mio essere cacciatore.

Il silenzio d’altronde
non si può ricordare.

 

*

 

L’istante in cui il coltello
taglia il ghiaccio è questo.
Il vento assente.

Costruisco un’abitazione
le fondamenta si sciolgono.
Intorno c’è gente,
sembra non esserci, in effetti
si percepisce il vapore appena.

Muovo i primi passi
è una fatica immane
così rinuncio
alle braccia di mia madre.

 

*

 

Come si costruisce una casa?

Nel Dna ci sono le informazioni sufficienti
ma decido di aspettare. Mille anni circa.
Sullo sfondo ci sono dei cani
mi proteggono, l’erba spunta
fra i blocchi di ghiaccio
l’odore è proprio quello
di una casa. Gli istinti
non sono affinati
e viviseziono il rumore
in un suono.

 

*

 

Ho sognato un adulto:
tutti lo volevano cacciatore.

Sbadato si è portato un libro.
Di poesia. È stato sbranato dai lupi.
Rimasto sepolto tra la neve
è divenuto scheletro
nel totale sconcerto
chi l’ha trovato per primo
ha sorriso nel raccogliere
un libro bagnato.
Di poesia.

 

*

 

D’estate, la notte al Polo Nord
non esiste.

I cacciatori partono con le slitte
restano nei deserti bianchi per mesi.
Scelgono un lago ghiacciato
bucano il loro guscio,
finché dei pesci vengono a galla.
La sera accendono un fuoco
e lì
decidono che non potevano
essere altro.

 

*

 

Fuori c’è la notte,
spazio per le visioni.
Nel ghiaccio un uomo
pratica tre buchi simmetrici.
Suda molto ed è strano:
per quattro ore lavora
senza pensare. Sa cosa fare,
lo fa tutti gli anni
da quando ha memoria.

Fu l’ennesima volta
che non si accorse
dell’universo intero

 

*

 

Ci sono diversi nomi
per i differenti tipi di neve.
Per costruire gli igloo
bisogna usare la neve dura,
la più resistente.
I primi nomadi del Nord
prima di accamparsi,
sceglievano i blocchi di ghiaccio
tra le visioni. Ogni storia
è affascinante se alla fine
hai le lacrime agli occhi.

 

*

 

Ho disposto ventiquattro cubi di ghiaccio,
ho scelto gli occhi e anche il luogo.

Mio padre in sogno
mi esorta a costruire un igloo.
Mi sento di vivere nel tempo:
nel millequattrocento avanti cristo o
nel quattromilatrecentoventi dopo cristo,
non importa.
Avrei fatto lo stesso.

 

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Luigi Finucci è nato a Fermo nel 1984. Dopo il diploma ha vissuto tra Urbino e Firenze per poi tornare a Fermo, dove attualmente risiede. Scrive poesia e libri per bambini. La prima notte al mondo è appena uscito per Seri editore, con una prefazione di Silvia Secco.

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“La prima notte al mondo” è stato scritto da renata morresi e pubblicato su NAZIONE INDIANA.